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Perché si è uccisa la regina Amata? Quando le ragioni del cuore sono indicibili

C’è un episodio dell’«Eneide» che lascia perplesso il lettore, come se Virgilio non avesse voluto o non avesse osato dire tutto: quello relativo al suicidio della regina Amata, moglie di Latino e madre di Lavinia, promessa sposa di Turno, dei Rutuli.

Come è noto, lo sbarco di Enea nel Lazio provoca lo scoppio della guerra a causa della improvvisa decisione di Latino – dettata anche da un vaticinio di Fauno, divinità profetica che faceva udire i suoi responsi presso la fonte Albunea, presso Tivoli – di suggellare l’alleanza con i Troiani promettendo in sposa al loro duce la figlia Lavinia.

Ciò provoca l’indignazione di Amata, che rinfaccia allo sposo la mancata promessa nei confronti di Turno e fa di tutto per convincerlo a recedere dalla sua decisione. Tra l’altro, vistolo irremovibile, si nasconde nei boschi con Lavinia e chiama a raccolta le altre donne di Laurento, con le quali si abbandona a furiose orge bacchiche.

Tanta ostilità verso Enea e tanto furore contro la decisone del marito le sono stati ispirati, o almeno esasperati, dalla furia Alletto, inviata da Giunone (nemica mortale dei Troiani), la quale penetra con orribili metamorfosi nel seno della regina e la istiga nel suo vano tentativo di scongiurare in ogni maniera quelle nozze aborrite.

La stessa Alletto, poi, sotto le mentite spoglie di un’anziana sacerdotessa di Giunone, appare in sogno a Turno e ne infiamma la rabbia contro i Troiani, spingendolo, al risveglio, a preparare immediatamente la guerra.

Impressionante, per vigore drammatico e forza inventiva e allegorica, è la descrizione del modo in cui Alletto si insinua nell’animo di Amata e finisce per ridurla in uno stato di furore che assomiglia molto alla pazzia.

Solo un poeta che, come Virgilio, era così profondamente turbato dal mistero del male, poteva lasciarci una descrizione così raccapricciante della serpe velenosa che, simulando una collana o una fascia per capelli, penetra fino al cuore della sventurata regina; e solo un poeta della sua complessa sensibilità poteva rendere così conturbante e sensuale la scena, di per sé orribile, del mostro che, spargendo una scia di bava infetta, corre sotto le vesti e s’insinua sulla pelle liscia del seno della sua vittima.

Una scena di cui forse si ricorderà Torquato Tasso, nella «Gerusalemme liberata», là dove descrive la ferita mortale che l’inconsapevole Tancredi infligge a Clorinda, la vergine guerriera; così come, forse, era stata suggerita a Virgilio anche dal racconto della morte di Cleopatra, che si sarebbe fatta mordere da un aspide, per non dover ornare di sé il trionfo di Augusto su Antonio e sull’Egitto («Eneide», VII, 340-405):

«Exim Gorgoneis Allecto infecta venenis

principio Latium et Laurentis tecta tyranni

celsa petit tacitumque obsedit limen Amatae,

quam super adventu Teucrum Turnique hymenaeis

femineae ardentem curaeque iraeque coquebant.

Huic dea caeruleis unum de crinibus anguem

conicit inque sinum praecordia ad intuma subdit,

quo furibunda domum monstro permisceat omnem.

Ille inter vestes et levia pectora lapsus

volvitur attactu nullo fallitque furentem,

vipeream inspirans animam; fit tortile collo

aurum ingens coluber, fit longae taenia vittae

innectique comas et membris lubricus errat.

Ac dum prima lues udo sublapsa veneno

pertemptat sensus atque ossibus implicat ignem

necdum animus toto percepit pectore flammam,

mollius et solito matrum de more locuta

multa super natae lacrimans Phrygiisque hymenaeis:

"Exulibusne datur ducenda Lavinia Teucris,

o genitor, nec te miseret gnataeque tuique?

Nec matris miseret, quam primo aquilone relinquet

perfidus alta petens abducta virgine praedo?

At non sic Phrygis penetrat Lacedaemona pastor

Ledaeamque Helenam Troianas vexit ad urbes?

Quid tua sancta fides? Quid cura antica tuorum

et consanguineo totiens data dextera Turno?

Si gener externa petitur de gente Latinis

idque sedet Faunique premunt te iussa parentis,

omnem equidem sceptris terram quae libera nostris

dissidet, externam reor et sic dicere divos.

Et Turno, si prima domus repetatur origo,

Inachus Acrisiusque psatres mediaeque Mycenae".

His ubi nequiquam dictis experta Latinum

contra stare videt penitusque in viscera lapsum

serpentis furiale malum totamque pererrat,

tum vero infelix, ingentibus excita monstris,

immensam sine more furit lymphata per urbem.

Ceu quondam torto volitans sub verbere turbo,

quem pueri magno in in gyro vacua atria circum

intenti ludo exercent, ille actus habena

curvatis ferturspatiis; stupet inscia supra

inpubesque manus, mirata volubile buxum;

dant animos plagae: non cursu segnior illo

per medias urbes agitur populosque ferocis.

Quin etiam in silvas, simulato numine Bacchi,

maius asdorta nefas maioremque orsa furorem

evolat et natam frondosis montibus abdit,

quo thalamum eripiatTeucris taedasque moretur,

"Euhoe Bacche! Fremens, solum te virgine dignum

vociferans, etenim mollis tibi sumere thyrsos,

te lustrare choro, sacrum tibi pascere crinem.

Fama volat, furiisque accensas pectore matres

Idem omnes simul ardor agit nova quaerere tecta.

Deseruere domos: ventis dant colla comasque,

ast aliae tremulis ululatibus aethera complent

pampineasque gerunt incinctae pellibus hastas.

Ipsa inter medias flagrantem fervida pinum

Sustinet ac natae Turnique canit hymenaeos,

sanguineam torquens aciem torvomque repente

clamat: "Io matres, audite, ubi quaeque, Latinae:

si qua piis animis manet infelicis Amatae

gratia, si iuris materni curaremordet,

solvite crinalis vittas, capite orgia mecum".

Talem inter silvas, inter deserta ferarum,

reginam Allecto stimulis agit undique Bacchi.»

Ed ecco la bella traduzione, in fluenti e armoniosi versi endecasillabi, di un grande latinista, Guido Vitali (Virgilio, «Eneide», versione e commento di G. Vitali, Milano, Edizioni Scolastiche A. P. E., 1975, pp. 273-75):

«Infetta di gorgònidi veleni

subito Alletto si calò nel Lazio

su l’alta reggia del signor laurente,

e scese nella tacita dimora

dove Amata era tutta in gran travaglio

e accesa d’ire e di femminei crucci

per le nozze di Turno e per l’arrivo

di quei Troiani. A lei scagliò la Diva

un serpente del cèrulo suo crine

e in seno glielo spinse entro i precòrdii,

sì che dal mostro in gran furor gettata

ella turbasse tutta la dimora.

Tra le vesti serpendo e il molle seno

Si svolse quella senza pur toccarla

E insinuò non avvertito in lei

L’anima viperina e la follìa;

poi sul collo divenne aureo monile,

e lùbrico strisciò lungo le membra.

Or, mentre il tocco della prima lue

Penetrata col viscido veleno

pervadeva i suoi sensi, e intorno all’ossa

fiamme accendea, ma non ancor l’incendio

si era all’animo appreso in tutto il corpo,

ella dolce parlò, come le madri

hanno per uso, lagrimando a lungo

su quelle nozze della sua figliuola:

"Dunque agli esuli Teucri, o genitore,

darai sposa Lavinia? E della figlia

tu non senti pietà? non di te stesso?

Non della madre, che il crudel ladrone

lascerà qui se appena soffi il vento,

fuggendo con la vergine sul mare?

Non così dunque il dàrdano pastore

s’introducea nella città di Sparta

ed Elena ledèa condusse a Troia?

Dov’è la sacra tua regal parola?

Dove l’amor dei tuoi? Dove la destra

data sì spesso al consanguineo Turno?

Se si richiede un genero straniero

per i Latini, e tu vuoi questo, e a questo

col suo cenno ti astringe il padre Fàuno,

ogni terra ch’è libera e disgiunta

dal nostro regno è una straniera terra,

e questo, penso, intendono gli Dei.

E, se alla prima origine risali,

della sua stirpe, sono padri a Turno

Ìnaco e Acrìsio e la natìa Micène."

Con queste voci ella tentò Latino;

ma come vide ch’egli stava immoto,

come fluì nei visceri profondi

quel veleno del serpe furïale

e in tutti i membri giù le si diffuse,

allora sì la misera, invasata

e sconvolta da spettri spaventosi,

a infurïar per la città si diede.

Come quando una tròttola, rotando

Sotto gli obliqui colpi della sferza,

mentre i fanciulli in largo cerchio intenti

la spingono per vasti atrii all’intorno,

è lanciata dal cuoio in mille giri,

e le stan sopra, ignari, i più piccini

maravigliati al rotëar del bosso

cui le sferzate aggiungono vigore;

per le città, per aspri luoghi incolti

ella andava così furoreggiando.

Anzi, fingendo bàcchici fervori,

si abbandonò con più nefando eccesso

a più grandi follìe; volò nei boschi

e nascose la figlia in monti ombrosi

per impedire, o differire almeno,

le nozze ai Teucri. "Evoè, Bacco!" urlava,

e gridava che degno eri tu solo

della fanciulla, che per te soltanto

il flessibile tirso ella impugnava,

solo per te moveva a cerchio in danza,

per te cresceva le prolisse chiome.

Volò la Fama, ed uno stesso ardore

Trasse le madri, dalle Furie accese,

a cercar tutte insieme altre dimore.

Ed ecco, abbandonarono le case,

diedero al vento gli òmeri e le chiome,

empirono di trèmuli ululati

l’aëre e cinte di ferine pelli

impugnarono verghe pampinose.

Ella alzò forsennata in mezzo a loro

una fiaccola ardente, e intorno intorno

Rigirando sanguigni occhi inneggiava

alle nozze di Turno e della figlia;

e d’un tratto urlò torva: "Olà, sentite,

dovunque siate, madri dei Latini.

Se resta nelle vostre anime pie

Un po’ d’amor per l’infelice Amata,

se il diritto materno il cuor vi punge,

sciogliete i crini, e celebriamo un’orgia."

Tale Alletto, per selve e per deserte

Plaghe di fiere, d’ogni parte urgeva

La regina coi pùngoli di Bacco.»

Fino a questo punto, benché il comportamento di Amata sia eccessivo – a segno che Virgilio lo attribuisce all’invasamento malefico della Furia Alletto – lo si può tuttavia spiegare con il sentimento materno ferito da una decisione di Latino che le riesce incomprensibile, tanto più che sua figlia (come il lettore, però, apprenderà solo molto più tardi, ai vv. 64-65 del XII canto: «lacrimis Lavinia… flagrantis perfusa genas») ama Turno, riamata; ed, evidentemente, non è stata felice di apprendere il suo nuovo destino.

Fino a questo punto, dicevamo, il comportamento di Amata può anche riuscire comprensibile, rientrando – del resto – in un certo stereotipo della capricciosità femminile e dell’insofferenza delle madri ad accettare, per le figlie, lo sposo deciso dal pater familias (Virgilio era troppo romano per indulgere ad alcuna simpatia proto-femminista).

Peraltro, al lettore non sarà sfuggito che la protesta di Amata – dapprima suadente e quasi carezzevole, e solo poi, in un climax altamente drammatico, sempre più scomposta e indomabile – non è diretta principalmente contro il fatto che Latino abbia destinato la mano di Lavinia a uno straniero dalle dubbie origini e dalle ambizioni sospette (evidentemente, Enea le aveva fatto tutt’altra impressione che al marito); quanto contro il fatto che egli non voglia più darla in sposa a Turno, cui l’aveva in precedenza promessa.

In altre parole, il cruccio di Amata non deriva dal fatto che Latino ha scelto per la loro figlia diletta un marito che lei disapprova, ma dal fatto che non vuole darla in moglie a Turno: come se qualunque altro sposo, all’infuori di questi, le riuscisse odioso e intollerabile.

Per avere un quadro ancor più esatto della situazione, bisogna inoltre precisare che Turno (che poteva vantare, alla lontana, una discendenza greca, in quanto Pilumno, fondatore di Ardea, aveva sposato Danae, figlia di Acrisio, re di Micene) era figlio di Venilia, sorella della stessa Amata ed era, quindi, suo nipote in linea diretta.

Ad ogni modo, là dove il comportamento di Amata supera la semplice ripugnanza all’idea delle nozze di Lavinia con Enea, ma si avvicina a un ardente sentimento di amore per il nipote e mancato genero, Turno, è allorché questi accetta la proposta di misurarsi con il capo troiano in singolar duello, in modo da decidere, al tempo stesso, le sorti della guerra e chi sarà, dei due, lo sposo della principessa latina («Eneide», XII, 54-74):

«At regina nova pugnae conterrita sorte

flebat ed ardentem generum moritura tenebat:

"Turne, per has ego te lacrimas, per si quis Amatae

tangit honos animum (spes tu nunc una, senectae

tu requies miserae, decus imperiumque Latini

te penes, in te omnis domus inclinata recumbit),

unum oro; desiste manum committere Treucris.

Qui te cumque manent isto certamine casus,

et me, Turne, manent; simul haec invisa relinquam

lumina nec generum Aenean captiva videbo.

Accepit vocem lacrimis Lavinia matris

flagrantis perfusa genas, cui plurimus ignem

subiecit rubor et calefacta per ora cucurrit.

Indum sanguineo veluti violaverit ostro

si quis ebur aut mixta rubent ubi lilia multa

alba rosa: talis virgo dabat ore colores.

Illum turbat amor figitque in virgine voltus;

ardet in arma magis paucisque adfatur Amatam:

"Ne, quaeso, ne me lacrimis neve omine tanto

prosequere in duri certamina Martis euntem,

o mater; neque enim Turno mora libera mortis.»

Traduzione di Guido Vitali (cit., pp. 457-58):

«La regina in lacrime, atterrita

da quella nuova forma di battaglia,

pur tratteneva il genero animoso,

già decisa a morire: "Turno, per queste

lagrime, per i meriti di Amata,

se pur cari ti sono (or tu la sola

speranza sei tu l’unico riposo

della vecchiezza misera, in te solo

stanno il regno e l’onore, a te si appoggia

la rüinante casa di Latino),

sol questo chiedo: non pugnar col teucro!

Qualunque sia la morte che ti attende

Da tal contesa, anche me, Turno, attende:

lascerò teco l’odïosa luce;

non lo vedrò mio genero e signore."

Le parole materne udì Lavinia,

sparsa di pianto le infiammate gote,

ché un vivido rossor come di fuoco

pronto le corse e le avvampò la faccia.

Come chi vïolasse ìndico avorio

Con porpora sanguigna, e come bianchi

Gigli rosseggian misti a molte rose,

tali colori avea Lavinia in volto..

Ei turbato d’amore il guardo fisse

Nella fanciulla e più si accese all’armi;

e ala regina rapido rispose:

"Non con lagrime, o madre, io te ne prego,

non salutarmi con sì tristo augurio

mentre scendo ai cimenti aspri di guerra;

ché non mi è dato ritardar la morte.»

Come si vede, qui siamo assai oltre il normale rapporto fra una suocera e il (mancato) genero; e, se è commovente – ed estremamente poetico – quel rapido sguardo che ci è dato gettare sul rossore dell’infelice e innamorata Lavinia, che trema per la sorte del suo ex promesso sposo, quello che ci colpisce con estrema violenza è l’atteggiamento di Amata, risoluta a morire se Turno, accettando la sfida di Enea, dovesse cadere sotto il suo ferro.

«Se tu morirai, io morirò con te», gli dice con tremenda sincerità la regina; «i miei occhi si chiuderanno per sempre alla odiosa luce del giorno»; e Virgilio, per buona misura, precisa che ella era già decisa a morire in cuor suo («moritura», cioè già preparata alla morte e, in certo senso, già distaccata dalla vita).

Sono parole che ci saremmo aspettati di udire, casomai, dalla bocca di Lavinia; la quale, invece, non sa fare altro che piangere e arrossire: pallido fantasma di donna che attraversa il poema, lei causa involontaria della guerra e di tante morti e sofferenze, senza mai mostrare un segno di volontà propria, anzi, senza mai pronunciare una sola parola.

Invece queste parole di estrema fedeltà, ardenti di un amore che non sbigottisce davanti all’idea della morte, e nelle quali palpita anzi un sentimento così grande, da dichiarare odiosa la vita stessa, se Turno dovrà soccombere, non le pronuncia Lavinia, ma sua madre: e, francamente, ci sembrano un po’ eccessive, per quanto grande potesse essere l’affetto di lei verso il futuro genero, nonché verso il figlio della propria sorella.

Qui c’è qualcosa di segreto, qualcosa che ci sfugge; come se Virgilio avesse voluto alludere a qualche cosa che non si può dire, cui non si può nemmeno accennare, ma soltanto seminare degli indizi estremamente indiretti.

Solo una donna follemente innamorata potrebbe rivolgere parole del genere a un uomo che sta per affrontare il supremo cimento; solo una donna che non teme più nulla, neanche il giudizio degli uomini, perché ormai ha oltrepassato la barriera dell’istinto di conservazione e si è già congedata, nel profondo del cuore, dalla vita.

La timidezza di Lavinia e l’irruenza di Amata, per giunta sconvolta dalle male arti di Alletto, non bastano a spiegare un comportamento così sorprendente, una tale inversione di ruoli, per cui colei che dovrebbe parlare, tace, mentre colei che dovrebbe tacere, parla e rivolge parole strazianti al giovane che sta per andare incontro al proprio destino.

Possiamo sbagliarci: ma sempre, fin dalla prima volta in cui ci è capitato di leggere questi versi, abbiamo avuto la netta sensazione di trovarci in presenza di uno di quei sentimenti indicibili che, appunto, nessuno oserebbe mai rivelare, se non avesse ormai rotto gli argini – insieme a quelli del timore della morte – del pudore e della vergogna.

Un sentimento indicibile, e per un triplice ordine di ragioni: perché Amata è la madre della promessa sposa di Turno; perché è sua zia; perché deve certo essere molto più grande di lui, anche se non poi così vecchia come allude, nell’enfasi del discorso (se Lavinia era giovanissima, come in genere le donne latine in età da marito, sua madre difficilmente poteva aver superato la quarantina, e forse ne era bene al di sotto).

In genere, i commentatori hanno scantonato di fronte all’evidente stranezza del discorso di Amata e alle silenziose, ma fortissime implicazioni del suo pathos drammatico. Per loro, la veemenza dei sentimenti di Amata si spiega con il suo carattere «virile» e ben più passionale di quello del marito, che ha egli pure invitato Turno a non battersi con Enea, ma solo per esortarlo ad accettare la vittoria dei Troiani e le nozze di Enea.

Così, ad esempio, Adriano Bacchielli, altro pregevole traduttore del poema virgiliano (Virgilio, «Eneide», a cura di A.. Bacchielli, Milano, Paravia, 1963, p. 552-3, 568-69):

«Diversa, se pur sempre ferma nella stessa idea della impossibilità di una scelta fra vita e onore, è la risposta che egli [cioè Turno, che ha già respinto l’invito di Latino a non battersi] dà alla regina Amata, perché diverso è il motivo per cui la regina lo ha pregato e scongiurato di non scendere alle prese col Troiano.

La regina, infatti, più che mostrargli i suoi timori per lui, gli ha mostrato di sentirsi più che mai bisognosa del suo aiuto, e quasi perduta al solo pensiero di restare senza il suo valido appoggio, dandogli così una diretta dimostrazione non solo di affetto, ma anche di ciò che egli ancora rappresenta, ai suoi occhi, per il regno del Lazio. (…)

Nota quanto più appassionato [rispetto a quello di Latino] è il discorso della regina e di quanta trepidazione è animato. Ma Amata non ha tanto paura per Turno, come Latino, quanto per sé, per il regno, per la sua vecchiaia; e questo suo sgomento, quel suo vedersi smarrita e perduta senza l’appoggio di Turno, soddisfa l’orgoglio del fiero Rutulo che si vede ancora considerato il sostegno della patria e mantenere intatta l’antica fiducia. Da ciò l’affettuosa risposta che, per quanto sconsolata, è tuttavia pacata e serena, piena di amor filiale, e ben diversa da quella data a Latino.

Amata, nella vacillante casa di latino, è l’unico personaggio della statura di Turno, sia per l’odio contro Enea, sia per l’irriducibilità dei suoi propositi, sia per l’orgoglio e la fierezza di una natura che non sa piegarsi né di fronte alle avversità degli uomini, né a quelle del destino. Inutile precisare che mentre Latino sconsigliava guerra e duello, Amata era contraria solo al duello

Lavinia tace, ma il suo pianto che scoppia improvviso alle ultime parole della madre, e ancor più il suo rossore, sono più eloquenti di qualsiasi discorso: ella ama veramente Turno, il valoroso campione italico, il cugino col quale forse era cresciuta insieme e che fin da bambina si era forse abituata ad immaginare al suo fianco per tutta la vita. Su Lavinia, e le deficienze della sua figura sul piano artistico, è già stato detto abbastanza (…); ma certo è che anche così il suo personaggio, benché indefinito e incompiuto, ha un suo grande fascino: fascino che le deriva proprio da questa mancanza di concretezza che la rende quasi una creatura di sogno. Né il dramma che è in lei ha bisogno di commento: è il dramma della giovane alla quale il destino non consente la rara felicità che il primo amore sia anche l’unico della sua vita.»

Con tutto il dovuto rispetto per Adriano Bacchielli, interprete raffinato e sensibile delle sfumature più riposte dell’anima virgiliana, qui non ci possiamo trovare d’accordo con lui.

Sì, Lavinia è una dolce creatura quasi di sogno, che tanto più ci colpisce, quanto più il suo dramma rimane inespresso e tratteggiato con pochissime pennellate; tuttavia è innegabile che, accanto al personaggio di sua madre, ella quasi scompare, tanto le è inferiore per calore d’affetti e per la vivissima preoccupazione circa il destino di Turno.

Né ci sembra di poter condividere l’impressione che Amata, nel suo discorso al re dei Rutuli, abbia parlato unicamente sotto l’impulso dell’ansia per il proprio futuro; al contrario, la solenne promessa di voler condividere il suo destino sino in fondo, fosse pure la morte, ci pare che suoni in tutt’altra maniera, e cioè come autentica disperazione all’idea che egli possa cadere sotto la spada di Enea. Parole talmente appassionate ed esplicite che – lo ripetiamo – ci saremmo aspettati di udirle da sua figlia, non da lei, in quel drammatico frangente.

Ma Amata non si limita alle parole.

Quando il duello fra Turno ed Enea viene interrotto e i Troiani, con i loro alleati Etruschi, prendono d’assalto le mura di Laurento, ella vede in ciò il segno che il genero è caduto per mano dell’odiato straniero e non esita a dar seguito ai suoi funesti propositi, mostrando una fermezza d’animo che non può non suscitare una sorta di ammirazione, pur se il suo suicidio non possiede affatto la magnanima grandezza di quello di Didone – ma il paragone è impari, dato che la regina cartaginese è il personaggio artisticamente più riuscito del poema di Virgilio -, bensì, al contrario, ha qualcosa di vergognoso e perfino di turpe («Eneide», XII, 593-613):

«Accidit haec fessis etiam fortuna Latinis,

quae totam luctu concussit funditus urbem.

Regina ut tectis venienetem prospicit hostem,

invcessi muross, ignis ad tecta volare,

nusquam acies contra Rutulas, nulla agmina Turni:

infelix pugnae iuvenem in certamine credit

exstinctum et subito mentem turbata dolore

se causam clamat crimenque caputque malorum

multaque per maestum demens effata furorem

purpureos moritura manu discindit amictus

et nodum informis leti trabe nectit ab alta.

Quam cladem miserae postquam accepere Latinae,

filia prima manu floros Lavinia crinis

et roseas laniata genas, tum cetera circum

turba furit: resonant late plangoribus aedes.

Hinc totam infelix volgatur fama per urbem.

Demittunt mentes; it scissa veste Latinus,

coniugius attonitus fatis urbisque ruina,

canitiem immundo perfusam pulvere turpans.

[Multaque se incusat, qui non acceperit ante

Dardanium Aenean generumque adsciverti ultro].»

Traduzione di Guido Vitali (cit., p478-79):

«Or sopravvenne ai miseri latini

anche un’altra sciagura e dal profondo

tutta di strazio la città percosse.

Come dalle sue stanze ebbe veduto

Il nemico avanzare, invasi i muri,

ed ai tetti le fiaccole volare,

e non rùtule schiere in parte alcuna

né squadroni di Turno opporsi a loro,

la regina pensò che morto ei fosse

nella battaglia; e col pensier travolto

da improvviso dolore ella si disse

cagione, colpa, origine dei mali;

e, nel tristo furore alto gridando,

già forsennata e risoluta a morte,,

strappò da sé le sue purpuree vesti

e intrecciò di sua mano e a un’alta trave

sospese un laccio orribile di morte.

Come tal scempio seppero le meste

Donne latine, fu Lavinia prima,

la sua figliuola, lacerarsi a furia

i fiorenti capelli e il roseo volto,

poi tutte l’altre a smanïare intorno:

vasta sonava d’ululi la reggia,

Quindi l’annunzio lùgubre si sparse

Per la città; furon turbati i cuori;

venne con veste lacera Latino

e, scosso al fato della sua consorte

e al ruinar della città, d’immonda

polvere offese la canizie sparsa

e s’accusò di non avere accolto

e prontamente unito a sé nel regno

come genero proprio il teucro Enea.»

Il fatto che Amata si suicidi prima ancora che l’evento da lei temuto – la morte di Turno – si sia verificato, è sembrato ad alcuni critici una conferma della furia irragionevole, della dismisura tragica di questo personaggio; dimenticando che Turno sarebbe morto, nel corso del duello con Enea, subito dopo: e ch’ella, dunque, non ha fatto che precedere di pochi momenti la fine del giovane, unendosi al suo destino, come del resto aveva promesso di fare.

La forma del suicidio scelta da Amata, ossia l’impiccagione, è frequente nella poesia e nella tragedia greca: così avevano posto fine ai propri giorni Giocasta, la sventurata madre (e sposa) di Edipo; così Fedra, sconvolta dal rimorso per la tragica fine del figliastro Ippolito, da lei calunniato presso il marito Teseo; così, infine (secondo una tradizione, accolta, fra gli altri, dal Vitali, op. cit., p. 478), Anticlea, la madre di Ulisse; benché la narrazione di Omero, in «Odissea», XI, 85 sgg., sia molto più vaga e si presti a diverse possibili interpretazioni.

Il suicidio di Amata, comunque, desta in Virgilio una profonda pietà, non priva di una certa quale sfumatura di ribrezzo («informis leti», sconcia morte).

Citiamo ancora dal Bacchielli (op. cit., p. 591):

«Il suicidio, e in particolare quello per impiccagione, era anticamente considerato atto di sdegnoso e nobile spirito, e come tale esaltato spesso dai poeti tragici.. Virgilio invece, per quella sensibilità morale che gli è propria, e per la quale tante volte abbiamo visto come egli anticipi addirittura atteggiamenti propri della sublime concezione del Cristianesimo, non solo la condanna, ma sembra anche, da vero cristiano, stendere un velo di pietà e di commiserazione sulla sorte dell’infelice regina alla quale non sono bastate le forze per reggere di fronte ad una così improvvisa e grande sventura.»

Sia come sia, anche nella morte Amata aderisce inconsapevolmente al modello di altre donne travolte da una passione indicibile: quello di Giocasta e quello di Fedra; e non ci sembra che l’accostamento possa ritenersi del tutto casuale.

C’è un’altra cosa da dire.

Nella morte di Amata vi è qualcosa di scomposto, quasi di impudico, proprio come vi era stato nella sua «pazzia», allorché Alletto, sotto forma di serpente, le era penetrata sotto le vesti e, strisciando, si era aperta una via attraverso il suo seno.

Prima di uccidersi, dice Virgilio, «purpureos moritura manu discindit amictus» («si strappa, decisa a morire, le vesti purpuree»: traduzione di Enzio Cetrangolo); dunque, dobbiamo immaginarci il suo cadavere penzolante dalla trave – spettacolo atroce e, al tempo stesso, sconcio – con le vesti stracciate, e perciò seminudo.

Crediamo che bene abbia rappresentato la scena il pittore Fabio Fabbi (pur con qualche ridondanza e, forse, con una punta di eccesso nel tipico stile neomichelangiolesco, alla maniera Giulio Aristide Sartorio) nella edizione dell’«Eneide» pubblicata dalla Casa editrice Nerbini di Firenze, del 1957.

Mentre Lavinia, inginocchiata accanto a lei, si strappa i capelli per la disperazione, e le ancelle si coprono il viso e fuggono atterrite fra le colonne della sala, Amata (tutt’altro che anziana: poco più che trentenne, all’aspetto) giace al suolo coi capelli in disordine, la bocca semiaperta, la destra contratta – come ad afferrare qualcosa -, il laccio ancora stretto intorno alla gola, il seno interamente scoperto.

Una scena tremenda, perché vi si mescolano la tragicità della morte e l’impudicizia di «quella» morte, di «quel» corpo ignudo, abbandonato agli sguardi di tutti (come nella giovane suicida che si è gettata sotto il treno, in una delle scene iniziali del romanzo dello scrittore romeno Cézar Petrescu «Calea Victoriei», del quale ci siamo occupati in un saggio di qualche anno fa («L’opera narrativa di Cézar Petrescu, 1892-1961», pubblicato negli «Atti» della Società Dante Alighieri di Treviso, vol. 5, 2006, e consultabile anche sul sito di Arianna Editrice).

Senza voler decidere definitivamente una questione che Virgilio, evidentemente, ha voluto lasciare aperta, ribadiamo il concetto che il suicidio di Amata ci sembra difficile da spiegare – nella misura in cui un suicidio può essere «spiegato», cioè comunque inadeguata – soltanto con riferimento alla sconfitta dei Latini e alla prospettiva di vedere Lavinia andare in sposa all’odiatissimo Enea, salito così al rango di nuovo re di Laurento.

Ci sembra che, nel personaggio enigmatico di Amata, vi sia una coerenza interna semplicemente terribile, nella sua determinazione; e che tale coerenza non si presti a divenire intelligibile, se non ammettendo in lei un sentimento doloroso e inespresso, perché assolutamente inesprimibile, nei confronti di Turno.

E crediamo anche di poter individuare la prima radice di un tale sentimento, sotto il profilo psicologico e affettivo, in quella somiglianza di caratteri tra il fiero re dei Rutuli e l’altrettanto fiera regina dei Latini; laddove spicca il contrasto fra il temperamento di lei, sdegnoso e intransigente, e quello dolce e accomodante del marito, Latino, il quale, pur essendo contrario alla guerra, nulla sa fare pere impedirla, se non chiudersi nelle sue stanze e attendere l’esito degli eventi in un crucciato silenzio.

Un sentimento indicibile, dunque.

Non sarebbe stata la prima volta, né l’ultima, che cose del genere accadono.

Altra questione è, poi, evidentemente, se chi vive un sentimento del genere troverà mai il coraggio, o – secondo i punti di vista – l’imperdonabile indecenza, di dichiararlo apertamente, a se stesso innanzitutto, e poi all’oggetto del proprio amore.

Amata – se pure la nostra ipotesi è esatta, e se davvero ha nutrito un amore «impossibile» per il giovane nipote – non ha osato dirlo, ma solo non ha potuto impedire che le sfuggisse una implicita confessione, là dove ha scongiurato Turno di non esporsi alla morte, ché, altrimenti, ella avrebbe scelto di morire con lui.

E anche questo, come insegnano molti altri casi celebri nella storia della letteratura, può essere un modo di affrontare l’insostenibilità di una tale situazione: la morte volontaria, come unica possibile fuga-dichiarazione da un sentimento così inesprimibile.

Eros e Thanatos, ancora una volta.

Checché ne pensino numerosi critici, alla luce di questa nostra ipotesi, non solo il gesto finale di Amata, ma tutta la sua figura – altrimenti piuttosto indecifrabile – assumono una linearità e si illuminano di una chiarezza artistica evidenti e, per certi aspetti, addirittura sublimi.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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