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Le notti antartiche 3 – Achernar

Questo dialogo è il terzo de "Le notti antartiche" e completa il trittico. Il primo è intitolato: "Fomalhaut: Riflessioni su finalismo e casualità", il secondo, "Alphard: Riflessioni sul significato della vita".

Una versione semplificata e ridotta di questi dialoghi è stata pubblicata sui "Quaderni" dell’Associazione Eco-Filosofica (già Associazione Filosofica Trevigiana), fra il 2003 e il 2006, con il titolo complessivo di "Conversazioni filosofiche".

SABINA: E dillo che sei arrabbiato con me!

ALESSIO: No. Non potrei mai essere arrabbiato con te.

SABINA: Davvero?

ALESSIO: Mai.

SABINA: E perché?

ALESSIO: Perché sei la persona migliore che abbia mai conosciuto.

SABINA: Allora devi essere stato parecchio sfortunato.

ALESSIO: Dico davvero. Che motivo avrei di adularti?

SABINA: Ormai, nessuno.

ALESSIO: E tu?

SABINA: Io, cosa?

ALESSIO: Ce l’hai con me?

SABINA: Oh bella. E per quale motivo?

ALESSIO: Ma perché…, insomma, tu lo sai bene.

SABINA: Eh, via!

ALESSIO: Che vuoi dire?

SABINA: Che certe cose si fanno in due. Non devi avere alcuno scrupolo, perché non mi hai violentata. Dài, non fare quella faccia. Non voglio vederti così.

ALESSIO: Così, come?

SABINA: Io ti voglio bene. Desidero il tuo bene. Quindi, desidero che tu stia sereno.

ALESSIO: Eppure proprio tu, la prima notte, avevi detto che non volevi giocare la nostra amicizia per un piacere momentaneo.

SABINA: Sì, lo ricordo. Ma avevo torto. Non è cambiato assolutamente niente. Anzi… sono contenta, adesso, di aver fatto con te anche questa esperienza.

ALESSIO: Veramente?

SABINA: Sì. È stato bello; e basta.

ALESSIO: Lo so. Mi avevi avvertito, comunque, che fra noi sarebbe rimasta solo l’amicizia. Ma non è affatto poco.

SABINA: No, non è poco, nemmeno per me.

ALESSIO: Perché ridacchi, ora?

SABINA: Scusami, è troppo divertente…

ALESSIO: Che cosa?

SABINA: Non noi… ridevo per tutt’altro motivo. Pensavo agli altri. Adesso, almeno, potranno chiamarci i fidanzatini con qualche maggior fondamento.

ALESSIO: Comunque, non avrei creduto che Marzia… Questo sì che è buffo.

SABINA Già. Ammetto di aver preso una bella cantonata.

ALESSIO: Tu credevi che stesse dietro a me… Insomma, che fosse gelosa di te…

SABINA: E invece era gelosa di te! Proprio non me lo sarei aspettato.

ALESSIO: Certo che l’animo umano è davvero un grande mistero! Più credi di cominciare a capirlo, più rimani meravigliato ogni volta. Quali abissi, quali caverne, quali pozzi profondissimi vi si aprono: e non si riesce a vederne il fondo! È incredibile pensare che tutto questo si trova entro ciascuno di noi…

SABINA: Oggi più che mai.

ALESSIO: Perché dici così?

SABINA Be’, dovresti immaginarlo tu. I Greci, i Romani… gli antichi in genere, non si facevano tanti problemi. Vivevano i loro desideri sino in fondo, senza vergognarsene. Le loro ambivalenze, le loro pulsioni oscure e perfino le perversioni… le vivevano alla luce del sole. Non è così?

ALESSIO: Sì. Non se ne vergognavano. E non avevano due facce, come noi: una per il pubblico e una per il privato. Il privato era, a volte, sin troppo pubblico.

SABINA: Per esempio?

ALESSIO: Mi viene in mente Cesare. Sai, quando un generale romano rientrava in patria vittorioso, nel corso del trionfo ai suoi soldati era concessa precchia licenza…

SABINA: E cosa gli dicevano?

ALESSIO: Be’, per esempio:

Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem, eccetera; cioè:

Cesare ha sottomesso le Gallie, Nicomede ha sottomesso Cesare;

giocando sul doppio senso di "sottomettere", e alludendo ai suoi rapporti giovanili con il re di Bitinia, Nicomede.

SABINA: Ah! E a chi dobbiamo questi aneddoti così gustosi e un po’ velenosetti?

ALESSIO: Al solito Svetonio. Ma per gli antichi Romani questo non era velenoso, era anzi normale; l’italicum acetum con cui condivano volentieri ogni discorso. Ne vuoi sentire un’altra, sempre su Cesare?

SABINA: Sì.

ALESSIO: Lo chiamavano omnium mulierum virum et omnium virorum mulierem.

SABINO: "Marito di tutte le mogli e moglie di tutti i mariti. Càspita, il grande Cesare! E io che me lo immaginavo così virile…

ALESSIO: E lo era, probabilmente. Ma, come hai detto tu, gli antichi non tagliavano la morale col coltello. Erano inclini a togliersi tutti i capricci, a cavarsi tutte le voglie…

SABINA: Be’, almeno non saranno stati una massa di poveri nevrotici come lo siamo noi, oggi.

ALESSIO: Già. Questo è probabile. Ma tu, quando ti sei accorta che Marzia…

SABINA: Non ho avuto bisogno di accorgermene. Mi ha fatto una dichiarazione in piena regola. Chiaro che te lo racconto perché ti conosco e so che sei una tomba; ma non lo farei con nessun altro.

ALESSIO: Comunque, non sei tenuta a dirmi niente.

SABINA: Ti dà fastidio?

ALESSIO: Ma no.

SABINA: Allora te lo voglio raccontare. In breve, l’altro giorno l’ho affrontata…

ALESSIO: Ah, davvero?

SABINA: Sì. Cominciava a innervosirmi, sinceramente, con quel suo modo di guardarmi, con quelle frasi allusive…

ALESSIO: Ma allora avevi già capito…

SABINA: No, per niente, beata ingenuità. Così, le ho detto più o meno: "Guarda che Alessio è un mio carissimo amico, ma non gli ho mica messo il guinzaglio. Se ti interessa…"

ALESSIO: Le hai detto così?

SABINA: Sì, press’a poco.

ALESSIO: Bene, sei andata dritta al sodo. E poi?

SABINA: Allora, è successa la cosa che meno mi sarei aspettata. È diventata tutta rossa, violentemente, ma non ha abbassato lo sguardo. E ho visto nei suoi occhi una tristezza enorme, e anche qualcos’altro… ma non riuscivo a capire cosa.

ALESSIO: Che cosa hai pensato in quel momento?

SABINA: Non lo so. Lei mi fissava, ma non diceva niente, e nemmeno se ne andava. Ero stupita. Ad un tratto, mi sono accorta che voleva parlare, ma evidentemente non ci riusciva. Sembrava turbata, mi pareva di vederla fremere. Sai, quella sensazione strana, quando il silenzio grida…

ALESSIO: Credo di capire.

SABINA: Imbarazzata, le ho chiesto: C’è qualcosa che vuoi dirmi? Guarda che non ti volevo offendere, al contrario…".

ALESSIO: E lei?

SABINA: Lei, che mi aveva fissato per tutto il tempo, di colpo ha abbassato gli occhi a terra. E mi ha detto – diventando – se possibile – ancora più rossa: "Mi vergogno tanto…". Be’, sono rimasta colpita. Mi ha fatto pena. Le ho alzato il viso con la punta delle dita e le ho domandato che avesse. Anch’io cominciavo a sentirmi scombussolata.

ALESSIO: Una strana situazione.

SABINA: Già. Lei non rispondeva, mi fissava e pareva quasi sul punto di scoppiare a piangere. Poi mi ha detto, quasi col fiato grosso: "Questo avevi capito?". E io: "Sì, perché? Che cosa avrei dovuto capire, invece?". Ma già il suo sguardo aveva cominciato a illuminarmi, qualcosa mi si faceva strada nella mente.

ALESSIO: È allora che hai capito?

SABINA: No, ma incominciavo. E poi, all’improvviso, del tutto inaspettatamente, continuando a fissarmi ha avvicinato il suo viso al mio. Aveva la faccia di una persona che sta morendo di vergogna, ma non intende fare marcia indietro a nessun costo. E mi ha dato un bacio. Sulla bocca. Lievemente, quasi un soffio. Poi si è allontanata in fretta ed è sparita.

ALESSIO: E tu, come sei rimasta?

SABINA: Te lo puoi immaginare. Confusa e frastornata.

ALESSIO: Ti piace, Marzia?

SABINA: Sai, non l’avevo mai vista in quella luce. Né avevo immaginato che lei fosse così… E infatti, non lo è.

ALESSIO: Che vuoi dire?

SABINA: Che poi me l’ha detto. Per lei, è la prima volta. La prima volta che si è innamorata di una donna.

ALESSIO: È una bella ragazza. E simpatica.

SABINA: Sì, è vero… Niente affatto stupida.

ALESSIO: Non l’avevo mai pensato.

SABINA: A me, era semplicemente indifferente. Finché ho notato che ci teneva d’occhio, e dapprima mi è seccato…

ALESSIO: E adesso?

SABINA: Ho un po’ di timore a risponderti. Tu, come amico, conti più di chiunque altro. E non vorrei altro che la tua felicità.

ALESSIO: Ma io lo so, questo.

SABINA: E allora, guarda. Adesso…sento che incomincia a piacermi. Sei arrabbiato?

ALESSIO: Ti dico di no. Devi credermi.

SABINA: Tutto come prima?

ALESSIO: Tutto come prima, certo.

SABINA: Bene. Sapessi come sono contenta.

ALESSIO: Non fingevo, quando dicevo che sarò sempre tuo amico senza pretendere nulla.

SABINA: Ma qualcosa c’è stato.

ALESSIO: Sì, e molto bello. Ma so che è stato affetto, non amore. E ho fatto la mia scelta. Ho capito che non potrei mai averti veramente in quel modo, e mi son detto: "Preferisci perdere Sabina facendo l’innamorato deluso e inconsolabile, o averla sempre accanto come la più cara delle amiche?"; e ho scelto la seconda.

SABINA: Ne sono felice.

ALESSIO: Però, se Marzia sta per diventare qualcosa per te, io non vorrei essere di troppo, per nessuna ragione al mondo…

SABINA: Tu non sarai mai di troppo. Non usare nemmeno quella orribile espressione!

ALESSIO: Però, è naturale che se uno s’innamora, tutti gli altri diventano di troppo…

SABINA: Ma io non ho detto che mi sto innamorando. Innamorarsi, è una cosa seria. Succede una o forse due volte nella vita, tre al massimo. Marzia m’interessa, ma non è certo amore.

ALESSIO: Tu hai mai provato cosa sia l’amore?

SABINA: Prima di risponderti, bisognerebbe dare una definizione di che cosa sia o che cosa debba essere l’amore.

ALESSIO: Cioè, che cosa sia o che cosa debba essere?

SABINA: Di che cosa sia. Meglio rimanere con i piedi ben piantati a terra.

ALESSIO: Bene. Tu come lo definiresti?

SABINA: Così, su due piedi? Non è poco quello che domandi.

ALESSIO: Quello che domandavi tu.

SABINA: Giusto. Allora, propongo di dedicare questa notte a discutere dell’amore. Di che cosa sia.

ALESSIO: Argomento quanto mai affascinante. Ma non illuderti. I filosofi ne sanno quanto chiunque altro, se non di meno ancora.

SABINA: Be’, vedremo di unire le nostre forze, e chissà che qualcosa venga fuori.

ALESSIO: Credo che sarà l’ultima notte che potremo passare sul ponte della nave, voglio che ce la godiamo tutta.

SABINA: Perché l’ultima?

ALESSIO. Non hai sentito il capitano? È in arrivo il maltempo. E col freddo e il mare grosso, non credo che potremo starcene ancora qua fuori in tranquille chiacchierate, senza limiti di tempo.

SABINA: Già queste ultime notti l’aria è rinfrescata parecchio.

ALESSIO: E domani, lasciata la Nuova Zelanda, la nostra nave punterà dritto al Sud: ormai questa è l’ultima tappa prima del grande balzo verso l’Antartide.

SABINA: Peccato. Il cielo notturno è più splendente che mai, e riesco già a riconoscere parecchie stelle e costellazioni. È come se ogni notte si alzasse il sipario di un magnifico teatro, e l’Universo ci spalancasse il suo vero volto: una cupola blu cobalto, punteggiata di innumerevoli astri brillanti e misteriosi.

ALESSIO: Propongo che anche questa sera ci affidiamo alla protezione e all’ispirazione di un nume tutelare, di una di queste impareggiabili stelle.

SABINA: Guarda quella, è una delle più splendenti.

ALESSIO: Quella è Achernar, la stella alfa dell’Eridano.

SABINA: Eridano era il nome antico del Po, vero? Dove cadde Fetonte quando fu precipitato dal carro del Sole.

ALESSIO: Già. Ma prima dei Greci, questa costellazione era osservata dagli Egiziani, che la identificavano col fiume Nilo.

SABINA: Sempre un fiume, comunque. Perché?

ALESSIO. Perché è così lunga e stretta, come un fiume che si distende via via, e poi sfocia in un ampio delta. Achernar è appunto la sorgente, ed è troppo a Sud per essere visibile dall’Italia.

SABINA: Davvero?

ALESSIO: Sì. Si trova esattamente a 57° di latitudine Sud, quindi, nell’emisfero settentrionale, comincia ad essere visibile a partire da luoghi che si trovino almeno sul parallelo di Alessandria d’Egitto.

SABINA: E allora, come facevano gli studiosi greci a vederla?

ALESSIO: Chissà, forse da Creta o da Cipro, che sono poste a soli cinque gradi più a Sud; forse da Alessandria, quando – con i Tolomei – divenne la maggior capitale dell’Ellenismo. O mgari non vedevano Achernar, ma certo vedevano quasi tutto il resto della costellazione. Comunque, è certo che i Greci non hanno "inventato" le costellazioni classiche, le hanno "trovate" già costruite dagli astronomi babilonesi, egiziani e minoici.

SABINA: Certo che è molto splendente.

ALESSIO: Sì. È la nona stella in ordine di luminosità di tutto il cielo, cioè 650 volte più brillante del Sole.

SABINA: 650 volte; accidenti!

ALESSIO: È una gigante azzurra. Dista dalla terra 120 anni-luce.

SABINA: Be’, allora è parecchio lontana.

ALESSIO: È vero. Alpha Centauri, per esempio, è a soli quattro anni-luce virgola tre.

SABINA: Mi fa uno strano effetto pensare che, dall’Italia, non la si può vedere mai. Mi dà l’idea della distanza immensa che ci separa dalle nostre case, dal nostro mondo. È un’idea che fa venire le vertigini: pensare che stiamo scendendo verso l’estremità del mondo, come l’Ulisse dantesco. Che, forse, la nostra nave sta facendo rotta verso il nulla; che si sta smarrendo verso un nuovo e sconosciuto oceano, al di là dell’immaginabile…

ALESSIO: Eppure, scorgere le stelle in una notte chiara, riconoscerle, ti dà anche una sensazione di certezza, di essere attaccato a qualcosa di positivo e di permanente.

SABINA: Allora, affidiamoci ad Achernar. A proposito, che cosa significa il suo nome?

ALESSIO: "La foce del fiume". Evidentemente gli Arabi, che vivevano più a Sud dei Greci, la "leggevano" all’incontrario. Per noi rappresenta la sorgente, mentre per loro era la foce dell’Eridano celeste.

SABINA: Tante volte ho pensato che dev’essere bello conoscere l’arabo. E anche l’ebraico.

ALESSIO: E poter leggere il Corano e la Bibbia nell’originale.

SABINA: Già. Allora, da dove incominciamo?

ALESSIO: Innanzitutto, vuoi che la discussione abbia un "taglio" filosofico, o di semplice chiacchierata?

SABINA: Semplice, ma filosofico. Anche con riferimenti alla vita vissuta, se del caso.

ALESSIO: Cominci tu?

SABINA: No, comincia tu, per favore. L’argomento mi intimidisce un poco.

ALESSIO: Punto primo: definizione. Che cos’è l’amore?

SABINA: Milioni di persone se lo sono già domandato. Ma noi abbiamo la protezione e l’ispirazione della splendida Achernar, la quale – se non altro – spero ci eviterà di cadere nelle banalità più trite.

ALESSIO: Già, questo è il pericolo. E poi, dopo il Simposio di Platone, molti pensano che, su questo argomento, sia già stato detto tutto.

SABINA: Sapresti riassumere la tesi di Platone in due parole?

ALESSIO: Che il Buono e il Bello coincidono; che gli uomini sono sempre attratti dalla Bellezza e dunque, per questa via, tendono alle forme più alte del bene, distaccandosi via via dall’amore carnale per giungere a quello spirituale, poiché amore è il desiderio di generare nella bellezza; e che l’amore più nobile di tutti è l’amore per la sapienza e per la giustizia. Questo afferma Socrate, nel Simposio.

SABINA: Ma cos’era l’amore, per Socrate?

ALESSIO: Era un dèmone: essere intermedio fra gli dèi e gli uomini, anzi messaggero egli stesso fra dèi e uomini.

SABINA: Un dèmone buono o cattivo?

ALESSIO; Né buono, né cattivo; né bello, né brutto. Diotima, la donna da cui Socrate diceva di aver appreso queste cose, gli aveva fatto comprendere che l’amore va oltre l’essere bello o brutto, buono o cattivo. E ancora, l’amore è la forza generatrice che tiene unite le varie parti dell’universo e dà loro armonia. Ma a questo punto diviene difficile, per non dire impossibile, separare il pensiero di Socrate da quello di Platone. Perché Socrate, come sai, non scrisse mai nulla, e quello che sappiamo delle sue idee proviene quasi interamente da Platone e da Senofonte.

SABINA: E tu, cosa dici che sia, amore?

ALESSIO: Tenterò di rispondere, ma ti confesso fin d’ora che non ho alcuna certezza su questo terreno; meno ancora di quante ne abbia su finalismo e casualità, o sul significato della vita umana.

SABINA: Vorrà dire che andremo avanti a tastoni, come speleologi cui s’è spenta ad un tratto la lampadina e che vagano alla cieca nelle viscere misteriose della terra. Tu apri la marcia, io ti seguo.

ALESSIO: Così, se del caso, sarò io a rompermi gentilmente la testa contro qualche stalattite.

SABINA: Appunto per questo. Non sarai così poco cavalleresco da voler mandare avanti me.

ALESSIO: Non sia mai. Dunque, cos’è per me l’amore. Comincerò col tentare di darne una definizione, e, per prima cosa, citerò un poeta che tu ami in modo speciale. "Amore, amore / lieto disonore."

SABINA: Sandro Penna!

ALESSIO: Ma perché "lieto disonore"? Ammesso che sia possibile astrarre dalla condizione di "diverso" dell’Autore, del resto vissuta con scandalosa innocenza, resta il fatto che l’amore è un sentimento esclusivo nei confronti di qualcosa o qualcuno; un sentimento cieco, violento, basato sulla sfera puramente istintuale. Ora, proprio nel suo rifiuto della razionalità e della intenzionalità sta l’aspetto totalizzante e – dal punto di vista della ragione – potenzialmente disonorevole. Lucrezio pensava che i peggiori delitti sono stati commessi in nome della religione, e cita il caso d’Ifigenia, voluto dal suo stesso padre, Agamennone, per propiziare alla flotta greca un vento favorevole alla volta di Troia. No, aveva ragione invece Virgilio: i delitti peggiori dell’umanità sono stati commessi in nome dell’amore. Prendiamo il caso di Medea, per esempio, la madre scellerata che uccide i suoi figli e li dà in pasto al loro padre inconsapevole, Giasone:

"Saevos Amor docuit natorum sanguine matrem

commaculare manos."

SABINA: "L’amore feroce insegnò"…, e poi?

ALESSIO: "L’amore feroce insegnò alla madre a macchiarsi le mani

Nel sangue dei figli."

E ancora:

"…crudelis tu quoque, mater.

Crudelis mater magis, an puer inprobus ille?".

SABINA: Traduci, per favore.

ALESSIO: "Crudele anche tu, o madre.

"Fu più crudele la madre, o più malvagio l’Amore?".

SABINO: Questo è ancora Virgilio, se non erro. E lui, che cosa risponde alla domanda: fu più colpevole Medea, o l’amore?

ALESSIO: Risponde, nell’ottava ecloga delle Bucoliche:

"Inprobus ille puer, crudelis tu quoque, mater.

SABINA: Cioè?

ALESSIO: "Il fanciullo (cioè Amore) Fu malvagio; ma anche tu, madre, fosti crudele."

SABINA: E questa era l’opinione di Virgilio sull’amore: una cosa malvagia e crudele, gravida di atroci delitti e infinite sofferenze?

ALESSIO: In linea generale, sì. Al punto da fargli esclamare, sempre nella stessa ecloga:

"Nunc scio, quid sit Amor. Duris in cotibus illum

aut Tmaros aut Rhodope aut extremi Garamantes

nec generis nostri puerum nec sanguinis edunt."

SABINA: È meglio che traduca tu direttamente.

ALESSIO: "Ora so cosa sia l’amore: su dure rocce

Il Tmaro o il Ròdope o gli sperduti Garamanti

Ti hanno generato: fanciullo non della nostra razza né del nostro

[sangue."

SABINA: L’amore, dunque, come un qualcosa di nefando, addirittura di criminale! Be’, devo ammettere che questo si accorda ben poco con l’immagine che, degli antichi, tracciavamo poco fa.

ALESSIO: Se è per questo, da un punto di vista spirituale – non da quello cronologico – Virgilio si colloca sul limite estremo del mondo antico, anzi per molti aspetti ne segna il superamento.

SABINA: E Alessio, come la vede questa faccenda dell’amore?

ALESSIO: Abbiamo detto poc’anzi che l’amore è il sentimento extra-logico per eccellenza, dunque non è buono né cattivo – in questo concordo con Platone – ma piuttosto amorale. Potremmo certo considerarlo buono o cattivo con riguardo agli effetti, cioè da un punto di vista essenzialmente pratico.

SABINA: E gli effetti, secondo te, sono più spesso buoni o cattivi?

ALESSIO: In primo luogo, bisognerebbe definire il "buono" e il "cattivo". Se li consideriamo in senso utilitaristico, ossia "buono" come ciò che produce piacere e "cattivo" ciò che produce dolore, direi che gli effetti presentano una mescolanza paradossale dei due elementi. Ma se tu insisti a domandarmi quale di essi tenda a prevalere, senz’altro ti rispondo: il "cattivo".

SABINA: Cioè il dolore.

ALESSIO: Sì; ma è solo una convinzione personale. Mi pare che il piacere che l’amore è in grado di produrre, specie se paragonato con le aspettative che sollecita, sia veramente piccolissimo; grande, invece, la sofferenza. Sofferenza intesa sia come desiderio inappagato, sia come vana attesa, sia infine come delusione e privazione dell’oggetto amato.

SABINA: Da un innamorato di Virgilio come te, non avrei dovuto aspettarmi niente di diverso.

ALESSIO: Tu, invece, mi sembri più "oraziana".

SABINA: Cosa diceva Orazio dell’amore?

ALESSIO: Primo, non gli dava molta importanza. Secondo, lo riduceva a poco più che lo sfogo di impulsi fisiologici. Terzo, cercava di prenderlo il più possibile alla leggera: carpe diem, eccetera.

SABINA: E tu ti sei formato la convinzione che questa è anche la mia personale idea dell’amore?

ALESSIO: Sì. Ho sbagliato?

SABINA: No, non molto. Da che cosa lo hai dedotto?

ALESSIO: Così, una sensazione. Mi sembri una che non ama lasciarsi coinvolgere più di tanto.

SABINA: Giusto, hai fatto centro.

ALESSIO: Comunque, molti si chiedono se sia lecito parlare dell’amore così, in generale; o se invece non sia indispensabile distinguere tra le varie specie di amore. O, almeno, tra l’amore sessuale e l’amore spirituale, per esempio quello tra un genitore e un figlio.

SABINA: Tu condividi la necessità di questa distinzione?

ALESSIO: Sì. L’amore sessuale non è altro che l’atavico istinto riproduttivo, più o meno ingentilito con fronzoli poetici. E, come tale, è sostanzialmente lo stesso in tutti gli esseri viventi. Il suo vero scopo è la sopravvivenza della specie, non certo la felicità o l’infelicità del singolo individuo.

SABINA: E l’amore spirituale?

ALESSIO: È un bisogno di donare che si fa strada mano a mano che balena l’intuizione che solo le cose donate sono quelle che possiederemo davvero per sempre; le altre, quelle che desideriamo ricevere, non possiamo che continuare a perderle, come polvere di farina che fuoriesce poco alla volta da un sacco bucato, perché non saranno mai nostre.

SABINA: Questa è senza dubbio una intuizione profonda, ma dubito che siano in molti ad arrivarci.

ALESSIO: Il che ci riconduce ad una ulteriore riflessione: quante sono le persone realmente capaci di amare?

SABINA: Certo molto poche.

ALESSIO: Già, credo che sia così. La maggior parte delle persone usa la parola "amore" senza alcuna consapevolezza. Crede che sia più una questione di ricevere che di dare, mentre ritengo che sia vero esattamente il contrario. Amare è saper donare.

SABINA: Una affermazione abbastanza insolita, da parte di un materialista dichiarato e convinto.

ALESSIO: Anche tu pensi che i materialisti – come i comunisti – siano molto cattivi e mangino i bambini a colazione?

SABINA: Non dico tanto. Ma insomma, credevo che per un materialista il principio fondamentale fosse quello del piacere.

ALESSIO: Perché?

SABINA: Perché se l’universo è dominato da leggi puramente materiali, il principio di conservazione della materia – dunque del proprio io – dovrebbe essere l’impulso fondamentale di ogni vivente, uomo compreso.

ALESSIO: Brava Sabina! Ma, ormai, l’avrai bell’e capito che io sono un materialista pieno di nostalgie spiritualiste… Scherzi a parte, io non nego quello che hai appena affermato, anzi lo condivido. Ma, come stavo dicendo prima, io distinguerei fra l’amore come impulso di conservazione della specie, sessuale, egoistico e basato sulla ricerca e sull’avere; e amore come tendenziale superamento di sé, come affetto sublimato e altruistico, non-sessuale o prevalentemente non-sessuale, caratterizzato dall’apertura e dal desiderio di donare…

SABINA: Una distinzione nettamente dualistica. Dunque, assai poco "materialistica". Non trovi?

ALESSIO: Cosa vuoi, dopo duemila anni di cristianesimo siamo un po’ tutti dualisti. È un retaggio storico da cui è ben difficile prescindere.

SABINA: Un po’ debole come spiegazione.

ALESSIO: Anche i Greci e i Romani veneravano l’Afrodite celeste e l’Afrodite carnale, terrestre.

SABINA: Questo è vero; ricordo che ne abbiamo parlato l’altra notte.

ALESSIO: Comunque, anche l’amore "spirituale" obbedisce, in realtà, a cause puramente "materiali". Ti dispiacerebbe se facessi un esempio personale, senza secondi fini?

SABINA: Sì.

ALESSIO: Alessio ama Sabina. Sabina apprezza Alessio, ma non lo ama – o meglio, non può amarlo – il che tuttavia è lo stesso agli effetti pratici. Dunque ad Alessio rimangono due possibilità: insistere con le sue profferte amorose e perderla del tutto, oppure accettare senza riserve il ruolo di amico, e averla sempre vicino. Ora, quando si ama si ha terribilmente bisogno di vedere continuamente l’oggetto del proprio sentimento. È l’ultimo pensiero prima di addormentarsi, la notte, e il primo al momento del risveglio, il mattino. È chiaro, quindi, che riuscire a trasformare l’amore fisico, sessuale, in amore spirituale e disinteressato risponde a una precisa strategia: la strategia della "conservazione" dell’oggetto amato.

SABINA: Un calcolo sottile, ma sempre egoistico.

ALESSIO: Esatto.

SABINA: Solo che non ti credo.

ALESSIO: Perché?

SABINA: Perché fa parte, piuttosto, di una tua strategia che ha lo scopo di non farmi sentire in colpa.

ALESSIO: Non credere che mi preoccupi così tanto per te.

SABINA: Ma non hai detto, qualche minuto fa, che amare in senso spirituale vuol dire essenzialmente donare?

ALESSIO: È vero. Ma ho detto anche che doniamo quando intuiamo che donare è una forma di possesso permanente, mentre invece ricevere è un modo di farsi sfuggire l’amore tra le dita, come la sabbia in riva al mare.

SABINA: Una forma astuta e raffinatissima di egoismo.

ALESSIO: Appunto. L’obiettivo ultimo è sempre la gratificazione del proprio io, un suo accrescimento o, almeno, una sua conservazione. Come accade nel mio caso specifico.

SABINA: Capisco. Ma non ci credo lo stesso.

ALESSIO: E perché mai?

SABINA: Perché vuoi fare di tutto per apparire sotto una luce sfavorevole.

ALESSIO: Un calcolo astuto, anche quello. Così Sabina dirà: "Però, questo Alessio, non è poi così cattivo come vorrebbe sembrare!". E intanto le mie azioni riprendono quota.

SABINA: Ma non è vero, Alessio.

ALESSIO: In ogni modo, era solo un esempio. Non lasciamoci sviare da coinvolgimenti personali. Io sostengo che gli esseri umani, effettivamente, agiscono sempre in base a impulsi egoistici. Ma nelle persone di elevata spiritualità, questa tendenza egoistica viene sublimata e incanalata in direzioni altruistiche. O almeno, esse ci provano. Ma anche lo slancio più altruistico e generoso, anche l’amore più spirituale hanno sempre origine dall’istinto di conservazione e, se possibile, di accrescimento del proprio io.

SABINA: Perché si ama, allora?

ALESSIO: Si ama per veder gratificato il proprio io, per rafforzare la stima di sé. Se, poi, si ama non riamati, si possono fare due cose. Dichiararsi vinti e cercar di non amare più, riconoscendo la sconfitta del proprio ego. Oppure si può continuare ad amare, sublimando la propria passione, e in tal modo conservare e perfino accrescere l’autostima. È come se costoro dicessero: "Guarda di che abnegazione, di quali sacrifici sono capace io!".

SABINA: Sei corrosivo.

ALESSIO: Ma perché? Non ci vedo niente di male. Sono strategie perfettamente naturali e funzionali allo scopo.

SABINA: Che è…?

ALESSIO: Te lo ripeto: conservare e, se possibile, accrescere il sentimento del proprio io.

SABINA: Ah già, lo avevi appena detto. Ma un genitore che si sobbarca i più duri sacrifici per amore del figlio, come si può dire che miri, in realtà, ad accrescere il proprio io?

ALESSIO: Anzi, è l’esempio classico. Si desidera un figlio per acquisire un surrogato d’immortalità. Dunque, per dare al proprio io il massimo potenziamento psicologico e la massima gratificazione umanamente possibile.

SABINA: E un missionario che dà la vita per il suo Dio o, magari, per il suo gregge di anime?

ALESSIO: Perché in quella maniera riesce ad appagare la propria aspirazione al’immortalità. Sono molte le strade percorribili per raggiungere una gratificazione e un potenziamento dell’io. Sacrificare totalmente se stessi è una di esse: la più diretta, la più sicura.

SABINA: Tanto più grande l’altruismo, tanto maggiore – in realtà – l’egoismo?

ALESSIO: Se vuoi chiamarlo egoismo. Io non lo chiamerei così.

SABINA: Come lo chiameresti, allora?

ALESSIO: Istinto di conservazione. Come qualunque altro istinto, non è buono né cattivo. È un istinto, utile alla sopravvivenza della specie.

SABINA: Tuttavia, ha uno sgradevole odore di opportunismo.

ALESSIO: Ma no, io non la vedrei così. Sarebbe opportunismo se fosse calcolato, intenzionale. Invece l’amore spiritualizzato è, quasi sempre, un impulso inconscio verso il potenziamento dell’ego. Non è frutto di un calcolo meschino. Insomma, siete voi spiritualisti che vi accanite a giudicare severamente i normalissimi istinti dell’essere umano. L’uomo è un animale, un mammifero. Rimproverargli una natura "egoistica" sarebbe come rimproverare al leone il suo istinto carnivoro, o all’aquila il suo istinto di uccello rapace. Questa è la natura: tutto qui.

SABINA: Tutto qui?

ALESSIO: Nient’altro.

SABINA: E l’anima?

ALESSIO: Cos’è l’anima?

SABINA: Non lo so. Dimmelo tu.

ALESSIO: L’anima è un’idea.

SABINA: Che tipo di idea?

ALESSIO: L’idea che l’uomo si è costruito per non sentirsi parente troppo stretto di gibboni e scimpanzé.

SABINA: Ah, così.

ALESSIO: È molto semplice. Delusa?

SABINA: E allora cos’è questo bisogno di assoluto, d’immortalità?

ALESSIO: Un errore di calcolo del computer.

SABINA: Cioè?

ALESSIO: Se noi paragoniamo la natura a un computer, l’anelito di immortalità è un errore dovuto all’inserimento di dati erronei.

SABINA: Quali?

ALESSIO: Le circonvoluzioni del cervello, che ci distinguono, appunto – ma solo quantitativamente – dai nostri pelosi e simpatici cugini più o meno arboricoli.

SABINA: Cosa vorresti dire?

ALESSIO: Che il gibbone ha, come ogni altro essere vivente, il suo bravo istinto di conservazione, che gli è utile quanto basta per la sopravvivenza della specie. L’uomo, mammifero più evoluto e quindi più complicato, ha bisogno anche di strategie più raffinate per poter raggiungere gli stessi identici obiettivi. L’idea di sacrificio, l’idea di trascendenza, Dio, anima, immortalità e tutto il resto. Ma il fine è sempre quello.

SABINA: Ne sei proprio convinto? Non parlavi così dell’anima, l’altra notte, né mi sembravi gran che d’accordo con l’evoluzionismo. Io penso che tu parli così perché soffri e sei infelice, ma non vuoi farlo vedere.

ALESSIO: Bene, allora prendiamo il caso della sessualità. I mammiferi, quando sono presi dall’impulso della riproduzione, si accoppiano senza troppe cerimonie – o meglio, con un minimo di cerimonie ritualizzate, tanto per salvare la forma. E così anche gli uccelli. Per esempio, la danza spettacolare del maschio dell’uccello del Paradiso – i pochissimi mortali che l’hanno veduta, di nascosto, la descrivono come una cosa indicibilmente fastosa e commovente – ha il solo scopo di "sedurre" la femmina. Per questo motivo le penne e le piume dei maschi sono tanto più ricche e colorate, tanto più belle di quelle delle femmine. Sono strumenti di conquista sessuale, cioè riproduttiva: come il colore e il profumo dei fiori, nei confronti degli insetti impollinatori. Ma di quest’ultimo caso, ti ricorderai, abbiamo già parlato.

SABINA: Mentre l’uomo, secondo te…?

ALESSIO: Eh, l’uomo. L’uomo è un mammifero infelice. Un animale che si è allontanato dalla natura, cioè dalle proprie radici. Come un orso o una pantera nera costretti a vivere fra le quattro sbarre di una gabbia, allo zoo, che perdono inevitabilmente il gusto per la vita. Diventano nevrotici, malati. Allora, per non lasciarsi sopraffare dal desiderio di auto-annientamento, l’uomo è stato costretto ad inventarsi le "ragioni" più complicate ed assurde per razionalizzare i suoi istinti più normali, di cui però si vergogna a morte. Ha inventato l’amore, per mascherare la gioiosa brutalità dell’istinto sessuale. Ha perfino sublimato tale istinto nella poesia della donna-angelo, come hanno fatto Dante con Beatrice e Kierkegaard con Regina Olsen.

SABINA: Come Alessio con Sabina?

ALESSIO: Certo, come Alessio con Sabina: facendo di necessità, virtù.

SABINA: Scusa, era un colpo un po’ basso, ma non premeditato.

ALESSIO. Non c’è di che.

SABINA. Capisco.

ALESSIO: Be’, io credo di aver parlato abbastanza, per ora. Adesso mi piacerebbe sentire un po’ te. Non puoi dire che non abbia fatto il mio dovere di speleologo capo-cordata, aprendo la marcia in queste buie caverne.

SABINA: È vero, non posso dirlo.

ALESSIO: E chissà in quante stalattiti ho già sbattuto la testa; meno male che ce l’ho abbastanza dura.

SABINA: No, non credo tu ne abbia urtate molte. Ho cercato di coglierti in fallo, ma il tuo ragionamento filava piuttosto liscio – a parte il fatto, ripeto, che non so se devo credere a quello che hai detto stasera o a quel che dicevi l’altra notte. Comunque, non intendo dire che le tue parole mi abbiano del tutto convinta. Mi sembra, però, che il ragionamento fosse coerente.

ALESSIO: Bene, la palla passa a te,

SABINA: Da dove cominciare?

ALESSIO: Da dove vuoi; la notte è ancora molto lunga.

SABINA: Io, intanto, mi accendo la pipa. Così, ecco.

SABINA: Innanzitutto, io non tenterei nemmeno di dare una definizione dell’amore. Quella, casomai, verrà da sé, come conclusione. Piuttosto, partirei da alcune considerazioni empiriche.

ALESSIO: Bene, mi piace l’empirismo.

SABINA: Anzi, da un’esperienza personale.

ALESSIO: Meglio ancora.

SABINA: Un ricordo. Uno di quei ricordi che ti restano impressi a caratteri indelebili, perché sono legati a un evento decisivo. Decisivo sul piano dell’interiorità; non è detto che, sul momento, tu lo riconosca come tale.

ALESSIO: È vero: come non sempre si riconoscono, sul momento, gli incontri decisivi. Cioè, non sempre li percepiamo come tali.

SABINA: E come avviene per le persone, così avviene con gli avvenimenti della nostra vita.

ALESSIO: Penso che ciò accada perché, per riconoscere i nodi fondamentali nell’ordito che compone la nostra vita, occorre porsi a qualche distanza da esso; quindi deve anche passare del tempo.

SABINA: Sì, ma la distanza temporale è condizione necessaria, non però sufficiente. Ci vuole un’altra cosa: la capacità di guardarsi dentro e di leggere i "segni" del proprio percorso interiore, ciò che molte persone non fanno mai.

ALESSIO: Sì, molte. Arrivano alla fine della tela senza mai capire. È come se l’avessero tessuta alla cieca, nel buio più completo.

SABINA: Bene, ascolta. Il ricordo è questo. Era un chiaro pomeriggio di primavera ed io avevo quattordici anni. Mi trovavo ospite di una mia amica, Elisa, nella sua casa di campagna. L’inverno era finito da poco e la primavera era esplosa all’improvviso, aprendo le foglioline ai caldi raggi del sole e profumando l’aria di un non so che di nuovo e frizzante. Era vicina l’ora del tramonto. La luce scendeva obliquamente sull’erba del prato tagliata all’inglese e le cose cominciavano ad allungare una dolce ombra radente sul terreno. Io non so dirti quanto fosse limpida l’aria, quanto azzurro il cielo senza nubi, e quale misteriosa e inesprimibile sensazione di quiete e di armonia producessero le chiome dei pini che già si andavano incupendo, controluce. Il mare non era lontano: solo alcuni chilometri in linea d’aria; e pareva quasi che il suo odore salmastro arrivasse fin lì, che se ne potessero intravvedere le onde scintillanti sul lontano orizzonte, oltre il verde sempre più scuro dei campi e dei boschi. Ma era solo un’impressione. Forse, però, mi sto dilungando troppo. Ti sto annoiando?

ALESSIO: Al contrario: mi pareva di essere in quella casa di campagna, in quel giorno dolcissimo di primavera. Mi sembrava di vedere tutto, di sentire perfino gli odori; altro che annoiarmi! Sabina, tu mi riservi sempre qualche sorpresa. Non credevo tu possedessi un tale dono di saper descrivere cose e situazioni; avresti dovuto dedicarti alla pittura!

SABINA: Non sei obiettivo. Il tuo debole per me ti porta a sopravvalutare tutto quel che faccio e che dico.

ALESSIO: No, non è così. Sono sinceramente ammirato per la tua efficacia descrittiva. Ti prego, continua; e non aver paura di annoiarmi. Racconta tutto, con ogni particolare che ricordi.

SABINA: Va bene. Comunque, questo preambolo descrittivo era forse realmente necessario, per farti capire il mio stato d’animo. La sensazione indefinita, e tuttavia chiarissima, di pace e di benessere mi pervadeva tutta, come se fosse stata mia da sempre. È strano, come ci si possa abituare in fretta alla felicità: bastano appena pochi minuti. Mentre per rassegnarsi all’infelicità non basta, si può dire, una vita intera.

ALESSIO: Vero.

SABINA. Ero giovane; ero in campagna; c’era la primavera, mi sentivo libera e leggera. Mi pareva di fondermi con le cose, di essere tutt’una con esse. Poche volte mi ero sentita così in armonia con il tutto, senza un motivo preciso. E poche volte mi è successo dopo.

ALESSIO: Sì, a volte ci succede e non capiamo perché. Accade e basta. "Non si sa come", direbbe Pirandello.

SABINA: Era una domenica, una domenica pomeriggio. I miei ospiti erano andati a messa al paese vicino, distante alcuni chilometri. Rientrai nella casa silenziosa e andai a farmi la doccia. Mi piaceva lavarmi con lentezza, lasciandomi scorrere addosso l’acqua lungamente. A un tratto la porta si aprì – non l’avevo chiusa a chiave – ed entrò la mia amica Elisa. Sorpresa, trassi istintivamente l’asciugamano per coprirmi, ma lei disse che era sudata per aver corso in bicicletta, si spogliò velocemente e mi fu accanto, prima che potessi uscire da sotto la doccia, insaponata com’ero. Mi propose di lavarmi la schiena e incominciò subito. Io ero paralizzata dallo stupore e dal piacere. Le orecchie mi rombavano, il cuore batteva all’impazzata e sentivo la gola arida. Ondate di piacere mi rotolavano entro cavalloni di un mare burrascoso. In breve l’intimità si fece maggiore, lei non si limitava più a insaponarmi la schiena. Di colpo, violentemente, senza quasi avere il tempo di capire come fosse accaduto, raggiunsi il culmine. Lo ricordo ancora adesso, come fosse oggi: come un’esplosione interiore, una cosa del tutto nuova e sconvolgente. Be’, è la prima volta che ne parlo con qualcuno; che strano.

ALESSIO: Fu la tua prima volta?

SABINA: Sì. E ne ritrassi un gusto agrodolce di cose proibite, ma deliziose. Soltanto, quella sera, a cena non riuscivo assolutamente a capire come lei potesse comportarsi con tanta incredibile naturalezza. Io mi sentivo sconvolta, vergognosa e felice al tempo stesso, e non potevo evitare di tornare a guardarla in continuazione. Lei era allegra e disinvolta come sempre, mi parlava e mi sorrideva davanti agli altri, esattamente come al solito. Come poteva non tradirsi? Io temevo di portare scritto in faccia quel che era accaduto tra noi, che tutti lo vedessero, lo capissero. E lei, lei chiedeva ancora dell’insalata con l’aria più naturale di questo mondo. A tratti mi sembrava quasi di aver sognato, mi chiedevo se davvero non fosse successo tutto solo nella mia immaginazione. Questo senso di irrealtà, mescolato allo stato di eccitazione quasi inebriante, aveva su di me un effetto stranissimo, quasi di sdoppiamento coscienziale. Una parte di me stentava a credere che fosse mai successo qualcosa; un’altra parte fremeva, stordita e quasi ubriaca, e già desiderava di nuovo quelle sensazioni, quel piacere. Che gustai, difatti, – quando finalmente la cena terminò e noi, poco dopo, ci ritirammo in camera – a lungo e con perfetta consapevolezza, tutta la notte e tutte le altre notti. Mentre poche ore prima, nel bagno, era accaduto quasi a tradimento e quasi senza l’assenso della mia volontà. Ora ti starai domandando per quale motivo ho voluto raccontarti questa vecchia storia: ci sto arrivando. Mi avevi chiesto se ho mai provato l’amore, nella mia vita. Ebbene la risposta è sì, e credo quell’unica volta; in particolare, la mattina dopo. Non sei ancora stufo?

ALESSIO: Per nulla.

SABINA: Il sole filtrava dalla persiana e spargeva un’aureola dorata sugli oggetti della stanza. Svegliandomi al canto degli uccelli, per un attimo non riuscii neppure a ricordarmi dove mi trovassi. Ma subito il respiro leggero della mia amica, che dormiva accanto a me, mi ricondusse alla realtà e alla piena coscienza di quanto c’era stato. E un fremito di felicità, di felicità inesprimibile mi attraversò tutta. Rimasi a lungo a contemplare il corpo fresco e giovane di Elisa, che dormiva ancora. I biondi capelli tirati all’indietro sulla fronte, e raccolti da un nastro sulla nuca, mandavano riflessi d’oro in controluce. Dormiva profondamente, con la bocca semiaperta, e un filo di saliva le scendeva dall’uno all’altro labbro. Osservai che quel filo tremava lievemente nel ritmico movimento della respirazione. Perché mi è rimasto così impresso un simile dettaglio? Ricordo anche la lievissima peluria dorata delle sue braccia scoperte, fuori del lenzuolo. Continuavo a guardare quei capelli, quella bocca semiaperta, quel filo di saliva; a respirare quel profumo di crema per la pelle e di leggero sudore d’un giovane corpo pieno di vita; e mi chiedevo: è dunque questa la felicità? In quel momento sentivo che il tempo si era come fermato; che per lei, per Elisa, sarei stata capace di compiere qualunque gesto, in quel momento, qualunque sacrificio. Se mi avessero detto: tra un attimo ci sarà una scossa di terremoto e il soffitto vi cadrà addosso, io sono sicura che mi sarei gettata sopra di lei, per farle scudo col mio stesso corpo. Sì, sono sicura che non avrei esitato neppure un istante, neppure il tempo di formulare un abbozzo di pensiero: avrei agito d’istinto, con la rapidità del fulmine. E allora capii che quello era l’amore. Lo provavo allora per la prima volta, dopo essermelo immaginato tante volte nei miei sogni di adolescente. Ed era così diverso da tutto, così inspiegabile e così tremendamente dolce. Dopo, non l’ho provato mai più. Ecco, ti ho detto ogni cosa. Mi sembra di non aver fatto un discorso così lungo da secoli e secoli. E a nessuno, mai, avevo raccontato queste cose. Pensa quanti anni sono passati, ne ho il doppio di allora: eppure ricordo tutto come fosse stato ieri. E, sopra ogni cosa, ricordo quel senso pungente di felicità, quella incredibile sensazione di calore e di esaltazione, fisica e spirituale. Questo, forse, è l’amore: abbandono totale e gioioso, riscoperta aurorale del mondo, quasi una seconda creazione che si svolge davanti ai nostri occhi e tinge ogni cosa di nuovi colori, mai visti prima.

ALESSIO: Come se il mondo fosse stato creato proprio allora.

SABINA: Sì, è questo che si prova, quando si ama.

ALESSIO: Eri felice, quindi?

SABINA: Mi pareva di toccare il cielo con un dito. Mi pareva che ogni cosa fosse lì proprio per me, per la mia felicità; che il sole splendesse per me, che il cielo fosse azzurro per me, che per me sbocciassero le gemme.

ALESSIO: Delizioso egocentrismo degli innamorati. E "lei"?

SABINA: Chi, Elisa?

ALESSIO: Sì.

SABINA: Non so se provasse le stesse emozioni, né se per lei fosse la prima volta. La sua naturalezza mi stupiva e mi affascinava. Io, invece, facevo una grandissima fatica a trattenermi, avrei voluto gridare la mia gioia scandalosa a tutto il mondo.

ALESSIO: E come mai quell’incanto non si è più ripetuto?

SABINA. Non lo so. Forse perché la prima volta, come è già stato detto mille volte, non si ama veramente una persona, ma l’amore. E amare l’amore è per definizione un’esperienza unica, non ripetibile. Comunque, una cosa ricordo bene: non provavo alcun senso di colpa. O meglio, appena quel tanto che basta per avvertire con maggiore intensità le sottili vibrazioni del desiderio e del piacere.

ALESSIO: E quando accadde – voglio dire, mentre stava accadendo, lì sotto la doccia – che cosa hai pensato? Se pensavi qualcosa…

SABINA: Sì, pensavo: Allora è proprio questo, l’amore? È così che doveva accadere? Perché, quando accade nella realtà, non è mai come lo si era immaginato.

ALESSIO: Già.

SABINA: E tu?

ALESSIO: Che cosa?

SABINA: Hai mai conosciuto l’amore?

ALESSIO: Sì.

SABINA: Racconta.

ALESSIO: Su una nave, diretta in Antartide.

SABINA: Oh, piantala!

ALESSIO: Ma ho "scelto" la persona sbagliata.

SABINA: Dài, non fare lo scemo. Scherzi a parte.

ALESSIO: Scherzi a parte, ti racconterò dopo.

SABINA: E perché?

ALESSIO: Perché sono sicuro che il delicato racconto che mi hai fatto era solo un’introduzione ai tuoi ragionamenti sull’amore, e desidero ascoltarli avidamente. Voglio berli fino all’ultima goccia.

SABINA: D’accordo, ti prendo in parola. Dopo tocca a te.

ALESSIO: Contaci.

SABINA: Ma non credere che abbia grandi cose da dirti su questo argomento. Anzi, diciamo pure che mi sento un po’ analfabeta.

ALESSIO: Lo siamo tutti. Ma certuni, come te, ne hanno consapevolezza. La maggior parte delle persone non lo sa neppure.

SABINA: Tu dici che l’amore è una ricerca inconscia di conservazione e potenziamento del proprio io. Giusto?

ALESSIO: Sì. E, giunta quasi a livello cosciente, può venire sublimata dando origine all’arte, alla scienza, alla religione stessa. Dio, fra le altre cose, è anche una sublimazione del nostro istinto riproduttivo – in un certo senso.

SABINA: Ebbene, ti dirò francamente che la tua interpretazione non mi ha convinta del tutto.

ALESSIO: Qual è la tua?

SABINA: A me pare che nell’amore vi sia anche un’altra componente, sfuggente ed elusiva per sua natura, ma che – di certo – non si può ricondurre alla tipologia del "sacro egoismo dell’ego".

ALESSIO: Sfuggente, elusiva: va bene; ma di che si tratta?

SABINA: Forse di qualcosa che ha a che fare con l’istinto di morte.

ALESSIO: Eros e Thanatos, come dicevamo l’altra notte.

SABINA: Desiderio di oblìo, di annientamento. Di pace. Un lato oscuro dell’io, una forza prepotente, terribile che non è, necessariamente, al servizio della sopravvivenza della specie.

ALESSIO: Insomma, un mistero.

SABINA: Sì.

ALESSIO: E come avevamo definito il concetto di mistero?

SABINA. Una realtà naturale non ancora chiarita dalla ricerca scientifica.

ALESSIO: Quindi…

SABINA: Io, però, ti avevo detto che quella definizione mi sembrava un po’ riduttiva. Perché la scienza non ha la chiave per risolvere tutti i misteri. Di conseguenza, essa non è in grado di dirci alcune cose della nostra vita, che sono fra quelle essenziali.

ALESSIO: Va bene. Continua, ti prego.

SABINA: Non so spiegarti bene, perché non so chiarirlo nemmeno a me stessa. È più una sensazione: che nell’amore ci sia anche una componente assolutamente non utilitaristica, anzi potenzialmente auto-distruttiva.

ALESSIO: Ma per questa via proprio tu, l’ottimista, arriverai al pessimismo virgiliano, all’idea virgiliana del crudelis amor.

SABINA: Non è detto. In primo luogo, ho precisato "potenzialmente auto-distrutivo"; in secondo luogo resta da vedere se questo istinto di morte, che ci getta tra le braccia di qualcuno come in una buia tomba, non sia in realtà una parte logica e complementare del fenomeno "vita".

ALESSIO: Vai pure avanti, la cosa si sta facendo interessante.

SABINA: Non dicevi tu stesso, del resto, che l’amore va oltre la contrapposizione semplicistica tra bello e brutto, buono e cattivo?

ALESSIO: Sì.

SABINA: Dunque, forse anche le pulsioni di morte rientrano nella complessità del fenomeno amoroso.

ALESSIO: Nietzsche sosteneva, più o meno, che "colui che ama veramente, si trova di necessità al di là del bene e del male."

SABINA: E Shakespeare dice, press’a poco: "Vi sono più cose fra il cielo e la terra di quante ne immagini tutta la vostra filosofia."

ALESSIO: Sabina la Poliorcete.

SABINA: Che…?

ALESSIO: "L’assediante", dal greco antico. Stai stringendo implacabilmente d’assedio la cittadella del mio materialismo. E hai già trovato un varco nelle mura, a quanto sembra.

SABINA: Sembra anche a me. Ma sono una cattiva stratega, forse perché non amo le cose militari. Quindi, invece di sfruttare il momento favorevolee la debolezza temporanea dell’avversario, concederò a te e a me stessa una pausa di riflessione, prima di continuare.

ALESSIO: Una delicatezza squisitamente femminile.

SABINA: Queste notti stellate sono così mervigliose… Ne serberò per sempre un ricordo incantevole. E poi, quei punti luminosi sparsi nel cielo paiono far rivivere la bellezza incomparabile dei miti greci, la poesia degli antichi popoli che guardavano la volta stellata con stupore e rapimento.

ALESSIO: Vi è sempre della poesia, nella scienza.

SABINA: Ma perché l’Eridano era il Po?

ALESSIO: Perché, rispetto alla Grecia, era posto a occidente. Fetonte caddde, colpito dalla folgore di Zeus, quando stava ormai per incendiare il cielo con il carro del Sole. Alcuni miti greci, comunque, lo identificano piuttosto con il Rodano, e per lo stesso motivo.

SABINA: E il tuo Virgilio, che cosa ne dice?

ALESSIO: Virgilio ne fa, almeno in parte, un fiume dell’Oltretomba. Nel VI canto dell’Eneide pone infatti le sorgenti dell’Eridano nell’Averno, e precisamente nei Campi Elisi.

SABINA: Il luogo delle anime beate.

ALESSIO: Sì. Dove Enea incontra il padre Anchise.

SABINA: Ma perché l’Eridano era pensato come un fiume occidentale?

ALESSIO: Forse perché le sorgenti di un fiume posto verso occidente, cioè di un "fiume del tramonto", si collocano per forza in un Aldilà misterioso; come il Giardino delle Esperidi, del resto.

SABINA: E la faccenda del Rodano, come si spiega?

ALESSIO: Probabilmente col fatto che Marsiglia era la più occidentale di tutte le colonie greche del Mediterraneo, e il Rodano sfocia presso Marsiglia. Era dunque il fiume più occidentale al mondo che i Greci conoscessero, almeno fra quelli di una certa importanza.

SABINA: Ora comincio a capire.

ALESSIO: Apollonio Rodio, il maggiore poeta epico dell’età ellenistica, nel quarto canto della sue Argonautiche scrive così (cito a memoria, come posso):

Di là entrarono nel profondo corso del Rodano,

che si getta nell’Eridano, e le acque nel confluire

rimbombano ribollendo. Questo fiume nasce agli estremi

confini del mondo, dove si trovano le porte e i luoghi

della Notte…"

SABINA: Un affluente dell’Eridano, dunque. ma il Rodano non è l’affluente di un altro fiume!

ALESSIO: No, infatti. La realtà è che le conoscenze geogrfiche degli antichi Greci si facevano tanto più imprecise e fantasiose, quanto più ci si spostava verso occidente e verso settentrione.

SABINA: Ricordo che il loro maggiore geografo era Strabone.

ALESSIO: Sì. E Strabone, nel quinto libro della sua Geografia, afferma che l’Eridano avrebbe dovuto trovarsi presso il Po, e non identificarsi con esso; ma lui, personalmente, non ci credeva. Scrive infatti che l’Eridano non esiste in alcun luogo e lo colloca fra le leggende, al pari del mito di Fetonte.

SABINA: Certo che i Greci avevano parecchia fantasia.

ALESSIO: Come tutti i popoli di mare. Procopio di Cesarea, l’ultimo grande storico della grecità antica – o il primo della civiltà bizantina, secondo i punti di vista – scrive addirittura che, secondo una voce diffusa ai suoi tempi, dalle coste settentrionali della Gallia si imbarcavano le anime dei trapassati dirette all’isola di Brittia.

SABINA: La Britannia?

ALESSIO: No. Procopio sostiene che si trova "fra la Britannia e l’isola di Thule", di fronte alla foce del Reno.

SABINA: "Di fronte alla foce del Reno", sarebbe più o meno la Britannia; ma il riferimento all’ultima Thule farebbe pensare a una terra molto più nordica, nella zona artica o sub-artica; vero? Insomma, un bel guazzabuglio.

ALESSIO: Già. Ma non dimenticare che quelle terre, per i Greci, erano poste "agli estremi confini del mondo, dove sono le porte e le sedi della notte". Dunque al confine tra il reale e il soprannaturale: la notte indica non solo la direzione del tramonto, cioè l’ovest, ma probabilmente è anche un vago riferimento ai sei mesi della notte artica, e perciò indica l’estremo nord.

SABINA: Come dice Apollonio Rodio.

ALESSIO: A proposito di Apollonio e del nostro tema di questa notte, l’amore. A lui si deve una delle pagine più belle circa il primo manifestarsi del fenomeno amoroso nell’animo di una ragazza, Medea, nel terzo canto delle Argonautiche.

SABINA: Davvero? Allora voglio andare a leggermelo. Già, ma dovrò aspettare un bel pezzo: circa otto mesi, finché non saremo ritornati dall’Antartide. Peccato che tu ti porti dietro solo Omero, Virgilio, Dante e la Bibbia.

ALESSIO: Be’, quelli mi stanno in una borsa insieme agli indumenti. Non posso mica andarmene al Polo Sud con una intera biblioteca greca e latina. Del resto, se ci tieni così tanto, puoi sempre tentare ad Invercargill, quando vi faremo tappa dopodomani, in qualche libreria. Ma è solo una piccola cittadina all’estremo sud della Nuova Zelanda, non aspettarti troppo. Oppure, ora che ci penso, anche qui sulla nave deve esserci una biblioteca di bordo; credo ce l’abbiano quasi tutte le navi adibite ai lunghi viaggi: ma, anche in questo caso, non sarà facile trovare proprio le Argonautiche.

SABINA: È un’idea. Ma intanto, non ne ricordi almeno qualche verso? Sono assetata anche delle briciole della tua "sapienza".

ALESSIO: Sì, "sapienza". Mi ci proverò, anche se la tua impertinenza meriterebbe un’altra risposta. Allora, vediamo… L’episodio più bello è quando Eros colpisce la giovane Medea con una delle sue frecce, al primo apparire di Giasone:

"… un muto stupore le prese l’anima…

la freccia ardeva profonda nel cuore della fanciulla.

… come una fiamma

… e il cuore, pur saggio,

le usciva per l’affanno dal petto; non ricordava nulla…

… e, smarrita la mente,

le morbide guance si tingevano di pallore e di rossore."

SABINA: Trovo che siano descritti molto bene gli effetti dell’amore su chi li sta vivendo per la prima volta.

ALESSIO: Bene. Ora torniamo a noi. La pausa è stata piacevole, ma sono ansioso di sentirti riprendere il discorso che avevi incominciato. Quello sul lato oscuro dell’amore.

SABINA: Vuol dire che anche in te c’è un lato oscuro.

ALESSIO: C’è in tutti.

SABINA: Anche in me?

ALESSIO: Sei la creatura più lunare e, al tempo stesso, più solare che abbia mai conosciuto. Incomprensibile, ma affascinante.

SABINA: Anche tu: orso, ma cavalleresco.

ALESSIO: Andiamo avanti.

SABINA: Sai, pensavo come fare per precisare meglio quell’intuizione, che nell’amore vi sia una componente del tutto non utilitaristica, anzi potenzialmente auto-distruttiva. Pensavo a te, a me e anche al misterioso Eridano. E m’è venuta alla mente l’immagine del fiume. Il fiume scende vorticoso attraverso la valle e poi si distende ampio, in pianura; ma sempre tende alla sua mèta. Tende al mare e vi si riversa, trovando al tempo stesso la pace e la sua fine. Questo, dunque, era lo scopo di tutto il suo scorrere: fondersi con le vaste acque del mare, immergervisi e smarrirsi, scomparire. Forse qualcosa di simile accade anche agli amanti. Cercano nella persona amata la propria realizzazione, il proprio compimento: ma anche il loro completo annullamento.

ALESSIO: In che senso?

SABINA: La loro fine come singoli individui. Per diventare parte di un tutto, di un nuovo organismo con due menti, due corpi, due sessi, anche. L’amante desidera fondersi, scomparire nel corpo e nell’anima dell’amato.

ALESSIO: Cosa c’è di potenzialmente auto-distruttivo, in questo? E come fai ad essere sicura che sia un impulso completamente non utilitaristico?

SABINA: Perché l’amante, in fondo, non desidera più vivere.

ALESSIO: Che cosa te lo fa pensare?

SABINA: Ha una ferita nel cuore, una ferita mortale. Anzi, in senso stretto è già morto. Solo che non lo sa.

ALESSIO: Tutto ciò è molto romantico. Troppo, direi, perfino per una ragazza che ha amato una volta sola nella vita.

SABINA. Amare è voler annullarsi nell’altro. E voler annullarsi non è un istinto di vita, ma un istinto di morte.

ALESSIO: Eppure, si dice che l’amante vorrebbe quasi divorare l’amato; che i baci siano una forma sublimata dell’istinto cannibalesco. Ora, voler divorare qualcuno è l’esatto contrario dell’istinto di morte: è voler vivere una vita più piena, fortificata dalle virtù di colui che si vuol mangiare.

SABINA: Apparentemente.

ALESSIO: E invece, secondo te…?

SABINA: A me pare che in fondo a ogni desiderio omicida vi sia, a ben guardare, un istinto di annichilimento, una nostalgia della fine.

ALESSIO: Era questo che provavi, risvegliandoti quel mattino al canto degli uccelli e trovando Elisa al tuo fianco?

SABINA: Forse. Ma quando si è innamorati non ci si analizza poi tanto, almeno di solito; figuriamoci a quattordici anni.

ALESSIO: E allora, sulla base di quali elementi sostieni che esiste una tale nostalgia della fine?

SABINA: La fine, è quello che tutti cerchiamo. Sia quando divoriamo, sia quando ci lasciamo dirorare. Quando lottiamo e quando ci arrendiamo. Quando amiamo e quando odiamo.

ALESSIO: Che cosa te lo fa credere?

SABINA: Te l’ho detto: perché siamo dei fiumi. Tutto ciò che ha un principio, una sorgente deve avere una foce, quindi una fine.

ALESSIO: Ma non necessariamente tutti vogliono la propria fine.

SABINA: Inconsciamente sì, invece.

ALESSIO: lo credi davvero?

SABINA: Ne sono certa. Ma non so spiegartelo.

ALESSIO: Anch’io, secondo te, cerco la fine?

SABINA: Decisamente. E hai quasi fretta. Altrimenti, non persisteresti nella follia di amare la donna sbagliata.

ALESSIO: No, tu saresti la donna giusta.

SABINA: Non lo vedi che è il tuo istinto di morte a spingerti verso di me?

ALESSIO: Anche ammesso che sia così, non puoi farne una legge universale.

SABINA: No, non posso dimostrarlo.

ALESSIO: Ma perché ci tieni tanto a crederlo?

SABINA: Guarda che, per me, non è una cosa negativa.

ALESSIO: L’istinto di morte?

SABINA: Se non l’avessimo, non saremmo che dei bruti. Gli animali non sanno di dover morire. Solo l’uomo lo sa. E deve fare i conti con questa consapevolezza. Ecco, forse nell’amore c’è anche questo: un prepararsi a morire. Non si dice, infatti, che l’orgasmo è come una piccola morte? Comunque, a me sembra che quando l’istinto di morte prende le vesti dell’amore, esso ha compiuto un gran balzo verso l’alto, si è nobilitato e sublimato. Poiché cercare la propria fine nell’amore, come un fiume che si versa nel mare, è una degna maniera di dare un senso alla propria vita e alla propria fine.

ALESSIO: Che strano. Cercavamo, l’altra notte, il senso profondo della vita, ed eccoci ora a parlare del senso da dare alla morte.

SABINA: Non devi stupirti, non c’è contraddizione. Siamo essere-per-la-morte, lo dicevi proprio tu.

ALESSIO: Citavo Heidegger.

SABINA: Comunque, ripeto, siamo gli unici esseri viventi che sanno di dover morire. Anzi, non tutti gli uomini lo sanno. I bambini, per esempio – che sono la parte migliore del genere umano – non lo sanno.

ALESSIO: Ti piacciono molto i bambini, vero?

SABINA: Moltissimo. Ma lasciami finire il ragionamento. Ora, il punto in discussione è il seguente: visto che non abbiamo la possibilità di scegliere la nostra nascita, possiamo tuttavia – volendo – scegliere di morire.

ALESSIO: Vero. L’uomo è l’unico animale che può scegliere il suicidio. Individualmente, voglio dire. Le migliaia di lemming che si gettano in mare non lo fanno per una "scelta" personale, ovviamente.

SABINA: Questa consapevolezza dà all’essere umano delle possibilità straordinarie. Prima fra tutte, quella del "senso" da dare alla propria fine. La foglia si stacca dal ramo nel vento d’autunno, ma non sa perché. Nemmeno il vecchio cane malato sa perché la sua vita stia finendo. L’uomo lo sa e s’interroga. Vorrebbe poter agire creativamente sul fenomeno morte, se non altro per riaffermare la sua "libertà" su un evento definitivo , irrevocabile che lo aspetta al varco. Ebbene, forse amare è un tentativo di agire creativamente rispetto allo scacco matto della morte.

ALESSIO: Nel senso di volerlo esorcizzare?

SABINA: Anche. Ma anche nel senso di anticiparlo. Annullandoci nell’amore, ci prepariamo alla realtà della morte. È una forma di apprendistato, basato sulla gradualità psicologica. È troppo duro dover imparare a morire di colpo, in una volta sola. C’è bisogno di andare un po’ a scuola, a scuola di morte. Ecco, forse l’amore fornisce una risposta a questa esigenza inconscia, ma fondamentale.

ALESSIO: Sabina, sei profonda.

ALESSIO: Non lo so. Forse sono tutte sciocchezze. Il bello è che non avevo mai pensato nulla di tutto ciò, prima d’ora.

SABINA: Vuoi dire che questi pensieri ti son venuti in mente stanotte, ora, tutti in una volta?

SABINA: Sì. È strano, vero?

ALESSIO: Forse il tuo inconscio ci stava già lavorando sopra, e chissà da quanto tempo.

SABINA: Già. È probabile.

ALESSIO: Comunque, hai detto delle cose che mi daranno materia su cui riflettere, nelle prossime notti.

SABINA: Del resto, se la memoria non m’inganna, nel Vangelo di Giovanni – durante l’ultima cena – Gesù pronuncia la frase: "Nessuno ha un amore più grande di colui che sacrifica la propria vita per i suoi amici." Parole profetiche, visto che di lì a poche ore lo avrebbero arrestato. Bene, questo del sacrificio supremo è il caso-limite: ma non c’è dubbio che l’amante è pronto a sacrificarsi totalmente per l’oggetto del suo amore; anzi, vede nella possibilità del sacrificio stesso una forma di felicità. Il che dimostra che amare è un po’ voler morire, voler cessare la propria vita individuale per entrare a far parte della vita dell’altro.

ALESSIO: Ma questo è, appunto, il caso-limite. Di norma, l’amante desidera vivere, non morire: vivere per sempre accanto all’amato.

SABINA: E voler vivere per sempre accanto all’amato – anzi, se possibile, "dentro" all’amato – non è forse, un poco, anche voler morire?

ALESSIO: Temo di non seguirti. Che vuoi dire?

SABINA: Dimmi: secondo te perché i Greci collocarono in cielo, sotto forma di costellazioni, gli eroi della loro mitologia?

ALESSIO: Per farli vivere eternamente.

SABINA: Per esempio?

ALESSIO: Be’, Castore e Polluce, i due fratelli, figli di Zeus e di Leda. Ma poiché Castore, il domatore di cavalli, era mortale, Polluce -il famoso pugile – chiese al suo divino genitore di poter rinunciare all’immortalità, per morire insieme all’amato fratello. Allora Zeus li pose in cielo per farli vivere insieme per sempre, inseparabili come avevano vissuto sulla terra.

SABINA: Lo vedi?

ALESSIO: Ora che mi ci fai pensare, anche Alcesti diede una sublime prova d’amore nei confronti di suo marito, Admeto. Quando tutti gli altri, compresi i suoi genitori ormai vecchi, rifiutano di morire al suo posto, la dolce sposa non esita neppure un momento e accetta di offrire la sua vita, affinché lui non perisca.

SABINA: In questo desiderio di donarsi, di annullarsi per la persona amata, a me sembra che vi sia un istinto di morte. Ma non è amore per la morte. È l’intuizione che solo perdendosi ci si potrà ritrovare. Ricordi? Abbiamo detto che le sole cose che possediamo veramente, sono quelle che doniamo. Le altre, quelle che vogliamo avere e che, alla fine, riusciamo a possedere, irrimediabilmente le perderemo. Perché non sono parte di noi, vengono da fuori: e come sono venute poi se ne vanno, senza che noi possiamo trattenerle.

ALESSIO: Certo ci sono dei ragionamenti.

SABINA: Ma non sei interamente persuaso.

ALESSIO: Non lo so, devo rifletterci sopra.

SABINA: Va bene. Comunque, sei stato proprio tu a sostenere che solo le cose donate ci appartengono veramente, e per sempre.

ALESSIO: Quindi, anche ammesso che noi, amando, cerchiamo inconsapevolmente la nostra fine, la cerchiamo solo per ritrovarci, non per annullarci.

SABINA: Per "ritrovarci", ma su un altro piano. Dal punto di vista del qui e ora, se così posso dire, è un salto verso l’annullamento.

ALESSIO. Che cosa intendi parlando di un "altro piano"? Un altro piano, rispetto a che cosa?

SABINA: Un altro piano di esistenza, e quindi un altro piano di realtà. La nostra esistenza può svolgersi su piani differenti, e ciascuno di essi configura un altro liello di realtà. Dal più basso, quello dell’uomo immerso negli istinti più primitivi, al più alto, quello della massima evoluzione interiore.

ALESSIO: Come i dieci mondi dei buddhisti, allora. A ogni "mondo", corrisponde un differente livello di evoluzione spirituale.

SABINA: Comunque, alla base dell’istinto di auto-annullamento c’è l’idea, inconscia, che al termine di questo "salto nel buio" non ci perderemo per sempre, ma che anzi, in qualche modo, ci ritroveremo in maniera definitiva.

ALESSIO: Spiritualismo!…

SABINA: No, guarda, posso farti un esempio concreto per chiarire meglio questo pensiero. Il fiume che corre al mare, quando lo raggiunge, vi s’immerge e vi si perde. Ma poi l’acqua del mare finirà per evaporare, e anche l’acqua del fiume entrata nel mare farà lo stesso. Così, alcune molecole d’acqua di quel fiume, evaporando dal mare, contribuiranno a formare le nubi e cadranno, sotto forma di pioggia o neve, proprio nelle acque del fiume donde si erano mosse, all’inizio del ciclo.

ALESSIO: Però…

SABINA: Qualcosa che non va?

ALESSIO: No, per quanto riguarda l’esempio del fiume e della pioggia, è tutto chiaro.

SABINA: Che cos’è, allora, che non ti convince?

ALESSIO: Mi sembra che ciò che tu chiami "istinto di morte" sia una specie di nostalgia d’infinito e, quindi, d’immortalità. Non è così?

SABINA: Sì, è così. L’altra faccia dell’istinto di conservazione, che vuole vivere a tutti i costi. Ma vivere è anche, un po’, morire: ogni giorno si muore, fin dall’istante della nascita. La vita è un lento, graduale morire. Non si muore in un attimo: ci si impiega tutta la vita. Sei d’accordo su questo punto?

ALESSIO: Sì, indubbiamente.

SABINA: E dunque, sarà vero anche il contrario: morire, è un po’ anche tendere verso la vita.

ALESSIO: Piano, piano. A partire da qui, non ti seguo più tanto. Vuoi spiegarti meglio?

SABINA: Non abbiamo appena detto che morire non è cosa di un singolo istante, ma un processo graduale che si svolge lungo l’intero arco della vita?

ALESSIO: Sì, certo.

SABINA: Allora, morire non è un evento, ma un processo.

ALESSIO: D’accordo.

SABINA: Se è un processo, dovrà tendere verso qualcosa.

ALESSIO: E perché mai? Tu mi fai rientrare il finalismo dalla finestra, dopo che lo avevamo cacciato dalla porta.

SABINA: Ma no, la tua avversione per il finalismo ti porterà alla paranoia. Ho detto "tendere" come avrei potuto dire "consiste nel realizzare una determinata funzione". Questo modo di esprimersi ti è più gradito?

ALESSIO: Sì, purché non sia solo un gioco di parole.

SABINA: Lo vedremo subito. Tu, per esempio, come definiresti un processo?

ALESSIO: Un processo è lo svolgimento ordinato di un fenomeno naturale.

SABINA: Va bene. E, secondo te, la morte è un processo?

ALESSIO: Sì.

SABINA: Qual è il fenomeno naturale che essa realizza?

ALESSIO: L’esaurimento del fenomeno vita.

SABINA: E questo, non è un gioco di parole?

ALESSIO: Perché?

SABINA: Giudica un po’ tu. Hai detto che la morte realizza la fine della vita. Cioè, che la morte è la causa del finire della vita. Ma la morte non è la causa, bensì la conseguenza dell’esaurirsi del fenomeno vita. Non si devono scambiare le cause con gli effetti.

ALESSIO: Hai ragione.

SABINA: Dunque, ti rifaccio la domanda: se la morte non è un evento, ma un processo, in che cosa consiste?

ALESSIO: Nel sostituire uno stato di disordine a uno stato di relativo ordine. Ossia, in un aumento dell’entropia.

SABINA: Vedo che vuoi ritornare sul solido e apparentemente incontrovertibile terreno dei fatti. Dei fatti scientificamente misurabili e verificabili.

ALESSIO: Diciamo che mi ci sento più a mio agio.

SABINA: … nella tua idiosincrasia anti-spiritualista. Va bene. E nel mondo fisico, esistono i concetti di creazione e distruzione?

ALESSIO: No, solo quelli di trasformazione.

SABINA: Dunque, la materia non si crea né si distrugge. La morte, perciò, non significa una distruzione vera e propria.

ALESSIO: Non implica una distruzione, bensì una trasformazione della materia. Ma per l’individuo in quanto tale, le cose stanno altrimenti.

SABINA: Come! Un materialista come te non mi verrà a dire che l’individuo è altra cosa dalle molecole che lo costituiscono?

ALESSIO: Stai diventando una dialettica agguerrita e temibile, Sabina.

SABINA: Scorgi un qualche artificio linguistico in ciò che ho detto?

ALESSIO: Vediamo. Tu che sei una biologa, come definiresti il concetto di individuo?

SABINA: Be’, in biologia il concetto di individuo viene praticamente a coincidere con quello di organismo.

ALESSIO: Va bene; allora, come definiresti il concetto di organismo?

SABINA: Un organismo è un essere vivente, costituito da parti e organi regolarmente disposti e collegati, in maniera da formare un tutto funzionale.

ALESSIO: Allorché quelle parti e quegli organi vengono alterati e cessano di costituire un tutto funzionale, meritano ancora la denominazione di organismo?

SABINA: No.

ALESSIO: E la morte, non implica un deterioramento e una graduale dissoluzione di quelle parti e di quegli organi?

SABINA: Ovviamente.

ALESSIO: Dunque, la materia dell’organismo continua ad esistere, sotto altre forme; ma l’organismo, in quanto tale, ha cessato di esistere.

SABINA: Sì.

ALESSIO: Tu, però, un minuto fa hai affermato che la morte non significa una distruzione vera e propria.

SABINA: È vero, l’ho detto.

ALESSIO: Dunque?

SABINA: Permettimi di risponderti facendo a mia volta una domanda. Ricordi quello che dicemmo la nostra prima notte "filosofica", la notte di Fomalhaut?

ALESSIO: Sì, credo di sì.

SABINA: Tu sostenevi che la vita è un fatto, un evento; io, che è un valore.

ALESSIO: Sì, ricordo. Ma mi pare anche di aver detto che la vita, il concetto di vita, è solo un’astrazione. Nella realtà effettuale, esistono solo singoli esseri viventi.

SABINA: Ogni concetto è un’astrazione. È la "forma" ideale sotto la quale raggruppiamo la molteplicità innumerevole dei fenomeni. Ma non è un qualcosa di puramente fittizio, di ideale.

ALESSIO: Pensi di no?

SABINA: Secondo te, esistono i colori?

ALESSIO: Esistono dei corpi che, per effetto della luce, ci appaiono colorati. Nel buio totale, i corpi sono privi di colore.

SABINA: Ma il rosso, il giallo, il blu esistono o no?

ALESSIO: No. Esistono dei corpi che ci appaiono rossi, gialli e blu. E anche sui loro colori facciamo fatica a metterci d’accordo, come l’esempio del daltonico ci mostra.

SABINA: Non c’è il giallo?

ALESSIO: No.

SABINA: E io ti dico che, se prendo un prisma e scompongo la luce solare, mi appariranno distintamente i sette colori dello spettro solare, giallo compreso.

ALESSIO: Non il giallo, ma la luce gialla.

SABINA: E cos’è la luce? Non è un corpo.

ALESSIO: È vero che la teoria corpuscolare della luce perde sempre più terreno rispetto alla teoria ondulatoria.

SABINA: La luce è una radiazione, allora.

ALESSIO: Sì.

SABINA: Quindi il giallo è una radiazione di luce gialla?

ALESSIO: Più esattamente, una radiazione luminosa la cui lunghezza d’onda non viene assorbita da un determinato corpo, che pertanto ci appare giallo.

SABINA: Ma la luce gialla presente nello spettro solare?

SABINA: D’accordo, vedo che non posso negare che una tale radiazione esista anche indipendentemente dai corpi.

ALESSIO: Quindi il giallo esiste?

SABINA: Pare di sì.

SABINA: Auff!…,che fatica! Vuoi che proviamo anche coi numeri?

ALESSIO: Proviamo.

SABINA: Esiste l’uno? O il due, il tre, eccetera?

ALESSIO: No.

SABINA: Perché?

ALESSIO: Perché esistono solo un oggetto, due oggetti, tre oggetti.

SABINA: Ma il concetto di uno?

ALESSIO: Posso pensarlo, ma questo non vuol dire che esista fuori degli oggetti concreti. Posso pensare anche un unicorno, o un cavallo alato.

SABINA: Pure, pensa al Big Bang.

ALESSIO: Cosa vuoi dire?

SABINA: Esiste il punto?

ALESSIO: No. È un’astrazione della geometria.

SABINA: E tuttavia, al principio dell’universo, tutta la materia e tutta l’energia erano concentrate in un solo punto.

ALESSIO: Così dicono.

SABINA: Dunque, il punto non è solo un’astrazione.

ALESSIO: Forse.

SABINA: E il punto esprime l’uno. O no?

ALESSIO: Diavolo d’una Sabina. Mi arrendo, è così.

SABINA: I concetti, dunque, non sono astrazioni nel senso di "cose immaginarie". L’idea di albero non è immaginaria. Esprime il complesso di un essere vivente dotato di fusto, foglie e radici. Poco importa se è un olmo o una quercia o un cipresso.

ALESSIO: Ma è proprio questo il punto. Perché un albero reale deve essere, per forza, o un olmo o una quercia o un cipresso; non può essere un albero, per così dire, generico e indifferenziato.

SABINA: Sì, ma prima di essere un olmo – per esempio – è un essere vivente dotato di fusto, foglie e radici.

ALESSIO: Cosa vuoi dire con "prima"?

SABINA: Voglio dire non in senso temporale, ma in senso concettuale.

ALESSIO: Cioè?

SABINA: Cioè, la classe degli esseri viventi caratterizzati da fusto, foglie e radici è un insieme più ampio di quella degli olmi, delle querce e dei cipressi. Un cipresso deve essere un albero, un albero può anche non essere un cipresso.

ALESSIO: Allora va bene.

SABINA: Vuol dire che riconosci l’esistenza dei concetti, come enti reali e non come illusorie astrazioni della mente?

ALESSIO: Sì. Riconosco l’esistenza dei concetti come dati reali della mente: sono reali, ma solo all’interno della nostra mente. Comunque, ammetto di buon grado che mi hai fatto, in parte, cambiare idea.

SABINA: Fin qui, allora, siamo d’accordo. Ora torniamo al concetto di vita. È un qualcosa di reale?

ALESSIO: Vuoi dire, a prescindere dai singoli esseri viventi?

SABINA: A prescindere, ma non nel senso che possa esistere l’idea della vita in assenza di qualunque essere vivente. È chiaro che l’idea di vivente scaturisce dall’effettiva constatazione che esistono organismi viventi.

ALESSIO: In che senso, allora?

SABINA: Nel senso letterale: cioè, che si possa "pensare" l’idea di vita, anche separatamente – sul piano logico – dall’idea delle singole forme viventi. Che si possa pensare un fenomeno "vita" che non si identifica con un particolare essere vivente, ma che, naturalmente, li comprende tutti: passati, presenti e futuri.

ALESSIO: Allora sì.

SABINA: Bene. Siamo quasi arrivati in vista dell’obiettivo cui tendeva tutto il mio ragionamento. Ti chiedo: secondo te, stando a tutto ciò che abbiamo detto finora, si può ammettere il concetto di morte?

ALESSIO: "Di morte", a prescindere – nel senso ora enunciato – dalle morti particolari dei singoli esseri viventi?

SABINA: Sì.

ALESSIO: Dopo quanto abbiamo detto, sembra di sì.

SABINA: C’è, dunque, un evento – anzi, un processo – che si chiama morte, che non si identifica con alcuna morte particolare dei singoli organismi, ma tutti li comprende; che comprende, cioè, tutte le morti individuali.

ALESSIO: Un momento, mi sorge un’obiezione.

SABINA: Quale?

ALESSIO: Che la morte sia semplicemente un non-essere. Cioè, non il contrario della vita, ma qualcosa che non è; e, pertanto, della quale non si può nemmeno parlare. Se così fosse, crollerebbe tutto il nostro ragionamento e la morte sarebbe non già un concetto, ma un falso concetto. Del resto, Epicuro diceva appunto che la morte non ci deve spaventare, perché quando c’è lei, non ci siamo noi; e quando ci siamo noi, non c’è lei.

SABINA: È un’obiezione ragionevole.

ALESSIO: Come se ne esce?

SABINA: Che cosa propone il filosofo?

ALESSIO: Il filosofo è u po’ confuso, e passa la palla alla biologa.

SABINA: Ti affidi alla biologia?

ALESSIO: Bisogna pure affidarsi a qualcosa: meglio la biologia che le favole dello spiritualismo.

SABINA: Va bene. Ecco la definizione biologica della morte: essa è la cessazione delle funzioni vitali di un organismo.

ALESSIO: Tutto qui?

SABINA: Che cosa ti aspettavi? Sei tu che ha voluto rimanere sul solido terreno dei fatti.

ALESSIO: Già. Ma perché gli individui muoiono?

SABINA: A causa dell’invecchiamento delle cellule.

ALESSIO: Ma le cellule non si rinnovano continuamente? Abbiamo detto che c’è addirittura un ricambio totale, ogni sette anni – nel caso dell’uomo.

SABINA: Infatti, le singole cellule sono potenzialmente immortali. Gli organismi unicellulari si riproducono per scissione, dopo di che diventa impossibile distinguere la "madre" dal "figlio". Questo è il caso dell’ameba, per esempio. E possono vivere indefinitamente, almeno nelle condizioni adatte.

ALESSIO: Ma gli organismi muoiono.

SABINA. Gli organismi sono formati da milioni e milioni di cellule. Essi sono macchine estremamente complicate, troppo complicate. Gli organi si logorano con l’uso; le singole cellule si rinnovano, ma non abbastanza in fretta da compensare l’invecchiamento dell’insieme. Sopraggiungono inconvenienti sempre più frequenti e un progressivo irrigidimento della materia organica. Pensa alla differenza fra la frattura di un osso in un bambino e lo stesso evento, in un anziano di ottant’anni.

ALESSIO: E la morte, in biologia, è un evento?

SABINA: Certo.

ALESSIO: O un processo?

SABINA: Un processo che culmina in un evento.

ALESSIO: Perciò un qualcosa di reale, come lo è la vita?

SABINA. Senza dubbio un qualcosa di reale. Come lo è la vita.

ALESSIO: Dunque, non è un non-essere.

SABINA: No.

ALESSIO. Il non-essere è, per esempio, non esistere. Per esempio, desiderare dei figli e non averne. Oppure aspettare la pioggia, e non riceverla. Questo è non-essere: una possibilità che non si realizza. Invece la morte non è di questo genere, non è una possibilità che non si realizza. È un evento, fra l’altro prevedibile – anzi, certo – fin dalla nascita. Bene, mi hai convinto anche su questo punto.

SABINA: Posso riprendere il mio ragionamento e portarlo a termine?

ALESSIO: Certo.

SABINA: Esiste la vita ed esiste la morte. Il fenomeno vita tende al fenomeno morte. Il fenomeno morte è caratterizzato da una trasformazione fisica e chimica della materia e dalla dissoluzione degli organismi. Ora, pongo la questione: verso che cosa tende il fenomeno morte?

ALESSIO: Sabina, non ricadere nel linguaggio finalistico.

SABINA: Mi correggo. Il fenomeno vita ha come esito inevitabile il fenomeno morte. Va bene?

ALESSIO: Sì.

SABINA: Il fenomeno morte ha un qualche esito costante?

ALESSIO: Lo hai già detto tu: la trasformazione fisico-chimica della materia e la dissoluzione dell’organismo.

SABINA: Ma il ciclo vita-morte finisce così?

ALESSIO: Cosa vuoi dire?

SABINA: Voglio dire: la dissoluzione degli organismi chiude definitivamente il processo della vita?

ALESSIO: No, naturalmente. Dalla dissoluzione degli oreganismi avrà origine la vita di nuovi individui. Gli alberi caduti e putrefatti alimentano l’humus del terreno e renderanno possibile la nascita di nuove piante; e così via. Il motore della nostra nave, in questo momento, sta sfruttando l’energia accumulata milioni di anni fa nella putrefazione di grandi foreste preistoriche.

SABINA: Allora, nel ciclo vita-morte non si può separare nettamente il momento della morte da quello della vita?

ALESSIO: Non più di quanto si possa separare con assoluta precisione il momento della vita da quello della morte. Per esempio, so che una cavalletta decapitata continua a dar segni di vita anche ore dopo la "morte". Esseri umani creduti morti escono dal coma e tornano in vita, a volte dopo anni. Quando cessa, esattamente, la vita? Quando il cuore non batte più? Ma certi yogi dell’India e del Tibet sono in grado di arrestare volontariamente il battito cardiaco e di farsi seppellire sotto terra per ore, giorni e settimane; poi si risvegliano, e il cuore riprende a funzionare. Oppure la vita cessa quando si arresta il cervello? Ma abbiamo visto che si può uscire dal coma dopo anni; e allora? Nessuno sa dire con assoluta certezza quando finisce la vita; nemmeno i biologi. Dico bene?

SABINA: Vero. E allora, forse il nostro inconscio non percepisce necessariamente l’evento della morte come un annientamento totale, ma piuttosto come la condizione necessaria per un "ritorno" che realizzi il ciclo della vita nella sua interezza.

ALESSIO: Eh! Si fa presto a dir così. Ma io ti risponderò con le parole dell’ombra di Achille ad Ulisse, quando quest’ultimo, avendolo incontrato nell’Ade, aveva cercato di consolarlo della morte prematura:

"Non venirmi a lodare la morte, magnifico Odisseo;

vorrei, pur di star sulla terra, essere servo di un altro,

di un povero che non abbia beni di fortuna,

piuttosto che essere il re di tutti i pallidi morti."

SABINA: Ma io non ti voglio lodare la morte, Alessio; il cielo me ne guardi. Dico che gli atomi dei nostri corpi, forse, un giorno lontano ritorneranno a vivere, se è vero che sempre la materia si trasmuta di cosa in cosa.

ALESSIO. Sì, teoricamente questo è possibile, a patto che la materia di cui è fatto l’universo sia finita ed il tempo, invece, infinito. Abbiamo già visto che l’idea dell’"eterno ritorno" di Nietzsche poggiava, press’a poco, su queste premesse "probabilistiche".

SABINA. Non potremmo affermare, allora, che il fenomeno morte ha come esito naturale e necessario il fenomeno vita?

ALESSIO: Sì. Se non vi fosse la morte, non potrebbero nascere nuovi individui.

SABINA: Altri individui? Cioè, diversi da quelli già morti?

ALESSIO: Altri, sì. Diversi.

SABINA: E l’eterno ritorno? E l’eternità del tempo coniugata con l’infinità della trasformazione della materia?

ALESSIO: Certo, forse anche gli stessi individui. Chissà. Ma questa è solamente un’ipotesi.

SABINA: Sicuro, un’ipotesi. Ma irragionevole?

ALESSIO: No, devo ammetterlo. Possibile.

SABINA: Allora, correre verso la fine è anche un po’ affrettare il ciclo complessivo che ci riporterà in vita.

ALESSIO: Eh, piano, il passo è lungo! Ora manca solo che tu mi parli, come i cattolici, della resurrezione dei corpi!

SABINA: Io parlo di un istinto inconsapevole che, nell’amore, ci spinge verso la fine di noi stessi; ma con la segreta nostalgia e con l’inconscio presentimento di un "ritorno", di un nuovo inizio. Così come il tramonto reca la premessa e la tacita aspettazione del nuovo giorno; e l’inverno, quella della primavera.

ALESSIO: Secondo me, nessuno desidera coscientemente la morte – nemmeno i mistici; ma, una volta giunti presso la sua soglia, chi non vorrebbe ritornare indietro e ricominciare la pena del vivere? Anche su questo, la parola forse più profonda l’ha detta Virgilio. Quando Enea, nei Campi Elisi, vede le anime affrettarsi per tornare in vita entro nuovi corpi, meravigliatissimo chiede all’ombra di suo padre Anchise:

"Quae lucis miseris tam dira cupido?,cioè

"Infelici, cosè mai questa brama funesta della luce", ossia della vita?

Perché sembra incredibile che si possa desiderare di rivivere la propria vita; Leopardi lo negava addirittura. La vita che si vorrebbe tornare a vivere non è mai la propria, ma un’altra, diversa e – si spera – molto più felice.

SABINA: Prima, con Achille, mi dici di non farti l’elogio della morte; adesso, con Enea, disprezzi il desiderio di tornare a vivere? Io non ti capisco.

ALESSIO: Omero, il "primitivo", esprime l’orrore istintivo per la morte. Ma Virgilio, figlio di un’epoca còlta, esprime la ripugnanza a riprendere sulle spalle il fardello della vita, quando si sia potuto finalmente deporlo. Anche per questo, Virgilio è stato sentito come un precursore del cristianesimo e non più – ricordi? – come autentica espressione del mondo classico. Nietzsche, il più "pagano" dei filosofi moderni, la pensa all’opposto, e afferma che noi dobbiamo dire infinitamente sì alla vita: alla nostra propria vita, oggi e infinite altre volte.

SABINA: Può darsi. Ma il nostro istinto non fa questi sottili ragionamenti. Ha orrore della morte, è vero; pure, in qualche modo misterioso ne è anche attratto. E questa attrazione io credo che sia una componente dell’amore. Amare veramente, è voler uscire da sé, spogliarsi di sé, anzi voler fare dono di sé; in altre parole, morire. Non pretendo che amare sia solo questo; dico che c’è anche questa componente, fra le altre.

ALESSIO: Mi hai dato parecchia materia su cui riflettere, per i prossimi giorni – e le prossime notti.

SABINA: Ne sono lieta.

ALESSIO: L’idea della fine come una purificazione, come un misterioso ritorno. Sì, tutto ciò è affascinante.

SABINA: Come la barca dei pescatori che rientrano nel porticciolo tranquillo, a sera, dondolandosi sullo specchio d’acqua quieto.

ALESSIO: Ho scoperto che sei una scienziata con l’anima di una poetessa.

SABINA: Bene, ti ho solo esposto la mia idea sull’amore.

ALESSIO: Che, forse, spiega perché non ti sei mai più innamorata.

SABINA: In che modo?

ALESSIO: Se amare è un po’ anche morire… Insomma, questo va contro al nostro istinto fondamentale, quello di conservazione.

SABINA: È un fatto che le donne frigide hanno, in sostanza, paura.

ALESSIO: Ma tu non sei per niente frigida.

SABINA: Ora basta psicanalizzarmi. Parliamo di te, piuttosto. Me l’avevi promesso, ricordi?

ALESSIO: Ci tieni proprio?

SABINA: E non fare quella faccia da condannato a morte.

ALESSIO: Da dove devo incominciare?

SABINA: Davvero non ricordi la domanda che ti avevo fatto? Ti avevo domandato se non hai mai conosciuto l’amore. Esclusi i presenti, si capisce.

ALESSIO: È una forma raffinata di tortura, quella cui mi stai sottoponendo. Devo parlare dell’amore, proprio con te; anzi devo parlare dei miei amori, ma escludendoti dal discorso.

SABINA: Se devo proprio essere sincera, non ho ancora capito se parli sul serio o per scherzo, quando dici di essere innamorato di me.

ALESSIO: Perché dovrei scherzare su questo?

SABINA: Non lo so. Magari per lusingarmi…

ALESSIO: E per quale ragione dovrei farlo?

SABINA: A tutte le donne piace essere lusingate. E tu, in realtà, sei un tipo cavalleresco.

ALESSIO: Veramente tu pensi che potrei dirti di amarti solo per galanteria, come un qualunque cicisbeo del Settecento?

SABINA: No.

ALESSIO: E allora?

SABINA: In realtà, il pensiero che tu mi ami mi lusinga moltissimo, ma mi crea anche forti sensi di colpa.

ALESSIO: Frègatene dei sensi di colpa.

SABINA: Facile dirlo. Ma non posso fregarmene allo stesso modo anche di come stai. Perché ora ci troviamo in una situazione in cui io godo di tutti i vantaggi. Sono gratificata al massimo da uno che, in cambio, non mi chiede nulla; e tu hai tutti gli svantaggi, o per meglio dire tutti i rischi. Tu ti esponi, ti metti in gioco, sei sincero fino in fondo; io posso giocare al coperto.

ALESSIO: Lo so bene che non te ne freghi. Non mi ami, e basta. Non ne hai il minimo obbligo, è chiaro. Parliamo d’altro.

SABINA. Sì, è meglio. Anche perché non è vero che non ti amo: io ti amo, a mio modo; ma come so e come posso. Non come una donna ama il suo uomo, il perché lo sai bene. Ma sarebbe un’ipocrisia dire che tu, per me, sei solo un carissimo amico. No, sei molto di più. Ma non posso ricambiare il tuo amore come donna; quindi, preferirei che tu fossi sciolto da un sentimento che ti porterà solo frustrazione e sofferenza. È complicato, è una situazione complicata. Ma ne abbiamo già parlato; e, se per te va bene così, non torniamoci sopra.

ALESSIO: Comunque, non voglio eludere la tua domanda. Tu mi hai dato una grande prova di fiducia, raccontandomi di quel giorno lontano in cui hai conosciuto l’amore. Ora quella fiducia io la voglio ricambiare. Perciò, preparati ad ascolatre un racconto abbastanza lungo.

SABINA. Sono tutt’orecchi.

ALESSIO: Tu mi hai parlato di una ragazza di quattordici anni che apprezzava la natura, le cose semplici, ed era affascinata dalla bellezza. Io ti parlerò di un giovane di ventitre anni, idealista, sognatore, incredibilmente ingenuo.

SABINA: Alessio?

ALESSIO: Chiamiamolo Alessio, se vuoi. Ma era diverso da me. E la differenza principale era, appunto, che si faceva un po’ troppe illusioni.

SABINA: Non è male, credere nelle cose.

ALESSIO: Forse. Ma è masochistico prenderle troppo sul serio. Comunque, nessun pentimento.

SABINA: Ne sei sicuro?

ALESSIO: Sì, perché se fossi pentito sarei ancora quell’Alessio di tanti anni fa. Invece sono un’altra persona.

SABINA: Vai avanti. Non t’interromperò più.

ALESSIO: Alessio coltivava più d’una passione. La musica: suonava l’organo. Il sapere, specialmente nell’ambito filosofico. E la giustizia sociale, perciò la politica. Ma a ben guardare, in questa apparente eterogeneità vi era un elemento unificatore: la ricerca, anzi quasi l’ossessione della purezza. L’aspirazione a raggiungere ciò che è puro, immacolato, vergine. Un residuo di educazione religiosa? Molto probabilmente. Del resto, per poter suonare l’organo si deve frequentare la Chiesa per forza. Non c’è altro da fare. Perché sorridi?

SABINA: Vuoi proprio saperlo?

ALESSIO: Sì.

SABINA: Non vorrei farti arrabbiare, però.

ALESSIO: Non mi arrabbierò.

SABINA: Da quando ti conosco ho sempre pensato che Alessio, l’ateo, abbia in effetti un animo naturaliter religiosus.

ALESSIO: Va bene. Ma io ti sto parlando di quell’altro Alessio, il giovane entusiasta senza macchia e senza paura. Una bella persona, tutto sommato (cosa che io non pretendo certo di essere). Che aveva, non dimenticarlo, quindici anni e venti chili meno di me; e, soprattutto, molte grandi e nobili idee di purezza nella testa.

SABINA: A quell’epoca, Sabina aveva quattordici anni e forse molte cose erano ancora aperte e possibili nella sua vita. Le sarebbe piaciuto incontrare quel giovanotto, lei aveva sempre nutrito un debole per gli idealisti.

ALESSIO: Non, a quell’epoca Alessio non era in Italia. Era andato a vivere in Sud America, dove erano nati i suoi genitori. E Sabina, proprio allora, aveva avuto la rivelazione dell’amore tra le braccia di una ragazza. Una impossibilità geografica e una impossibilità psicologica: direi che ce n’è abbastanza per dire che Alessio e Sabina non erano una coppia possibile. Forse andavano in cerca delle stesse cose, forse anche – è una cosa strana, a pensarci – si cercavano senza saperlo; ma, se esistesse una cosa come il destino, bisognerebbe dire che nei suoi misteriosi labirinti era stato deciso altrimenti.

SABINA: E che ci faceva, così lontano?

ALESSIO: Primo, doveva schivare le conseguenze di una certa faccenda politico-giudiziaria in cui, pur non essendo implicato, era rimasto coinvolto per via di certi amici. L’aria si era fatta pesante, c’era odor di manette. Secondo, problemi di salute. Si imponeva un cambiamento di clima: Alessio doveva rimettersi da una malattia e aveva bisogno di un clima più asciutto e più caldo. Terzo, il mito delle origini: voleva vedere i luoghi della sua famiglia, emigrati in quel Paese prima che lui nascesse, e che quindi non aveva mai visto. E poi, forse, qualche cosa d’altro, che lo aveva spinto oscuramente a partire, il più lontano possibile…

SABINA: Ma che cosa?

ALESSIO: Sentiva un’inquietudine, una insofferenza, dovute forse a tante piccole delusioni che, sommate insieme, formavano un bagaglio abbastanza scomodo e fastidioso. Gli era sembrato indispensabile voltar pagina, ricominciare daccapo. E, come tutti gli ingenui, aveva creduto che spostarsi fisicamente, meglio se abbastanza lontano, avrebbe influito positivamente in tal senso.

SABINA: Ma non era vero.

ALESSIO: All’inizio sembra di sì, ma ben presto ci si accorge che era solo un’illusione e che le cose ritornano, identiche a prima. In quei casi non è il posto che non va, sei tu. Sembra semplice, no? Eppure è così difficile capirlo, prima dif arne la prova.

SABINA: Dov’era andato a cacciarsi, esattamente?

ALESSIO: Aveva dapprima girato un po’, e alla fine aveva trovato un incarico temporaneo all’Università di San Paolo del Brasile.

SABINA: E poi, che accadde?

ALESSIO: Anche quella sera se ne stava tornando a casa, situata all’estrema periferia, con la sua scassata automobile vecchio modello. Era una sera d’agosto, cioè – nell’emisfero australe, come per noi qui, ora – di pieno inverno. Aveva piovuto per tutta la giornata e solo allora le grandi nuvole scure cominciavano ad aprirsi verso occidente, lasciando filtrare la luce arancione del tramonto. La vecchia automobile d’occasione scivolava lungo il viale largo, diritto, interminabile, sull’asfalto lucido di pioggia. Ai due lati case e grattacieli, e poi case sempre più basse, sempre più sporche, sempre più misere – sempre più spesso intervallate da campi e baracche di legno e paglia. E sempre la solita folla di barboni, di prostitute, di travestiti, di ragazzini, i niños de rua. Gente che frugava nei bidoni della spazzatura, oscene baldracche decrepite tutte dipinte, ladri e protettori. E finocchi. Alessio la odiava quella città, quella periferia. Gli erano bastati pochi mesi per prenderla in odio, e già gli pareva di starci peggio che in prigione. Quella sporcizia, quei cattivi odori, tutti quei negri dall’aria sospetta e miserevole, tutti quei venditori di merce di contrabbando gli facevano pena, ma anche fastidio e ripugnanza. Devi sapere che Alessio, con la sua mentalità "nordica", preciso e pieno di senso del dovere, in quella metropoli sub-tropicale, caotica e fantasiosa, si sentiva particolarmente fuori posto. Che ci faceva un suonatore d’organo, un innamorato di Bach in una città più africana che americana, dominata da indiavolati ritmi negri e portoghesi? Un amante delle Alpi scintillanti di neve, delle gelide albe di montagna, in quel rosso tramonto tropicale ombreggiato dalle palme?

SABINA: Non poteva tornare in Italia, o non voleva?

ALESSIO: Fisicamente era guarito del tutto, e anche la faccenda giudiziaria si era risolta. In effetti avrebbe potuto tornare, se lo avesse voluto. Il fatto è che non ne aveva voglia.

SABINA: Ma se odiava quella città!

ALESSIO: Eh, ma il nostro amico era un tipo complicato.

SABINA: Qualcosa lo tratteneva?

ALESSIO: No.

SABINA: Allora… qualcuno?

ALESSIO: Probabilmente sì. Ma lui, ancora, non lo sapeva.

SABINA: Come sarebbe?

ALESSIO: Aveva conosciuto una ragazza, Ileana, una romena. Era impiegata al consolato del suo Paese, ma non l’aveva conosciuta lì.

SABINA: Era bella?

ALESSIO: Non saprei. Certo non era un tipo vistoso; ma a lui piaceva. Era nata un’amicizia, ma nulla più. Si vedevano qualche volta, facevano quattro chiacchiere bevendo qualcosa al bar. Erano due solitari con molte cose in comune, che provavano un’istintiva simpatia reciproca. Ogni tanto la nostalgia dell’Europa li spingeva a cercarsi, a uscire per un’ora dalle loro solitudini. Il fatto che fossero un uomo e una donna era secondario: erano due amici, due persone un po’ timide e riservate, che si trovavano bene insieme.

SABINA: Si amavano?

ALESSIO: No, te lo ripeto: era un’amicizia cameratesca. Lei sognava la sua Moldavia boscosa, lui metteva su la Toccata e fuga in re minore di Bach, e insieme maledicevano il Brasile e tutta l’America Latina: i suoi odori e i suoi sapori, la sua storia e la sua geografia, il suo passato e il suo avvenire. E la sua sensualità, la sua promiscuità.

SABINA: Davvero odiavano il Brasile così tanto?

ALESSIO: Forse no. Alessio, comunque, sotto sotto lo amava. Ma ciò faceva parte delle sue contraddizioni. E poi, l’odio per l’America Latina forniva loro un argomento comune di conversazione.

SABINA: Avevano così pochi soggetti di cui parlare?

ALESSIO: No, ma l’indolenza dei Tropici stava incominciando a contagiarli. È comodo avere un odio in comune. Ci si sente meno soli.

SABINA: Capisco. Ma non vuoi ritornare a quell’interminabile viale di periferia, all’asfalto bagnato, alla luce arancione del tramonto dopo la pioggia?

ALESSIO: Sì. Ti stavo dicendo che il viale, a quell’ora, si popolava via via di un’umanità stracciona e fuorilegge. Il sole ormai vicino all’orizzonte gettava una vivida luce vespertina – i tramonti, ai Tropici, sono molto veloci, quasi repentini – che traeva riflessi metallici dalle larghe pozzanghere sotto i marciapiedi. Pareva che la città non dovesse mai finire. Sempre gli stessi edifici cadenti, le stesse baracche, gli stessi incroci; squarci di campagna e di canna da zucchero, boschetti di eucalipto, e poi di nuovo case e palizzate, case e baracche, ancora e ancora. Ad Alessio, che quella sera si sentiva particolarmente malinconico, pareva di essere scivolato inavvertitamente in un’altra città, speculare ma diversa, inquietante e imprevedibile. Gli pareva che quel viale non sarebbe mai finito, mai, mai; si chiedeva se non stesse avanzando sulla Luna, o sul bordo di qualche canale di Marte. A proposito, lo sapevi che su Marte c’è la montagna più alta dell’intero Sistema Solare? È il monte Olympus e supera i ventiseimila metri, si tratta di un ciclopico cono vulcanico che…

SABINA: Alessio, sei diabolico. Ma perché vuoi spezzare così l’atmosfera del tuo racconto, che avevi saputo creare così bene? Mi pareva di sedere accano a quel giovane, sulla sua vecchia automobile, lungo il vialone interminabile di periferia, e di condividere il suo scoraggiamento, la sua esasperazione…

ALESSIO: Va bene, va bene. Come non detto, lasciamo stare il Monte Olympus con i suoi ventiseimila metri d’altitudine…

SABINA: … e torniamo a quella sera invernale di San Paolo.

ALESSIO: Ogni tanto una puttana si sporgeva dal marciapiede e gli ammiccava sguaiatamente. Perfino qualche travestito. Tutti carichi di belletto e di falsi gioielli, grotteschi nelle loro maschere colorate, nelle loro seduzioni venali prive della benché minima attrattiva. Era penoso vederli sorridere, aprire quelle loro bocche con i denti d’oro, strizzare l’occhio lascivo e animalesco.

SABINA: Odiava anche loro?

ALESSIO: No, Alessio non poteva odiare quei poveracci, per convinzioni e per sentimenti. Li sopportava come dei malati molesti che continuano a tossirti sulla faccia, come dei mendicanti che non la smettono di seguirti e di pregarti. Diciamo la verità: ne aveva schifo.

SABINA: Forse lo schifo era la maschera per nascondere la sua pietà.

ALESSIO: Forse.

SABINA: Forse Alessio aveva paura di mostrarsi debole.

ALESSIO: Sì, forse.

SABINA: E poi?

ALESSIO: Come Dio volle – scusa il linguaggio naturaliter religiosus, come dici tu – Alessio arrivò al "suo" incrocio, svoltò a sinistra e parcheggiò davanti alla sua casa, una palazzina di tre piani relativamente decente, anche se la strada era senza asfalto, senza luce elettrica e senza fognature. Aveva trovato lì, per caso, un appartamentino di tre stanze, e l’affitto modestissimo l’aveva convinto ad accollarsi l’enorme tragitto quotidiano fino al quartiere dell’università. Quando salì le scale, una sorpresa lo attendeva sulla porta.

SABINA: Posso provare a indovinare? Ileana.

ALESSIO: Lei.

SABINA: E che cosa stava facendo?

ALESSIO: Lo aspettava.

SABINA: Era già accaduto?

ALESSIO: No, mai.

SABINA: Allora, Alessio sarà rimasto sorpreso.

ALESSIO: Non ne ebbe il tempo. Lei era… insomma, lui comprese al primo sguardo che quella non era una visita di cortesia.

SABINA: Che cosa era successo?

ALESSIO: Per prima cosa, la fece entrare. Doveva esserci una ragione piuttosto grave per una visita così inaspettata; e infatti, benché lei fosse esteriormente calma, negli occhi di Ileana brillava una luce allarmante. Con sorpresa di lui, questo accresceva – e di molto – il suo fascino. La ragazza posata, introversa, un po’ malinconica era diventata ardente e inquieta, emanava involontariamente la seduzione dell’imprevedibile. In breve, spiegò ad Alessio che era fuggita dal consolato e che intendeva chiedere asilo politico, per non dover rientrare mai più in Romania. Avevamo parlato di politica, qualche volta; e, sentendomi lodare il comunismo (in realtà, il comunismo anarchico) mi aveva detto, scuotendo il capo: "Se tu avessi provato sulla tua pelle il regime di Ceausescu, non credo avresti ancora voglia di parlare così." Io, naturalmente, non avevo inteso "difendere" il sistema del socialismo sovietico, ma poiché odiavo – e odio – gli Stati Uniti e il sistema capitalista più di qualunque altra cosa al mondo, non potevo capirla del tutto. Comunque, non mi ero reso conto di quanto la sua insofferenza fosse giunta al limite, diventando autentica esasperazione. La decisione di sparire al consolato e di rompere i ponti col passato era maturata all’improvviso, in seguito al sopraggiungere di nuovi provvedimenti restrittivi nei confronti del personale delle ambasciate all’estero. Si era resa conto che, se non avesse agito subito, entro pochi giorni non avrebbe potuto più farlo. E così, nonostante avesse nel suo paese moldavo i vecchi genitori e un fratello più grande, aveva preso il coraggio a due mani e si era eclissata. Ora, in attesa di ottenere lo status di rifugiata, che l’avrebbe messa al sicuro da possibili rappresaglie, era venuta a chiedermi ospitalità come clandestina. Voleva stare nascosta per un po’ di tempo: aveva sentito di cittadini di Paesi del Patto di Varsavia che avevano approfittato di viaggi all’estero per chiedere asilo politico, e che erano stati letteralmente rapiti dai loro servizi segreti e rimpatriati a forza: con quali conseguenze, è facile immaginare. Insomma, era un po’ spaventata e chiedeva l’aiuto del suo amico italiano: con molta dignità, quasi con pudore. Disse che aveva paura di recargli fastidio, che non doveva sentirsi obbligato; e comunque, che sarebbe rimasta lo stretto indispensabile e avrebbe contribuito alle spese; altrimenti non avrebbe accettato. A tanti anni di distanza, ad Alessio sembra ancora di vederla com’era quella sera: con la camicetta a scacchi e coi corti capelli castani, mentre parlava, timida e orgogliosa al tempo stesso. Tutto il suo bagaglio era in una borsa di vestiti e pochi effetti personali.

SABINA: E Alessio, cosa fece?

ALESSIO: Le disse di sì, naturalmente. Lui voleva cederle la camera da letto, ma lei non volle assolutamente e si adattò sul divano del soggiorno. Quella notte lui rimase sveglio lungamente, a riflettere. Dalle fessure della persiana filtrava il chiarore azzurrognolo della notte tropicale e una folla di pensieri gli si affacciarono alla mente.

SABINA: Si stava esponendo a dei rischi?

ALESSIO: Non poteva escluderlo. In effetti, nei giorni seguenti, gli parve di scorgere dei volti in qualche modo già noti, che lo stavano osservando. Gli sembrò trattarsi di coincidenze, poiché non era mai stato al consolato romeno. Aveva conosciuto Ileana per caso, e non aveva mai conosciuto i suoi colleghi e i suoi connazionali. Si erano incontrati qualche volta al bar, qualche volta da lei, che abitava in centro, non lontano dall’università; e solo un paio di volte da lui.

SABINA: E poi, cosa accadde?

ALESSIO: Incominciò un periodo molto strano nella vita di Alessio. Ileana abitava da lui e usciva pochissimo. Ma lui la vedeva la sera, raramente la mattina presto, perché stava fuori tutto il giorno. Presto il gruzzoletto di Ileana finì, e le pratiche per l’asilo politico andavano più che mai a rilento. Pareva ci fossero misteriose difficoltà, ma non si riusciva a capire bene quali. Alessio insistette perché rimanesse da lui, giudicava troppo pericoloso permetterle di rivolgersi ai suoi vecchi amici. Per sdebitarsi in qualche modo, Ileana sbrigava accuratamente tutte le faccende di casa, gli preparava da mangiare e gli lavava e stirava i vestiti. Vivevano come fratello e sorella, senza mai arrischiarsi ad andare in centro, anzi facevano un po’ vita da reclusi. La negra che puliva le scale, e che prima veniva, qualche volta, a fare le pulizie nell’appartamentino, ora guardava Alessio sorridendo divertita. Infatti non aveva mai portato donne in casa, prima. Non si era mai innamorato, le donne non lo interessavano molto. Era tutto preso dai suoi studi – e dalla sua crescente amarezza. Ileana cambiò la sua vita. Quella ragazza riservata e silenziosa, ma fondamentalmente semplice, dalla femminilità acerba e un po’ scontrosa, aveva portato una nota di colore nelle sue grigie giornate. La sera, dopo cena, sparecchiava e lavava i piatti – né mai gli permise di aiutarla -, poi veniva a sedersi vicino a lui sul divano, presso il balcone aperto, e si mettevano a chiacchierare. Qualche volta ascoltavano un po’ di musica. Lei gli parlava delle sue speranze, dei suoi timori, anche della sua vita. Non vedeva l’ora di ricevere i documenti per potersi mettere alla ricerca di un lavoro e di una casa. Temeva di seccarlo, benché lui le ripetesse che avrebbe potuto rimanere almeno finché non avesse trovato una nuova occupazione.

SABINA: Lui se ne innamorò?

ALESSIO: Sì, e senza capire come né quando. Il bello è che anche a lei dovette accadere più o meno la stessa cosa. Alessio l’aveva sempre considerata una semplice amica; poi, dopo il suo arrivo in casa sua, un’amica momentaneamente in difficoltà. Il suo carattere semplice e schietto era per lui assai gradevole, così com’era gradevole la sua bellezza acqua e sapone, la sua pulizia, tanto più nelle sue condizioni di forzata semi-intimità nella quale vivevano. E tutt’a un tratto, un bel giorno, in maniera completamente inaspettata, Alessio si rese conto che l’amava. Tornando, quella sera, non l’aveva trovata, cosa mai accaduta prima: era già quasi buio, e lei era ancora fuori. Di colpo ebbe paura per Ileana: e, come un raggio di sole che entri d’improvviso in una stanza buia, comprese anche il perché. Rimase sui carboni ardenti forse per una mezz’ora: gli parve un tempo interminabile. Quando lei rientrò – era stata trattenuta da un banale contrattempo – dovette accorgersi che era stralunato, ma c’era anche qualcos’altro nel suo sguardo. In un attimo, si ritrovarono l’uno nelle braccia dell’altra. Gli pareva impossibile potersi staccare da lei, impossibile aver vissuto fino a quel momento senza amare Ileana. Gli pareva di vedere il mondo per la prima volta.

SABINA: Già, è vera questa osservazione. È proprio quel che si prova.

ALESSIO: Né aveva mai pensato che si potesse provare un tale trasporto, una tale dolcezza fra le braccia di un altro essere umano. Un essere umano del quale sapeva così poche cose, e col quale parlava perfino con una certa fatica, dato che lei non conosceva l’italiano e comunicavano in un portoghese imparato in fretta, un po’ alla buona. Anche lei, infatti, era in Brasile da meno di un anno.

SABINA: Alessio era felice?

ALESSIO: Era come fuori di sé, nel senso letterale della parola. Non riusciva a contenere quel che provava: si sentiva sollevato a quattro palmi da terra, come un palloncino sfuggito dalle manine di un bimbo. Certe volte, all’università, tutt’a un tratto gli esplodeva nella coscienza il pensiero di Ileana, e per un momento gli sembrava incredibile, anzi irreale. Con fatica tornava al suo lavoro, riprendeva la lezione come nulla fosse stato, o almeno si sforzava di fare così. Per dirti come si sentiva: una sera, dopo il suo corso, una studentessa lo avvicinò e, con la scusa degli esami, praticamente gli si offrì. Era una graziosa mulatta; solo un mese prima lui non si sarebbe fatto scrupoli, ne avrebbe approfittato certamente. Ma quella volta no. Nei suoi pensieri c’era posto solo per Ileana, era come se fossero stati sposati, più che sposati. Gli pareva assurdo poter considerare altre donne. E i suoi pensieri si erano fatti più allegri, più giovani. Spesso tornava a casa con un mazzo di fiori o con un piccolo regalo.

SABINA: Ora sei di nuovo pensieroso. E sospiri.

ALESSIO: Be’, il resto della storia non riguarda più l’amore. L’amore fu quello: anche Alessio, come te, lo ha provato una volta sola. Prima di imbarcarsi su questa nave, almeno.

SABINA: E non vuoi raccontarmi come andò a finire?

ALESSIO: Sì, se t’interessa.

SABINA: Purché non ti faccia troppo male.

ALESSIO: Quindici anni non cancellano, ma attutiscono le ferite quanto basta. Si convive con la propria delusione come ci si adatta a convivere con il mal di denti, se non ci si può permettere di andare dal dentista. Anche se dentro, magari, qualche molla si è rotta.

SABINA: Mi dispiace.

ALESSIO: Comunque, il seguito della storia è assai poco interessante. Nessun tumore al cervello, nessun incidente d’auto, niente di spettacolare. E nemmeno un abbandono da parte dell’amata. Semplicemente, una sera Alessio non la trovò in casa, e non tornò per davvero. Saltiamo i particolari. L’indomani lui andò alla polizia, e non seppe nulla; poi telefonò a vari ospedali, e niente. Allora si decise a recarsi al consolato di Romania, due giorni dopo. Gli dissero che Ileana era fuori città e che non sapevano quando sarebbe tornata, che lasciasse il suo indirizzo. Ma non lo fece, naturalmente, poiché, se Ileana fosse ritornata, lì non sarebbero più stati al sicuro. Dopo alcuni giorni penosissimi, tornò al consolato ed ebbe la stessa risposta della prima volta. Ma una ragazza, un’impiegata, fece in tempo a fargli scivolare in mano un biglietto su cui aveva scribacchiato col lapis: "Vediamoci al bar qui sotto fra due ore". Lui uscì fingendo indifferenza, ma quelle furono, decisamente, le due ore più lunghe della sua vita. Alla fine la ragzaza lo raggiunse e gli disse: "Lei è l’amico di Ileana?". Alessio cercò di restare sul generico, ma lei insistette: "È da lei che Ileana si era rifugiata, lo so. Qualche tempo fa mi aveva telefonato, dicendomi di stare tranquilla – eravamo amiche -, che era al sicuro in casa di un ragazzo italiano. È lei quel ragazzo, vero?"; e siccome lui continuava a guardarla, incerto, aggiunse: "Lei si sta chiedendo se può fidarsi di me. Perché dovrebbe farlo? Mi dica, Ileana le ha mai parlato di Luminitza?". Sì, glie ne aveva parlato: gli aveva detto che di tutte le sue amicizie le dispiaceva veramente di averne persa una soltanto, quella di Luminitza. E gli aveva anche raccontato di averle telefonato, ma di non poterla più vedere, perché era una collega del consolato e sarebbe stato, perciò, troppo pericoloso per entrambe. Allora Alessio non ebbe più dubbi e le disse chi era. Luminitza gli rispose che poteva fermarsi solo pochissimi minuti, perché stava rischiando già molto; anzi, gli propose di trovarsi un quarto d’ora dopo la chiusura dell’ufficio, ai vicini giardini pubblici. Lui fu d’accordo e ci andò. Così, all’ora stabilita, seppe ogni cosa: che Ileana era stata pedinata, rintracciata e costretta a tornare al consolato; che non poteva fare più nulla per lei, perché l’avevano già rispedita in aereo, sotto sorveglianza, a Bucarest. Non sapeva dirgli cosa le sarebbe accaduto poi; ma gli disse che, per il bene di lei, era meglio restare calmo e aspettare sue notizie. Poi se ne andò in fretta. Alessio doveva crederle? E poteva fidarsi? Comunque, non le diede ascolto e, l’indomani, tornò al consolato per chiedere un visto d’ingresso in Romania. Luminitza lo guardò con disapprovazione ma non disse niente, dovevano far finta di non conoscersi. Il segretario gli chiese con tono formale il motivo per cui desiderava recarsi in Romania. Gli fece compilare un formulario e gli disse che avrebbe valutato la sua richiesta e dato una risposta entro due settimane. Due settimane! In breve, quando Alessio tornò gli dissero che avevano avuto informazioni e che la sua richiesta non poteva essere accolta "per ragioni politiche". Alessio cercò di spiegare che solo ragioni di studio lo spingevano a voler fare quel viaggio, che non si interessava di politica. Il console rispose freddamente: "Strano, perché a noi risulta che lei è stato coinvolto in una vicenda poco chiara, nel suo Paese." Alessio comprese che dovevano aver preso contatti con il consolato d’Italia, e che non c’era nulla da fare. Quello, evidentemente, era solo un pretesto. Se avevano pedinato Ileana, dovevano sapere benissimo anche di lui. Be’, era disperato.

SABINA: E che cosa fece?

ALESSIO: Andò al consolato italiano per cercare di mettere tutto in chiaro, ma là gli dissero che non c’era proprio nessun problema, che era tutto a posto e che poteva rientrare in Italia quando voleva. No, non erano stati contattati dal consolato romeno a suo riguardo: o almeno non vollero dirglielo. Tuttavia, non voleva ancora darsi per vinto.

SABINA: Cos’altro poteva fare?

ALESSIO: Poco. Riuscì ad ottenere un breve congedo dall’università, prese il treno per l’Uruguay e si presentò all’ambasciata romena di Montevideo, chiedendo un visto d’ingresso per la Romania. Ma disse che aveva molta urgenza, che non poteva attendere per delle settimane. Loro gli chiesero dove fosse la sua attuale residenza e, saputo che era a San Paolo (dovette dirglielo, tanto avrebbero controllato) gli dissero che doveva far lì la sua richiesta. Così, sconfitto, dovette rinunciare a prendere il piroscafo per Buenos Aires, come aveva pensato di fare, per ritentare laggiù: anche lì, evidentemente, gli avrebbero dato la stessa risposta. Dovette rientrare a San Paolo, letteralmente infranto.

SABINA: E non seppe mai più nulla di lei?

ALESSIO: Sì. Qualche tempo dopo ricevette una sua lettera. Vedendo la sua scrittura, gli sembrò che avrebbe bucato il soffitto con il capo; ma, dopo averla letta, gli parve di aver ricevuto una mazzata. In breve, gli aveva scritto di nascosto, e la lettera era stata spedita da una sua amica che si recava, per qualche giorno, in Bulgaria. Infatti i francobolli e i timbri erano bulgari, solo allora se ne accorse. Era tutto finito. Nel suo capoluogo provinciale, Iasi, stavano istruendo il processo a suo carico per tentato espatrio clandestino. Probabilmente le avrebbero dato qualche anno. Con un po’ di fortuna – ma forse glielo scriveva solo per consolarlo – le avrebbero applicato la condizionale, spedendola in qualche lavoro "socialmente utile". La cosa peggiore era che non le avrebbero permesso mai più di recarsi all’estero, tranne forse negli altri Paesi socialisti. Quanto a lui, non doveva cercare di rivederla, né di mettersi in contatto con lei: ciò avrebbe avuto conseguenze negative per entrambi.

SABINA: Questi, i fatti. Ma… e i sentimenti?

ALESSIO: Se lei non lo avesse amato, o se avesse incominciato ad amarlo di meno, questo – in un certo senso – sarebbe stato un conforto. Ma non era così, e su questo punto lei non era stata capace di mentire. E con quella spina nella carne, Alessio dovette tirare avanti. È scomodo vivere con una spina nella carne, che ricomincia a sanguinare ogni volta che fai un brusco movimento e pare voglia dirti: "Mio caro, anche se tu a un certo punto volessi dimenticarti di me, sarò io a non volermi dimenticare mai più di te. Ricorda: mai più." Ecco, credo di averti detto tutto.

SABINA: Alessio rimase ancora molto in Sud America?

ALESSIO: Un paio d’anni. Naturalmente tutto gli era diventato ancor più odioso; il pensiero, poi, che li avevano spiati anche quando erano stati così felici… Comunque, non osava andarsene – come avrebbe voluto fare, e subito – perché quello era il suo unico recapito che Ileana conoscesse al mondo. Ma fu un’attesa vana. Per oltre un anno non ebbe più sue notizie. Poi gli giunse un’altra sua lettera, questa volta da Odessa, in Unione Sovietica: l’aveva spedita un suo parente che faceva il marinaio, con notevole rischio personale. Perciò Ileana gli scriveva che quella, molto probabilmente, sarebbe stata l’ultima lettera, perché non poteva rischiar di compromettere le persone care. Ma aveva voluto fargli sapere che il processo si era concluso meno peggio del previsto: la sospensione condizionale della pena le aveva risparmiato la prigione. Ora lavorava come impiegata nell’azienda statale di autotrasporti e non se la passava poi male. Lo amava e lo avrebbe sempre amato: ma lui doveva cercare di dimenticarla. Gli augurava ogni bene, eccetera. E quella fu l’ultima volta che ebbe sue notizie.

SABINA: Si rassegnò?

ALESSIO: No. Ma non c’era quasi niente da fare. Quando tornò in Italia, per prima cosa si recò al consolato romeno di Milano, chiedendo un visto d’ingresso per la Romania. E il bello è che, anche se l’avesse ottenuto, non avrebbe saputo, poi, come rintracciarla. Non aveva il suo indirizzo, non sapeva nemmeno in quale paese vivesse, in Moldavia. Comunque, non glielo diedero. Addussero motivazioni alquanto confuse. Fece un ultimo tentativo e si recò in Iugoslavia e da lì, a Belgrado, fece una nuova richiesta di visto turistico all’ambasciata romena. Gli dissero di tornare dopo tre giorni, e alla fine gli dissero di no. Motivo: era considerato persona politicamente non grata. Ecco, ora ho detto tutto.

SABINA: Mi spiace moltissimo.

ALESSIO: Sai una cosa? Anche a Ileana piaceva guardare il cielo stellato. Dato che lei e Alessio non si fidavano a uscire la sera, passavano lunghe ore alla finestra, a guardare il cielo. Mai come allora lui aveva apprezzato la mancanza d’illuminazione pubblica nella via e il fatto di abitare all’estrema periferia. Sai quell’atlante celeste, che ho giù in cabina fra Omero e Dante? È vecchio di circa vent’anni ed è quello che anche Ileana consultava spesso. Per questo non me ne separo mai.

SABINA: Stavo pensando… Quando è caduto Ceausescu, nel 1990?

ALESSIO: Nel 1989. Nel dicembre 1989.

SABINA: E…

ALESSIO: …Alessio non ha pensato di andare in Romania, quando ciò è divenuto finalmente possibile? Sì, ci ha pensato. Ma erano passati degli altri anni, più i due da quando Ileana era stata rimpatriata forzatamente. E poi, Alessio sapeva veramente troppo poco di lei, tranne il fatto che abitava in qualche posto della Moldavia, anzi che ci aveva abitato parecchi anni prima… Un po’ poco, non ti pare?

SABINA: Sì, è vero. Troppo poco.

ALESSIO: E poi… Si sentiva svuotato, non aveva più voglia di cercare. Troppo tempo era passato; aveva paura.

SABINA: Paura, lui?

ALESSIO: Non paura, terrore.

SABINA: Di trovarla… sposata? Cambiata?

ALESSIO: Oppure sposata e non cambiata. Questo sarebbe stato anche peggio, non ti pare?

SABINA: Sì, sarebbe stato peggio.

ALESSIO: Comunque, ora Alessio può sempre coltivare il rimpianto per una cosa che poteva essere bellissima, e non è stata. C’è un piacere sottile nella nostalgia di ciò che si è perduto, figuriamoci in ciò che non si è neanche realizzato.

SABINA: Sì, ma Alessio non deve essere ingiusto con se stesso.

ALESSIO: Che vuoi dire?

SABINA: Che il motivo vero non è stato quello.

ALESSIO: Cosa ne sai? Comunque, Alessio può sempre consolarsi pensando che non l’avrebbe mai trovata, anche se fosse andato a cercarla casa per casa. E ciò chiude il conto.

SABINA: Ma i conti non si chiudono mai.

ALESSIO: No, mai. È questa la fregatura.

SABINA: Nella vita, ha detto una volta qualcuno, tutto dipende da quanto si è rimasti delusi…

ALESSIO: Ecco una massima aurea.

SABINA: Meglio del tuo Cicerone?

ALESSIO: Meglio.

SABINA: Be’, meno male. A qualcosa servo anch’io, dopotutto. Achernar non tramonta, vero?

ALESSIO: A questa latitudine, no. È una costellazione circumpolare australe, come da noi lo sono le Orse, Cefeo, il Dragone, Cassiopea e la Giraffa.

SABINA: E Boote?

ALESSIO: No, Boote, dall’Italia, si vede solo in primavera. Ma, essendo vicina allìOrsa, ruota lentamente attorno alla Polare. Piger la chiama Claudiano, che la cita due volte nel De raputu Proserpinae.

SABINA: Conosco Boote perché so che vi si trova la stella più luminosa del cielo settentrionale: Arturo.

ALESSIO: E la quarta in assoluto. Nel cielo del Sud ve ne sono tre che la superano: Sirio, Canopo e Alfa Centauri.

SABINA: Comunque, anche se Achernar non tramonta, s’è fatto tardi. Tra non molto spunterà l’aurora.

ALESSIO: Abbiamo ancora un po’ di tempo.

SABINA: Allora cerchiamo di tirare le somme.

ALESSIO: D’accordo. Vuoi cominciare tu?

SABINA: Va bene: ma non prometto di essere io a finire. Intanto, ricapitoliamo. Tu hai affermato che l’amore è istinto di conservazione e potenziamento dell’io. Da parte mia, ho detto che in esso vi è anche una componente dell’istinto di morte. Ti pare che le due affermazioni siano antitetiche?

ALESSIO: Sì, ma forse non si escludono. Forse questa contraddizione è solo un riflesso della più grande contraddizione, che è vivere.

SABINA: Non morire, però.

ALESSIO: No, morire non è una contraddizione: è naturale. Siamo essere-per-la-morte, Heidegger aveva ragione.

SABINA: Solo che tendiamo a dimenticarlo.

ALESSIO: Già, è per questo che essa ci turba così profondamente. Prendi Gesù, per esempio.

SABINA: Che cosa?

ALESSIO: Gesù Cristo. Davanti alla morte di un suo caro amico, Lazzaro, anche lui si è turbato ed è scoppiato in pianto. Il Vangelo di Giovanni dice proprio così: "Si turbò profondamente, e scoppiò in pianto".

SABINA: Non avevo presente questa espressione. Però, è notevole. Ma adesso torniamo all’amore. Abbiamo individuato due componenti del fenomeno amoroso. Ci resta da vedere se non ve ne siano altre, e come esse interagiscano.

ALESSIO: Sì.

SABINA: Una terza componente l’hai indicata tu, prima. Anzi, hai parlato di essa proprio all’inizio della nostra conversazione: il donare. Amare è anche donare: donare se stessi, per non perdersi mai. E abbiamo anche osservato che, probabilmente, pochissime persone sanno amare: perché quasi tutti vogliono avere, quasi tutti sono convinti che sia più bello ricevere che donare. E invece non è così.

ALESSIO: No, non lo è.

SABINA: Una quarta componente ce l’ha suggerita Virgilio: l’amore è un crimine, è la passione più scellerata che esista. Essa ha ispirato i delitti più atroci; ha spinto perfino la madre a macchiarsi le mani col sangue dei propri figli.

ALESSIO: Ma tu non eri d’accordo.

SABINA: Ti sbagli.

ALESSIO: Davvero? Ah, ma guarda.

SABINA: Non sono d’accordo circa il fatto che l’ampore sia solo, o principalmente, criminale, come sembra pensare Virgilio. Ma che in esso vi sia anche una tale componente, mi sembra innegabile.

ALESSIO: Tu non finisci mai di sorprendermi.

SABINA: Ma basta prendere in mano un giornale e leggere due pagine di cronaca, per rendersi conto che è così. Non occorre tirar fuori il mito di Medea, né immedesimarsi nel pastore suicida dell’ottava ecloga delle Bucoliche.

ALESSIO: Sì, è vero: basta leggere i giornali. Lo sai che negli Stati Uniti una insegnante di trentaquattro anni, sposata e madre di quattro bambini, ha affrontato la prigione per amore di un suo alunno di tredici anni, dal quale aveva avuto un figlio? E dopo la sospensione della pena – era stata condannata per violenza carnale – ne ha concepito un altro, sempre dal ragazzino. Ed è tornata in prigione.

SABINA. Sì, avevo già sentito questa storia.

ALESSIO: Per la cronaca, lei si chiama Mary Kay Tourneau.

SABINA: Già. Sembra inverosimile.

ALESSIO: Chi ci capisce niente. C’è qualcosa di incontrollabile nell’animo umano. E poi ci vengono a dire che l’uomo è libero, l’unico essere libero di tutto l’universo. Ma andiamo!

SABINA: Così, abbiamo individuato già quattro componenti di questo impareggiabile sentimento. C’è dell’altro?

ALESSIO: Sì, credo di sì.

SABINA: Che cosa?

ALESSIO: Conoscere. Amare è conoscere. L’amore è la forma più alta di conoscenza che esista al mondo.

SABINA: Conoscere cosa? La pesona amata?

ALESSIO: Oh, no, quella è l’ultima cosa al mondo che si potrebbe conoscere, per mezzo di un tale sentimento. Se vuoi essere certo di non conoscere assolutamente nulla di una certa persona, cerca di innamorartene.

SABINA: E cosa, allora? Il mondo? Abbiamo detto che, quando si ama, sembra di vedere il mondo per la prima volta, come se un velo cadesse dagli occhi. Anzi, sembra che sia stato creato di bel nuovo, proprio per noi.

ALESSIO: Sì, ma questo è stupirsi. Conoscere è un’altra cosa. Stupirsi è la conseguenza del conoscere: ma non sempre chi si stupisce, ha conosciuto. Ci si può stupire anche della propria ignoranza.

SABINA: Anche scoprirsi ignoranti, è conoscere.

ALESSIO: Come diceva Socrate: sapere, almeno, di non sapere: che è meglio di non sapre nulla e credersi sapienti.

SABINA: Dunque, conoscere il mondo.

ALESSIO: Ma, ancora di più, conoscere sé stessi. Questo mi sentirei di rispondere, a chi mi dicesse che non è indispensabile amare nella vita: che finché non si ama, non si può sapere chi si è veramente. Chi si è, e quanto si vale.

SABINA: E chi è il giudice?

ALESSIO: Nessuno. Lo siamo noi stessi, e nessun altro.

SABINA: Sì, credo sia vero. Infatti, può accadere che una persona venga giudicata felice, e invece lei sa bene, in cuor suo, di essere un fallito. Viceversa, uno può essere giudicato un fallito, e sapere di essersi pienamente realizzato. Di aver raggiunto la mèta cui aspirava. Ma perché dici che è l’amore a rivelarci la conoscenza di noi stessi?

ALESSIO: Perché quando si ama si è troppo occupati per aver voglia di fingere. Anche con sé stessi, che si inganna più spesso e più volentieri di chiunque altro. Se sei innamorato, diventi attendibile perfino con quel bugiardissimo compagno di viaggio che è il tuo io.

SABINA: La cosa sembra paradossale, ma penso tu abbia ragione. Amare è anche conoscere e, soprattutto, conoscersi.

ALESSIO: Come diceva il gran padre Dante:

"Considerate la vostra semenza:

fatti non forste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e conoscenza."

SABINA: Io, però, mi sento disperatamente ignorante. Ho amato una volta sola, a quattordici anni, e per un momento soltanto.

ALESSIO: Che importa? Non è il "quanto" che conta, ma il "come".

SABINA: Lo pensi davvero?

ALESSIO: Ne sono certissimo. In queste cose, la quantità non vuol dir nulla. Consentimi un paragone astronomico: la massa di Giove è 318 volte maggiore di quella terrestre e il suo volume è 1.316 volte superiore. Ma a che serve? Sulla sua superficie nessuna forma di vita è possibile; la sua atmosfera satura di idrogeno, elio, ammoniaca e metano sarebbe velenosa per qualsiasi essere vivente. Senza contare la temperatura micidiale: centocinquanta gradi centigradi sotto lo zero.

SABINA: E tu? A dire il vero, non mi hai detto molto delle sensazioni che provavi, quando amavi.

ALESSIO: Che ti posso dire? Innanzitutto, uno capisce di essere innamorato in maniera molto precisa.

SABINA: Quale?

ALESSIO: Semplice: l’assenza. Quando devi staccarti da quella persona. Quando sai che non la rivedrai, e sia pure per pochi giorni o poche ore. È quello il segnale rivelatore. Un amico, anche un caro amico, lo saluti e gli dici arrivederci. Sai che ti farà piacere rivederlo, ma non provi un rincrescimento, una pena al momento del distacco. Ma quando ti senti confuso e turbato, soprattutto scontento al momento di salutare una certa persona e di doverle dire arrivederci, anzi non scontento, piuttosto sconfortato; quando provi un senso di vuoto, di abbandono; quando le ore e i giorni ti si presentano davanti come un arido deserto, che dovrai bene o male attraversare fino alla lontana oasi, ove di nuovo potrai dissetarti: quello è il segno inconfondibile. Quel senso di inutilità, di solitudine estrema, quel bisogno continuo di misurare il tempo che passa lentissimo; quel fantasticare di improbabili telefonate, quell’appendersi a ogni filo di speranza di rivedere colui o colei che fino a qualche giorno prima non conoscevamo o che, pur conoscendolo, ci era indifferente; o che, pur essendoci caro, giudicavamo solo un simpatico amico. È così che avviene, Sabina; è in questo modo che si capisce.

SABINA: Ed è questo che tu, scusami, ed è questo che Alessio provava per Ileana?

ALESSIO: Sì: gradualmente, eppure abbastanza in fetta. Dopo l’arrivo di lei a casa sua, il passaggio da amica ad amata è durato soltanto pochi giorni, dopo tutto.

SABINA: E Alessio non l’aveva mai provato prima?

ALESSIO: No.

SABINA: Non gli piacevano le donne?

ALESSIO: Gli piacevano, ma non si era mai innamorato.

SABINA: E non l’ha mai più provato dopo?

ALESSIO: Eh…

SABINA: Avevi detto che… Oh, ecco la mia solita goffaggine. Scusami, del resto parlavamo di quell’altro Alessio.

ALESSIO: Non c’è di che.

SABINA: Come fai a sopportarmi?

ALESSIO: Che cosa vuoi sentirti dire?

SABINA: La verità.

ALESSIO: Che cos’è la verità?

SABINA: Quello che hai nel cuore in questo momento.

ALESSIO: Allora la tua domanda è priva di senso.

SABINA: Perché?

ALESSIO: Visto che insisti: perché se ami, il verbo "sopportare" semplicemente non esiste.

SABINA: Ma… be’, non so come dirtelo. Ne sei proprio sicuro?

ALESSI: Di che cosa?

SABINA: Di amarmi.

ALESSIO: Non pensi che sia una domanda un po’ inutile?

SABINA: No, dico davvero. In fondo, mi conosci pochissimo. Senza contare che tu stesso hai detto che amare qualcuno, vuol dire negarsi la possibilità di conoscerlo veramente. Ecco, io credo che tu mi abbia un po’ idealizzato. Tu non mi vedi come sono veramente. Se così fosse, ti accorgeresti che forse io non merito un sentimento così grande, da parte tua.

ALESSIO: Appunto, che c’entra il conoscere l’altro, con l’amore? È certo che io non ti conosco; e con questo? L’amore non vuol sentir ragioni: tu puoi mostrargli la sua irrazionalità fin che vuoi, non serve a nulla, lui parla in un’altra lingua, totalmente diversa da quella della ragione. Io so di amarti non perché ti conosco, ma perché riconosco quei tali segni rivelatori di cui ti parlavo prima, e che non lasciano adito al minimo dubbio. Cone dice la regina Didone – vediamo di sdrammatizzare un po’ la situazione, se possibile, con un altro tuffo nella poesia latina – alla sorella Anna, parlando del suo improvviso sentimento per Enea:

"… adgnosco veteris vestigia flammas", ossia: "sento rinascere i segni del ben noto incendio".

SABINA: Ed è amore?

ALESSIO: Sì. Ma "quantus mutatus ab illo!"

SABINA: "Quanto mutato da quello che conoscevo!". Ma perché diverso?

ALESSIO: Perché è sempre diverso. Simile, eppure diverso. Perché tu sei un’altra, perché io non sono più quello.

SABINA: Se questo nostro star vicini ti è penoso, benché mi rincresca moltissimo, per il bene che ti voglio sono disposta a non cercarti più.

ALESSIO: Tu sai che non intendo chiederti nulla.

SABINA: E il fatto che io sia… quella che sono, non modifica in nulla i tuoi sentimenti?

ALESSIO: Come ti dicevo, il fattore razionale non può incidere molto, per lo meno dopo che l’amore si è pienamente rivelato. All’inizio, forse. Ma anche in quel caso, si tratta soprattutto – casomai – della forza di volontà. Io, per esempio, posso decidere di non vederti più – almeno nei limiti consentiti da questa spedizione scientifica. Me ne sento capace. Ma questo, cosa dimostrerebbe? Continuerei ad amarti, senza più vederti. Continuerei a pensarti, anche più di quanto faccia adesso. Mi posso strappare la freccia: ma la ferita rimane.

SABINA: È un’immagine virgiliana, vero?

ALESSIO: Sì, anch’essa, come la precedente, dal quarto canto dell’Eneide. Didone è presa d’amore per Enea: ovunque vada, è come se si portasse dietro la freccia infitta nel fianco, come la cerva inseguita dai cacciatori:

"Uritur infelix Dido totaque vagatur

urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta,

quam procul incautum nemora inter Cresia fixit

pastor agens talis liquitque volatile ferrum

nescius: illa fuga silvas saltusque peragrat

Dictaeos, haeret lateri letalis harundo."

SABINA: Se ho ben compreso, il pastore nei boschi di Creta ha colpito la cerva, ma senza rendersene conto.

ALESSIO: Esatto. Grande, Virgilio: il contrasto è proprio qui. Il pastore rinuncia all’inseguimento, e non sa di averla colpita; la cerva riesce a fuggire e si porta lontano, credendosi in salvo; ma non è in salvo: ha la freccia mortale infissa nel fianco.

SABINA: Non hai scelto a caso questi versi.

ALESSIO: No. Neanche tu ti sei resa conto di avermi colpito.

SABINA: No, anzi darei qualsiasi cosa per levarti la freccia dal fianco… Come posso fare? Ecco, te l’ho detto poc’anzi e te lo torno a dire: pensa che io, probabilmente, non sono quella che credi tu. Mi hai idealizzata, mi hai sopravvalutata…

ALESSIO: Eh, via, quante sciocchezze!

SABINA: No, lo penso veramente.

ALESSIO: Ma io non pretendo di vederti quale sei oggettivamente, ammesso che ciò sia possibile anche quando non si è coinvolti. Tu mi piaci così come sei.

SABINA: Così…?

ALESSIO: Pensi davvero che le tue preferenze sessuali possano modificare l’immagine che ti te mi si è formata, indelebilmente?

SABINA: Davvero, non avevo mai conosciuto uno come te.

ALESSIO: Non mi sento poi così strano. Comunque, propongo di mettere una pietra su questo argomento, una volta per tutte.

SABINA: Ma continueremo a restare amici, così come lo siamo ora? Perché, egoisticamente, ti confesso che mi mancheresti davvero troppo…

ALESSIO: Sì, sempre amici. Guarda: la nostra Achernar si distingue appena, ormai.

SABINA: Già. Tra poco sarà l’alba.

ALESSIO: Vogliamo concludere il nostro ragionamento?

SABINA: Sì, ma non credo di aver molto da dire, ormai. Mi sono resa conto che il fenomeno "amore" ha infinite facce, come un poliedro mai visto; che in esso convivono aspetti profondamente contraddittori; che anche le intelligenze più lucide, anche le volontà più salde possono ben poco davanti alla sua forza inesorabile; che è impresa ben ambiziosa anche solo quella di voler capire. Forse, dopotutto, non c’è molto da capire.

ALESSIO: Pure, bisogna sforzarsi di vederci un po’ più chiaro, in un aspetto così importante della vita umana.

SABINA: Hai ragione. Per amore furono costruite le Piramidi, per amore l’uomo è andato sulla Luna… L’intera civiltà è un prodotto dell’amore umano.

ALESSIO: Che spesso, questo è il guaio, è diretto verso false immagini di bene. Ma ogni amore, è amore del bene. Ma l’amore vero, quello fatto di dono gratuito, quello che nasce da una sete divorante di verità e di giustizia, quello è amore del bello e del bene.

SABINA: L’immagine dell’amore come sete bruciante mi fa venire in mente un passo della Bibbia… un salmo, credo.

ALESSIO: Sì, il Salmo numero quarantuno:

"Quaemadmodum desiderat cervus ad fontem aquarum,

ita desiderat anima mea ad te, Deus.

Sitivit anima mea ad Deum fortem, vivum;

quando veniam , et apparebo ante faciem Dii?".

SABINA: È stupendo: "Come la cerva anela ai rivi delle acque…". Quale poeta moderno ha mai saputo esprimersi con tanta forza plastica, con tanta intensità drammatica e, al tempo stesso, con così grande delicatezza e naturalezza?

ALESSIO: C’è, in effetti, uno dei più bei mosaici tardo-antichi che illustra proprio questo soggetto…

SABINA: Dove?

ALESSIO: Nel Mausoleo di Galla Placidia, a Ravenna. Del quinto secolo dopo Cristo.

SABINA: È vero, ora lo ricordo! L’ho visto anch’io.

ALESSIO: E in quello stesso salmo c’è un’altra immagine straordinariamente poetica, tratta anch’essa dal mondo della natura. Il salmista è un levita in esilio, lontano dal Tempio di Gerusalemme, verso il quale anela con tutta l’anima. Si trova confinato presso le sorgenti del Giordano, sul Monte Hermon: e paragona le cascate del fiume sulla montagna alle ondate di tristezza e di dolore che si rovesciano sulla sua anima:

"Abyssus abyssum invocat, in voce cataractarum tuarum

omnia excelsa tua, et fluctus tui super me transierunt."

SABINA: Traduci.

ALESSIO: "Un vortice chiama l’altro, allo scroscio delle tue cascate;

tutti i tuoi flutti e le tue onde si rovesciarono sopra di me."

SABINA: "Tutti i tuoi flutti e le tue onde si rovesciarono sopra di me." Che meraviglia! Ora capisco perché ti porti sempre dietro la Bibbia, anche se non credi in Dio.

ALESSIO: Sorge l’alba. Dilla tu, una parola di conclusione.

SABINA: Sull’amore?

ALESSIO: Sì, sull’amore.

SABINA: Ecco.

ALESSIO: Ehi, che cos’era questo?

SABINA: Io credo che fosse un bacio.

ALESSIO: …?

SABINA: Perché anch’io ti voglio bene, Alessio. Anch’io ti amo, come posso, alla mia maniera. E ti dico: grazie di esserci.

FINE

Francesco Lamedola

Questo dialogo chiude la trilogia delle "Notti antartiche". Il primo si intitola "Fomalhaut: riflessioni su finalisno e casualità"; il secondo, "Alphard: riflessioni sul senso della vita".

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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