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La Tat’jana di Puškin è il prototipo della donna leale con se stessa

Essere leali con se stessi è la condizioni necessaria per essere leali con gli altri: chi mente a se stesso, mentirà anche al suo prossimo.

Un vizio antico dell’anima umana, che però trova un terreno particolarmente adatto nella società di massa e nella cultura della modernità, deresponsabilizzanti l’una e l’altra, è proprio quello di mentire a se stessa, qualora ciò che essa prova sia in contrasto con i dettami della morale comune (che, talvolta, non coincide con la morale assoluta) e delle convenzioni sociali.

Accade abbastanza spesso che uomini e donne, incapaci di lealtà e sincerità con se stessi, si comportino in maniera sleale con gli altri, perché – magari dopo averli stuzzicati e indotti a scoprirsi – si spaventano dei proprio sentimenti e si tirano bruscamente indietro, ricordandosi (un po’ in ritardo) dei propri doveri sociali e della necessità di tutelare, come essi dicono, le persone care e, magari – ciò che è il massimo dell’ipocrisia – le persone medesime che esse hanno coinvolto nel gioco dei propri sentimenti.

Naturalmente, un tale retrocedere è perfettamente legittimo, perché – come si suole dire – è meglio fare tardi la cosa giusta, piuttosto che non farla mai; ma se questo è, appunto, legittimo sul terreno delle concrete scelte esistenziali, non lo è affatto sul piano della sincerità e della franchezza nel rapporto con se stessi e, dunque, anche in quello interpersonale.

Vogliamo dire che la persona, la quale si accorga di aver spinto il gioco un po’ troppo oltre e si renda conto di non potere o non volere venir meno agli impegni assunti in precedenza, ha tutto il diritto di farsi indietro (anche se la cosa migliore sarebbe stata che ponderasse bene prima quel che stava facendo); ma ciò non la esime dal dovere, verso se stessa e verso l’altro, di riconoscere pienamente la verità dei sentimenti che prova e di confessarla in modo aperto, senza finzioni e senza barare al gioco, magari con la scusa della bugia salutare e necessaria.

La persona franca e leale, abituata alla dirittura morale, non si racconta mille storie per nascondere a se stessa la verità. Riconosce l’autenticità dei propri pensieri e dei propri sentimenti; e, se essi hanno coinvolto qualcun altro, glie li confessa apertamente. Dopo di che, se ciò le sembra necessario per ragioni di altro tipo, si ritira in buon ordine e cerca di farsi dimenticare; ma non prova vergogna per la propria verità interiore e, anzi, la custodisce con somma cura, perché sa che in essa risiede la parte più profonda, e quindi più preziosa, di se stessa.

Può darsi che tutto questo non sia sempre facile, ma è necessario ed è la sola linea di comportamento degna di una persona onesta con sé e con gli altri; è la sola che allontani lo spettro dei rimorsi e dei sensi di colpa che poi, per sempre, diventerebbero i suoi compagni indesiderati; ed è la sola che consenta ad un essere umano di continuare a guardarsi nello specchio con legittima fierezza, senza sentir la voglia di girare lo sguardo da un’altra parte.

Ogni persona, per star bene con se stessa e con il mondo, ha bisogno di nutrire stima e rispetto di sé; ha bisogno di potersi guardare allo specchio senza mai arrossire e senza provare il desiderio di volgere lo sguardo da un’altra parte.

Le persone che non si stimano, nemmeno si vogliono bene; e le persone che non si vogliono bene portano solo infelicità e sfortuna ovunque vadano, tanto a se medesime che al prossimo. La loro intima sofferenza imputridisce, perché esse non hanno il coraggio di guardarla dritta in faccia; se lo facessero, dovrebbero guardarne anche le cause, e dunque riconoscere la propria fondamentale mancanza di onestà interiore.

Un esempio di perfetta lealtà e franchezza con sé e con l’altro è offerto dal personaggio di Tat’jana nel romanzo in versi «Evgenij Oneghin» di Aleksandr S. Puškin (1830).

Fanciulla ingenua e romantica, ma di sentimenti profondi, Tat’jana si innamora con tutta la freschezza della sua gioventù di un dandy pietroburghese di stampo byroniano, Evgenij Oneghin; e, non riuscendo a trattenere nel segreto della propria anima il sentimento che l’ha invasa, lo affida ad una lettera che gli fa pervenire.

È una lettera famosa, che tutti gli studenti russi imparano a memoria, piena di struggente poesia e di sognante, trepido trasporto. Ma Oneghin, malato d’ipocondria, fa il sostenuto e il moralista e le risponde con un insulso predicozzo, esortandola ad essere, d’ora in poi, più cauta e più prudente nel manifestare i propri sentimenti.

Poi avviene la tragedia. Durante la festa per l’onomastico di Ta’tjana, Oneghin si mette a corteggiare sfacciatamente Ol’ga, sorella di lei e fidanzata del suo migliore amico, il giovane poeta Lenskij; finché questi, sdegnato, lo sfida a duello. Oneghin, così, uccide l’amico con un colpo di pistola e poi lascia quei luoghi, sparendo.

Passano gli anni. Cedendo alle insistenze della madre, Tat’jana accetta di sposare un uomo che non ama, un generale che la introduce nella società aristocratica di Pietroburgo, ove ella diventa la regina dei salotti; ma con un fondo di intensa mestizia, perché continua ad amare Oneghin in segreto, nonostante tutto.

Un giorno egli ritorna: la incontra, ne resta folgorato; e, incapace di contenersi, le dichiara apertamente il suo amore.

La risposta di Ta’jana è degna di un manuale di onestà e rettitudine interiore.

Potrebbe prendersi la rivincita e respingerlo con alterigia, come lui aveva fatto con lei; oppure, semplicemente, potrebbe tener celati i propri sentimenti, e farsi scudo della propria condizione di donna sposata. Invece ammette, apertamente e senza alcuna riserva, di amarlo ancora; di averlo sempre amato.

Tuttavia, dopo avergli ricordato – senza astio e senza rimproveri – la delusione provata quando egli l’aveva respinta, gli dichiara che adesso la loro occasione è svanita per sempre, perché intende rimanere fedele all’uomo che ha sposato.

Riportiamo la conclusione della risposta di Ta’jana ad Onegin, nella splendida versione italiana curata dal grande slavista Ettore Lo Gatto (Capitolo ottavo, XLVI-XLVII; Milano, Mondadori, 1976, p. 220):

«XLVI

Oh, Oneghin, se comprendere poteste

come questa mia vita turbinante

di trionfi mondani e lusso e feste,

al mio povero cuore è ripugnante!

Come sarei felice se potessi

dar questo fumo, questi miei successi,

tutti gli orpelli e stracci pel vïale

di tigli, pel giardino, lo scaffale

di libri, per la povera casetta

per quei dove, Oneghin, appariste

a me la prima volta, per il triste

cimitero ove l’umile diletta

njanja sotto la croce adesso giace,

ed all’ombra dei rami dorme in pace.

XLVII

Ed era allora la felicità

possibile e vicina. Or la mia sorte

è decisa e per sempre. Eppur, chissà,

avrei dovuto allora esser più forte

e più prudente. Ma mia madre tanto

mi scongiurò. Mi vinse col suo pianto.

Per la povera Tanja erano ormai

tutti i destini uguali. Mi sposai.

Adesso, ve ne prego, voi dovete

lasciarmi. Ben lo so, nel vostro cuore

s’albergano fierezza e dritto onore.

Perché fingere? V’amo. Ora sapete.

Ma ad un altr’uomo è la mia sorte unita:

sarò fedele a lui tutta la vita.»

Bella franchezza, bella sincerità, bella lealtà: così si comporta una persona diritta e virile; e una donna può essere virile quanto un uomo, se possiede la capacità di andare dritta all’essenziale e di guardarsi dentro senza finzioni e ipocrisie.

Esiste invece, ed è molto diffuso, un tipo umano falso e insincero, che nasconde accuratamente i propri pensieri e sentimenti, non per modestia o per pudore, ma solo e unicamente perché vuole, così facendo, acquisire un vantaggio sull’altro, inducendolo a scoprirsi e a renderlo, in tal modo, vulnerabile.

Si tratta di un comportamento spregevole, basato su una logica di potere, secondo la quale le relazioni umane non sono altro che una perpetua guerra di tutti contro tutti, senza esclusione di colpi; e dove anche l’amicizia e l’amore soggiacciono a tale logica di dominio, per cui o si domina o si è dominati.

Le persone che si fanno guidare da una simile filosofia di vita meritano compassione, perché, ponendo i rapporti umani sul piano dell’astuzia, del nascondimento e della occulta prevaricazione, distruggono con le proprie mani la cosa più bella che i rapporti interpersonali possano mai offrire: la freschezza, la spontaneità e l’incanto che nascono dalla fiducia reciproca e dall’abbandono incondizionato.

Un essere umano che non abbia mai provato la gioia di relazionarsi con un proprio simile senza alcuna forma di strategia occulta, ma solo gustando la bellezza dell’incontro leale, disarmato, fiducioso, tra due anime che si sentono in perfetta sintonia, merita compatimento più che disprezzo, poiché si sta infliggendo da sé stesso la più severa delle punizioni.

Un tal genere di comportamento non può nascere che in un’anima insicura ed infelice, che dispera di se stessa e si tiene sempre sul piede di guerra per il terrore di essere sopraffatta; un’anima che non si vuol bene e che non crede di meritarsi di essere amata e apprezzata per se stessa, ma solo con l’ausilio di calcoli nascosti e di complesse strategie.

Succede spesso – anzi, è quasi la regola – che le persone che non si vogliono realmente bene e che non si ritengono meritevoli di essere amate per quel che sono realmente, eccedano nel voler apparire perfettamente felici e sicure di sé, e nel comportarsi in modo compulsivamente seduttivo: se non vedessero tutti gli altri cadere ai loro piedi, infatti, la loro fondamentale insicurezza riprenderebbe il sopravvento, e l’idea di non essere apprezzate le farebbe soffrire e le spingerebbe a disprezzarsi ancora di più.

Ma è tutta una facciata, quella di cui si servono per dare a intendere di essere altro da ciò che sono. Spogliatele dei loro orpelli, mettetele a nudo davanti a se stesse, e il loro orgoglio cadrà in pezzi talmente piccoli, che nessun restauratore riuscirebbe mai a rimetterli insieme. E questo rischio costante è il prezzo che esse pagano alla propria incapacità di rivelare, a sé e agli altri, la propria verità interiore, preferendo camuffarsi e tenere nascosto il proprio gioco.

Per uscire dall’abisso di inautenticità in cui sono cadute non vi è altra strada che quella di operare in se stesse un coraggioso esame di coscienza e una paziente, ma indispensabile rivoluzione interiore. Non ci sono altre strade; perché, se pure ve ne fossero, esse non le saprebbero neanche vedere.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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