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Prima che il mondo si risvegli

La giornata sarà calda e afosa: ma adesso, nelle prime ore del mattino, c’è un fresco delizioso e un venticello che si leva dalla valle e spira in direzione delle montagne, vivificando l’aria e ripulendo il cielo dalle nubi filamentose che si erano formate durante la notte, e restituendogli trasparenza e limpidezza, come dopo un bagno rigeneratore.

Le case giacciono tutte addormentate nella luce ancora incerta che avanza e si diffonde lentamente, precedendo la levata del Sole.

Tutto è quiete e silenzio.

Nel frusciare lieve delle foglie dei platani che stormiscono alla brezza mattutina, mi avvio lungo il viale deserto, vagando libero, come dice un poeta romantico inglese, «as a cloud», «come una nuvola».

«I wandered lonely as a cloud

that floats on light o’er vales and hills

when all at once I saw a crowd,

a host, of golden daffodils;

beside the lake, beneath the trees,

fluttering and dancing in the breeze.»

Il poeta è William Wordsworth, e la traduzione è questa:

«Io vagavo solitario come una nuvola

che galleggia in alto, oltre valli e colline,

quando all’improvviso vidi una folla,

una moltitudine di dorate giunchiglie,

presso il lago, sotto gli alberi,

svolazzanti e danzanti nella brezza.»

Mentre imbocco la stradina laterale che porta al sentiero lungo il fiume, una coppia di tortore, che si erano posate a terra, si alzano in volo con il loro caratteristico sbattere d’ali, simile al fruscio di un pesante tendaggio, e si levano in alto, nella chiara luce del mattino, come due bianchi messaggeri alati.

Lontano, da un orto nascosto alla vista, giunge il richiamo rauco del gallo, che introduce una nota particolarmente gradita e familiare, nella sua rassicurante cornice campestre.

A Oriente, dietro le colline, appare la sagoma giallo-arancione del Sole che sorge, tonda e commovente come appare nelle xilografie giapponesi, e si staglia in chiaroscuro contro i rami degli alberi che ne incorniciano il fulgore incipiente.

Forse è proprio lui che il gallo ha appena salutato: proprio il Sole, questo «omo forte», come lo chiama Dersu Uzala nel bellissimo film omonimo di Akira Kurosawa, che riscalda e dà vita al mondo intero; senza di lui, non vi sarebbe che il gelo della morte, come avviene nei più lontani pianeti e satelliti del nostro sistema solare.

Ecco le fronde del salice piangente scrosciare dall’alto e protendersi giù fino quasi a terra, sontuosi drappeggi di un verde tenerissimo, sotto i quali si passa con stupita e reverente gratitudine, come nella navata di una solenne cattedrale gotica.

Mano a mano che mi addentro nel verde, e le piante dei giardini cedono il passo alla vegetazione spontanea, le voci d’innumerevoli uccelli si fanno sempre più frequenti e più varie, formando nell’insieme un concerto melodioso, pur nella sua estrema varietà.

Un merlo saltella sulla ghiaia e poi s’infila nella macchia, con volo leggero e velocissimo; mentre, dall’alto, si spande il dolcissimo richiamo dell’usignolo.

Ora il sentiero, tutto all’ombra delle acacie, dei pioppi e dei noccioli, scende verso il fiume, da cui proviene il dolce sciabordio dell’acqua che scorre, come il tenero richiamo sussurrante di una voce amica.

La corrente è veloce, ma limpidissima: si vede distintamente ogni singolo ciottolo del fondo; nemmeno la più piccola impurità intorbida l’acqua, che ha il nitore di un ruscello di montagna, lieto di non conoscere la presenza dell’uomo.

Il letto del fiume sembra il fondale di un acquario tenuto perfettamente in ordine: mancano solo i pesci che, forse, a quest’ora, si tengono nascosti dietro i grandi massi che sostengono la base degli argini. Sembra di trovarsi davanti alla grande mensa apparecchiata nel palazzo di un re delle fiabe, ma nessun convitato è ancora comparso per prendere posto sulle seggiole e per allietare l’ambiente con lo spensierato brusio del banchetto.

Mi spingo su di una roccia che si allunga sul filo della corrente: da qui, non si vede che il piccolo fiume incorniciato dalle sponde erbose e ricoperto dalla volta verdeggiante, formata dalle chiome degli alberi che si uniscono e s’intrecciano dalle due opposte sponde, schermando la luce del Sole e gettando una fresca ombrosità su questo piccolo mondo equoreo.

I tronchi sono in gran parte avviluppati da un denso mantello di edera selvatica e di altre piante rampicanti, che fasciano la corteccia e conferiscono all’insieme un aspetto selvaggio e vagamente esotico, con il loro ambiguo rigoglio e la loro esuberanza indecifrabile.

Lo stormire delle foglie dei pioppi ricorda l’agitarsi festoso di tante piccole mani che si protendono per salutare dall’alto.

Mi sovviene una stupenda similitudine di un libro dell’Antico Testamento, scaturita dal cuore di un autentico poeta (Isaia, 55, 12):

«Monti e colline davanti a voi

eromperanno in grida di gioia

e tutti gli alberi dei campi batteranno le mani.»

Così come i pesci del fiume, anche le Ninfe gentili si sono ritirate in qualche anfratto, e – forse – dormono entro il calice dei fiori o all’ombra delle felci, là, presso la riva, stanche delle danze gioiose della notte, nella luce argentata della Luna.

Dall’alto del tronco di un ailanto, nascosto in mezzo alle fronde rigogliose, uno scricciolo chiama insistente, senza mai lasciarsi vedere, con voce sempre uguale.

Attraversando un prato ancora molle di rugiada, passo accanto a un prospero vigneto e ne accompagno un lato in tutta la sua lunghezza.

Mano a mano che procedo, i filari mi scorrono davanti e si aprono, due a due, per offrire – magnifico colpo d’occhio – la splendida scenografia dei verdi corridoi incorniciati dai tralci, in una prospettiva geometrica sempre uguale eppure suggestiva, come in un quadro di Piero della Francesca.

Passo dopo passo, sempre nuove gallerie si spalancano tra un filare e l’altro, e lo sguardo si spinge avanti, verso il punto di fuga di questa virente prospettiva che, in continuazione, si rinnova e si ripete, simile a una armoniosa fuga di Bach, nello splendore delle ampie foglie e nel trionfo fastoso dei grappoli dorati ancora acerbi, ma già baciati dal Sole del mattino.

A nessun principe, per quanto ricco e potente, potrebbe venire offerto l’omaggio di un colpo d’occhio più superbo ed elegante, pur nella sua apparente semplicità, quale a stento lo saprebbe escogitare l’arte del più raffinato giardiniere.

Una farfalla dalle ali fastose svolazza sui fiori e finisce per posarsi sopra uno di essi, con il palpito impercettibile di una minuscola fata. I suoi colori di seta brillano sull’erba come un frammento di luce iridescente d’incomparabile bellezza.

Ed ecco, a una svolta del sentiero, incorniciato dalle chiome degli alberi, si staglia alto e snello il campanile della chiesa, della quale si intravede solamente il tetto: l’una e l’altro illuminati dalla luce radente del Sole ancora basso sull’orizzonte, nella gloria dei colli dalle curve sensuali e armoniose, simili a fianchi di donne mollemente riverse.

Queste colline, lo so, brulicano di vita animale; una vita elusiva, che si sottrae alla piena luce del giorno e alla potenziale minaccia dello sguardo umano. Caprioli, volpi, scoiattoli, persino cervi e cinghiali, vivono numerosi nell’ombra dei boschi, dagli ultimi lembi di terra coltivata fin su, alle falde dei monti che incombono vicini.

Inoltre queste colline e questi boschi, nonostante l’apparente ricchezza e dolcezza del manto erboso ed arbustivo, sono fatte di roccia calcarea appena ricoperta da un sottile strato di humus; e basta addentrarsi per poco nel fitto della macchia, e portarsi all’altezza delle loro pendici nascoste, per scoprire anfratti, cavità e autentiche caverne d’ogni forma e dimensione, che attraversano e perforano il terreno come un alveare.

L’acqua di numerose sorgenti, che si convoglia in tanti piccoli rivoletti e forma, qua e là, graziose cascatelle dalla voce argentina, scava lentamente la tenera roccia e allarga e approfondisce le cavità naturali, con azione quasi impercettibile, ma tenace.

Ancora nessuna voce umana, nessun segno di risveglio dalle case e dalle botteghe, mentre ritorno sul viale dei platani che sussurrano nella brezza del mattino.

Solo la porta del fornaio è aperta, e da essa si spande nell’aria un gratissimo profumo di pane caldo, appena sfornato.

Il cielo ormai sgombro annuncia un’altra giornata di calore ardente, senza la speranza di un temporale che giunga a rinfrescare l’atmosfera satura di umidità.

Ma, per ora, la temperatura è ancora assai gradevole, e anche se la brezza sta già calando di intensità e le fronde degli alberi sono di nuovo quasi immobili nella piena luce del giorno, nondimeno si prova tuttora l’illusione di un soave refrigerio destinato a durare almeno per qualche ora, prima che il Sole avvampi, alto nel cielo.

Questi primi momenti del nuovo giorno, innanzi che il mondo si ridesti dal sonno, possiedono una carica di forza vitale e, al tempo stesso, sono avvolti da una tale atmosfera di magia, che vale davvero la pena di rubare un paio d’ore al sonno per goderne, fresca ed intatta, tutta la misteriosa pienezza.

I pensieri si fanno più leggeri, le preoccupazioni allentano la morsa: tutta l’anima si abbevera felicemente di questa chiara lievità dell’aria, di questa impareggiabile festa di colori, di suoni, di profumi.

In queste ore aurorali del giorno pare che il tempo sia come sospeso, che la ruota del divenire venga trattenuta da mani invisibili; e si direbbe che il mondo ci sorrida più benevolo, che tutto sia ancora possibile, così come ci sembrava possibile qualsiasi evento, anche il più prodigioso, in quell’altro momento aurorale che è stato il mattino della nostra vita.

Per questo, nel chiarore verginale dell’alba, i pensieri si fanno più leggeri e le preoccupazioni allentano la morsa intorno al nostro cuore: perché è come se un incantesimo ci prendesse per mano e ci conducesse a ritroso nel tempo, verso l’età beata dello stupore e dell’attesa, quando tutto pareva fresco e nuovo, e le cose più straordinarie avrebbero potuto sbucare all’improvviso da dietro l’angolo della strada.

C’è ancora qualcosa di quel bambino che guarda il mondo con gli occhioni spalancati, in queste ore giovani del nuovo giorno che è appena scivolato fuori dall’ombra della notte, come un gattino che scivola fuori dalla sua cesta, smanioso di entrare nel giardino.

Mi riempio i polmoni dell’aria fresca e pura, e mi inebrio la vista dello spettacolo glorioso delle montagne avvolte dal Sole in una livrea dorata.

Ecco una nuvoletta posarsi sulla cima e allungarsi rapidamente, il bordo inferiore intinto in un azzurro cupo che tende al violetto.

È una nuvoletta strana, dalla forma curiosa, che rompe l’uniformità del cielo sgombro.

Questa notte, forse, pioverà.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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