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Siamo “colpevoli” dei nostri sentimenti? Il caso celebre della «Mirra» alfieriana

Siamo responsabili dei nostri sentimenti, di quel che proviamo, di quegli impulsi e di quelle passioni che sgorgano dal fondo del nostro animo, fondo che nessun esploratore di se stesso, per quanto audace e coraggioso, ha mai potuto scandagliare interamente?

E, se lo siamo, fino a che punto lo siamo; fino a che punto possiamo essere considerati "colpevoli" se quei sentimenti prendono direzioni abnormi, inaccettabili, vergognose, dal punto di vista morale, o, quanto meno, dal punto di vista della morale corrente?

È colpevole una figlia che s’innamora del proprio padre, per esempio, che se ne innamora nel pieno significato della parola, compreso il desiderio sessuale; che fa di tutto per resistere alla propria passione, ma che infine le si arrende, non senza un lacerante strazio interiore, e, dopo aver soddisfatto la sua ardente brama carnale per mezzo di un sotterfugio, finisce per confessargli tutto e per affrontare, disperata, sbigottita, la tragedia inevitabile che su di lei si abbatte?

È questa la situazione delineata, con notevole penetrazione psicologica e con profonda pensosità per la delicatezza della materia e per l’insondabile mistero del cuore umano, nella tragedia «Mirra» di Vittorio Alfieri, a sua volta ispirata dall’omonimo episodio narrato da Ovidio (ma con l’usuale, imperdonabile leggerezza e quasi frivolezza) nelle sue «Metamorfosi».

Ovidio, poi, non aveva fatto che riprendere un antico mito greco, già raccontato dallo Pseudo-Apollodoro e già trasposto in latino da Igino. In breve, si tratta di questo: Afrodite, irata con la regina Cecri (le cause dell’ira variano nelle differenti versioni), fa innamorare la figlia di lei, Mirra, del proprio padre, Ciniro; la fanciulla, con uno stratagemma, riesce a giacere con lui, inconsapevole, per più notti; quando l’inganno viene scoperto, Ciniro insegue la figlia per ucciderla. Questa allora fugge, incinta, per varie contrade, fino alla terra di Saba, dove Afrodite, impietosita, la trasforma in un albero di mirra, dal quale miracolosamente nascerà un bellissimo fanciullo, Adone (e di cui, ironia della sorte, si innamorerà perdutamente proprio la dea, che, alla morte di lui, ne avrà l’animo straziato, chiudendo così il cerchio del dramma d’amore).

Questo è il canovaccio su cui Alfieri, con delicatezza e sensibilità, innesta il personaggio della "sua" Mirra: una eroina grande e infelice, grande nel soffrire e nell’amare; grande nella colpa e nella vergogna; grande nell’abbandono e nell’ansia di espiazione; grande, soprattutto, nella solitudine, perché non osa aprire ad alcuno il suo cuore e sa che, quando ciò avvenisse – come puntualmente accadrà – ella sarà respinta e maledetta da tutti, né troverà nei suoi familiari una sola parola di conforto, un solo pensiero di compassione. La sua maledizione è dover convivere con un sentimento troppo forte e tuttavia indicibile, inesprimibile, "mostruoso".

Un dramma della carne, dunque; ma non solo: anche, e prima ancora, un dramma dell’anima (e come si potrebbero separare nettamente i due aspetti di uno stesso sentimento?); un dramma ancor più cupo e disperato di quello di Edipo che, dopo aver ucciso il padre, giace con la madre-sposa, perché Edipo è inconsapevole di entrambi i crimini (li scoprirà troppo tardi e ne resterà annientato), mentre la cupa e straziante passione di Mirra cresce nell’animo della fanciulla che ne è perfettamente consapevole e, proprio per questo, tanto più travagliata e infelice, tanto più respinta nell’inferno del silenzio e di un’autocensura senza sbocchi e senza speranze.

Ci piace riportare le riflessioni di Renato Bertacchini sulla tragedia alfieriana, che ben analizzano il dramma psicologico, spirituale e morale di Mirra (in: «Letteratura italiana», Bologna, Edizioni Calderini, 1977, pp. VII/95-96):

«La "Mirra", l’ultima grande tragedia alfieriana, viene ideata nel 1784, durante il soggiorno del poeta in Alsazia, insieme all’"Agide" (sul tema politico, sull’ideale eroico plutarchiano prevale lo scontro psicologico che oppone Agide a Leonida) e alla "Sofonisba" (tra i quattro protagonisti in nobile gara, Sofonisba, Siface, Massinissa, Scipione), spicca la figura dell’eroina e il suo abbandonarsi alla morte). A muovere Alfieri fui l’episodio di Mirra nelle "Metamorfosi" di Ovidio», la storia della giovane figlia del re Ciniro che ama di incestuosa passione il padre e dopo la nascita di Adone, frutto di quel colpevole amore, viene trasformata nell’omonima pianta orientale. Gli parve di poter ridurre in dramma la vicenda originale, ma senza descrivere o narrare più o meno licenziosamente come fa Ovidio (gli incontri di Mirra con il padre, favoriti dalla nutrice Euriclea, senza che il padre s’accorga della identità vera della fanciulla; la scoperta del’orribile tresca, l’inseguimento del padre che vuol uccidere Mirra, salvata a tempo dagli dei con la metamorfosi nella pianta che porta il suo nome); al contrario, rifiutando le sequenze e gli sviluppi romanzeschi, senza mostrare scoperti, effusi, e men che meno in azione i sentimenti dell’eroina, ma comportandosi in modo che "lo spettatore scoprisse da se stesso a poco a poco tutte le orribili tempeste del cuore infocato ad un tempo e purissimo della più assai infelice che non colpevole Mirra".

Innamorata del padre, Mirra vive sulla scena alfieriana con la presenza e l’incubo del suo colpevole sentimento. Nell’ambito della famiglia, la tristezza e l’angoscia che l’opprimono vengono interpretate come il sintomo d una pena, di un male abnorme dai familiari, tutti solleciti e ansiosi (Ciniro, non re, ma solo un padre; il promesso sposo Pereo, tenerissimo e devoto;: la madre Cecri, col suo sincero, dolente amor materno; la sensibile e confidente Euriclea, delicatissima nel cercar di scoprire l’animo della protagonista). Mirra pensa di guarirne opponendo alla passione il matrimonio e accettando di sposare Pereo. Ma durante la cerimonia, con oscure, deliranti parole, inveisce (gelosamente) contro la madre, si ribella al legame, grida la sua invincibile repulsione per le nozze con Pereo (il quale, credendosi causa della disperazione di Mirra, si uccide). Infine di fronte al padre che insiste a chiederle ragione del suo atteggiamento, dopo aver resistito disperatamente, si lascia sfuggire la verità sul terribile segreto ("Tu stesso, a viva forza, / l’orrido arcano… dal cor… mi strappasti"). Morente dopo essersi gettata sulla spada paterna, cerca almeno di nascondere la sua colpa alla madre. Svanita anche questa estrema speranza, muore ma ormai troppo tardi, abbandonata dai genitori inorriditi, esclusa e tremendamente sola, con un ultimo amarissimo rimprovero alla nutrice di non averla lasciata morir prima, quando la non-rivelazione dell’"orrido arcano" le avrebbe almeno consentito una morte innocente. Alla nutrice Euriclea sensibile e amorevole, ben diversa dalla complice figura della nutrice-mezzana del testo di Ovidio ("nel farla confidentissima di Mirra – scrive Alfieri nel "Parere" -, ho avvertito di non farle mai confidare da Mirra il suo orribile amore, per salvare così la virtù di Euriclea, e prolungare la innocenza di Mirra"), la sventurata dice, con accenti squallidi e desolati, dopo la lotta e il lento strazio di tutta una vita sostenuta invano per salvare l’innocenza: "Quand’io… tel chiesi.,… / darmi… allora,… Euriclea, dovevi il ferro… / io moriva… innocente; empia… ora muoio…"

La linearità tragica e la purezza di struttura della "Mirra" si concentrano intorno al fermentare, all’irrompere chiuso di un sentimento immenso, orrendo, sempre intensamente vissuto e taciuto. Alfieri era consapevole in pieno di questa grande difficoltà: far durare "la scabrosissima fluttuazione"dell’animo della fanciulla per tutti i cinque atti. Costituire una tragedia della colpa e del silenzio, senza interromperla con episodi secondari, facendo leva sull’unica "perplessità del cuore umano", variando solo le situazioni psicologiche con atteggiamenti, sospensioni, invocazioni, allusioni, che crescono dal principio alla fine del dramma.

Quell’attenzione alla "perplessità del cuore umano" cominciata con la "Merope" Alfieri la conduce ai suoi esiti teatrali più alti nel "Saul", la tragedia del tiranno-vittima, uomo di impeti orgogliosi e folli, che trova redenzione e libertà nella morte, e nella "Mirra",, il dramma della vergine infelice travolta da una cieca passione, eroica nella lotta contro se stessa e diversamente sconfitta dalla morte che la rende "empia".»

Veramente tutto il dramma alfieriano (e anche quello degli autori antichi, ma con diverse sfumature) risulta quasi incomprensibile al giorno d’oggi, non solo nell’ambito della letteratura e del teatro, ma anche della vita vissuta, perché la società permissiva sembra ormai disposta ad accettare tutto, a tollerare tutto, a giustificare tutto, in nome della "liberazione sessuale", in base alla rozza semplificazione: «è un bisogno autentico, dunque è un diritto».

Oggi nessuna Mirra si ucciderebbe per così "poco", e nessun padre inseguirebbe furioso la sua creatura, minacciando di toglierle la vita, sia pur davanti ad una tale rivelazione; perfino i Greci e i Romani, così larghi e tolleranti in fatto di sesso e amore (specialmente i primi), erano, su una faccenda del genere, estremamente severi, perché tale da incrinare alla base uno dei pilastri della società, la famiglia. Ma oggi, dopo che il cinema e la letteratura ci hanno abituato a dosi sempre più massicce e a frontiere sempre più spinte di libertà sessuale, il suicidio di Mirra appare irrimediabilmente datato. Tutt’al più, invece di minacciarla con un’arma, un padre moderno l’avrebbe affiata alle cure di un "bravo" psicanalista; e, del resto, vi sono madri che sarebbero anche disposte a convivere con un simile "ménage à trois", pur di non perdere il marito e pur di lavare i panni sporchi in casa.

Ciò dimostra che le diverse società e i diversi momenti storici hanno idee assai varie in fatto di morale, specialmente quando si tratta di morale pratica e non di principî da difendere a parole o sulle pagine di un libro; non dimostra, però, che la morale non esista, a meno che si voglia far proprio l’atteggiamento della Semiramide dantesca, «che libito fe’ licito in sua legge, / per tòrre il biasmo in che era condotta»: quello, cioè, di adattare la morale con estrema elasticità ad ogni nostro impulso e desiderio, per giustificarci davanti a noi stessi e al mondo.

E adesso torniamo alla nostra domanda iniziale: siamo responsabili dei nostri sentimenti? Quello di Mirra, come si vede, è un caso estremo, perché cozza contro uno dei tabù più profondamente radicati nella nostra cultura, quello dell’incesto; ma i casi estremi sono comunque utili alla riflessione filosofica, perché pongono i problemi con una evidenza ben maggiore che non quando si tratta di situazioni più sfumate e quotidiane.

E dunque: è "colpevole", Mirra? Si sarebbe tentati di rispondere che lo è, nel momento in cui cede al proprio impulso amoroso e sessuale; non lo è, invece, finché seguita a lottare vittoriosamente contro di esso. Questa è la posizione tradizionale della morale cattolica, che non riconosce il peccato nell’impulso, ma nell’assenso libero e pieno della volontà a tale impulso. L’obiezione che, di solito, si muove ad una tale posizione, è che essa condanna molte persone a reprimere non soltanto singoli sentimenti e singole passioni, ma, talvolta, tutto un modo di essere d’una intera esistenza (come nel caso dell’orientamento omosessuale).

Noi non vogliamo addentrarci, almeno in questa sede, su di un simile, scivolosissimo terreno, perché convinti che l’assenso della volontà ai propri sentimenti sia cosa che riguarda la coscienza individuale e che è legato a delle singole, complesse, delicatissime circostanze, che nessuno, dall’esterno, potrebbe adeguatamente valutare; per cui la cosa migliore che si dovrebbe fare, in presenza di tale mistero – il mistero dell’anima umana, con le sue luci e le sue ombre – è quello di sforzarsi di capire, prima che di giudicare.

Quello che in questa sede, invece, ci interessa, è l’aspetto, per così dire, gnoseologico del problema: se, cioè, noi siamo responsabili di quel che proviamo, indipendentemente e anteriormente alle scelte che poi faremo sul terreno pratico del parlare e dell’agire. In altre parole: è una colpa, amare, quando ciò sia in contrasto con le leggi umane e divine? Ed è una colpa odiare, quando si verifichi il medesimo contrasto (nella cornice di un codice morale che propende per il perdono e non, come avviene in altri codici morali, per la vendetta)?

Ci sembra di poter e di dover rispondere negativamente: ai sentimenti non si comanda, essi si impongono per forza propria.

Ciò detto, bisogna però subito aggiungere che esistono molte maniere per rendersi deboli, troppo deboli e arrendevoli, di fronte alle passioni: ed è da questa debolezza che, il più delle volte, sorge la resa. Una retta e salda coscienza morale riduce al minimo le occasioni di resa, se così vogliamo esprimerci, alla furia devastante delle passioni.

Eppure, noi vediamo che non sempre è così; vediamo, talvolta, che ad essere investite da quella furia sono proprio le anime più rette e scrupolose.

La Mirra di Alfieri, anche se è un personaggio letterario, ne è un classico esempio: una fanciulla di lei più disinvolta e spregiudicata, diciamo pure meno morale, non avrebbe vissuto con tanto senso di colpa la propria passione, e soprattutto non avrebbe pensato affatto al suicidio; semmai, messa nell’impossibilità di dare libero corso al suo sentire, avrebbe ripiegato su qualche altra passione consolatoria.

Questa è una obiezione seria, che lascia profondamente pensosi.

E non solo nell’ambito delle passioni, ma un po’ in tutti gli ambito della vita, noi vediamo il quotidiano spettacolo di persone rette, leali e sensibili che soffrono, per l’esigenza di essere coerenti con se stesse, molto più di quanto non accada alle persone superficiali, egoiste, prive o quasi prive di senso etico.

Sì, è un grande mistero: bisogna avere il coraggio d chiamarlo con il suo nome.

Forse, tuttavia, il mistero diventa un po’ meno fitto, un po’meno angoscioso, se si riflette che il cammino della consapevolezza rende più esposti e più vulnerabili coloro che vi si sono appena affacciati; ma che, mano a mano che ci si addentro lungo la strada, i fattori di debolezza e di vulnerabilità si trasformano in potenti protezioni dell’anima e in un senso ritrovato di sicurezza, di serenità, di pace, che cresce costantemente e che illumina la strada, non solo a quanti l’hanno intrapresa, ma anche a coloro che verranno dopo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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