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La lotta fra San Giorgio e il drago si colloca in un contesto egiziano

La questione che vogliamo porre non è senza importanza per l’origine della leggenda di San Giorgio e il drago: 1’ambientazione geografica di essa.

Fin dal Medio Evo la città di Berito (Beirut) avanza la pretesa di essere stata teatro di quell’epica lotta: ma le molte chiese dedicate al santo che vi sorgono (1) sono posteriori all’inizio delle Crociate, e dunque le origini del culto a Beirut sono perlomeno sospette: non vi giunse infatti dopo la "riscoperta" di San Giorgio in Occidente?

Del resto, se è vero che una cappella trasformata in moschea sorge tuttora sul luogo del preteso combattimento, è pur vero che molti altri "teatri" della lotta di Giorgio col drago si mostrano ancor oggi, in luoghi i quali, evidentemente, nulla hanno a che fare con l’esistenza storica del santo. Bella sola isola di Sardegna se ne mostrano addirittura due: a S. Andrea Frius (provincia di Cagliari), detto "u planu e sanguini" (la pianura del sangue), l’altro alla fonte di Suelli (anche questo in provincia di Cagliari), ove Giorgio si sarebbe lavato le mani dopo l’uccisione del drago.

Anche in Sicilia il santo avrebbe fatto la sua comparsa, in una palude presso Sciacca (Palermo): luoghi tutti certamente fuori dell’ambito geografico in cui visse Giorgio di Cappadocia (2), il quale, come si disse, poté venire in Italia con Diocleziano, ma non certo oltre Roma e tanto meno spingersi fin nelle isole.

È certo, invece, che l’identificazione di Horus con San Giorgio, in Egitto, si verificò in presenza di condizioni quanto mai favorevoli, quali una vasta diffusione del culto del santo sulle rive del Nilo ed una sua tenace sopravvivenza, grazie all’azione della Chiesa "bizantina, almeno fino alle grandi invasioni dei Persiani e degli Arabi, nel secolo VII. Questo ci riporta alle campagne militari di Diocleziano in Egitto, alle quali probabilmente prese parte anche il nostro. Ora, Jacopo da Varazze (3) colloca l’episodio del drago in Libia, presso la città di Silene.

Certamente egli non se lo inventò, ma attinse a una fonte più antica, forse scritta, forse semplicemente orale. Anzitutto dobbiamo chiederci: che cosa intendevano gli antichi con il termine geografico "Libia"? Non già la regione che solo un tempi moderni, dopo la conquista coloniale italiana (Tripolitania e Cirenaica), per la quale l’antica denominazione venne riesumata ad indicare il vasto paese desertico posto fra il Mediterraneo, la Tunisia e l’Egitto. Per gli antichi la "Libya" era ,in senso lato, tutta l’Africa settentrionale (ossia tutta l’Africa allora conosciuta), dalla Mauretania al Nilo, intesa come la terza grande parte del mondo dopo l’Asia e l’Europa. In senso stretto, invece, nell’età dioclezianea quel termine indicava due province desertiche e vuote d’abitanti, la Libya Superior e la Libya Inferior, poste fra la Cirenaica e l’Egitto e amministrativamente unite alla diocesi di Oriente (Egitto e regioni medio-orientali fra il Tauro, l’Eufrate e il Mar Rosso).

Ebbene, il caso vuole che anche il mito di Perseo che uccide Medusa sia localizzato in Libia (in senso lato), così come alla stessa area geografica appartiene il mito di Perseo che uccide il drago e libera Andromeda: le coste dell’Etiopia, cioè, in termini moderni, del Sudan, tra la Seconda cateratta (Wadi Halfa) e la confluenza del Nilo Bianco col Nilo Azzurro (Khartoum ).

Seguiamo il racconto del mito di Perseo e Medusa come lo narra il poeta Marco Anne o Lucano nel suo "Bellum Civile" o "Pharsalia": dopo aver narrato come l’eroe uccise la Gòrgone, così prosegue:

"Aliger in caelum sic rapta Gorgone fugit.

ille quidem pensabat iter propiusque secabat

aera, si media Europae scinderet urbes:

Pallas frugiferas iussit non laedere terras

et parci populis…

… Zephyro convertitur ales

itque super Libyen…" (4).

Così, il volo di Perseo sul suo cavallo alato è deviato sulla parte più interna della Libia: anziché far ritorno al Mare Egeo sorvolando direttamente il Mediterraneo con le sue città industriose, egli compie un ampio giro dapprima verso mezzogiorno, indi verso il levar del sole; e sarà là, sulle coste dell’Etiopia, che scorgerà la bellissima Andromeda incatenata e piangente sulla riva del mare. Ma intanto, mentre passava a volo sulle terre desertiche più interne della Libia, il sangue stillante dall’orrido capo di Medusa era caduto a terra e aveva dato vita ai velenosissimi serpenti dei quali Lucano farà la sua impressionante e famosissima descrizione.

Ma non solo serpenti genera il sangue della Gòrgone cadute sulle sabbie:

"Vos quoque, cui cunctis innoxia nomina terris

serpitis, aurato nitidi fulgore dracones,

letifero ardens facit Africa; ducitis altum

aera cum pinnis armentaque tota secuti

rumpitis ingentes amplexi verbere tauros;

nec tutus spatio est elephans: datis omnia leto…" (5)

Raggiungiamo così la conclusione che già nella mitologia greco-romana la Libia era considerata, in quanto terra misteriosa e desertica, rifugio di draghi divoratori di armenti e perfino di elefanti.

Non potremo certo escludere che reminiscenza di questa leggenda siano entrate a far parte degli svariati materiali da cui nacque o di cui si arricchì la tradizione di San Giorgio in lotta col drago, dopo che il governatore Baciano, il "drago degli abissi" ("draco abyssorum"), fu scambiato per un drago in senso letterale.

Ma nell’ambientazione geografica della lotta fra San Giorgio e il drago non fu certo solo la mitologia pagana ad aver parte. Ricordiamo infatti che il drago, nella simbologia cristiana, era figura del demonio: e un libro deuterocanonico dell’Antico Testamento, il "Libro di Tobia" ( III sec. a.C.), ci riporta alla regione nord-africana per la localizzazione di un demonio, Asmodeo "il devastatore".

Il racconto, ch negli elementi mistici, angiolologici e demonologici presenta tracce evidentissime dell’influsso culturale iranico (si pensi agli Aesma Daeva, i demoni della religione zoroastriana, capeggiati da Ahriman nella lotta contro Ahura Mazda, principe della luce), ci riporta al tempo stesso all’ambiente religioso mithraico (6), ove Giorgio, persiano di Cappadocia, aveva avuto i natali.

Ecco il passo del "Libro di Tobia" che in questa sede ci interessa: "L’odore del pesce allontanò il demonio che fuggì nell’Alto Egitto, dove Rafael, inseguitolo, l’incatenò e subito ritornò" (7).

Rafael è l’angelo che ha accompagnato il giovane protagonista, Tobia figlio di Tobit, nel suo viaggio sui monti della Media da Ninive a Ecbatana e che lo assiste nel mettere in fuga Asmodeo, il demone che uccideva fin dalla prima notte tutti i mariti di Sara.

Anche qui, dunque, una lotta a tu per tu fra un angelo, simbolo della luce, e un demonio, simbolo delle tenebre del peccato, ha per teatro le regioni nord-africane, e anche qui, come nel caso di Perseo, come anche in quello di San Giorgio, con esito vittorioso per il campione del bene.

Qui però non si parla, genericamente, della Libia (come per Perseo e poi per San Giorgio ), bensì dell’Alto Egitto, ossia la Tebaide del monachesimo medioevale, da Costantino in poi ).

Ora, i commentatori del "Libro di Tobia" spiegano che colà Asmodeo fu vinto e incatenato perché l’Alto Egitto è sinonimo di regione lontana (un "volo", quello da Ecbatana, di migliaia di chilometri), desertica e poco conosciuta, quasi al limite del mondo allora noto: e infatti, risalendo il Nilo oltre le cateratte, si entrava nella misteriosa Etiopia (8), ove si favoleggiava di regioni caldissime, abitate da un popolo di pigmei.

Ma allora perché specificare "Alto Egitto", e non dire semplicemente "Libia", se veramente si voleva adoperare una espressione geografica vaga e indefinita?

Che 1’espressione "Alto Egitto" non sia puramente fittizia, ma vada intesa in senso letterale, di questo erano convinti due moderni esploratori appassionati di demonologia, che penetrarono nel deserto per evocarvi il demone Asmodeo: dei quali uno scomparve per sempre, senza lasciare di sé alcuna traccia, l’altro fu ritrovato quando ornai aveva perduto la ragione.

Quanto a San Giorgio, se fu con Diocleziano in Egitto negli anni dal 291 al 296, è anche possibile, forse addirittura probabile, che abbia preso parte alla breve ma decisiva campagna contro i Blemmii che avevano invaso e devastato le città e le terre dell’Alto Egitto.

Che non sia avvenuta colà, in epoca assai posteriore alla sua morte, una doppia confusione fra San Giorgio ufficiale romano e il dio Horus vestito da soldato romano, e fra il "drago" Baciano da lui "vinto" affrontando il martirio, e il demone Asmodeo incatenato da Rafael, secondo la leggenda, proprio in quella regione?

Un ultimo punto ci resta ancora da chiarire. Jacopo da Varazze scrive che il drago ucciso da Giorgio infestava i paraggi di Silene, città della Libia, anche qui, una specificazione precisa; ma, come ben si comprende, tale da sollevare più interrogativi di quanti ne risolva.

La leggenda di San Giorgio si riferisce forse a una località, a una città ben precisa?

Il primo impulso del ricercatore, quello di cercare la città di Silene su di una carta geografica dell’antica Africa romana, è, naturalmente una ingenuità che si rivela ben tosto come tale. Non esistette mai una città di tal nome, né nelle due province che di "Libya" portavano il nome, né nelle vaste distese sabbiose all’interno dell’Africa settentrionale.

Nemmeno l’etimologia offre molto: Selene, dea greca della Luna; Sileno, dio greco figlio di Ermes e una Ninfa, i Sileni, geni delle fonti e delle acque, di origine frigia: tutti questi non hanno evidentemente niente a che fare col nostro caso. Cerchiamo dunque di aiutarci con gli ulteriori particolari della leggenda.

Primo: presso la città vi era uno stagno, "grande come il mare", che era appunto la tana del mostro. Si potrebbe pensare alle Sciott-el-Gei-id (Tritonis lacus ), o anche alle Sirti, che Lucano definisce "incerte tra la terra e il mare" (9).

Secondo: la città era governata da un re indigeno, pagano come tutta la popolazione, che fu da Giorgio convertito al Cristianesimo e battezzato. Doveva dunque trattarsi di un regno dell’interno, vassallo dei Romani o anche del tutto indipendente, come ve n’era più d’uno, specialmente sulle montagne dell’Atlante (10), nel III e IV sec. d.C., quando il dominio romano in Africa si era ridotto a una fascia costiera (11), talvolta estremamente sottile. Sotto il regno di Valentiniano I (364-375) le stesse città della costa tripolina furono attaccate dai barbari del deserto; e durante il regno di Diocleziano, Massimiano dovette condurre una dura campagna contro i Quinquegentiani della Mauretania (12).

Se queste supposizioni sono valide, è escluso che la leggenda di San Giorgio e il drago designi la "Libia" in senso stretto, ossia la regione costiera fra la Grande Sirte e l’Egitto. Di conseguenza, cade anche l’ipotesi che "Silene" sia una corruzione di "Cyrene" , città principale della Libya Superior.

A questo punto, però, dobbiamo fermarci per fare il punto della situazione. Se la lotta di Giorgio col drago fu soltanto leggenda, nata dall’equivoco col "drago" Daciano, è una vana fatica quella di volerla localizzare geograficamente sulla scorta dei vaghi dati della tradizione.

Certo, per l’erudito non è del tutto senza interesse approfondire dove la fantasia degli uomini di quel tempo, e sia pure fantasia in buona fede, volle localizzare la leggenda.

Ma per ricostruire una biografia storica del santo, tutto questo non è certo essenziale. A noi basta aver gettato un po’ di luce su quegli aspetti svariati della tradizione mitologica pagana e di quella biblica, che possono aver contribuito a ubicare l’episodio della lotta col in Libia.

Essi hanno tutti, pur nella loro diversità,

un elemento reale in comune: quello di riferirsi alle regioni desertiche nord-africane, che con molta probabilità videro la persona di San Giorgio al tempo in cui guerreggiava in Egitto come ufficiale dell’armata di Diocleziano.

(1) Cfr. C. Astruc, "Saint Georges a Beyrouth", in "Ann. Boll.", LXXVII, 1959) pp. 54-62.

(2) Cfr. P. Toschi, "La leggenda di San Giorgio nei canti popolari italiani", Firenze, 1964, pp. 22-23.

(3) Jacopo da Varazze, "Legenda aurea", Firenze, 1952, pp. 599-604.

(4) Luc., "Phars.", IX, vv. 684-690.

(5) Luc., "Phars.", IX, vv. 727-732.

(6) Mithra era figlio di Ahura Mazda e fu inviato agli uomini per aiutarli nella lotta contro il principio delle tenebre. Perciò il mithraismo fu un diretto discendente dell’antica religione zoroastriana.

(7) Tob., VIII, 3.

(8) "Etiopia" designava per gli antichi il paese a sud della Seconda cateratta nilotica. Ma così come "Libia" in senso stretto era il paese tra Cirenaica e Marmarica e in senso lato tutta l’Africa sahariana, così "Etiopia" adoperata in senso lato designava le sconosciute regioni a sud della Libia, ossia, a un dipresso, il Sudan (non lo Stato) dalla vegetazione steppica. "Etiopi" erano quindi detti, per antonomasia, gli abitanti più meridionali dell’ecumene (così come "Cimmerii" erano i più nordici); ma di essi si sapeva quasi solo che avevano la pelle molto scura.

(9) "Syrtes vel primam mundo natura figuram/ cum daret, in dubio pelagi terraeque reliquit": cfr. Lue., "Phars", IX, vv. 303-304.

(10) Cfr. Aramiano Marcellino, lib. XXVIII e XXIX.

(11) Fino all’età degli Antonini, guarnigioni militari romane erano state dislocate in permanenza molto all’interno del Sahara, nel cuore del paese dei Garamanti e dei Getuli. Cfr. Th. Mommsen, "L’Impero di Roma", ed. it. Milano, 1973 (3 voll.), III, pp. 219-21. Ma, a partire dalla grande risi del sec. III, esse vennero ritirate e mai più rimandate.

(12) Non si è mai capito esattamente chi intendessero designare con tale nome i distratti storici del Basso Impero. E. Gibbon, in "Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano", ed. it. Roma, 1973 (6 voll.), I, pp. 368-69, si limitò a confutare l’ipotesi che potesse trattarsi delle cinque città greche della Cirenaica (Pentapoli) e ad affermare che doveva invece trattarsi di cinque tribù barbare dell’interno. Mommsen (op. cit., III, pp. 230-31) espresse analoga opinione e li collocò al di là degli stagni ("transtagnenses"), ossia al di là della zona del Tritonis lacus, ai confini meridionali della Numidia e della Mauretania.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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