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L’unico sollievo della coscienza ferita è nel reintegro con l’armonia dell’Essere

Nella tarda serata di giovedì 11 luglio 1985 l’Edmund Orgill Park, a Millington nel Tennessee, è un luogo fresco e piacevole, dopo la calura del lungo giorno estivo.

Un gruppo di ragazzi vi si è dato convegno per trascorrere insieme un po’ di tempo, quando il silenzio della notte viene rotto da un urlo umano: un urlo di agonia. La testimone Virginia Taylor, come pure i suoi amici, riferirà più tardi che le era sembrato «l’urlo di chi sta per morire».

Verso le sei del mattino del giorno dopo, venerdì 12 luglio, in un angolo di quello stesso giardino pubblico, ai piedi di un possente albero alto cinquanta metri, gli uomini dello sceriffo trovano un cadavere. È quello di Suzanne Marie Collins, soldato scelto del corpo dei marines, una bella ragazza bionda, di appena diciannove anni, intelligente, simpatica ed esuberante, benvoluta da tutti, di stanza nella vicina base aeronavale di Memphis.

Il corpo giace sull’erba, nudo, a faccia in giù, la testa rivoltata sulla guancia destra. Il viso appare così tumefatto da rendere difficile, sulle prime, il riconoscimento; un ramo appuntito lungo novanta centimetri le è stato conficcato nella vagina e spinto con forza all’interno, ledendo gli organi vitali e provocando una emorragia interna, fino a sporgere di una ventina di centimetri appena; gli indumenti sono sparsi a terra, tutto intorno.

La giovane era stata aggredita e caricata a forza su un furgone da un balordo affetto da gravi turbe sessuali, un individuo grande e grosso, tale Sedley Alley, marito di una impiegata della base. La sera del giovedì, verso le 23, questi aveva visto la ragazza che faceva jogging, da sola, all’interno del complesso, l’aveva aggredita e caricata a forza sulla sua automobile e poi, con incredibile audacia, aveva varcato il cancello senza essere identificato. Indi l’aveva trascinata nel parco pubblico di Millington, l’aveva picchiata sul viso, poi l’aveva denudata e, nel corso di un tentativo di violenza sessuale, l’aveva trafitta, ancor viva – come avrebbe dimostrato l’autopsia – con un grosso ramo d’albero.

Condannato a morte, Alley negò di averla violentata e cercò di far credere che la morte era stata accidentale, nel corso della colluttazione seguita al rapimento; e che lo scempio operato per mezzo del ramo era stato solo una macabra messa in scena, eseguita dopo il decesso, per simulare una aggressione sessuale; mentre la sua intenzione era stata solo quella di procurarsi un po’ di compagnia da parte di una ragazza che, probabilmente, avrebbe respinto le sue avances. Peraltro, nel corso del dibattimento l’imputato non mostrò particolari segni di emozione né, tanto meno, di pentimento; e non chiese perdono ai genitori della vittima, presenti in aula.

Tale fu l’orribile morte di una ragazza di neanche vent’anni, sana, piena di vita, che aveva suscitato l’ammirazione e la simpatia di tutti coloro che l’avevano conosciuta.

Come ha scritto il criminologo americano John Douglas nel suo libro Caccia nelle tenebre (titolo originale: Jouney into Darkness, 1997; traduzione italiana di Maria Olivia Crosio e Gianna Lonza, Rizzoli editore, Milano, 1997, p. 15):

Morì nel parco pubblico vicino alla stazione aeronavale di Memphis, appena a nord-est di Millington, nel Tennessee. Suzanne Collinbs, quasi un metro e settantacinque di altezza e cinquantacinque chili di peso, aveva lasciato la caserma poco dopo le dieci di sera per andare a fare un po’ di jogging entro il recinto della base dei marines: non tornò più. Il suo corpo nudo e martoriato fu scoperto nel parco dopo che lei non si era presentata all’appello del mattino. Il rapporto indicò che le cause della morte erano state lo strangolamento manuale prolungato, il trauma alla testa, l’estesa emorragia interna causata da un ramo aguzzo ficcato così in profondità nel suo corpo da perforare gli organi addominali, il fegato, il diaframma, il polmone destro. Il giorno 12 avrebbe dovuto ricevere il diploma per avere superato un corso di quattro mesi in avioelettronica, intrapreso con l’intento di diventare una delle prime donne aviatrici del corpo dei marines.

Ci siamo già occupati del mistero delle cosiddette «anime criminali» (cfr. il nostro precedente articolo L’anima criminale come problema filosofico, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice), le quali, a nostro avviso, costituiscono un vero e proprio enigma antropologico e, più in generale, filosofico.

Da un punto di vista filosofico, infatti, e anche teologico, si tratta di una questione decisiva sapere se queste creature demoniache diventino tali in seguito a una serie di libere scelte o se siano dominate, sin dall’infanzia, da forze più grandi di loro, che praticamente le trasformano in ciechi schiavi di una malvagità insensata e senza limiti.

Dopo aver passato in rassegna alcuni casi particolarmente drammatici di assassini seriali, tra i quali quello di una ragazza, Susan Atkins, che aveva fatto parte della banda di Charles Manson all’epoca del massacro nella villa di Sharon Tate, avevamo concluso, con il criminologo belga Étienne De Greef, che tutti gli esseri umani sono, potenzialmente, capaci di commettere il male, anche nelle sue forme più brutali e apparentemente gratuite; ossia che non esiste un confine netto fra la psiche di un individuo normale e quella di uno che giunge a commettere gravissimi atti di violenza e di sadica crudeltà.

Diversi recenti fatti di cronaca nera, che vedono protagonisti – sempre più spesso – individui apparentemente normalissimi, per non dire banali, sembrano confermare una tale analisi. Se essa è inquietante, specie quando si accompagna a una durezza di cuore che non concede spazio al pentimento e che soffoca il rimorso sotto una corazza di ghiaccio (cfr. il nostro articolo La rimozione della colpa), è pur vero che appare comunque meno terribile della concezione secondo la quale vi sarebbero delle anime perdute fin da prima di sviluppare una autonoma libertà di scelta morale.

D’altra parte, le statistiche ci dicono chiaramente che, quasi sempre, gli assassini seriali e i responsabili di violenze sessuali sui bambini (e vi sono, nel libro di Douglas, pagine raccapriccianti dedicate ai pedofili assassini) sono individui che, a loro volte, hanno subito gravi violenze o maltrattamenti infantili. È come se il circuito perverso della violenza si alimentasse da se stesso, trasmettendo i suoi frutti avvelenati da una generazione all’altra. Il che rientra nella concezione della vita, cui aderiamo con convinzione, seconda la quale ciascun essere umano è il veicolo, spesso inconsapevole, di messaggi che ha immagazzinato nel corso della propria vita, e particolarmente nell’età infantile; messaggi che possono essere di segno positivo o negativo, e che esercitano un’influenza grandissima sulle scelte della persona adulta.

Ne abbiamo già parlato nell’articolo La tela della nostra vita è filata dalla mano altrui, così come l’altrui lo è dalla nostra, nel quale abbiamo sostenuto che la tela delle nostre vite è tessuta da innumerevoli influenze esterne, che iniziano fin dal momento del concepimento – se non da prima ancora – e alle quali partecipano, in misura alquanto diversa, migliaia e migliaia di persone, dalla mamma che ci ha allattati e cullati, fino allo sconosciuto che incrociamo per pochi istanti quasi ogni giorno, senza dedicargli una particolare attenzione e, anzi, il più delle volte, tendendo a non «vederlo» nemmeno.

Molto più di quanto non crediamo, o non ci piaccia ammettere, la sinfonia (o la cacofonia) della nostra vita è il risultato dell’insieme di innumerevoli strumenti, che altri hanno suonato per noi, guidandoci passo passo in una certa direzione piuttosto che in un’altra; e, anche se noi ne abbiamo uditi solamente pochi in modo consapevole, è il sottofondo d’insieme che ha creato le condizioni per indirizzarci, volta a volta, verso il punto in cui ora ci troviamo.

Non se ne deve dedurre, però, che noi siamo soltanto dei fantocci nelle mani di un concorso di circostanze incontrollabili – genetiche, ambientali, sociali, affettive -, perché la vita non è qualche cosa di statico, e l’accumulo delle esperienze è precisamente il mezzo grazie al quale noi riusciamo (o dovremmo riuscire) a elaborare una nostra strategia consapevole, anziché lasciarsi sballottare di qua e di là dalla corrente. D’altra parte, noi diveniamo capaci di pervenire a questo stadio solo mediante l’immagine di noi stessi che ci siamo costruita, e della capacità di guardarla con onestà, accettandola sino in fondo: cosa che non può avvenire se non passando attraverso l’immagine che di noi si sono fatti gli altri, quelli stessi che hanno così potentemente contribuito a plasmare e modellare il corso della nostra vita.

Sia come si vuole, a nessuno è lecito eludere il problema di come la società debba regolarsi nei confronti dei mostri che seminano una violenza cieca e rabbiosa intorno a sé, cospargendo di lutti e di dolore la loro strada, e mettendo continuamente in pericolo la vita di persone innocenti, a cominciare dai bambini.

L’orrore che destano in ogni individuo sensibile un certo tipo di delitti, quelli che si accompagnano a una forte componente di crudeltà sadica e incomprensibile nei confronti delle vittime, spinge molte persone, anche intelligenti e di buona cultura, a invocare la pena di morte.

Anche il citato John Douglas è fra costoro; come lo è, del resto – e notoriamente – la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica statunitense. Di quella cinese non sapremmo che dire, perché, pur essendo la Cina il paese ove si esegue il maggior numero di sentenze capitali, non esistono elementi per conoscere quale sia l’orientamento del cittadino comune su questa materia; ci basta sapere che la famiglia del giustiziato si vede recapitare il conto dei proiettili con i quali è stato ucciso il suo congiunto.

I sostenitori più onesti e coerenti della pena di morte ammettono che, come deterrente, essa non funziona affatto. Preferiscono, perciò, invocare la sete di giustizia, o – diciamolo pure – di vendetta, da parte dei familiari delle vittime. Come caso tipico, Douglas cita quello dei genitori della povera Suzanne Collins, i quali, davanti ai continui ricorsi e stratagemmi legali messi in opera dai legali dell’assassino della loro figlia, commentarono amaramente: «Speriamo solo di vivere abbastanza a lungo da poter arrivare fino al giorno dell’esecuzione. Perché quel giorno vogliamo esserci, seduti in prima fila, per assistervi».

In effetti, di rinvio in rinvio, l’esecuzione di Sedley Alley venne rimandata fino al 2006, quando l’uomo venne soppresso mediante una iniezione letale. Era rimasto chiuso nel braccio della morte per più di vent’anni.

Senza voler entrare nel mistero del dolore umano e dell’abisso di angoscia e disperazione in cui si trovano precipitati i parenti di coloro i quali, vittime innocenti, cadono sotto i colpi di una violenza selvaggia e disumana, riteniamo che la consumazione della vendetta, in se stessa, non serva a placare se non gli strati superficiali dell’anima ferita e non offra, pertanto, quella consolazione e quel sollievo che tali persone, in effetti, desiderano sopra ogni altra cosa.

Certo, ogni grande dolore esistenziale è un grido che si leva dalle profondità dell’anima, in cerca di una risposta (cfr. il nostro articolo Il grido della coscienza ferita è una invocazione al reintegro nell’ Essere); ma, proprio per questo, il male che viene dall’esterno interroga la coscienza morale del soggetto e dà la misura, per così dire, del suo livello di evoluzione spirituale. La coscienza ferita soffre e vaga qua e là, con passo smarrito, in cerca di pace: cerca istintivamente di ristabilire l’equilibrio, di restituire senso al proprio orizzonte morale. La coscienza ferita è un grido di disperazione e di aiuto che scuote la dimora dell’Essere e interroga tutti gli enti, nessuno dei quali può dirsi totalmente estraneo e dire: «Sono forse il custode di mio fratello?».

A quel punto, si danno – in sostanza – due possibilità: o la coscienza, benché ferita, riesce a mantenersi nella propria unità di volere e di conoscere e, per quanto sofferente, cerca di ritrovare, con tutte le sue forze, il bene perduto del legame intimo con l’Essere; oppure la ferita è segno e occasione di una rottura irreparabile dell’unità coscienziale fra volere e conoscere, e determina il distacco definitivo dell’essente dall’Essere.

Quel che vogliamo dire è che la sete di vendetta, nella illusione di placare la divorante sete di giustizia e il dolore insopportabile che dilania la coscienza ferita, fornisce, in realtà, un «rimedio» che è assai peggiore del male, perché provocherà il distacco definitivo dell’anima dall’Essere, ossia dalla sola dimora in cui essa potrebbe trovare consolazione e pace.

Certo, è cosa difficile, e forse impossibile, perdonare chi non mostra alcun segno di pentimento e non chiede perdono (cfr. il nostro articolo È possibile perdonare qualcuno che non chiede perdono?); ma non si tratta, in realtà, di questo. Si tratta di cercare consolazione e pace là dove queste cose si trovano, e non là dove l’amarezza e il dolore, dietro il sollievo apparente della vendetta consumata, si rinfocolano senza posa.

Quanto alla questione della liceità morale della pena di morte, ci sia concesso – senza alcuna pretesa di esaurire in poche battute un tema infinitamente delicato e complesso – dire che a un tale quesito non si può che rispondere in maniera negativa, per quella eccedenza ontologica la quale fa sì che, in ogni essere umano, vi è qualche cosa di più di ciò che appare; della semplice somma dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti e delle sue azioni, belle o brutte che siano. E tale eccedenza rinvia a una dimensione altra, trascendente, che per noi è mistero, e, come tutti gli autentici misteri (ma non come tutti i problemi) sfiora la dimensione del sacro.

Jean Vanier, fondatore delle comunità dell’Arca, osserva nel suo libro Ogni uomo è una storia sacra (titolo originale: Toute personne est une histoire sacrée, Plon, Paris, 1994; traduzione di Adele Cozzi, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1995, 2000, pp. 182-183):

Scendere sulla terra significa anche scendere nel fango e nelle tenebre, delle paure e delle ferite che ciascuno ha entro di sé. Convertirsi dalla strada della competizione alla strada del cuore e della comunione significa necessariamente passare attraverso la paura di essere posseduti, attraverso le angosce e i sensi di colpa.(…)

Oggi l’umanità è a una svolta. Con la tecnologia possiamo fare tutto, tranne che rendere il nostro pianeta più ricco di amore e più felice. La tecnologia ci dà il progresso materiale e seduce l’umanità, che si è lanciata alla conquista della luna e delle stelle. Abbiamo bisogno di tornare alla terra, di riscoprire la dimensione umana, di rivolgere tutti insieme lo sguardo al povero e al debole, perché la compassione possa toccare i nostri cuori e risvegliare la nostra intelligenza.

Ma abbiamo già visto che questo ritorno alla terra, all’umano, alla comunione, implica una conversione. Che cosa potrà avviare un simile cambiamento?

Come intraprendere questo nuovo cammino e scegliere la pace? Come scoprire che la luce e la guarigione si trovano in ciò che abbiamo disprezzato e rifiutato come sporco, brutto e tenebroso? Che esperienza di luce, di amore e di pace interiore bisogna fare per poter trasformare il proprio atteggiamento e il proprio sguardo? Nel libro di Osea c’è un passo che può esserci di aiuto. Sette secoli prima della nostra era, il profeta trasmetteva questo messaggio di Dio: «la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza» (Os., 2, 16-17).

La valle di Acor (il cui nome significa: «valle di sventura») si trovava nei dintorni di Gerico; le sue gole erano ritenute assai pericolose. Il popolo ebraico le aggirava perché aveva paura a percorrerle. Questa valle era sicuramente infestata dai briganti, ma anche da animali feroci, serpenti e scorpioni. E il profeta annuncia che Dio, dopo un incontro d’amore in cui parlerà al cuore della persona, farà di questa valle una porta di speranza; non sarà più un luogo maledetto che tutti cercano di evitare, Chi vi entra, scoprirà che conduce alla vita. Se in seguito a un incontro con la tenerezza di Dio oseremo penetrare nel mondo delle nostre tenebre, dove si aggirano i nostri demoni, se oseremo penetrare in quel mondo di sofferenza e di povertà che esiste fuori di noi, allora saremo liberati dalle nostre paure e dal nostro bisogno di fuggire altrove. E diventeremo portatori di speranza.

Vi è un mistero, in fondo all’anima dell’uomo; un mistero davanti al quale dobbiamo toglierci le scarpe e procedere a piedi scalzi (cfr. il nostro articolo la persona è un mistero perché la sua essenza è «essere»).

Ecco perché la pena di morte è qualcosa di radicalmente sbagliato: essa pretende di ignorare quel mistero, di cancellare quella sacralità.

Altra cosa, ovviamente, è il legittimo sentimento di giustizia, per cui chi ha commesso del male, in piena consapevolezza, deve pagare per ciò che ha fatto e risarcire la società, per quanto possibile, della ferita che le ha inferto, del disordine che ha provocato.

È immorale che degli assassini escano di prigione dopo pochi anni, e che possano osare di presentarsi a testa alta davanti ai congiunti delle loro vittime.

Ribadiamo, però, il concetto espresso sopra: ogni uomo è una storia sacra; ogni uomo custodisce un mistero infinitamente più grande di lui.

Uccidere un essere umano, e sia pure allo scopo di fare «giustizia», significa calpestare quel mistero e violare brutalmente quello spazio sacro.

Nessuno, crediamo, dovrebbe arrogarsi il diritto di farlo: né il singolo individuo, né lo Stato con i suoi tribunali e sue leggi.

Infrangere la sacralità della persona significa moltiplicare il disordine e aggravare la sofferenza e l’ingiustizia, inseguendo il sollievo illusorio della vendetta.

L’unico sollievo che può venire alla coscienza ferita è il ristabilimento, o il rafforzamento, del suo legame con l’Essere: che è fonte di amore e non di odio, di comprensione e non di chiusura, di vita e non di morte.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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