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Una pagina al giorno: Il rosso delle ciliegie di Giovanni Comisso

"In quella terra tra la foce del fiume e la laguna, l’estate accasciava con polvere e caldo la vegetazione degli orti e delle vigne, ma Isabella aveva fatto sapere a Marco, per mezzo di Geltrude, che avrebbe gradito venisse a prendere il fresco nella sua vigna, a mangiare l’uva di luglio e il melone. La laguna era così ferma e imputridita dal caldo che le maree non riuscivano ad aver presa e nei canali esalanti il salmastro le bucce di cocomero gettate nella notte non potevano scendere col calare della marea e alla mattina si ritrovavano dove erano state gettate tappezzando l’acqua di verde e di rosso. Marco era più ghiotto delle frutta che della donna, rinsecchita dal lavoro della terra, tormentata dal fastidio dell’autunno della sua vita col marito che lavorava in altra città. Isabella aveva sempre avuto per lui un desiderio, lo aveva visto nei giorni di festa girare tra i tavolini del caffè, dove ella stava seduta con suo marito taciturno ed egli veniva a vendere le frittelle. Marco le sorrideva, come sorrideva a tutti i clienti e la invitava ad assaggiare: «Una gliela regalo – diceva -, ma sono sicuro che ripeterà». Ella lo trovava gentile e gli chiedeva come erano fatte: «È un segreto, signora», le diceva socchiudendo gli occhi, ed ella si sentiva attrarre perdutamente. Per fare un piacere a lui ne mangiava parecchie e le piaceva che suo marito pagasse. Geltrude aveva insistito decantando la vigna e le frutta di Isabella: «Vi sono i fichi, vi è l’uva che à fichi grossi come uova di colombo e meloni tutto miele e poi vedi di accontentarla e fai guadagnare qualche cosa anche a me». «Ma sei matta, non à che quattro ossa». «Cosa importa – solleticava Geltrude – ha i denari e te ne dà, se l’accontenti, fatti furbo». «Cosa vuoi che mi faccia furbo, è un boccone che mi andrebbe giù per forza, ma se si tratta di prendere il fresco, vengo». E quasi con l’estro di salvarsi da un agguato disse che avrebbe portato anche un suo amico». «Va bene – disse Geltrude – farà compagnia a me». Il suo amico Mario faceva il salumiere e all’invito disse subito: «Benissimo, non mi sembra vero di andare in campagna a mangiare frutta, con il melone va bene il prosciutto e ne porterò io». In quella città fatta tutta di case e di canali, senza alberi e senza giardini, il desiderio della campagna quando le prime frutta maturano si fa ossessionante per tutti. I primi ad avvertirlo sono i ragazzi che al sintomo del maturare, come lo avessero fiutato nell’aria, scappano dalla città verso la campagna e lungo la foce del fiume a tingersi la bocca del rosso delle ciliege e del nero delle more di gelso, poi sono le spose novelle e le vecchie e infine tutti gli altri ne vengono travolti. Per accontentare tutte queste altre schiere vengono dalla campagna certe contadine vestite di nero, con un cappello di paglia pure nero, che si avvertono da questo cupo vestire appena imboccano una calle della città ancora che non abbiano lanciato il loro richiamo come un lamentoso allarme: «More di gelso, donne e ciliege dolci». E le donne mandano le ragazzine incontro di corsa sollecitandole, come divorate da una sete ardente. Anche Marco e Mario sentivano nella loro bocca questa sete ardente, l’uno sempre affannato tra la sua casa a friggere le frittelle e i caffè e le osterie della città a sgambettare per venderle, l’altro sempre obbligato nel suo negozio di salumi trasudanti col caldo. Avevano bisogno di aria, di verde e di frutta, e nel pomeriggio del giorno dopo decisero di andare alla vigna di Isabella che si trovava nella località della Monaca Pazza.

"Vicino alla vigna molto tempo addietro vi era un convento di monache che poi era stato abbandonato ed era andato in rovina. Con i mattoni gli ortolani avevano costruito le casupole per riporre gli utensili, per mettersi al riparo durante i temporali, per tenervi in sosta i raccolti prima di portarli al mercato e per dormire nei momenti di riposo. Nello scavare un fosso vicino alle fondamenta del convento vi avevano trovato la testa di una statua di Minerva o di Venere, perché in tempi ancora più lontani vi doveva essere stato un tempietto. Quegli scavatori attoniti dal sole, dalla fatica e dall’aria grassa che veniva dalla laguna erano rimasti a guardare quella testa, come fosse stata mozzata da un corpo umano, e quando l’estrassero dal pantano corrosa e annerita non osavano toccarla. Vi era una storia sul convento, che le monache avessero i loro amanti e che al colmo dello scandalo fosse loro apparso il demonio facendole impazzire, così quella testa fu subito attribuita alla badessa e fu dato a quel luogo la denominazione della monaca pazza.

*"Quando Marco, Mario e Geltrude vi giunsero erano sudati, stanchi e una sola cosa attendevano di vedere: un bel melone maturo e profumato pronto a dissetarli. Sulla siepe polverosa si apriva un piccolo cancello e appena spinto si trovarono sotto a una bassa pergola dove nereggiavano i grappoli di uva. Geltrude chiamò più volte Isabella e questa rispose come da un chiuso, che sarebbe venuta subito. La vigna aveva i filari inclinati a tetto e tra un filare e l’altro vi erano le gombine coltivate a pomidoro o a meloni o a granone. L’ombra era sotto ai filari e tutti e tre si distesero felici di avere raggiunto la meta, sopra alle loro teste pendevano i grappoli di uva che qualche raggio di sole illuminava passando tra le foglie e stando distesi allungavano le braccia cominciando a piluccare. Tra le canne di granone apparve Isabella che portava tra le braccia due grandi meloni, arsa di sole e rugosa sorrise con lo sguardo avido e depose i meloni tra le gambe degli ospiti per finire a distendersi quasi cadendo vicino a quelle di Marco. Le presentarono Mario subito avvertendo che aveva portato il prosciutto, parlarono del grande caldo, della sete, della polvere, del bisogno di uscire dalla città che era simile a un forno, a volte tutti assieme. Isabella guardando Marco sempre negli occhi diceva sottovoce che nella sua vigna si sarebbero riposati e saziati di frutta, intanto mangiassero il melone e cogliessero l’uva, ella andava a prendere i fichi che teneva già raccolti nella casupola. «Faccia presto, Isabella – le disse Marco -, ché mangiamo tutti assieme». E preso il melone lo tagliò in due facendone colare il succo profumato: «Dio che dolcezza», disse e passate le due parti agli altri si diede a succhiarsi le dita gridando: «È miele, è miele!». Geltrude si sistemò col suo grande corpo sull’erba come su di un letto in attesa del piacere e alzata la fetta si fece colare il succo in bocca. Isabella ritornò portando i fichi accartocciati nelle loro foglie e li depose per terra, ancora lasciandosi cadere come in abbandono vicino alle gambe di Marco. Il melone venne mondato dai semi, fu tagliato a fette, su di ognuna Mario vi metteva il prosciutto, e la passava alle donne. Mangiarono voraci, sitibondi, golosi in silenzio, e alla prima pausa gli ospiti andarono a gara nell’elogiare i meloni scelti a tempo giusto. Poi Marco allungò la mano verso i fichi scusandosi che non ne poteva più dalla voglia. Geltrude fece altrettanto scusandosi che era una donna e le donne devono essere accontentate nelle voglie. «Già – disse Isabella. – Non si sa mai, sarebbe brutto un bambino con una voglia di fico sulla faccia». «Magari, vi fosse quel pericolo, cara Isabella, ma per me è passato quel tempo». «Bei tempi, Geltrude, quelli quando vi erano di quei pericoli», disse Marco e un fico dopo l’altro sparirono nella bocca di ognuno. Parvero sazi e marco posò una mano sulla spalla di Isabella: «Beata lei che vive in campagna». «Sì, ma sono sempre sola», e gli rivolse lo sguardo con languidezza ed egli le strinse la spalla come per afferrarla. «A me piacciono tanto le barzellette, me ne racconti qualcuna», gli disse come per sviare la tentazione di baciarlo. Marco pensò un poco e poi disse: «Anche se sono spinte? Io ne so solo di spinte». «Ma sì – disse Geltrude -, qui non vi sono minorenni». E Marco incominciò dapprima distratto, accompagnando le parole con i gesti, tacendo le parole più piccanti, o velandole con le frasi: «Come sapete» oppure: «Come potete immaginare» per finire nella risoluzione inattesa che fece ridere tutti mentre egli rimaneva impassibile come avesse detto nulla di straordinario. Quando cessarono di ridere Geltrude, come fosse stata la sola per essere più esperta a comprendere tutto, prese a commentare e a dare spiegazioni maggiori. «Un bel macaco, quel marito ad andare a raccontare alla moglie che il suo servitore aveva tanta grazia di Dio. Noi donne siamo curiose e guai a farci sapere che quello che è nascosto è fatto così o così. Povero ragazzo, si divertiva a lanciare palline di mollica di pane con quel bell’affare, ma quando fu costretto a fare vedere quel gioco agli amici del suo padrone, la molla era stata già rotta dalla moglie e il gioco non poté più farsi. Si sa, perché era giovine e la molla è facile a rompersi». Isabella volle commentare anch’ella: «Doveva essere proprio giovine se raccontò ogni cosa piangendo e tutto timoroso». «Giovine? – disse Marco. – Un ragazzo, di quei ragazzi mezzo tonti, ma era sviluppato fuori del tempo». E tutti risero ancora. E Isabella si abbandonò sul petto di Marco senza che egli se lo aspettasse. Un raggio di sole le batteva sul volto rilevando le sue rughe e alcuni denti mancanti nella sua bocca socchiusa. Per liberarsi da lei Marco si alzò sollevandola da sotto le ascelle e propose di vistare la vigna. Tutti si alzarono e si sentirono appesantito come avessero fatto un grande pranzo. Mario prese a braccio Geltrude, e Marco, Isabella. Questa mostrò le gombine di fragole che oramai avevano finito di fruttire: «Bisogna che tu venga a maggio. Allora vedrai quante ve ne sono», gli disse sottovoce stringendogli la mano. «Sì, cara». Le corrispose insinuante, ma egli pensava soltanto alla dolcezza di un grande piatto di fragole. «Ecco, questa è l’uva moscatella, comincia a essere matura». E preso un chicco, di scatto lo appressò alle labbra di Marco, che rimasero chiuse, schiacciandoglielo contro come con la violenza di un bacio. Gli altri, dietro, piluccavano golosi indifferenti che i chicchi fossero crudi o maturi. «Il granone à già le pannocchie. Come sono buone, ora, che sono fresche, arrostite sulle braci», disse Marco. «Me ne darai qualcuna?». Isabella si staccò da lui per sceglierne alcune. Anche Geltrude ne volle e anche Mario. «Bisogna staccarle dove ve ne sono due per pianta, perché se no mio marito se ne accorge», disse isabella e intanto passava da una pianta all’altra scegliendo e staccando, felice le chiedessero quella roba, come fosse qualcosa del suo corpo E Geltrude riempiva la sacca. Proseguirono e Isabella chiese a Marco, resa più ardita dal dono delle pannocchie: «Cosa disse quel ragazzo al suo padrone quando lo sorprese seduto a cavallo della botte mentre faceva quel gioco?». «’Lo faccio per passare il tempo’ aveva detto, ma povero figlio, era un innocente» le rispose Marco. «Ci volle la padrona per togliergli l’innocenza». Soggiunse Isabella ridendo a piena gola e rasentò la sua testa a quella di Marco: «Verrai ancora a trovarmi, ora sai la strada, ma vieni tu solo» gli disse stringendogli il braccio. «Sì, verrò quando l’uva sarà proprio matura». E si staccò dal suo braccio per volgersi a vedere dove stavano gli altri. «Bisogna sorvegliarli, perché sono ancora bambini», disse e li vide che stavano sotto a una vite a mangiare l’uva. Li invitò a smettere e a proseguire e arrivò alla casupola che era stata costruita come le altre attorno, con i mattoni dei ruderi del convento della monaca pazza. Isabella sospinse la porta, era un andito con un focolare spento, vi erano alcune zappe in un angolo e un mucchio di patate e una sedia a sdraio. Alcuni mattoni delle pareti male connessi avevano perduto la calce e vi si vedeva attraverso. «Qui mi riposo quando sono stanca», disse isabella facendosi malinconica. «Sono sempre sola», soggiunse e strinse ancora il braccio di Marco. «Ma non puoi prenderti un servitore?» disse Marco come rimproverandola. «Pretendono troppo e non lavorano», disse Isabella ed era seccata che Marco non avesse compreso la sua solitudine. «Un servitore – Marco soggiunse insolente – al quale non si rompa la molla». Isabella si scostò da lui, lo guardò seria e richiuse la porta. Mario intervenne che era ora di andare, Geltrude diceva che avevano passato un bel pomeriggio, che tutto era stato molto buono, il melone, i fichi, il prosciutto. Mario anche diceva che non gli era sembrato vero trovarsi tra un poco di verde fuori della sua bottega. Ora Isabella si accompagnava a lui e disse anche a lui di venire nella sua vigna quando avesse voluto, vi sarebbero stati altri fichi e altri meloni, ma venisse solo, ora che sapeva la strada. «Sì, amore» le disse falso e canzonatorio. Ella si staccò da lui precedendo tutti verso il cancello tra la siepe polverosa. E se ne andarono e Isabella fu di nuovo sola nella sua vigna. Entrò nella casupola che le riusciva più triste del solito, si sentiva come sfinita, si abbandonò sulla sedia a sdraio come nelle ore di riposo, ma non poté rimanere a lungo, avrebbe voluto gridare, avrebbe pianto, avrebbe bestemmiato; si alzò, prese una zappa, il sole era ancora alto, andò tra le sue gombine e si mise a zappare. Zappava con rabbia e a ogni colpo scattava fuori dalla terra cinerea una cipolla grossa, gonfia, lucente, quasi di vetro rossastro e se le afferrava erano calde di sole, come fossero pervase di sangue».*

Questo racconto di Giovanni Comisso si intitola La Monaca Pazza e fa parte del suo volume di racconti Gente di mare, del 1928, una delle sue opere più felici e leggere.

Il racconto, che ci è sembrato raccogliere le caratteristiche migliori della narrativa di Comisso, si presenta come un piccolo, levigato gioiello, ove tutto è grazia e pathos lirico e ogni immagine è una pennellata di un quadro meraviglioso en plen air fatto di mare, di sole, di campi e di frutta. Scrittore d’istinto, ma scrittore di razza, Comisso, nella sua pagina, esorbita da ogni etichetta e da ogni corrente letteraria; è solamente se stesso e la sua funzione consiste nel darci le cose con la semplice verità di un bimbo o, forse, di un antico greco: senza complessi e rovelli interiori, senza sospetti o diffidenze.

La grande protagonista, di questa come delle altre sue migliori pagine, è la vita stessa, la vita vissuta come una gioiosa e felice avventura; la vita guardata e ammirata con lo sguardo incantato di un bimbo che non sa di storture, nevrosi e sensi di colpa. Comisso, un po’ come Sandro Penna – ci si consenta questo paragone tra il narratore e il poeta -, è un felice pagano smarrito nel XX secolo, un naufrago felice che si abbandona al sogno voluttuoso di un’innocenza sempre uguale a sé stessa, sempre intatta, pur attraverso l’ebbrezza dei sensi.

Quelle labbra che si tingono del rosso delle ciliegie e del nero delle more di gelso, quelle labbra che si versano in bocca il sugo del melone, dolce come il miele, sono il simbolo del suo atteggiamento verso il mondo: più pagano dei pagani, più virgiliano di Virgilio. L’atmosfera della gita alla vigna di Isabella è quella stessa che pervade le Bucoliche, ma distillata di quel fondo di pensosa malinconia da cui Virgilio non si separa mai, neanche nei suoi momenti più sereni. Una atmosfera senza tempo, una immersione totale nelle cose: negli odori, nei sapori, nei colori, nella festa della primavera inoltrata e dell’estate, della luce, del calore.

Eppure, a ben guardare, La Monaca Pazza non è un racconto così innocente e spensierato come, ad una lettura superficiale, potrebbe apparire. La cornice sontuosa della vigna, del frutteto, della vampa del sole filtrata dai tralci, sottolinea, per contrasto, il dramma umano di Isabella, che è la vera, dolente protagonista della vicenda: la sua solitudine sconsolata, il suo tramonto non ancora rassegnato né pacificato. Isabella: una donna non più giovane e non più bella, dal volto grinzoso e con qualche dente mancante; una donna magra, tutta pelle e ossa; una donna senza uomo, perché il marito è sempre via e, del resto, si capisce che non lo ama; una donna ancora ardente di desiderio, che sogna le carezze di chiunque sia disposto a mostrarle un po’ di tenerezza, un minimo di simpatia e di umana comprensione.

Non Marco, che si serve di lei per scroccarle una giornata di svago con gli amici, che la illude ma intanto pensa solo ai fichi e alle ciliegie; non Mario, che la canzona apertamente e la ferisce nel suo bisogno di amore e di femminilità; né Geltrude, che si presta a fare da ambigua intermediaria per ritagliarsi, anche lei, una giornata diversa dalle altre, una giornata di verde e di svago nell’arsura della routine cittadina. In fondo, quei tre se la ridono di lei, dietro le spalle; e lei, lo si capisce, è intelligente quanto basta per intuirlo. Ma il peso della propria solitudine le è divenuto talmente amaro, talmente insopportabile, da spingerla a passare sopra la sua stessa dignità, a esporsi, a rendersi ridicola e patetica con quei suoi inviti ai due uomini, rivolti loro separatamente, affinché ritornino quanto prima nella sua vigna, ma da soli.

La bellezza di questo racconto scaturisce appunto dal contrasto fra una natura solare, primigenia, innocente, e la disperata sete d’amore di questa donna appassita e delusa, che vorrebbe evadere da se stessa almeno per un momento; e si vede, invece, ricacciata nel proprio tormento e nel proprio deserto interiore. Partiti i tre amici, non le resta che riprendere la zappa e rimettersi a lavorare nell’orto arroventato dal sole: con foga, con rabbia, quasi con disperazione. E quelle cipolle portate alla luce, che paiono gocce di sangue uscite fuori dal seno della terra, concludono con uno stacco superbo, allusivo, un racconto che era sembrato giocato interamente sul filo della leggerezza e della beata innocenza.

Del resto, in Comisso non ci sono giudizi, e tanto meno giudizi morali: solo la nuda essenzialità delle cose, riportate alla loro profonda, intima naturalità.

Ha scritto in proposito Carlo Bo, nel suo bel saggio Comisso e la vita (su L’Osservatore politico letterario, Milano, febbraio 1971, p. 17):

"(…) l’avventura per Comisso non ha avuto aggettivi, è stata piuttosto sinonimo di stagioni, di ore, di giorni: era l’idea di un provvisorio eterno, del gratuito non suscettibile di alcuna contrazione. L’avventura comissiana non si sarebbe mai prestata a conclusioni d’alcun genere; non supponeva morali di nessun tipo e di qui l’impossibilità di qualsiasi intervento d’ordine morale. L’uomo che guarda la vita – questo è l’aspetto del Comisso più autentico – non deve essere fermato o trattenuto da nulla, così come non deve chiedersi spiegazioni, gli deve bastare il senso dell’esistenza, al contrario non deve fare scelte: non deve rinunciare a nessun invito. Per Comisso – e qui sta un’altra differenza con il narratore tradizionale – non ha nessun valore esserci stato, bensì l’esserci ancora. Non ha scritto mai pagine di rievocazione, i suoi libri sono fatti d’istantanee ma ogni immagine presa per sé rappresenta un mondo compatto, un unicum. Comisso non si è mai dato cura di legare le sue storie e quando l’ha fatto nei romanzi è andato incontro a dei fiaschi, nel senso che ogni idea di costruzione si opponeva a quel moto continuo. O dare il senso della vita perenne o tradurre la vita in esempi: Comisso è stato obbligato dalla sua natura, dal non poter far altro se non a patto di contraddirsi e di tradirsi che abbandonarsi alla fantasia delle cose. Nessuno è stato miglior servitore della vita dei fatti di lui, nessuno infatti ha mai saputo mantenere tanta libertà di spirito nei propri movimenti. Gli stessi giudizi che ogni tanto compaiono nella sua pagina non sono che dei pretesti, delle pause che consentono la ripresa rafforzata del racconto. In altre parole ciò che lo interessa e senza darlo a vedere lo avvince è il ritmo stesso degli avvenimenti, per cui ogni dato ne partorisce un altro, così come ogni caso ne preannuncia uno nuovo. Senza notare che, così facendo, Comisso tiene lontano lo spettro del tempo che si chiude, del tempo che porta il nome della morte…"

Tutto vero: ma ci riesce davvero, Comisso, a tenere lontano lo spettro del tempo che si chiude e della morte che incombe?

Paradossalmente, ci riesce meglio nel suo libro più famoso, Giorni di guerra, che è in genere considerato il vertice del suo percorso letterario, che in un racconto apparentemente semplice come La Monaca Pazza, dove lo spettro del rimpianto, della vecchiaia e della morte non si può certo dire che venga allontanato con successo dalla protagonista, Isabella; e che incombe, con la sua muta presenza, come un convitato di pietra, anche nei momenti più lieti.

Inevitabile: lo spettro della morte non si può esorcizzare, semplicemente ignorandolo; bisogna affrontarlo, prima o poi. Ma una scrittura come quella di Comisso, tutta giocata sul filo dell’istante e dell’immediatezza, tutta istinto felice e senza tempo, è strutturalmente impossibilitata a porsi in una prospettiva del genere. Perciò non le resta che la soave ambiguità di quella dimensione anfibia, né acquatica né terrestre, che sta fra il qui-e-ora e il presentimento della fine – e, forse, dell’eternità.

Sarà anche per questo motivo che il paesaggio tipico della narrativa di Comisso è ambiguo, lagunare, semi-terrestre e semi-acquatico – come, appunto, nel racconto che abbiamo preso in esame?

Un’altra cosa ci resta da dire, a proposito dell’ambiguità fondamentale della narrativa di Giovanni Comisso.

Cercar di tenere lontano lo spettro del tempo che si chiude e di esorcizzare l’angoscia della morte che incombe, significa anche – necessariamente – sforzarsi di sottrarre il tempo delle emozioni al tempo della storia; o, per parlare più propriamente, tentare di cancellare il tempo della storia e risolverlo integralmente nel tempo psicologico ed emotivo.

È quello che Comisso ha saputo fare, con magistrale abilità e con istintiva sicurezza, nel suo libro più noto legato alla storia, Giorni di guerra, ove l’evento del primo conflitto mondiale, vissuto in prima persona e nella realtà drammatica della prima linea, si stempera e si dissolve nel flusso delle sensazioni e, addirittura, nella sensualità del paesaggio, dei colori, della coscienza individuale che si abbevera avidamente dell’attimo, in un oraziano carpe diem che non è, tuttavia – come nel poeta latino – mediato da istanze razionali e filosofiche, ma percepito dall’interno di un io che si abbandona voluttuosamente al grande gioco della giovinezza, alla guerra vissuta come una insolita e aspra, ma sostanzialmente gioiosa, avventura dell’anima.

E, così come non c’è spazio per il senso della storia che si esplica attraverso le vicende di uomini e cose, perché tutto si risolve in una atomizzazione della psicologia individuale, ugualmente non c’è spazio per le ragioni della società, dell’economia, della politica, dell’umano dispiegarsi di forze in lotta, concrete e incessanti, che travalicano l’orizzonte dell’io individuale e tendono a realizzare la trama variegata e complessa del destino collettivo.

In tal modo, con la stessa giovanile baldanza e spensieratezza, Comisso uomo ha vissuto la partecipazione all’impresa di Fiume fra i legionari di Gabriele D’Annunzio: con quella istintiva ricerca del piacere sensuale e dell’effetto estetico che si collocano ancora, in termini culturali complessivi, all’interno dell’orizzonte del decadentismo e, in parte, del futurismo.

Ma davanti al fascismo e, soprattutto, davanti al dramma della seconda guerra mondiale e della guerra civile, l’uomo Comisso e lo scrittore Comisso si ritraggono con un fremito di impazienza, e vanno disperatamente alla ricerca di un luogo dell’anima che sia ancora vergine dalle pretese totalizzanti della modernità, che consenta alla coscienza di ritagliarsi il suo otium e il suo particulare, nel senso rinascimentale di questi termini.

Specialmente davanti alla guerra civile del 1943-45 la reazione di Comisso è quella della ripulsa, della chiusura, dell’evasione in una dimensione fatta esclusivamente di affetti e sentimenti privati; e ne è testimonianza il suo libro forse meno noto, ma più sofferto: Gioventù che muore.

Attraverso la vicenda del diciannovenne Guido e della trentenne Adele i quali, sullo sfondo sanguigno della guerra civile, si incontrano, si amano e obliano la brutalità della storia, fino a quando Guido non viene fermato e fucilato dai partigiani, per la sola ragione che se ne va per i monti senza meta e canticchia una canzone fascista, pur non essendo, lui, fascista, ma solo sentendosi estraneo alle ragioni dell’una e dell’altra parte in lotta, Comisso racconta, in filigrana, la sua stessa vicenda.

Egli ha realmente incontrato ed amato un giovane di nome Guido, fucilato dai partigiani perché ritenuto – quasi certamente a torto – una spia fascista. Adele, dunque, non è altri che il suo stesso personaggio di uomo maturo e disilluso, che volge le spalle al dramma della storia per immergersi e tentare di obliarsi nel flusso di una passione strettamente «privata».

Nel fare ciò, Comisso ha optato per la dimensione del privato rispetto a quella del pubblico, e questo in un momento cruciale della storia nazionale: ha fatto una opzione, parafrasando il titolo di un altro suo bel libro, per «la mia casa di campagna», così come Pavese – con altro stato d’animo, però, ossia straziato dall’irresolutezza e dai sensi di colpa – aveva optato per «la casa in collina».

Lo storico Raffaele Liucci, nel suo saggio La tentazione della «casa in collina». Il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana, 1943-45 (Edizioni Unicopli, Milano, 1999), ha creduto di ravvisare in questi due scrittori, e in alcuni altri meno noti, la «tentazione» tipica degli intellettuali italiani, quella del disimpegno e della fuga davanti alle responsabilità della storia.

In sostanza, potremmo riassumere così la tesi di Liucci: la «casa in collina» di Cesare Pavese e «la mia casa di campagna» di Giovanni Comisso sono due simboli di una condizione tipica di tanti intellettuali italiani, allorché le strette della storia li pongono di fronte alla necessità di fare una scelta fra la letteratura come evasione e rifugio e un immediato, e rischioso, impegno di tipo politico-sociale.

Crediamo vi sia una certa parte di verità in questa analisi, precisando subito – però – che essa non va intesa, moralisticamente, come l’indicazione di una alternativa «secca» fra intellettuali ‘buoni’ e meno buoni, ‘seri’ e meno seri, bensì di una condizione caratteristica dell’io dissociato e confuso della modernità, lacerato fra la nostalgia di certezze e valori perduti, e l’eterna tentazione di farsi parte per se stesso davanti a una realtà collettiva sempre più difficile da comprendere e sempre più ardua da dominare o, quanto meno, sulla quale poter esercitare una scelta che sia, al tempo stesso, lucida ed efficace.

In questo senso, anche se – per taluni aspetti – la tentazione della «casa in collina» è un fenomeno abbastanza specifico della cultura italiana, nel senso che ne riflette ambiguità e debolezze strutturali, appartiene anche, però, alla dimensione universale dell’uomo moderno, e non solo nei confronti di singoli eventi storici, per quanto drammatici, come lo è stata la seconda guerra mondiale (e si pensi al dramma, spirituale e umano, di scrittori del valore di Céline, di Pound, di Hamsun, solo per fare qualche nome).

Si tratta, al contrario – se ben vediamo – di una situazione che rispecchia fedelmente lo smarrimento e l’estraniamento dell’uomo moderno rispetto a se stesso e rispetto al mondo che lo circonda; il capolinea, in altre parole, di un lungo processo che inizia, quanto meno, dalla «morte di Dio» di nietzschiana memoria, ma ha le sue lontane premesse fin dall’epoca della cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVIII secolo e, poi, dall’Illuminismo; da quando, cioè, l’uomo che si è autoproclamato «moderno» (senza avvedersi, quantomeno, di maneggiare un concetto storico, e quindi relativo, e non un valore assoluto ed autoevidente) ha creduto di poter spazzare via ogni residuo dell’idea trascendente che di se stesso, da Platone in avanti, si era costruita, per sostituirla con un’immagine di sé tutta terrena, laica e «naturale».

Ma cediamo la parola a Raffaele Liucci (Op. cit., p. 89):

I tragici avvenimenti di guerra che sconvolsero la vita di Comisso (egli considererà Guido la persona più importante della sua vita), non scalfirono certo la sua estraneità a tutte le ideologie).Piuttosto, rinforzarono i suoi anticorpi a difesa della tentazione di un tradimento del chierico. Lo scrittore veneto è stato però capace , in misura di gran lunga maggiore che in altri autori con le credenziali tutte in regola, di tratteggiare, con spontaneità disarmante, squarci inusuali delle guerre, riuscendo a carpirne sfaccettature esistenziale e metapolitiche assolutamente memorabili.

E, a proposito di Gioventù che muore, ancora più esplicitamente (Idem, pp. 90-91):

Un rifugio fuori dalla storia e dal tempo, dal quale scrutare, svagato e indifferente, in una immutabile quiete campestre, il tramestio del mondo esterno, i cui complicati e disordinati affanni politici non meritano la minima attenzione. E, tra essi, anche la guerra, di cui Comisso coltiverà fin dagli anni Trenta (e quindi anche per la guerra d’Abissinia) un’opinione totalmente negativa; dimentico, persino, delle sue trascorse esperienze (Grande Guerra e Fiume), di cui aveva però sempre privilegiato il lato esistenziale e vitalistico, rigorosamente apolitico. Date queste premesse, è facile capire che per l’afascista Comisso la guerra civile italiana, tragico epilogo della seconda guerra mondiale, non rappresentasse che un’accecante sventura, all’interno della quale sarebbe stato ozioso distinguere torti e ragioni. (…)

Giovanni Comisso, al pari di Cesare pavese, è stato uno dei pochissimi scrittori italiani in grado di offrire da sponde neutre una rappresentazione articolata e feconda della guerra civile, percepita e vissuta da coloro che non vi parteciparono consapevolmente. In questo senso, la «Casa in collina» pavesiana non è poi molto differente dalla «Casa di campagna» comissiana, essendo entrambe un luogo privilegiato dal quale osservare, super partes, la guerra, che può certo sconvolgere, fisicamente e mortalmente le proprie abitudini di vita, ma non riesce tuttavia a eclissare l’apatia e la non curanza per le ragioni politiche e ideologiche in campo.

Ora, a parte il fatto che vi è un abisso – lo abbiamo già accennato – fra lo stato d’animo di Pavese e quello di Comisso davanti alla violenza della guerra civile, essendo il primo attraversato da angosciosi sensi di colpa per la propria inerzia, il secondo tutto immerso in una dimensione squisitamente a-politica e consapevolmente privata, ci sembra sbagliato parlare di «apatia» e di «non curanza» di entrambi per «le ragioni politiche e ideologiche in campo». Né gli scrupoli e i tormenti interiori di Pavese, infatti, né la ripulsa deliberata di Comisso, ci sembrano passibili di una tale interpretazione.

Vero è che Liucci, per sostenere la sua tesi complessiva, fa di Pavese e Comisso (e di alcuni altri) l’emblema di quel particolare atteggiamento di disimpegno e di tradimento della società da parte degli intellettuali che, a suo parere, è bene esemplificato dal concetto storiografico della «zona grigia» (termine ripreso dallo storico Claudio Pavone).

Ecco la definizione che Liucci dà della «zona grigia» (Idem, pp. 15-16):

… la compatta presenza, sia nelle città che nelle campagne, di comportamenti e valori che trovano la loro ragion d’essere in tradizioni di lungo periodo, essenzialmente prepolitiche, comunque in larga parte estranee alla contrapposizione tra fascismo e antifascismo. La zona grigia, fuor da interessate valutazioni o da preconcette denigrazioni, si rivela come il principale collettore dei coni d’ombra dell’attendismo del disimpegno civile, della volontaria sottrazione a qualsiasi impegno attivo nella guerra, della diserzione, anche metaforica, da compiti e responsabilità istituzionalmente richieste all’individuo.

Zone grigie, coni d’ombra: già la terminologia fa pensare a qualche cosa che ha a che fare con il disimpegno, il qualunquismo, l’opportunismo o, nel migliore dei casi, l’indifferenza.

Forse perché Liucci ha bisogno di sostenere la sua tesi principale, e cioè che la «zona grigia» si è presa, negli ultimi anni, una rivincita sulla Resistenza, denigrandola sistematicamente, soprattutto nella sua componente comunista, egli è portato a presentare come totalmente negativa la posizione di quanti non si identificarono né con gli uni, né con gli altri, fino al punto di tacciarla di attendismo e di volontaria sottrazione ai compiti e alla responsabilità che l’individuo non può negare alla società in cui vive.

E parla, in proposito, di tradizioni «prepolitiche», per designare l’estraneità alla contrapposizione tra fascismo e antifascismo; senza accorgersi di incorrere in quel peccatum originalis che egli addebita agli intellettuali: lo scollamento con la società civile, la chiusura in un mondo astratto, lontano dalla realtà e dalla vita delle persone comuni.

Come non vedere, infatti, che tale fu l’atteggiamento della maggioranza del popolo italiano durante la guerra civile, e che tale è sempre stato l’atteggiamento delle società contadine davanti al fenomeno «guerra», e, a maggior ragione, davanti a quello spaventoso fenomeno della modernità che è stata la guerra civile scatenata da passioni ideologiche?

Ma, tornando a Comisso, ci sembra decisamente sbagliato, oltre che ingeneroso, sostenere che «i tragici avvenimenti di guerra che sconvolsero la [sua] vita (…) non scalfirono certo la sua estraneità a tutte le ideologie. Piuttosto, rinforzarono i suoi anticorpi a difesa della tentazione di un tradimento del chierico».

E, più in generale, ci sembra sbagliato, oltre che ingeneroso, pretendere da un artista, da uno scrittore, più di quello che egli ha inteso dare, o altro da quello che faceva parte del suo mondo interiore. Uno scrittore va giudicato per quello che ci dà e per quello che è il suo mondo interiore; e noi diciamo che ha saputo svolgere bene la sua parte di intellettuale, se è riuscito a rappresentare coerentemente e limpidamente quel suo mondo; non se è partito da una ideologia impegnata, o politicamente «giusta».

E Comisso vi è riuscito in pieno.

Pensare diversamente, e pretendere da uno scrittore che egli sia anche, sempre e comunque, un campione di lucidità e di impegno politico sociale, significa cadere nella tentazione (questa sì, pericolosissima) di una visione inquisitoria e poliziesca del fatto artistico e culturale.

Così, a dispetto delle loro intenzioni, quanti condividono l’impostazione di Liucci non si accorgono, forse, di approdare su una sponda ben diversa da quella che avevano agognato: quella ove regnano l’intransigenza moralistica, il settarismo ideologico e l’«impegno» forzato dell’intellettuale, versione post-moderna e sofisticata, ma sempre aberrante, delle velleità totalitarie di controllo sulla cultura e sull’arte da parte di un elemento ad esse estraneo.

Non crediamo sia necessario fornire qui una nota biografica di Giovanni Comisso, che si può reperire in qualunque buona enciclopedia letteraria. Di questo scrittore (nato a Treviso il 3 ottobre 1895 e morto nella sua città il 21 gennaio 1969), oggi – ingiustamente – un po’ dimenticato, che nella sua vita ha fatto l’avvocato, il commerciante, il libraio, il mercante d’arte e, soprattutto, il marinaio e il viaggiatore, ricordiamo i suoi libri più importanti, tutti pubblicati da Longanesi: Il porto dell’amore, del 1924, ripubblicato nel 1928 col titolo Al vento dell’Adriatico; Gente di mare, del 1929; Giorni di guerra, del 1930; Mio sodalizio con De Pisis, del 1954; Un gatto attraversa la strada, del 1955; Gioco d’infanzia, del 1965; Viaggi felici, del 1967; Attraverso il tempo, del 1968; e Veneto felice, apparso, postumo, nel 1984.

N.B. Comisso, nel racconto su riportato La Monaca pazza, preferisce usare il plurale ciliege anziché ciliegie, non erroneo ma meno frequente; e noi lo abbiamo lasciato, rispettando integralmente il testo originale.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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