
Quando il viandante ha i piedi feriti
24 Ottobre 2007
Un mondo ricco di significato è un mondo incantato che prega in ogni fibra
24 Ottobre 2007Vengono qui rievocate le drammatiche vicende che scossero l’Impero Romano subito dopo la morte di Costatino il Grande e che si protrassero per sedici anni, dal 337 al 353: le guerre civili scoppiate tra i suoi tre figli Costantino II, Costante e Costanzo II; le usurpazioni di Magnenzio in Gallia e di Nepoziano a Roma; le guerre incessanti sulla frontiera persiana e la temporanea riunificazione dell’Impero stesso nelle mani dell’unico figlio superstite, Costanzo II.
Seguono i due articoli-saggi dello stesso Autore: «Flavio Claudio Giuliano, Cesare dell’Occidente(355-361)» e «L’imperatore Giuliano (361-363)», che completano il quadro delle vicende tra la morte di Costantino e l’estinzione della sua dinastia.
SOMMARIO
I. Situazione alla morte di Costantino il Grande.
II. Intrighi a Costantinopoli.
III. Testamento politico di Costantino.
IV. Motivi di attrito tra i suoi figli.
V. Massacro di Dalmazio, Annibaliano e degli altri parenti di Costantino.
VI. Nuova spartizione dell’Impero tra Costantino II, Costante e Costanzo II:
VII. Persistere delle loro inimicizie.
VIII. Tentativi di ingerenza di Costantino II nei riguardi di Costante.
IX. Reazione di Costante.
X. Invasione di Costantino II in Italia e sua morte improvvisa.
XI. Annessione dei suoi territori da parte di Costante.
XII. Stato delle fonti.
XIII. Trionfo dell’arianesimo negli ultimi anni di Costantino il Grande.
XIV. Costantino II rimanda ad Alessandria l’esule Atanasio.
XV. Cacciata di Atanasio da parte di Costanzo II.
XVI. La Chiesa orientale respinge le pretese ecumeniche del papa.
XVII. Sentimenti della Chiesa occidentale.
XVIII. Concilio di Roma e riabilitazione di Atanasio.
XIX. Difficoltà di Costanzo, impegnato dai Persiani.
XX. Posizioni teologiche dei cristiani d’Oriente.
XXI. Insofferenza verso il vescovo di Roma.
XXII. Costante impone a Costanzo un concilio ecumenico.
XXIII. Scissione del concilio di Sardica; il concilio di Filippopoli.
XXIV. Opposte conclusioni dei due concili.
XXV. Disordini a Costantinopoli per l’insediamento del vescovo Macedonio.
XXVI. Nuove cause di tensione fra Costante e Costanzo.
XXVII. Ultimatum di Costante a Costanzo.
XXVIII. Costanzo cede; suo carattere e personalità.
XXIX. Rientro trionfale di Atanasio in Alessandria.
XXX. Posizione di forza di Costante all’interno e all’esterno.
XXXI. Carattere dei conflitti romano-persinai nel IV secolo.
XXXII. Offensiva di Shapur in Mesopotamia e suo insuccesso davanti a Nisibis.
XXXIII. Breve controffensiva romana nell’Adiabene.
XXXIV. Nuovo assedio di Nisibis e battaglia di Singara.
XXXV. Terzo e ultimo tentativo persiano contro Nisibis.
XXXVI. Persecuzione anticristiana dei Sassanidi.
XXXVII. Stato caotico della provincia d’Africa.
XXXVIII. Sanguinosa repressione dei circumcellioni.
XXXIX. Improvvisa usurpazione di Magnenzio in Gallia.
XL. Morte di Costante; cause della sua rovina.
XLI. Usurpazione di Vetranione in Illiria.
XLII. Costanzo respinge gli ambasciatori di Magnenzio.
XLIII. Ambasceria di Vetranione presso Costanzo.
XLIV. Usurpazione di Nepoziano a Roma.
XLV. Composizione del suo movimento.
XLVI. Suo brevissimo regno.
XLVII. Sua morte e sacco di Roma.
XLVIII. Incontro fra Costanzo e Vetranione e abdicazione di quest’ultimo.
XLIX. Preparativi di guerra.
L. Avanzata di Magnenzio nella regione danubiana.
LI. Inconcludenti trattative.
LII. Fortunate incursioni di Magnenzio.
LIII. Incontro dei due eserciti a Mursa.
LIV. Battaglia di Mursa e disfatta di Magnenzio.
LV. Sua ritirata in Italia.
LVI. Declino delle sue forze.
LVII. Sbarco delle forze orientali in Italia e battaglia di Ticinum.
LVIII. Ultima resistenza di Magnenzio in Gallia e battaglia di Mons Seleucus.
LIX. Suo suicidio e fine di Decenzio.
I
La morte improvvisa di Costantino il Grande era destinata ad avere le più gravi ripercussioni sul meccanismo della vita politica e dello Stato. Come sempre avviene e sempre è avvenuto, la scomparsa repentina del capo assoluto di un governo paternalistico recò seco in rapidissimo volger di tempo una autentica disgregazione interna dell’edificio statale. Nessuno dei suoi figli e nipoti possedeva le sue doti politiche, la sua scaltrezza e la sua lungimiranza; in compenso possedevano tutti, e in sommo grado, la sua spietatezza, il suo autoritarismo e la sua brama inestinguibile di potere. Era praticamente impossibile che cinque sovrani di questa fatta potessero ripartirsi pacificamente il governo
del mondo romano.
Dopo la morte di Costantino si videro le perniciose conseguenze del ritorno al sistema di successione ereditario. Distruggendo l’opera costituzionale di Diocleziano, Costantino aveva bensì assicurato il potere alla propria famiglia, ma non aveva saputo prevedere e lotte feroci e implacabili che sarebbero esplose proprio in seno ad essa, sull’esempio di quanto egli stesso aveva fatto fra il 302 e il 324.
Quell’esempio non era destinato a passare invano, così come invano Costantino non aveva dato l’esempio del massacro dei propri congiunti, allorché aveva messo a morte la moglie. Il figlio, il nipote, oltre al suocero e al cognato, Specialmente il figlio Costanzo, che più di tutti rassomigliava al padre per astuzia e mancanza di scrupoli, pare abbia fatto tesoro di simili ammaestramenti. Me l’occasione di metterli in pratica tardò a presentarsi.
II
Allorché Costantino il Grande venne a morte, nel maggio del 337, durante la marcia verso la Persia, nessuno dei suoi eredi era presente. Il cadavere del grande estinto venne trasportato nella sfarzosa città che da lui aveva ricevuto il nome ed era stata innalzata al rango di nuova capitale dell’Impero Romano. Ma, anche questa volta, la distanza o qualche altra grave necessità impedì ai suoi figli e nipoti di giungervi in tempo per assistere al grandioso funerale, ad eccezione dell’astuto Costanzo, allora in età di soli vent’anni. Costanzo, con tutta probabilità, non era accorso per pietà religiosa e filiale a Costantinopoli, ma bensì perché aveva subito intuito come la morte di suo padre avesse aperto una vera e propria competizione per il potere, basata su una gara di velocità: il primo ad arrivare sulle rive del Bosforo, con ogni verosimiglianza, avrebbe avuto l’opportunità di impadronirsi delle carte migliori.
E così fu.
Non era passato molto tempo dai funerali di Costantino il Grande, che una viva agitazione cominciò a serpeggiare per le strade e le piazze di Costantinopoli, si fece strada sino al palazzo imperiale, penetrò a corte. Soprattutto nervosi e scontenti apparivano gli ufficiali palatini, nei quali il ricordo dei molti benefici ricevuti dal defunto tiranno era ancor vivo e recente. Si sospetta che qualcuno, ancora più in alto di loro, soffiasse sul fuoco del malcontento e lo attizzasse ad ogni momento, badando a che esso non venisse mai meno. E, dal momento che né Costantino il giovane, né Costante avevano fatto ancora il loro ingresso nella capitale, i sospetti si appuntano quasi inevitabilmente sull’unico che fosse presente; e che, per inclinazione personale e per astuzia di uomo politico, non era certo uomo da rimanere all’oscuro di un simile movimento: Costanzo, appunto.
III
La tragedia della famiglia di Costantino il Grande scoppiò all’improvviso in quell’estate del 337. non salpiamo esattamente quando, certo pochissimi mesi dopo la sua morte repentina, e fu come un temporale estivo che scoppia inaspettato nel mezzo della calura e della quiete. In città scoppiò una vera e propria sedizione militare e tutti, come in preda ad una febbre violenta, correvano ad armarsi. Nel generale trambusto una sola frase si udiva chiaramente pronunciata dai soldati e dai loro ufficiali: «Noi non accetteremo altri imperatori che i figli del grande Costantino!» ( cfr. Zos., lib. II, 40, 3 ) Costanzo, mantenendosi abilmente nell’ombra, cavalcava la tigre. Egli era tornato in città dalla Mesopotamia, ove si trovava nell’imminenza della guerra contro la Persia, in veste quasi di vero autentico erede del padre suo. Tale doveva apparire ai soldati, che alle guerra s’erano già apparecchiati, tale alle truppe palatine, e specialmente agli ufficiali, che tanto avevano amato suo padre, il loro benefattore magnifico e generoso. D’altra parte, in quel momento, si trovavano anche i nipoti del defunto, Dalmazio ( o Delmazio ) e Annibaliano, mentre pare fossero tuttora assenti, nel lontano occidente, i figli Costantino e Costante. Si ricorderà che Costantino il Grande, la vigilia della sua ultima spedizione, aveva disposto a favore di quei due nipoti, traendoli fuori da una oscura condizione privata e assegnando loro, al primo, la Tracia, la Macedonia e l’Acaia, e, al secondo, il troni di Armenia ( ancora da conquistare ) nonché il Ponto e la Cappadocia. Ora, bisogna anche ricordare che Costantino, negli ultimi tempi, aveva praticamente già ripartito il governo dell’Impero fra i suoi tre figli, assegnando al maggiore, Costantino, i paesi transalpini, al minore, Costante, l’Italia e l’Africa ( ossia le diocesi più sicure e tranquille ), e a Costanzo le diocesi orientali e la sorveglianza del confine persiano.
Ora, la sua decisone di creare suoi eredi nel governo anche i nipoti aveva gravemente scontentato, secondo tutte le apparenze, i figli di Fausta. Ma più di tutti doveva aver scontentato, per non dire irritato, il figlio ventenne Costanzo. Ed è facile immaginarne il motivo. Egli doveva adesso, dopo la morte del padre, sobbarcarsi l’onere della guerra persiana, a molto probabilmente né Costantino il giovane ne Costante sarebbero stati disposti a prestargli la benché minima assistenza, dal momento che non esisteva un primo Augusto legale. Come ricompensa per tale guerra, che si prospettava, come sempre, incerta e difficile, Costanzo si vedeva privato, la vigilia d’intraprenderla, dell’agognata Costantinopoli, la nuova capitale, la città più prestigiosa di tutto l’Oriente. Infatti occorre tener presente che la Tracia ( con Costantinopoli ), insieme alla Macedonia e all’Acaia, era stata per l’appunto conservata da Costantino il Grande sotto il proprio governo diretto sino alla morte, talché l’ambizioso Costanzo si era certo lusingato che, alla di lui morte, la Tracia almeno, con la metropoli sul Bosforo, glie sarebbe stata ceduta e unita agli altri suoi possedimenti. Ora invece si vedeva scavalcare da un oscuro cugino, da un Dalmazio, cui sarebbe andata, fra l’altro, anche la perla del Bosforo, l’ambitissima Costantinopoli. Ma non era ancora tutto. Se questo era il premio che a Costanzo sarebbe toccato per la pericolosa guerra persiana, lo scopo dichiarato di essa, almeno apparentemente, era quello di porre sul trono dell’Armenia, che il sovrano sassanide aveva invasa, l’altro cugino, Annibaliano; e, peggio ancora, Costanzo si vedeva costretto a cedergli alcune delle sue stesse province, la Cappadocia, il Ponto.
IV
Se, dunque, Costanzo non doveva essere lusingato di vedersi, tanto ad ovest che ad est, mutilato di territori che già riteneva, in diritto, suoi, e umiliato nelle proprie aspirazioni, non è del resto improbabile che tanto Costantino suo fratello, quanto il giovanissimo Costante, non dovessero vedere di malocchio la sua improvvisa diminuzione e l’ascesa dei cugini Dalmazio e Annibaliano; I tre fratelli, figli dello scomparso imperatore e dell’infelice Fausta, non si amavano e non si erano mai amati. Ciascuno guatava gli altri con sospetto e inimicizia, scorgendo in essi unicamente dei rivali pericolosi e, probabilmente, dei nemici veri e propri , e ciascuno era lì sempre pronto a togliere il terreno di sotto ai piedi dell’altro, spiando malignamente l’occasione propizia. Ora, Costantino, che era il maggiore ( aveva ventun anni nel 337, cioè uno più di Costanzo ) doveva certo essere invidioso della fortuna toccata al fratello, cui andavano le ricche ed estese e popolose province d’Oriente, l’Asia Minore, la Siria, l’Egitto. A lui, come pure al giovane Costante ( che aveva soli quattordici o forse quindici anni ) quella diminuzione di potere, decisa dal padre loro all’ultimo momento, doveva esser sembrata quanto mai opportuna. Se Costantinopoli da una parte, e l’Armenia dall’altra, fossero toccate a Costanzo, egli si sarebbe venuto automaticamente a trovare, di fatto se non dì diritto, nella posizione di primo Augusto dell’Impero, E questo non poteva andar giù né al giovane Costantino, che vantava i diritti della primogenitura, né al piccolo Costante, il cui carattere ambizioso e spietato preannunciava già un futuro tiranno, sospettoso ed audace.
V
Costanzo, dunque, si vide costretto a prendere le sue contromisure. Egli non era uomo da rassegnarsi a mettersi in guerra contro la Persia, per il solo guadagno di mettere altri sul trono dell’Armenia. Così, manovrando abilmente il risentimento dei soldati e degli ufficiali nella capitate ( nella quale, stante il testamento di suo padre, non aveva ormai nulla da fare ), egli seppe liberarsi con spietata energia di tutti i possibili rivali. Sarebbe bastato eliminare Dalmazio
e Annibaliano; ma Costanzo non era nemmeno uomo da fermarsi a metà della propria strada, per quanto lorda di sangue potesse essere. L’esempio di suo padre Costantino con la propria famiglia e l’esempio di Licinio con la famiglia di Massimino Daia non erano passati invano.
Così, una giornata di quella terribile estate del 337, il malcontento – lungamente covato e lungamente stimolato – esplose apertamente in una sanguinosa rivolta militare.
Prima vittima, quasi certamente innocente, di quel bagno ii sangue, che si iniziava, fu un fratello di Costantino, Costanzo, lo zio che aveva dato il nome al mandante dei suoi sicari. Fu barbaramente trucidato dai soldati, per ordine, si disse, del nipote. Poi fu la volta del Cesare Dalmazio, sventurato sovrano di Costantinopoli, figlio di quel Dalmazio che era nato dal matrimonio di Costanzo Cloro con Teodora ( che era a sua volta la figlia maggiore di Massimiano Erculio ). Insieme a Dalmazio trovò la morte anche il dotto Flavio Optato, creato patricius qualche anno primo e che era stato insegnante di Liciniano, l’infelice figliolo di Licinio. Egli aveva goduto della stima di Costantino il Grande e delitti di questo genere, agli occhi di Costanzo, non potevano essere espiati che con la morte. Si aggiunsero poi alla lista il Prefetto d’Oriente, Ablabio, che reggeva quella carica importantissima fin dal 329, e che aveva a sua volta provocato la morte del filosofo neoplatonico Sopatro; e lo stesso Annibaliano, il fratello di Dalmazio, che mai aveva incominciato a regnare su quell’Armenia, della quale aveva pur conto la corona.
I soldati ebbri di sangue correvano qua e là massacrando senza pietà un gran numero di parenti e amici del defunto imperatore. Quando alla fine fu possibile riportarli all’ordine, si vide che due fratelli e sette nipoti di Costantino il Grande erano stati massacrati, più un numero imprecisato di funzionari e vecchi amici. La famiglia di Costantino ne era uscita praticamente distrutta. Al di fuori dei tre giovani imperatori, quasi tutti i possibili competitori erano stati spietatamente eliminati. Rimanevano in vita solo due figli da un fratello di Costantino il Grande, due giovanetti, Gallo e Giuliano, che sarà il futuro imperatore.
VI
Se pure ci fosse stato bisogno di una conferma che il bagno di sangue, nel quale avevano trovato la morte Dalmazio, Annibaliano e gli altri, era stato organizzato e diretto da Costanzo, questa si ebbe l’indomani lei terribile eccidio. Nessuno degli autori materiali delle uccisioni fu punite. Non una parola di rammarico, a quel che pare, venne sprecata da lui sulla memoria degli infelici cugini. E quanto, infine, ai due unici superstiti del massacro, il giovane Gallo e il bambino Giuliano, malaticcio, introverso, spaurito, tutto quel che Costanzo seppe fare in loro favore fu di privarli dei beni paterni, dividerli, e inviarli lontano, in un esilio simulato che non poteva ingannare nessuno. La loro vita, del resto, rimaneva appesa a un filo, e cioè al capriccio dei loro carcerieri.
Poco dopo questi fatti terribili, i tre figli di Costantino il Grande ebbero un assai opportuno abboccamento, che si svolse in Mesia, nella città di Viminacium, il 9 settembre del 337. Deve essersi trattato di uno strano convegno; i tre fratelli, che non si vedevano da molto tempo, e che si odiavano nel profondo del cuore, si videro faccia a faccia per la prima volta dopo la morte del padre loro, nel maggio df quell’anno. Ignoriamo se il rossore si sia diffuso, almeno per un istante, sui loro volti, nel momento che cinicamente si accingevano a spartirsi l’Impero, le mani ancora lorde del sangue di tanti congiunti, e calpestando le volontà stesse di Costantino il Grande. Ignoriamo se vi furono accuse, rimproveri, giustificazioni: certo è che vennero subito ad un accordo, e che seppero trattare la cosa con la velocità e la destrezza di una semplice transazione commerciale.
Poiché nessuno accettava di essere inferiore all’altro, non designarono ufficialmente un primo Augusto. Rispetto al testamento di Costantino il Grande, le modifiche furono che Costanzo veniva ad annettersi la Tracia, con l’agognata meta di Costantinopoli, e Costante la Macedonia e l’Acaia, ampliando considerevolmente i suoi territori. Solo Costantino il giovane non ottenne un metro di terra in più: le spoglie del bottino di Dalmazio erano troppo lontane dalla sua portata, perché potesse avanzare qualche rivendicazione legittima. E’ pur certo che egli non dovette rassegnarsi di buon grado a un tale ingrandimento dei fratelli, mentre proprio lui, il maggiore, rimaneva a guardare. Forse ottenne il riconoscimento di una sorta di tutela sul più giovane fratello Costante, ma nemmeno di questo siamo sicuri. In compenso, doveva ragionare il giovane Costantino II, Costanzo è furbo e temibile, ma si trova sulle spalle il peso gravoso della guerra persiana, che presto lo paralizzerà; Costante è indocile e potente, ma ancor giovane e inesperto, e deve rimettersi al giudizio dei suoi ministri e consiglieri. Così, per il momento almeno – pensava Costantino – cioè per almeno due o tre anni, egli stesso si veniva a trovare in una posizione eccezionalmente favorevole e fortunata. E, in cuor suo, aveva già deciso di non lasciarsela passare innanzi senza approfittarne.
VII
Che la situazione, venutasi a determinare la dimane del convegno di Viminacium, potesse durare a lungo, questo era del tutto impossibile. Non c’erano i presupposti per una pace durevole nell’Impero Romano lacerato dalle fiere del sospetto, dell’invidia, della cupidigia. I tre fratelli avevano stabilito una tregua, non un armistizio. Quella disgraziata famiglia, sulla quale pareva si fosse puntato il dito di Dio, non era ancora arrivata al limite delle sue sventure.
I motivi di maggiore attrito venivano dall’ambigua posizione del giovane Costante, l’Augusto dell’Italia, sul quale suo fratello maggiore Costantino pretendeva esercitare una specie di tutela. Fuori causa era, per il momento, Costanzo, forse il più genialmente ambizioso dei tre, incatenato al gravoso fardello della guerra persiana, della quale diremo più avanti. Il fatto è che Costante, benché acerbo di anni, non aveva alcuna intenzione di cedere davanti all’età del fratello Costantino. Insofferente dei diritti, che confusamente quello cercava di accampare su di lui, egli si avviava a prendere pienamente coscienza della propria forza e delle proprie capacità, sì che dopo pochi anni solamente già era in grado di guardare senza ombra di timore alla prospettiva di uno scontro aperto con il fratello maggiore. I suoi ministri, come lui ambizioso e non privi di capacità, lo rafforzavano in tali propositi di emancipazione, facendogli sentire come un oltraggio intollerabile le pretese di tutela di Costantino II nei suoi confronti? e che pare non giungessero mai ad avere un certo qual peso politico effettivo.
VIII
Erano ormai trascorsi tre anni dalla morte di Costantino il Grande, e per tutto questo tempo Costantino il giovane, amareggiato e frustrato nei suoi ambiziosi disegni di dominio su tutta la parte occidentale dell’Impero, era riuscito a tenere celato il proprio odio e il proprio risentimento nei confronti del più giovane fratello Costante, ormai divenuto diciottenne. Finalmente, come tutti si aspettavano, l’inimicizia e il sospetto tra i due fratelli degenerarono in aperta contrapposizione, e il pretesto fu offerto da certe dispute territoriali, per quel che riguardava le rispettive competenze nella diocesi africana
Le cose stavano a questo punto allorché Costantino II, finalmente, ritenne giunto il momento di saldare i conti col più giovane fratello. L’Africa, in quel momento, era tutta in agitazione. Se infatti Costantino il Grande, negli ultimi anni di sua vita, aveva rinunciato ad estirpare con la forza l’eresia donatista, non perciò i donatisti avevano cessato di creare problemi alla minoranza cattolica e alle autorità politiche. Specialmente indomabile era il loro odio contro i grandi proprietari terrieri e contro gli usurai, dimostrando così il carattere non solo religioso, ma altresì sociale, politico e morale del movimento donatista. Noi non sappiamo se furono questi torbidi a offrire il destro a Costantino II di intromettersi nella sfera di competenza del fratello Costante. Fin dalla prima Tetrarchia, al padrone della Gallia e della Spanna toccava, in Africa, il governo della sola Mauretania Tingitana. Perciò il solo fatto che una controversia territoriale fosse insorta fra i due Augusti a proposito della diocesi africana, parrebbe suggerire che Costantino avesse fatto qualche tentativo di rivendicazione al di là della sua normale sfera di competenza.
IX
La risposta di Costante, però, fu immediata e decisa. Nonostante la giovane età ( essendo nato dopo il 320, nel 340 non era ancora ventenne ), egli aveva sempre considerate illegittime le pretese di tutela avanzate dal fratello maggiore, e si era mostrato insofferente a tollerarle. Adesso poi. raggiunta la maggiore età, e circondato da ministri e generali decisi e pronti a sostenerlo, facendosi forte del suo numeroso esercito e della tranquillità delle sue province, respinse senz’altro le pretese avanzate da Costantino sull’Africa cartaginese.
Quest’ultimo, dal canto suo, frustrato nei suoi disegni di tutela sopra Costante e, quindi, di assicurarsi la posizione riconosciuta di primo Augusto dell’Impero, per tre anni aveva atteso e pazientato, dissimulando la propria irritazione e i propri ostili progetti. Fin da quando si era reso conto che era impossibile imporre a Costante la propria volontà, egli aveva in cuor suo deciso, che sarebbe passato, un giorno o l’altro, a una azione più decisa per assicurarsi la supremazia indiscussa sull’intero Occidente e, se necessario, per eliminare senz’altro l’indocile fratello. E così, dopo tre anni che spiava l’occasione propizia, ecco che finalmente la disputa africana sembrava offrirgli la possibilità di realizzare i suoi ambiziosi progetti. Costantino decise di agire subito e di non lasciarsi sfuggire il momento favorevole, che gli si presentava.
X
Era l’inizio dell’anno 340 quando Costantino, accusando il fratello minore di essersi fatto beffe della sua autorità, invase fulmineamente l’Italia per la via delle Alpi, sperando ripetere i folgoranti successi del padre suo nella campagna contro Massenzio. Una serie di difficoltà interne, fra le quali la precaria situazione della Britannia, minacciata pericolosamente dai barbari, lo avevano sinora trattenuto dall’agire. Il momento sembrava ben scelto. In Italia regnava un silenzioso malcontento da parte dell’elemento pagano, duramente colpito dalla ferrea intransigenza religiosa di Costante. Malcontento ben più grave, come si è già detto, regnava in Africa. Costante medesimo, poi, in quel momento non si trovava nemmeno in Italia; era a Naissus ( oggi Nisch, in Serbia ), il che sembrava confermare come non si aspettasse, non ora almeno, una simile mossa da parte del fratello maggiore.
La notizia della repentina irruzione del fratello nella Valle Padana non lo colse però, come alcuni pensarono, alla sprovvista. Costantino II, infatti, protestando di voler inviare aiuti al fratello Costanzo impegnato nella difficile guerra persiana, aveva cominciato ad avviare truppe dalla Gallia verso la regione danubiana. Ma d’improvviso, poi, gettando la maschera, alla testa di quelle medesime truppe aveva fatto irruzione in Italia per liquidare il giovane Costante, che egli evidentemente sottovalutava e riteneva poco più che un giovane intollerante e impulsivo. La prontezza della reazione di quest’ultimo lascia supporre invece che egli, già da tempo, si aspettasse qualche mossa improvvisa di Costantino; non ebbe infatti neppur bisogno di impegnarsi personalmente nella campagna Costantino, spintosi alla testa delle sue forze fino sotto le mura di Aquileia, trasportato dalla propria impetuosità ma non altrettanto buon condottiero del padre suo, si lasciò sorprendere e cadde in una imboscata. Dopo una disperata battaglia, nella quale la posta in gioco erano la vita ed il trono, fu sconfitto ed ucciso ( inizi del 340 ). Così, poco dopo i primi, allarmanti messaggi annuncianti l’invasione di Costantino, Costante sulla via dell’Italia fu raggiante dalla notizia che il fratello era morto, il suo esercito aveva deposto le armi e ormai tutto era finito.
XI
Quel che accadde allora fu sintomatico del clima psicologico diffusosi fra le truppe dal tempo di Costantino il Grande. Dacché esse, massacrando tutti gli altri parenti del primo liberatore dei Cristiani, avevano gridato di non volere altri imperatori che i figli medesimi di lui, la morte di uno di essi, e sia pure avvenuta sul campo di battaglia nel corso di una lotta fratricida, non poteva alimentare ulteriormente una guerra civile. Ufficiali capaci e risoluti, se anche ve n’erano nell’esercito di Costantino, non avevano la speranza o comunque la possibilità di mettersi in lizza per la competizione imperiale, aperta dalla subitanea invasione dell’Italia. Fu così che l’esercito del figlio maggiore di Costantino il Grande, perduto il proprio sovrano e il proprio condottiero, non solo cessò la lotta e rinunciò a vendicarne la fine, ma passò addirittura, armi e bagagli, lì sui due piedi, al vincitore del momento, ossia al giovane Costante, contro il quale la campagna si era iniziata. Lo stesso fecero i funzionari della corte gallica e i governatori delle varie province transalpine.
In breve, senza aver dovuto ricorrere una sola volta, a quel che ci risulta, alla forza delle armi, Costante venne in potere re di tutti i domini che erano stati dell’infelice fratello suo, aggiungendoli puramente e semplicemente a quelli che già governava. Questo raddoppiamento subitaneo di potenza del figliolo più piccolo di Costantino il Grande fu accolto, in apparenza, senza un batter di ciglia dell’altro fratello, quel Costanzo II che adesso, suo malgrado, si trovava legato mani e piedi dalla guerra contro la Persia che il suo grande genitore, morendo, gli aveva lasciato come sgradita e pesante eredità. Ed ecco che di colpo la situazione generale dell’Impero Romano e dei rapporti di forza tra gli eredi della dinastia costantiniana, si veniva a rovesciare. Il più giovane, Costante, libero da guerre esterne, assommava nelle proprie mani tutti i poteri sulle terre dalle Colonne d’Ercole e dal Vallo di Adriano, fino ai confini della Tracia e all’isola di Creta. Dal canto suo Costante, di circa quattro anni più vecchio di Costante, governava la Tracia, l’Asiana, la Pontica e l’Oriente, ma rimaneva immobilizzato sulla frontiera mesopotamica e armena dai complessi sviluppi della guerra contro i Sassanidi.
XII
Le vicende religiose, in questi anni tormentati della dinastia costantiniana, occupano un posto notevole nella vita del mondo romano. In parte si tratta però della parzialità delle fonti contemporanee, che ci hanno lasciato una grande quantità di notizie sulla storia ecclesiastica ma poche, certo meno di guanto potremmo desiderare, sulle vicende politiche e militari di quel periodo. Ti è dunque il pericolò di sopravvalutare, per un errore di prospettiva, l’importanza delle vicende religiose durante il regno dei figli di Costantino il Grande; ma è un pericolo inevitabile. La narrazione di Zosimo, per quel che riguarda questo torno di tempo, si fa straordinariamente lacunosa e inopportunamente sommaria. Spesso egli tace proprio là ove noi maggiormente avremmo il desiderio di udirlo parlare. Un caso disgraziato ha voluto che la prima parte dell’opera del migliore storico del tardo Impero, Ammiano Marcellino di Antiochia, andasse irrimediabilmente perduta. Talché a noi oggi non resta che quella parte delle sue Storie che vanno dal 353 al 378, ossia dalla disfatta e morte di Magnenzio in Occidente fino alla catastrofica battaglia di Adrianopoli contro i barbari dell’oltre Danubio. Tutta la prima parte del regno dei figli di Costantino ( anni 337-353 ) è andata così perduta. Dobbiamo perciò, necessariamente, rimetterci alla discrezione delle fonti minori, che sono, per questo periodo storico, in larga maggioranza ecclesiastiche. Esse riprendono la grande tradizione storiografica costantiniana di parte cattolica, i cui massimi esponenti erano stati Eusebio di Cesarea, autore della Storia Ecclesiastica, e Lattanzio di Nicomedia, autore del De mortibus persecutorum, l’uno in lingua greca, l’altro in lingua latina. Ma nessuna delle storie successive può paragonarsi a queste che abbiamo nominato.
XIII
Negli ultimi anni della sua vita, Costantino il Grande aveva notevolmente rettificato la propria posizione iniziale in merito alle controversie teologiche infurianti all’interno della Chiesa cattolica. Dalla posizione iniziale nettamente ortodossa e contraria all’arianesimo, espressa nel più famoso dei concili da lui convocati ( Nicea, 325 ), egli era venuto via via attenuando il contrasto con gli esponenti del partito arianeggiante, piuttosto forte nelle province asiatiche dell’Impero, sino alla condanna di Atanasio e al suo esilio in Gallia, allorché questi aveva continuato a rifiutare ogni compromesso con le idee di Ario e con la sua riammissione in seno alla Chiesa. Così, negli ultimi anni del regno di Costantino il Grande, la situazione della Chiesa era stava praticamente rovesciata: Ario era tornato trionfalmente ad Alessandria ( morendo però, opportunamente, quasi subito ), Atanasio era tuttora esiliato nel lontano Occidente, i suoi sostenitori più battaglieri erano stati disperse la tendenza arianeggiante aveva pienamente trionfato, specie nelle province orientali di lingua greca. Da ultimo lo stesso Costantino, sul suo letto di morte, a Nicomedia, nel 337, si era fatto battezzare da un vescovo ariano, sicché dopo di lui la tendenza moderatamente ariana era considerata da parte dei suoi figli e successori come la sola posizione legittima in seno alla Chiesa cattolica.
XIV
I figli di Costantino erano stati educati in un ambiente religioso notevolmente rigido ed ereditarono dal padre, accentuandolo ulteriormente, il suo fanatismo da neofita. Però, se tutti e tre si erano sulle prime trovati d’accordo nella persecuzione del culto pagano, verso il quale non si erano peritati di adoperare le espressioni del massimo disprezzo, non tardarono ad insorgere tra di loro le controversie sul terreno dell’ortodossia cristiana. Sia Costantino il giovane che Costante, difatti, regnavano su territori che erano sempre rimasti intimamente legati al credo niceno, e che durante gli ultimi anni di Costantino il Grande avevano dovuto subire la preponderanza ariana sol perché l’imperatore aveva sempre più spostato ad Oriente il fulcro della vita politica statale. Costanzo, l’Augusto dell’Oriente, era naturalmente rimasto fedele alla politica religiosa del padre suo; egli seguiva personalmente l’arianesimo, e favoriva apertamente il partito filo-ariano che, nei suoi territori, godeva di una larghissima maggioranza. Non così i fratelli Costantino e Costante, che, desiderosi di non dispiacere ai sentimenti religiosi dei propri sudditi occidentali, avevano subito sconfessato la politica paterna dell’ultimo periodo e riportato in auge l’elemento ortodosso, con universale soddisfazione del papa, dei vescovi, del clero tutto e dei fedeli. Uno dei primi atti politici di Costantino il giovane in materia religiosa, ad esempio, fu quello di rimettere in libertà, colmare dì onori, e infine rimandare in Egitto, il vescovo Atanasio, la "colonna dell’ortodossia", il vecchio irriducibile nemico di Ario. Quest’ultimo era morto da pochi anni ( forse nel 336 ), ma, per le ragioni che abbiamo viste, questo solo gesto era già una sfida all’opinione pubblica della parte orientale dell’Impero, ossia del dominio di Costanzo II. Ma la cosa era destinata ad avere ben più concrete e gravi conseguenze.
XV
II ritorno di Atanasio ad Alessandria d’Egitto era destinato a rimettere in ebollizione tutto il mondo religioso delle diocesi orientali, che sembrava essersi placato dopo l’esilio dello stesso Atanasio e la riabilitazione di Ario.
In città erano, naturalmente, in molti a non vedere di buon occhio il ritorno dell’esule, che durante la sua marcia nei paesi dell’Occidente, da Treviri fino ad Alessandria, era stato fatto segno a tante dimostrazioni di entusiasmo caloroso. Atanasio, si diceva, era stato deposto da un concilio ecclesiastico, quello di Tiro. Ora, si aggiungeva, era solo in virtù di una decisione dell’imperatore di Occidente, di Costantino il giovane, che Atanasio aveva potuto lasciare il suo esilio e far ritorco in Oriente; ossia in virtù del fatto che l’imperatore aveva compiuto un completo voltafaccia nei confronti della politica del suo augusto genitore. Ma Atanasio, insomma, rimaneva un esiliato, un ribelle, indegno di assidersi sulla cattedra episcopale, dalla quale tanto a lungo aveva tuonato contro Ario e contro gli ariani. Ci sia appellava, per suffragare tali affermazioni, ai deliberati del concilio di Antiochia, in base agli ai quali egli doveva essere considerato alla stregua di un vescovo
che avesse abbandonato la propria sede.
Così, nel 339. un gruppo di vescovi di tendenza filo-ariana si riunirono ad Antiochia, e lì provvidero a eleggere un nuovo vescovo di Alessandria un cappadoce di nome Gregorio, in aperta contrapposizione ad Atanasio. L’imperatore d’Oriente, Costanzo II, dal canto suo, non aveva seguito di buon occhio l’iniziatica del fratello Costantino, né il rientro di Atanasio ad Alessandria, ove le acque, dopo tanti torbidi, da qualche tempo sembravano ritornate tranquille. Cosìj dopo l’iniziativa dei vescovi orientali favorevoli a Gregorio, Costanzo decise di agire con risolutezza e provvide a nominare prefetto dell’Egitto un certo Filagrio, oriundo della Cappadocia e quindi compatriota di Gregorio. Il compito di Evagrio era precisamente quello di insediare sulla cattedra episcopale di Alessandria il vescovo eletto or ora ad Antiochia; e cosi fu fatto. A quei tempi stabilire i vescovi nelle proprie sedi era impresa che doveva compiersi a mano armata e che metteva in pericolo la stabilità della vita cittadina non meno di una guerra, una rivolta o una epidemia.
Tale era il clima in cui si manifestava il Cristianesimo ufficiale dell’Impero sotto la dinastia costantiniana.
XVI
La mossa di Costanza era diretta evidentemente ad un duplice scopo: propiziarsi le simpatie del movimento arianeggiante, o comunque anti-atanasiano, delle province orientali; e ribattere colpo su colpo alle iniziative dei suoi fratelli e colleghi che regnavano in Occidente. Costantino il giovane aveva lasciato partire da Treviri Atanasio; e sta bene; ma rimetterlo sulla sedia episcopale di Alessandria era faccenda di pertinenza sua e soltanto sua. Costanzo volle mostrarsi deciso per non apparire debole a Costantino e a Costante, campioni dichiarati dell’ortodossia, i cui avidi occhi si volgevano verso i suoi Stati a spiare, forse, l’occasione propizia per coglierlo in fallo.
Atanasio, dopo l’insediamento di Gregorio, non poteva fare più nulla ad Alessandria e lasciò l’Egitto, rivolgendosi per aiuti, com’era naturale, alla massima autorità religiosa dell’Occidente, al vescovo di Roma. Questo offrì al pontefice Giulio il destro di riaffermare le proprie pretese di autorità ecumenica, che i recalcitranti vescovi orientali, e specialmente quelli di Antiochia, Alessandria, e ora anche Costantinopoli, avevano sempre messo in dubbio. Il pontefice volle sfruttare sino in fondo l’occasione, e invitò gli accusatori di Atanasio a presentarsi presso di lui per esporre i propri argomenti. È facile immaginare quale reazione produsse in Oriente una simile iniziativa. Neppure un vescovo si trovò, disposto a recarsi a Roma e riconoscere, con ciò stesso, l’autorità ecumenica del papa. Tanto più che gli avversari di Atanasio immaginarono subito, e non a torto, che, se si fossero recati nell’Urbe, più che degli accusatori essi si sarebbero ritrovati nelle vesti degli accusati; anziché puntare orgogliosamente il dito accusatore,
si sarebbero visti ridotti a giustificare le ragioni del proprio operato. Là proposta del papa, dunque, venne totalmente ignorata; in Oriente, di fatto, Atanasio continuava ad essere considerato un intruso, un membro espulso della Chiesa; tanto più che Alessandria aveva già – e con buona pace della maggioranza dei fedeli- il suo vescovo legittimo: Gregorio, che sedeva al riparo delle lance dei soldati di Evagrio.
XVII
Qualsiasi vescovo romano avrebbe considerato questo rifiuto come una sfida, così come qualsiasi vescovo orientale non avrebbe potuto giudicare l’iniziativa del papa che alla stregua di una provocazione. In ogni modo, l’ignoranza dell’invito del papa, ostentata dai vescovi d’Oriente e dagli accusatori di Atanasio, agli occhi di Giulio non poteva essere subita passivamente. Occorreva una pronta risposta: sia perché tacere avrebbe significato mostrare che si rinunciava a quell’autorità ecumenica tanto bramata, e perciò stesso ammettere la sua illegittimità; sia perché la causa dell’ortodossia esigeva che Atanasio fosse difeso, specialmente di fronte all’arroganza dei suoi molti nemici di Alessandria e dell’Oriente. Anche gli ortodossi di Occidente infine, clero e fedeli, benché generalmente assai poco interessati alle astruse dispute teologiche, tanto care agli orientali, non avrebbero potuto facilmente tollerare in silenzio quel ch’era accaduto recentemente ad Atanasio in Alessandria. Egli era stato salutato, a Treviri e in tutto l’Occidente, come un eroe; di più: come un martire, che aveva sofferto l’esilio per opera dei consiglieri ariani di Costantino il Grande. Come tollerare che egli venisse respinto come un eretico dall’Oriente, e allontanato con la violenza dalla sua Alessandria, donde per tanti anni aveva combattuto la sua dura battaglia contro Ario e i suoi seguaci? L’arianesimo, in Oriente, era più vivo che mai: bisognava senza indugio rispondere all’arianesimo!
XVIII
La risposta di papa Giulio non fu una di quelle che si possono dire delle mezze misure. Egli convocò addirittura un concilio, che si tenne nella stessa Roma e che fu, in pratica, un concilio dei vescovi occidentali, tutti ortodossi, diretto principalmente alla riabilitazione di Atanasio. I vescovi orientali avevano contestalo il diritto del pontefice di erigersi a giudiche in questioni esorbitanti dal suo proprio vescovato, o, tutt’al più, dall’Occidente; il pontefice rispose facendo vedere come quella autorità, che egli pretendeva esercitare su tutte le diocesi dell’Impero, era già una
realtà indiscutibile in tutto l’Occidente. Il concilio si concluse con lo scagionamento di Atanasio e dei suoi principali sostenitori da tutte le accuse che .erano state rivolte loro. Anche il vescovo di Ancyra ( odierna Ankara ), Marcello, venne prosciolto da ogni accusa.
Intanto però- la situazione politica generale dell’Impero aveva subito un repentino mutamento. Il concilio di Roma si tenne nel 340. In quell’anno, come abbiamo visto, anzi ai primi di esso, si era consumata la tragedia del maggiore dei figli di Costantino il Grande. Sconfitto presso Aquileia mentre era sceso ad invadere i domini di Costante, era stato subito nesso a morte dai soldati di quello. Adesso dunque il giovane Costante veniva in possesso, per diritto di guerra, di tutti i territori ch’erano appartenuti a Costantino II, e con ciò stesso veniva ad assommare nelle proprie mani non solo il potere politico, ma altresì la protezione degli interessi di tutti gli ortodossi dell’Occidente. Era naturale che tanto il papa quanto i vescovi si appellassero a lui, perché facesse pressioni sul fratello Costanzo al fine di proteggere il partito ortodosso, apparentemente minoritario, dell’Oriente. Né Costante, l’ambiziosissimo Costante, con le mani ancora lorde del sangue di suo fratello, avrebbe potuto chiedere miglior pretesto per ingerirsi nelle faccende d’Oriente e far intendere al fratello rimasto ch’egli, ed egli solo, aveva il diritto di essere considerato primo Augusto dell’Impero.
XIX
La guerra persiana, della quale parleremo tra breve, era la necessaria cornice di tale stato di cose. Essa era la spina nel fianco di Costanzo II, che l’aveva ereditata dal padre suo in punto di morte, ma che non aveva ereditato del pari tutte le forze necessarie a portarla felicemente a compimento. Se, infatti, Costantino il Grande si era messo in marcia per l’Asia con il proposito evidente di iniziare offensivamente la campagna, e risolverla nel più breve stesso possibile, magari sotto le mura di Ctesifonte, la sua scomparsa repentina e la divisione dell’Impero tra i suoi figli aveva mutilato proprio la branca orientale dell’esercito romana, rendendo impossibile lo svolgimento di quella brillante , immediata offensiva, che sola avrebbe potuto piegare una volta per tutte l’orgoglio del monarca sassanide e rimettere sul trono di Artaxata un candidato romano ( beninteso meno ingombrante e scomodo dell’infelice Annibaliano ).
Ora, così come lo stesso Costantino il Grande, prima del 324» aveva stretto l’occhio alla Persia per mettere in difficoltà il suo collega orientale Licinio, così ora Costante, non che considerare la guerra persiana come un affare che in qualche sia pur lieve misura lo riguardasse, badava a ricavarne i maggiori vantaggi, profittando dello stato di debolezza che essa cagionava al fratello Costanzo. Si ricorderà infatti come, subito dopo la morte di Costantino il Grande nel 337, i tre fratelli e colleghi dell’Impero Romano non avessero mai cercato di unire le proprie forze per fronteggiare il comune avversario orientale. Ciò aveva permesso ai Sassanidi di sferrare una prima offensiva in forze fin dal 338, sebbene senza ottenere vantaggi importanti. Costantino II, due anni dopo, aveva incominciato ad avviare truppe verso oriente per dare la mano al fratello Costanzo; tale movimento di truppe dovette svolgersi attraverso la Rezia e il Norico, stante la sospettosità, non certo ingiustificata, di Costante. Ma anche quella volta, l’aiuto a Costanzo impegnato contro i Persiani non si era dimostrato che un pretesto: ciò che stava a cuore a Costantino il giovane non era certo far suo un fardello tanto remoto, quale la campagna persiana, bensì mettere le mani sulla parte di Costante. Il quale, da parte sua, eliminato il rivale e rimasto unico signore dell’Occidente, non si preoccupò mai di inviare soccorsi a Costanzo contro i Persiani. Egli anzi gioiva dell’impaccio, in cui il fratello si dibatteva, e per nulla al mondo avrebbe desiderato di renderglierlo più leggero. Fon c’era più un Impero Romano: ce n’erano due, divisi e perfino ostili, e le minacce esterne dell’uno non erano affare dell’altro. Queste erano le naturali conseguenze di un sistema che aveva conservato le forme giuridiche e territoriali della Tetrarchia, ma che della Tetrarchia aveva rinnegato la parte più essenziale e vitale: lo spirito di solidarietà fra i sovrani colleghi.
XX
Nell’Impero d’Oriente l’insediamento di Gregorio in Alessandria e la piena sconfitta degli atanasiani non potevano esser considerati sufficienti a chiarire la situazione della Chiesa. A questo punto infatti è necessario chiarire che cosa fosse in realtà il Cristianesimo orientale nella prima metà del IV secolo, per poter comprendere quello che avvenne dopo. Anzitutto, se fino ad ora abbiamo parlato, genericamente e per comodità, di partito ariano o arianeggiante, dobbiamo però precisare che le idee estremiste di Ario erano condivise da una parte soltanto da coloro che rifiutavano con vigore le tesi di Atanasio. Atanasio era rifiutato perché considerato, in Oriente, come una via d’accesso all’eresia sabelliana. Per la stessa ragione la maggioranza dei vescovi e del clero orientale non riconosceva la validità del primo concilio di Nicea, quello del 325, il cui credo o "simbolo", riconosciuto come valido in tutto l’Occidente, poggiava sopra il concetto della consustanzialità" del Padre e del Piglio ( la formula di "consustanziale", come abbiamo detto nel libro precedente, pare venisse suggerita a Bieca dallo stesso Costantino il Grande ). Pera anche i seguaci veri e propri di Ario, scomparso da pochi» anni, non erano troppo numerosì. Essi infatti si spingevano a sostenere, senz’altro, che il Figlio era Itro dal Padre, era altra sostanza ( anomei ), e questo era giudicato eccessivo dalla maggior parte del clero e dei fedeli. Si converrà che, per qualsiasi Cristiano, un’affermazione così categorica e così contraria a quanto esplicitamente detto nei Vangeli, doveva istintivamente ripugnare o apparire quantomeno una grave forzatura.
Più fortuna sembra trovasse, in quegli anni, la soluzione teologica proposta dagli "omei", e cioè che il Padre e il Piglio non erano né consustanziali ( identici ) né di diversa sostanza, ma piuttosto "simili". È difficile, naturalmente, per l’uomo moderno, e specialmente per l’uomo moderno occidentale, superficialmente cristiano e interiormente ateo, apprezzare il gusto bizantineggiante per siffatte disquisizioni dottrinarie. Parrebbe, a prima vista, che esse non dovessero interessare altri che qualche monaco esaltato o qualche teologo intrigante. Invece sembra ( è difficile dire fino a che punto possiamo fidarci del quadro fornitoci dalle fonti ) che siffatti problemi occupassero i pensieri e le azioni di una larga parte del clero e della popolazione cristiana dell’Impero, specialmente in Oriente. Lo spirito sofistico dei paesi di lingua greca aveva trovato uno sfogo eccellente in questo genere di problemi. Tutte le gradazioni e sfumature della cavillosità speculativa greco-orientale, in tempi di moritura filosofia pagana, trovavano espressione nelle varie correnti dell’arianesimo e del filo-arianesimo di allora. Le posizioni teologiche erano così varie che noi ci troveremmo in minore imbarazzo dovendo indicare che cosa fosse ciò che separava tutte queste tendenze, che con ciò che le univa. E ciò che le separava è presto detto: l’avversione, appunto, per il concetto di "consustanzialità" e per i deliberati del primo Concilio di Nicea, che in Oriente – del resto – avevano avuto vita brevissima.
Così, a pochi anni dalla morte di Costantino il Grande, la realtà era che l’Impero, oltre che irrimediabilmente diviso sul piano politico e territoriale, lo era altrettanto, e forse più, su quello culturale e religioso. Specialmente in tempi in cui la vita culturale sembrava essersi ridotta quasi interamente alla sfera religiosa, anzi alle dispute interne di una particolare fede religiosa – quella che aveva trionfato nel palazzo dei potenti. .
XXI
Proprio codesta situazione di confusione ed eterogeneità confessionale aveva indotto i vescovi orientali a definire meglio una posizione comune, una posizione, naturalmente, della quale c’era adesso tanto maggior bisogno, che si era imboccata la strada dell’aperta contrapposizione nei confronti del pontefice romana. Ma anche in Occidente il papa ed i vescovi desideravano un concilio, che servisse non tanto a contrapporsi all’Oriente ariano o arianeggiante, quanto a definire esplicitamente la dottrina ortodossa e a cercare, se possibile, un punto d’incontro d’incontro con i vescovi orientali. Soprattutto desideravano riesaminare la questione di Atanasio, che si trovava nella grottesca posizione di eretico nella sua città di Alessandria e di campione della fede ortodossa a Roma. La posizione del clero d’Oriente e di quello di Occidente era chiaramente diversa e pressoché antitetica. Come ai tempi della Riforma luterana, che mille due cento anni dopo avrebbe nuovamente diviso l’Europa, gli uni volevano convincere gli altri della bontà della propria posizione, mentre questi ultimi non desideravano che di conservare ciò che si erano conquistati. E, come sarebbe accaduto allora, la questione vitale, veramente vitale che si agitava stillo sfondo delle astratte dispute teologi che, era, in fondo, quella della priorità del papa e della legittimata della sua pretesa ad una autorità ecumenica sul mondo cristiano.
Come in tutti i tempi di crisi dell’unità interna della Chiesa, di confusione dottrinale e di sconcerto generale, l’esigenza di un concilio ecumenico era diffusa e sinceramente sentita da molte parti. Fon si era persa del tutto la speranza d’intendersi. Ma le esigenze di alta politica dei
governi si erano già impadronite di quei fermenti e li avevano piegati ai loro fini, svuotandoli e snaturandoli del loro autentico significato.
XXII
Costante, dalla posizione di forza in cui era venuto trovarsi, sia per l’assorbimento dei domini di Costantino II, sia per la guerra persiana che immobilizzava Costanzo ad Oriente, propose nel 343 ( ma la datazione è incerta ) la convocazione di un concilio ecumenico, che avrebbe dovuto cercar di trovare un punto d’incontro fra Oriente e Occidente, e riportare la pace nella travagliata cristianità. Costanzo, in quegli anni, si trovava in una posizione assai difficile. All’esterno, la guerra persiana alternava senza posa vittorie e sconfitte, avanzate e ripiegamenti. All’interno, il momentaneo ritorno di Atanasio ad Alessandria, e anche di altri atanasiani rimandati da Costantino e da Costante nelle rispettive diocesi orientali, aveva acceso la miccia di un vasto incendio religioso, le cui fiamme si levavano sempre più alte e crepitanti. Lo stesso movimento atanasiano non poteva dirsi spento del tutto in Oriente. Per insediare Gregorio in Alessandria c’era voluto l’esercito, e, per cacciare Atanasio, si era dovuta fronteggiare una vera e propria sommossa popolare. Ancor più gravi disordini sarebbero scoppiati, di lì a poco, per la questione della cattedra episcopale di Costantinopoli, la turbolenta capitale, contesa con eguale violenza e con eguale intransigenza fra ariani e atanasiani. Infine le dispute fra omei e anomei avevano creato uno stato di disordine e incertezza per tutto l’Oriente
Costanzo capiva benissimo, è naturale, quali fossero le vere intenzioni di suo fratello Costante nel proporgli la riunione del concilio. Qui la pietà religiosa non c’entrava per nulla, o quasi; qui si trattava di attizzare le discordie religiose dell’Oriente per indebolirlo dinanzi all’Occidente, e magari condannare senz’altro l’arianesimo per rimettere Atanasio e i suoi seguaci nelle sedi che avevano dovuto abbandonare. Se, a dispetto di ciò, Costanzo finì per cedere, e accondiscendere alla convocazione del concilio, non v’ha dubbio che si risolvesse a ciò solo molto a malincuore, pressato com’era dai problemi, interni e est»e-ni, che lo attanagliavano. Che poi si attendesse da siffatto concilio ecumenico una conclusione favorevole alla causa dell’Oriente – la causa dell’arianesimo – questo è difficilissimo a credersi. Buon politico com’era, egli presentiva già il probabile svolgimento dei lavori conciliari; ma rifiutare di aderire avrebbe significato rompere apertamente con il fratello; il che, in quel momento, era assolutamente impossibile. E così il concilio si fece.
XXIII
Esso tenne le sue riunioni nella città di frontiera di Sardica ( l’odierna Sofia, capitale della Bulgaria ), entro i domini’.- di Costante, ma in prossimità di quelle di Costanzo. Vi presero parte all’incirca centosettanta vescovi provenienti da tutto l’Impero Romano, dei quali una novantina occidentali e ortodossi, e circa ottanta orientali e favorevoli, più o meno apertamente, all’arianesimo.
I lavori però andarono incontro in brevissimo tempo a una brusca rottura. Occorre per prima cosa dire che i vescovi dell’Oriente, o almeno quelli favorevoli all’arianesimo – e cioè la stragrande maggioranza – si erano recati a Sardica assai di malanimo, e solo, si potrebbe dire, per obbedienza verso il loro imperatore e benefattore, l’Augusto Costanzo II. Ma erano animati da un denominatore comune, l’insofferenza per le pretese ecumeniche del papa e, subordinatamente a ciò, per qualsiasi tentativo Occidentale di riaprire la questione di Atanasio e della cattedra alessandrina. Invece proprio su questi punti i vescovi ortodossi dell’Occidente non intendevano transigere, ed erano più che mai decisi a farne la base per ogni ulteriore discussione.
Così, non appena i vescovi di Occidente chiesero che Atanasio e i suoi amici presenziassero ai lavori del concilio, i loro colleghi orientali, sdegnati, protestarono altamente. Bisogna riconoscere che si partiva da un grosso equivoco di fondo: dal fatto, cioè, che mentre Atanasio era stato riabilitato da un concilio romano presieduto dallo stesso pontefice Giulio 17 quasi nello stesso tempo un concilio orientale – quello di Antiochia, presieduto dall’imperatore Costanzo – lo aveva condannato ed espulso dalla sua sede. Egli era dunque allo stesso tempo un eroe per metà dell’assemblea, e un impostore per l’altra metà. La conclusione fu che i vescovi orientali, resisi conto di essere caduti in una trappola, e di trovarsi di fronte ad una maggioranza risoluta ad agire sino in fondo, abbandonarono senz’altro il concilio e la città, rientrando nei vicini territori del loro ariano imperatore.
Così, mentre a Sardica proseguiva il concilio dei vescovi occidentali, devoti alla causa di Roma, di Atanasio e dell’ortodossia, nella vicina Filippopoli ( oggi Plovdiv, in Bulgaria ) un altro concilio, promosso dai vescovi ariani dell’Oriente, apri i lavori, che avrebbero dovuto svolgersi, naturalmente, in aperta antitesi con quelli di Sardica. Un simile scandalo in seno alla Cristianità non s’era fino allora mai veduto! Ma si sarebbe dovuto presto vedere anche di peggio.
XXIV
II concilio di Sardica, menomato della componente orientale, prosegui imperterrito peri la sua strada. Esso riabilitò pienamente Atanasio e i suoi amici, diretto dalla mano incrollabile del vecchio Osio di Cordova, l’antico consigliere spirituale di Costantino il Grande. Riconfermò la validità suprema dei deliberati del concilio di Nicea del 325 e del suo simbolo. Infine riconobbe esplicitamente la priorità del pontefice romano in tutte le questioni ecclesiastiche dell’Impero ed anche nei confronti delle autorità conciliari, contro le quali egli poteva appellarsi e pronunciare diversa sentenza. Come dire che il papa aveva il diritto di disfare tutto ciò che in Oriente la tendenza ariana tentasse di far prevalere.
Contemporaneamente, a Filippopoli i padri orientali, trascinati dalla forza stessa della polemica antipapale, prendevano delle risoluzioni ancor più drastiche. Per prima cosa, ribadirono la condanna di Atanasio e dei suoi seguaci. Quindi, sconfessando apertamente il credo niceno del 325, passarono a formulare un nuovo credo, nel quale provvidero
a conciliare come meglio poterono le varie sfumature dell’arianesimo orientale, adottando una soluzione teologica a mezza via fra il pericoloso concetto di "diversità" e quello, aborritissimo, di "consustanzialità" tra Padre e Figlio. Era, insomma, una vittoria della corrente moderata dell’arianesimo orientale, di coloro che proclamavano la "similitudine" ( non, si badi, l’identità ) del Padre e del Figlio. Dopo di che, definito l’aspetto dottrinale, i padri di Filippopoli, esacerbati dall’atteggiamento del pontefice Giulio e dalle notizie che giungevano dalla vicina Sardica, non esitarono a scomunicare addirittura tanto Osio di Cordova, quanto lo stesso vescovo di Roma!
La rottura era completa. Si può solo immaginare a quale grado di intensità fosse salita la tensione fra la corte di Costante e quella di Costanzo, che stavano, fin dall’inizio del concilio di Sardica, dietro i rispettivi partiti religiosi. L’Impero Romano era in piena scissione religiosa e, da un momento all’altro, sull’orlo di una vera e propria guerra civile.
XXV
Dei due Augusti sovrani, però, quello di Oriente e quello di Occidente, era senza dubbio il primo a trovarsi nella posizione più debole. Delle difficoltà cagionategli dalla guerra persiana abbiamo già detto. Ma adesso anche altre, terribili difficoltà stavano lacerando l’unità dell’Oriente sul piano interno, e proprio sulla questione ariana.
Bel 344 era venuto a morte il vescovo di Costantinopoli, l’ariano Eusebio di Nicomedia, ossia quello stesso che aveva impartito il battesimo a Costantino il Grande sul suo letto di morte nel 337* La sede episcopale era allora stata occupata prontamente da un atanasiano, Paolo, che godeva di un notevole séguito popolare. Costantinopoli non era Alessandria; quivi il partito favorevole ad Atanasio e aai seguaci suoi era più agguerrito e numeroso, e la cosa era tanto più imbarazzante per il governo, in quanto che si trattava della capitale politica dell’Oriente ariano. In quel momento l’imperatore, Costanzo II, non si trovava in città; era ad Antiochia, donde si preparava» a far fronte agli attacchi dei Sassandi. Egli comunque» non era disposto a lasciare che nella sua Costantinopoli , in un momento simile, sedesse un vescovo amico di Atanasio, che gli attizzasse contro il popolo e si appellasse, magari, ai padri di Sardica e a colui che sta-va dietro a loro – suo fratello Costante. Perciò, avendo sottomano un uomo da opporre prontamente a Paolo, l’ariano Macedonio, Costanzo volle che quest’ultimo sostituisse al più presto il rivale sulla cattedra episcopale costantinopolitana. Senonché, la cosa non era così facile ad eseguirsi, come a ordinarsi. Costantinopoli era tutta in subbuglio. Nell’assenza di un forte potere politico, essa si abbandonò ai più riprovevoli eccessi, rifiutando ostinatamente di aprire le porte al vescovo Macedonio. Fu necessario, come già nel caso di Alessandria qualche anno prima, inviare buon nerbo di truppe, al comando del magister equitum ( generale della cavalleria ) Ermogene, per insediare a forza Macedonio nella sua diocesi, a dispetto della volontà dei fedeli. A questo punto, tuttavia, il popolo della metropoli, giunto al parossismo del furore, si rivoltò, assalì le truppe, fece a pezzi l’infelice Ermogene, e poi, impazzito, ne trascinò trionfante i miseri resti per le strade.
XXVI
Quanto stava accadendo a Costantinopoli era per Costanzo della massima gravita. Così, lasciando immediatamente ogni altro affare, da Antiochia accorse nella capitale in riva al Bosforo, alla testa di un’intera armata. Spettacolo inaudito e sconcertante. L’imperatore cristiano di un Impero ancora a maggioranza pagano entrava a mano armata nella propria capitale per poter mettere un vescovi al posto di un altro! Fu necessaria una vera battaglia, e un grande spargimento di sangue, perché la sfrenata moltitudine di Costantinopoli, la scatenata feccia bizantina, piegasse il capo all’inevitabilità delle cose. Macedonio poté assidersi, finalmente, sulla sua seggiola insanguinata, e Paolo pigliò a sua volta la via dell’esilio.
Egli, però, non era solo; sapeva che in Occidente, i vescovi, il papa e l’imperatore sarebbero stati tutti per lui; e subito lasciò gli Stati del suo eretico sovrano – quale egli lo giudicava – per dirigersi alla volta dell’Italia. Occorre ricordare che Costante, il quale aveva posto per un certo tempo la sua sede a Sirmium (Sremska Miirovica ) sulla Sava, l’aveva trasportata, in quel torno di tempo, in Italia, a Milano.
Costante, in quel momento, si trovava ai confini della Penisola, ad Aquileia, la città che aveva visto compiersi il tragico destino di suo fratello Costantino. Con lui era pure il vecchio Atanasio, l’altro grande esule dell’Oriente, più battagliero e più irriducibile che mai. Presso di loro corse a rifugiarsi Paolo, il quale – non v’ha ddubbio – avrà raggiunto all’elenco dei torti subiti tutto l’orribile peso del sangue versato in Costantinopoli per volere di Costanzo II. Egli, di quel sangue, non era certo innocente!
Ma la partita, per adesso, si era conclusa con la sua fuga precipitosa; e, del resto, gli esuli sono sempre circondati da una cert’aria di martirio, o almeno di violenza patita, anche quando sono soltanto dei violenti e degli intriganti. Né l’imperatore dell’Occidente rimase insensibile alle lacrime e ai lamenti del profugo da Costantinopoli.
XXVII
Costante era già sommamente stizzito ed offeso per ciò che i padri orientali avevano osato fare al concilio ecumenico — lasciare Sardica, riunirsi separatamente a Filippopoli, condannare Atanasio, scomunicare Osio e Giulio I, rinnegare il Simbolo di Nicea. La cacciata di Paolo da Costantinopoli e l’insediamento di Macedonie, avvenuti con tanto spargimento di sangue, furono la goccia che fece traboccare il vaso della sua pazienza.
In quel momento Costante poteva guardare con notevole sicurezza alla prospettiva di una completa rottura con suo fratello. Sovrano di un impero più vasto – se non più popoloso – di quello di Costanzo, libero da minacce esterne, eccettuate alcune normali operazioni di polizia sul Danubio, sul Reno e in Britannia, con un esercito senza confronti più agguerrito e numeroso, formato dai leggendari legionari gallici, che già tante volte avevano condotto il padre suo alla vittoria, e dai non meno eccellenti legionari illirici, egli ritenne giunto il tempo di mettere il fratello con le spalle al muro. Senza più esitare, Costante intimò a Costanzo l’applicazione dei deliberati del concilio di Sardica: cioè, niente meno, il reinsediamento dei vescovi ortodossi nelle rispettive sedi orientali, la sconfessione del credo ariano, la riaffermazione del Simbolo di Nicea.
È più che probabile che Costante, presentando al fratello simili richieste, fosse già certo in cuor suo ch’egli le avrebbe rifiutate, o meglio, che sarebbe stato costretto a rifiutarle: si trattava, in effetti, di un ultimatum non meno categorico, non meno inaccettabile di quello che dà origine, milleseicento anni dopo, alla prima guerra mondiale dei tempi moderni. Costante poteva guardare con fiducia alla prospettiva di una guerra. Egli, ne era certo, avrebbe rinnovato il fulmineo successo riportato su Costantino II quattro anni prima; Costanzo, molto più debole e già duramente impegnato contro la Persia , non avrebbe potuto resistere, tanto più che tutti gli atanasiani d’Oriente sarebbero insorti contro l’amico di Gregorio e di Macedonio, contro il persecutore di Paolo e di Atanasio.
XXVIII
Se Costante aveva deliberatamente spinto suo fratello nel vicolo cieco della guerra, rimase presto deluso nelle sue aspettative. Costanzo non avrebbe potuto resistere, e lo sapeva; perciò, alle burbanzose richieste di applicare nei suoi Stati i deliberati di Sardica, egli inaspettatamente chinò il capo, e accondiscese. Quello che dovette costargli una simile decisione, noi possiamo soltanto immaginarlo. Si trattava di una umiliazione gravissima, senza dubbio; si trattava di una ingerenza intollerabile del governo occidentale negli affari d’Oriente, e l’imperatore di Costantinonoli, personalmente di credo ariano, si vedeva costretto ad allontanare dalle loro sedi i vescovi ariani per far posto agli avversari del giorno innanzi. Anche agli occhi dei propri sudditi, Costanzo aveva ricevuto un colpo terribile. Però, quello che più importava, si era salvato il trono.
Davanti alla sua docile remissività, Costante si vide venir meno fra mano il pretesto per un attacco, e la guerra – la guerra vittoriosa – non vi fu. Con astuzia politica molto maggiore, che non possa apparire a prima vista, Costanzo aveva disarmato il fratello suo e nemico, costringendolo a riporre nel fodero la spada, che già aveva sguainato a mezzo. Se noi riguardiamo indietro alla storia dell’Impero Romano, e anche del tardo Impero, difficilmente troveremo un contegno più vile» e più astuto, di quello con cui allora Costanzo si salvò, probabilmente, il trono e la vita. Egli forse più ancora di suo padre Costantino il Grande incarna il prototipo del tiranno bizantino, figura della quale sono pieni i millenari annali dell’Impero d’Oriente. Forza e debolezza, magnanimità e sfrenatezza divengono elementi dell’arte del governo, tutti, all’occasione, egualmente validi, tutti egualmente legittimi. La conservazione del trono – che, in fondo, sempre più a questo tende a ridursi la cosiddetta arte del governo – è l’unico, supremo fine al quale perfino le armi tradizionali della politica vanno, se necessario, sacrificate.
Con metodi e idee siffatte una lunghissima schiera di autocrati orientali riusciranno a preservare il proprio potere sul trono di Costantinopoli per altri mille cento anni. Ma lo Stato sarà, appunto, come il potere, soltanto preservato, non già rinnovato; e, per un tempo così lungo, soltanto i cadaveri mummificati possono essere conservati
Possediamo un enorme busto bronzeo dell’imperatore Costanzo II, che si trova nel i
Palazzo dei Conservatori a Roma. Recentemente si è messo in dubbio che si tratti della tesa di Costanzo, orientandosi piuttosto nel senso che si tratti di un ritratto di Costantino il Grande medesimo. A tali conclusioni sembrano indirizzare i suggerimenti dell’iconografia delle monete contemporanee. Il parere di chi scrive, tuttavia, è che si tratti proprio, come tanto a lungo si è pensato, del ritratto di Costanzo II. Troppo spazio richiederebbe una esposizione accurata delle ragioni che ci inducono a tale propensione. Basti dire che Costantino, nelle monete in cui è effigiato di profilo, presenta un naso volitivo, ma regolare; come pure regolari, e in realtà gradevoli, la fronte, la bocca e il mento. Anche la statua di San Giovanni in Laterano conferma questi elementi dell’iconografia monetale.
Osserviamo invece il volto bronzeo, di proporzioni colossali ( secondo il gusto invalso a quei tempi ), del Palazzo dei Conservatori. L’acconciatura, naturalmente, è la stessa; ma quale contrasto presentano le fattezze! Osservato di profilo, esso presenta una fronte bassa e poco intelligente, aumentando questa impressione i riccioli femmineamente curati che ricadono sugli occhi e l’espressione singolarmente vuota e assente dello sguardo. Il naso, lungo e imponente, è ». adunco, come un rostro d’aquila; non già virilmente aquilino, come quello di Cesare, ma sfrontato e beffardo, indefinibilmente ripugnante. La bocca, immobile, ha le labbra carnose, il mento prominente forma una curva che sembra risponI
aere astutamente a quella del naso. Ora guardiamo questo vól-to di fronte. Subito ci colpiscono tre elementi: la grandez-za degli occhi dallo stupido sguardo, la piega disgustata del-la bocca inaspettatamente piccola, e l’aria, pure di disgusto e come di insofferenza, suggerita dalle pieghe simmetriche al di sotto degli occhi, del naso e delle labbra.
Tutto l’insieme della testa di Costanzo produce un’impressione sgradevole, quasi penosa, quando ci troviamo dinanzi allo spettacolo sconcertante della bassezza e dell’astuzia riunite in una brutta forma. A proposito di tali fattezze, il Burckhardt parlava di "espressione pretesca, nel senso peggiore della parola", ed estendeva il discorso fino ad affacciare l’ipotesi di una vera e propria degenerazione dei caratteri somatici durante il tardo Impero. La commistione delle razze, la miseria, la recessione demografica possono effettivamente servire da supporto a una tesi del genere. Ma noi, senza volerci addentrare in un discorso tanto vasto e tanto vago, preferiamo limitarci allo studio di quel singolo campione umano, che lo scalpello di un ignoto artista di corte ci ha lasciato con tanta impressionante vivezza documentaria. Il carattere di Costanzo, e, come il suo, di tanti altri autocrati bizantini del Medio Evo, vi appare pienamente messo in risalto. La mancanza di scrupoli morali, l’astuzia politica notevole, a dispetto forse di un ingegno meschino, la decisa propensione per i metodi subdoli e mascherati, tutto questo pare espresso con forza prodigiosa da quell’enorme profilo di bonzo. Il machiavellismo della peggiore specie stava prendendo possesso del palazzo di Costantinopoli.
E l’aspetto più ripugnante di esso è che amava vestire i panni della pietà religiosa e della devozione cristiana.
XXIX
Mentre Costanzo chinava il capo davanti al volere del fratello, Atanasio, che aveva già conosciuto nella sua vita tante alterne vicissitudini, conobbe finalmente il trionfo così a lungo sospirato. Appena poco tempo prima era un esule perseguitato, costretto a rifugiarsi in Occidente, ad Aquileia, per invocare la protezione dell’Angusto Costante; ed ecco che ora le porte dell’Egitto e della sua città, per la seconda volta, gli venivano spalancate, e offerta la possibilità di un ritorno trionfale. Pochi avevano potuto dimenticarsi di lui, ad Alessandria, dopo che Costanzo aveva colà inviato il prefetto Filagrio per scacciarlo manu miltari ed installare al suo posto, quale vescovo, Gregorio di Cappadocia. Ma ecco che ora, propria la dimane dei concili di Sardica e di Filippopoli , Gregorio opportunamente veniva a morte ( era il 345 ) e liberava il suo sovrano dall’imbarazzo di doverlo egli stesso cacciare con la forza, così come con la forza lo aveva installato, solo per compiacere le ingiunzioni di Costante. Visto che non c’era altro da fare, e che opporsi al fratello non poteva, Costanzo si risolse a rivolgere al suo vecchio nemico, al "pilastro dell’ortodossia", un formale invito a riassumere la cattedra episcopale di Alessandria. Atanasio, a quel che pare, ebbe alcuni momenti d’incertezza; forse temeva una trappola, o forse era semplice mette sgomentato dalla prospettiva stessa di una vittoria così completa e così inaspettata.
Alla fine si risolse a tornare in Egitto senza timore e fece la sua entrata trionfale in Alessandria il 21 ottobre dell’anno 346. Gran folla di popolo era accorsa ad accoglierlo festosamente, quella stessa che aveva dovuto chinare il capo, alcuni anni prima, dinanzi alla violenza delle truppe di Filagrio. Noi possiamo facilmente immaginare i nomi menzogneri con i quali la corte di Costanzo si affrettò a presentare quegli eventi inauditi ai sudditi dell’Oriente. Si parlò di rappacificazione tra i due Augusti fratelli, di necessità della pace religiosa, di sforzo di "buona volontà da parte delle autorità orientali. Tutto questo mentre il vegliardo terribile, Atanasio, due volte esule e due volte redivivo, coglieva gli ultimi allori della sua vita tempestosa. Molto ancora però avrebbe visto, poiché non poteva dirsi, cronologicamente, vecchio nel senso abituale della parola. Nato nel 295, in quel momento aveva passato da poco i cinquant’anni : sarebbe vissuto fino alla soglia degli ottanta, fino al 373. E il suo trionfo di Alessandria doveva rivelarsi presto tutt’altro che definitivo.
XXX
Costante, dopo l’uccisione del fratello Costantino e la solenne umiliazione inflitta a Costanzo, poteva guardare alla propria posizione con legittimo orgoglio. Egli era divenuto, di fatto, il primo Augusto dell’Impero; dominava su un territorio quasi due volte più esteso di quello del fratello; non era molestato seriamente dai barbari sui confini la propria macchina militare e burocratica pareva funzionare a meraviglia; infine, tutti gli ortodossi dell’Impero, dentro e fuori i suoi confini, guardavano a lui come a un eroe e liberatore, come a un novello Costantino il Grande.
Fin dalla dimane della morte di Costantino II e dell’usurpazione dei suoi genitori, fino cioè dal 341, Costante aveva dato un ulteriore giro di vite alla sua politica religiosa, inasprendo i provvedimenti contro il culto pagano. Cresciuto in un ambiente religioso rigido e intollerante, quello stesso che tanto intimo disgusto aveva provocato nel giovane Giuliano, il suo cugino scampato alla strage del 337, Costante più di tutti gli eredi del grande padre suo ambiva a presentarsi nelle vesti di vindice della cristianità e dell’ortodossia nei confronti del paganesimo e delle eresie, figli era ben deciso a puntellare il proprio vastissimo potere con le armi della religione, che suo padre gli aveva insegnato tanto cinicamente ad impugnare. La sua alleanza politica col vescovo di Roma, col papa Giulio I, alleanza nella quale egli, Contante, teneva, si capisce, il primo posto}aveva già dato dei frutti magnifici, la completa vittoria sull’Oriente ariano e sulla corte di Costantinopoli. Egli certo non presentiva affatto la catastrofe vicina, che repentinamente avrebbe troncato il suo potere e la sua stessa vita.
XXXI
È tempo però, prima di proseguire con le vicende dell’Occidente e con la catastrofe di Costante, di aggiungere qualche parola a commento finora detto su quella guerra persiana, che Costantino non aveva fatto in tempo ad incominciare e che tante preoccupazioni aveva già arrecato a Costanzo. Lo svolgimento di essa è di un certo interesse, perché sarà caratteristi e o un po’ di tutte le interminabili contese romano-sassanidi dei prossimi tre secoli.
Fino a quel momento, a cominciare da Carré e a finire con la schiacciante vittoria di Galerio nel 297, la caratteristica essenziale delle guerre romano-persiane era stata quella di essere guerre di movimento. Per ben quattro volte, come si ricorderà, gli eserciti di Roma erano entrati trionfalmente nella lontana Ctesifonte, la capitale d’estate della monarchia rivale: sotto Marco Aurelio e Lucio Vero, sotto Settimi o Severo e sotto Caro, e prima ancora, sotto Traiano, erano arrivate addirittura fin stille spiagge dell’Oceano Indiano.
Ma da quando l’Impero Romano, con la rovina definitiva del sistema tetrarchico, si vide ridotto a due ( o tre ) parti distinte e separate, non di rado ostili, la fisionomia della guerra mutò radicalmente. Le indisciplinate legioni romane della Siria erano impari al compito di proseguire offensivamente le operazioni. Tutti i grandi successi militari, riportati da Soma sui Parti e sui Sassanidi, erano stati dovuti all’intervento delle legioni occidentali, specie galliche e illiriche. Viceversa, i Persiani, sotto la guida della nuova dinastia sassanide, aveva notevolmente rafforzato il proprio apparato militare, economico e burocratico-amministrativo, si da apparire ora un avversario tutt’altro che trascurabile per i suoi vicini d’oltre Eufrate. Si può fissare una data abbastanza precisa per questo rovesciamento della situazione ai margini orientali del mondo antico: il 337, anno della morte di Costantino il Grande e della spartizione dell’Impero tra i suoi figli. Da quel momento il solo Impero d’Oriente si trovò a dover fronteggiare un nemico agguerrito, deciso e notevolmente imbaldanzito, un nemico che alla penetrazione del Cristianesimo costantiniano in Mesopotamia contrapponeva la forza delle tradizioni iraniche e della religione magica. Le guerre romano-persiane dal IV al VII secolo furono più delle guerre di religione fra Zoroastro e Gesù Cristo che delle guerre commerciali per il possesso di Hisibis o di qualche altra piazzaforte commerciale.
XXXII
Profittando del mutato stato di cose, il monarca persiano Shapur aveva prevenuto l’avversario e fino dal 338 aveva lanciato una massiccia offensiva, mirante essenzialmente ad impadronirsi di Nisibis, la città romana di frontiera che, ai termini della pace di Diocleziano, doveva sorvegliare la totalità del traffico carovaniero da e per l’Oriente. Ma l’esercito sassanide, benché notevolmente rafforzato in confronto a quello partico degli ultimi tempi, non poteva certo dirsi adatto a siffatte operazioni d’assedio. Esso possedeva è ben vero, la superiorità in campo aperto, almeno fino a quando Costanzo si fosse trovato da solo alle prese con esso, e, per di più, ben deciso a non lasciarsi assorbire completamente dalla guerra persiana. La superiorità della cavalleria iranica, dotata di magnifiche cavalcature e di arcieri meravigliosamente addestrati, tratti dalla migliore nobiltà persiana, era evidente. Ma i Romani avevano provveduto a stabilire tutta una rete di città fortificate, poderosamente fortificate, a guardia dei confini orientali, da Singara a Nisibis ad Amida; e, al riparo di esse, potevano guardare con fiducia alla prospettiva di un attacco o di un assedio. L’uno era impresa disperata, l’altro pressoché ineseguibile. Così, se l’aperta pianura tra il Tigri e l’Eufrate superiori rimanevano aperte alle micidiali incursioni della cavalleria sassanide, il possesso di questi preziosi capisaldi era tuttavia sufficiente a impedire una più profonda irruzione persiana nelle carni dell’Impero d’Oriente. In definitiva, non ne soffrivano che le sventurate campagne della Mesopotamia e dell’Osrhoene, come più tardi, da Valente in poi, quelle della Mesia e della Tracia a sud del Danubio; ma le sorti della guerra ne rimanevano impregiudicate.
I Persiani erano in grado di incendiare le messi indifese, di bruciare i villaggi, di rubare quanto si trovava al di fuori delle mura cittadine e di fare schiavi i contadini; ma più che questo non "potevano fare. Non potevano pensare a una invasione in profondità nel territorio dei Romani. Non potevano venire a capo di Singara e di Nisibis, così come non disponevano di fanteria adeguata per intraprendere una marcia verso la Siria o l’Asia Minore. Infine, la loro organizzazione militare rimaneva pur sempre, nel complesso, palesemente inferiore a quella dei Romani. Il loro esercito si scioglieva ad ogni inverno, e l’anno seguente doveva essere ricostituito con grandi sforzi. Le truppe erano indisciplinate e amavano più il saccheggio che il combattimento. Non
disponevano né di materiale d’assedio adatto, né di ingegneri militari paragonabili a quelli avversari. E con la sola cavalleria, per quanto poderosa, non si poteva abbattere un colosso come quello romano.
Questi i motivi per i quali la guerra persiana di Costanzo II si trascinerà, incerta e penosa, per ben dieci anni, e così sarà d’ora in avanti, mentre per il passato rapidi colpi verso il cuore del dominio nemico avevano deciso le sorti dell’Oriente mesopotamico nel giro di una o al massimo due sole stagioni campali.
XXXIII
Dopo il fallimento del 338, Shapur lasciò passare ben otto anni prima di ritentare l’attacco contro Nisibis. Noi purtroppo non siamo informati, intorno a questa guerra, quanto vorremmo, poiché solo dal 353 Aramiano Marcellino comincia a narrarla in prima persona e con dovizia di particolari ( egli era un ufficiale d’artiglieria in una delle fortezze di confine della Mesopotamia ). Sappiamo soltanto che nel 343, profittando di un momento di relativa – assai relativa – tranquillità interna dei suoi travagliati stati, Costanzo II prese a sua volta l’offensiva. I Romani varcarono il Tigri e occuparono l’Adiabene con una facilità che, probabilmente, non si erano aspettata. Grandi speranze si accesero allora in tutto l’Impero di Oriente, e i soliti adulatori o visionari di corte non ebbero pudore di tirare fuori Alessandro Magno e la sua marcia memorabile per paragonargli Costanzo e invitare quest’ultimo a fare altrettanto.
L’azione romana, invece, non andò oltre. La rivolta di Alessandria e poi di Costantinopoli, il concilio di Sardica e la sua scissione, la minaccia di Costante, tutto questo obbligò Costanzo a rientrare sulle rive del Bosforo e ad accantonare più ambiziosi disegni di avanzata verso Oriente. La sua offensiva nell’Adiabene, però, aveva dimostrato di che cosa fosse ancor capace il colosso romano, benché mutilato e costretto a lottare con forze limitate, se solo disponesse di una certa tranquillità sugli altri settori. A ciò si aggiunga il fatto che, fin dal 338, a quanto sembra, Costanzo, con un minimo impiego di forze, rimesso sul trono di Arataxata un re amico dei Romani, risolvendo senza gran difficoltà quello spinoso nodo dell’Armenia, che aveva dato appunto inizio alle ostilità fra le due grandi potenze. Pare anche che le maggiori difficoltà, in Armenia, non venissero allora da parte dei Persiani, ma degli stessi abitanti del paese, ossia di quella parte di essi che faceva capo al partito filo-sassanide o, comunque, anti-romano, e che va identificato anzitutto, probabilmente, con quello rimasto pagano di contro a quello recentemente convertito al Cristianesimo. Tale è sempre stata l’amara sorte delle piccole potenze, prese nell’ingranaggio della rivalità fra le grandi: ciò che significò nel mondo antico, per l’Armenia, la rivalità romano-persiana, trova il migliore riscontro, nel moderno, nel fato della Polonia settecentesca, schiacciata fra i suoi potenti vicini: l’Austria, la Russia e la Prussia, che tanto cinicamente se la spartirono.
Tutte queste circostanze decisero il re sassanide Shapur II a rinnovare con maggior determinazione lo sforzo contro Nisibis, caduta la quale, egli sperava, la Persia ne avrebbe avuti dei vantaggi commerciali enormi, e avrebbe potuto, inoltre, dilagare sul fronte militare sino all’Eufrate, verso la Commagene e l’interno dell’Asia Minore.
XXXIV
Nel 346 l’esercito persino si presentò nuovamente con grandi forze sotto le mura poderose dell’eroica fortezza. L’assedio fu rinnovato Eon vigore, sebbene l’artiglieria persiana fosse tutt’altro che adatta allo scopo. In compenso gli elefanti del gran Re avanzavano ben protetti fino sotto gli spalti di Nisibis e, dalle torrette collocate sul dorso dei pachidermi, gli arcieri sassanidi facevano piovere incessantemente una vera tempesta di dardi infallibili sui difensori. Ma anche questa volta non vennero a capo di nulla. Comprendendo l’inutilità del loro sforzo, tolsero l’assedio e si ritirarono ancora una volta. L’incendio dei campi e dei villaggi di frontiera non poteva certamente consolarli delle inconcludenti e costose operazioni sotto le mura della fortezza fatale.
L’unica battaglia campale di questa guerra fu combattuta, a quanto sembra ( la cronologia è sempre incerta ), due anni dopo, nel 348. Non è facile dire perché i due avversari, dopo essersi tanto lungamente estenuati con questa guerra di posizione, abbiano deciso a un tratto di venire alle mani nell’aperta pianura. I Persiani erano coscienti della assoluta inadeguatezza della loro fanteria, e lo stesso era per i Romani in fatto di cavalleria. Forse l’insuccesso rinnovato di Shapur II sotto Nisibis riaccese delle speranze esagerate nell’animo dei generali di Costanzo. Essi condussero il loro esercito fuori di Singara, l’altra poderosa fortezza di confine, situata a sud-est di Nisibis proprio in prossimità della frontiera. Paolo Orosio, le cui pagine su queste vicende possono dirsi tutt’altro che chiare, suggerisce che i soldati romani, esasperati dalla tattica temporeggiatrice del nemico e dei propri comandanti, si ribellarono addirittura e vollero ad ogni costo attaccar battaglia, nel cuore della notte ( Hist. Adv. Paganos, VII, 29, 6 ). Tutto quel che sappiamo della battaglia di Singara è che essa vide impegnata una notevole massa di truppe da una parte e dall’altra, e che costò pure perdite elevatissime ad entrambi i contendenti. Porse i Romani speravano di rinnovare il successo dell’attacco notturno di Galerio, nella guerra precedente. Ma qualcosa non dovette funzionare bene. Forse i comandanti non furono all’altezza del compito, perché, ci viene detto, si lasciarono sfuggire la vittoria quando ormai già quasi la stringevano in pugno. Così i Romani furono sconfitti; ma le perdite erano state così gravi anche fra i Persiani, che essi rinunciarono all’inseguimento, e, più malconci forse dei loro stessi avversari, non furono in grado per altri due anni di molestare in forze la Mesopotamia romana. Questo fu l’esito della battaglia di Singara del 348.
XXXV
Nel 350, finalmente, chiamati a raccolta i suoi vassalli, il re sassanide fu in grado di rimettere in movimento la sua macchinosa organizzazione bellica, e di trascinare l’esercito in un terzo tentativo contro l’imprendibile Nisibis. Il risultato fu quello delle due volte precedenti. Dopo che Shapur si vide costretto a togliere nuovamente l’assedio, la guerra romano-persiana, giunta ormai al suo dodicesimo anno, ebbe una pausa, non già per buona volontà dei belligeranti ma semplicemente per il loro sfinimento.
Forse Costanzo, rincuorato dal successo, avrebbe desiderato intraprendere, nella primavera successiva, una decisa azione contro la Persia; ma gli avvenimenti del 350 in Occidente fecero passare del tutto in seconda linea il problema persiano. I Sassanidi, dal canto loro, che tanto orgogliosamente si proclamavano eredi di Dario e Ciro e rivendicavano tutta l’Asia romana fino al Bosforo e all’Egitto compreso, avevano fatto la prova provata della loro palese inadeguatezza a sostenere sul piano militare sì smisurate rivendicazioni. Neppure una delle fortezze romane di confine era stata conquistata; neppure una delle grandi città della Siria e dell’Asia Minore era stata minacciata. I risultati di dodici anni di sforzi notevoli si riducevano, dunque, a qualche raccolto bruciato e qualche disgraziato contadino fatto schiavo. Altro non s’era combinato, né vi era speranza di fare in futuro. Era un bilancio umiliante, per chi si era imbarcato con tanta spavalderia nel bagno di sangue di quella lunghissima guerra.
XXXVI
Le vittime più tragiche di quella guerra costosa e inconcludente, che era stata interrotta ma non terminata, furonogli infelfcoi sudditi di Shapur II che s’erano recentemente convertiti al Cristianesimo. Il fenomeno, in Persia, non era certo paragonabile a quanto era avvenuto nell’Armenia degli Arsacidi, ove l’intera corte si era convertita e, con essa, la maggioranza della popolazione. Esso non andava, si può dire, al di là della pianura fra il Tigri e l’Eufrate; non era quasi arrivato a fare sentire la sua voce sulle altitudini dell’altopiano iranico. Ma a Seleucia, Ctesifonte e Babilonia, le grandi metropoli commerciali della Mesopotamia sassanide, che al tempo della dominazione partica più delle altre avevano conservato l’impronta greca e occidentale; il Cristianesimo aveva vigorosamente attecchito all’inizio del IV secolo, e minacciava di espandersi, a danno della religione di Zoroastro. In queste città mesopotamiche vi era una numerosa popolazione ebraica, ivi stabilita da moltissimi anni, assai prima della diaspora seguita alla distruzione di Gerusalemme da parte di Tito nel 70 d. C., ed è probabile che fra queste comunità ebraiche il Cristianesimo avesse trovato un terreno almeno in parte favorevole. Le stesse condizioni sociali ed economiche della monarchia sassanide, caratterizzate da una marcata sperequazione e dal predominio incontrastato della nobiltà feudale di sangue persiano, sembravano favorevole alla diffusione del messaggio cristiano. Né va taciuto che proprio qui, a Seleucia, un secolo addietro il predicatore Mani aveva fondato la sua religione sincretistica ed era stato crocifisso per volere della casta sacerdotale dei Magi.
Si ricorderà, del pari, come proprio la protezione che Costantino il Grande aveva voluto assumersi nei confronti dei Cristiani di Persia, era stata una delle cause della sua rottura irreparabile con il sospettoso monarca sassanide. Adesso che Costanzo non aveva saputo far valere con le armi quella protezione, e che, d’altra parte, Shapur, benché nelle condizioni più favorevoli, e nelle più svantaggiose per il nemico, non era riuscito a segnare un sol punto a suo favore sul piano militare, esplose con violenza la persecuzione anticristiana in Mesopotamia. I Cristiani della monarchia sassanide erano considerati non solo blasfemi adoratori di un culto straniero e nemici della religione nazionale iranica, lo zoroastrismo, ma, peggio ancora, dei veri e propri traditori, sempre pronti a spiare l’occasione favorevole per dare la mano ai nemici esterni del gran Re.
Già s’era visto cosa erano stati capaci di fare in Armenia. Poiché, a quei tempi, dal punto di vista persiano Romani e Cristiani erano termini più o meno interscambiabili, è logico che le autorità di Ctesifonte considerassero i loro sudditi persiani; come dei veri e propri nemici potenziali. Esse si comportarono come già aveva fatto Massimino Daia, messo alle strette dalla politica religiosa di Licinio e Costantino. Alla pace religiosa degli ultimi anni succedette una violenta persecuzione. Perfino il vescovo cristiano di Seleucia fu messo a morte in Babilonia. Il risaltato di questa persecuzione fu che la pianura fra il Tigri e l’Eufrate venne sottratta una volta per sempre alla religione di Cristo. Il Cristianesimo, naturalmente, non poté essere estirpato in una sola volta dalla Mesopotamia; però ricevette un colpo dal quale non si sarebbe mai più ripreso. Gli ultimi avanzi del Cristianesimo persiano, comunque, verranno spazzati via definitivamente solo molto più tardi, nel VII secolo, dall’ondata islamica dei conquistatori Arabi.
XXXVII
Mentre all’esterno dell’Impero Romano infuriava la persecuzione anticristiana dei Sassanidi, all’interno di esso il Costante scatenava una persecuzione, forse non meno sanguinosa, contro la setta donatistica dell’Africa.
Occorre ricordare, per prima cosa, che in Africa il movimento donatistico, per qualche via misteriosa e ambigua, aveva finito con lo sfociare nel movimento anarchico e violento dei Circelliones o Circumcelliones, rivolto sia contro i proprietari terrieri sia contro l’elemento urbano in genere di credo ortodosso. Come si è già detto nel libro precedente, Costantino aveva tentato, dapprima, di sradicare con la forza il donatismo, ma poi, vista l’inutilità di ogni sforzo, aveva desistito da quel bagno di sangue, abbandonando quegli empi per usare le sue parole, ai castighi ultraterreni dell’onnipotente e alla dannazione eterna.
Ora però non si faceva questione soltanto del movimento donatistico in quanto fatto religioso: era con una vera e propria rivolta armata dell’Africa che il governo occidentale trovava alle prese. Costante, che mirava soprattutto all’unificazione religiosa del suo dominio, ma che non era comunque uomo da tollerare un simile stato di cose, inviò dunque buon nerbo di truppe nell’irrequieta diocesi, per riportare l’ordine – l’ordine, beninteso, dell’aristocrazia latifondista – una volta per tutte.
I suoi rappresentanti, per prima cosa, cercarono di stabilire un accordo con i vescovi donatisti, molti dei quali erano già da tempo inorriditi per la piega sanguinosa che il movimento dei circumcellioni era andato prendendo. Gran parte del clero donatista, perciò, contrariamente a tutte le aspettative, finì per schierarsi proprio dalla parte del governo centrale. Anche col vescovo Donato di Cartagine, 1′ iniziatore dello scisma, si abboccarono i messi di Costante; e ne ricevettero un trattamento altero e superbo oltre ogni dire. Donato, interpretando forse in forma brutale, ma sincera, quello che ormai in più d’una coscienza urgeva per farsi strada, non capiva, e lo disse sprezzantemente, cosa mai avesse a che fare l’imperatore con le cose di Dio. Quanta strada s’era fatta nelle coscienze, dai tempi del tronfio, magnifico cesaropapismo di Costantino il Grande!
XXXVIII
Comunque, stabilito l’accordo di massima col clero donatista, che era in larghissima maggioranza, e naturalmente con quello ortodosso, gli ufficiali di Costante passarono all’azione con la consueta energia. La situazione, in quel torno di tempo, si era fatta veramente grave. Le campagne, terra classica del latifondo tardo-imperiale, erano ormai tutte percorse dalla insurrezione dei Circumcellioni. Le città della costa, vere piccole oasi di benessere e di ozio in un vasto mare di miseria e d’ingiustizia sociale, erano ormai quasi isolate e tagliate fuori dalle grandi vie di comunicazione, né era prudente mettersi in viaggio per l’interno senza adeguata scorta militare. L’odio degli schiavi e dei coloni verso i loro padroni, quasi sempre cattolici, era giunto al colmo.
Per risanare la situazione, gli ufficiali di Costante ricorsero a mezzi estremi. Essi intrapresero una vera e propria guerra, che degenerò presto in guerra di sterminio, con delle autentiche stragi collettive e un numero impressionante di vittime. È facile immaginare quanto odio provocasse la brutalità della repressione militare. Ma, ancora una volta, questo odio non si indirizzava tanto scontro le truppe governative, considerate in fondo dei semplici strumenti, quanto piuttosto contro coloro che le avevano invocate e ora se ne servivano ai propri fini, e cioè il ricco clero cittadino – sia cattolico che donatista -, i proprietari terrieri, gli agiati commercianti della costa e gli usurai. La diagnosi era sostanzialmente giusta.
E se, davanti all’azione inesorabile dei generali di Costante, il movimento ribelle parve spegnersi quasi del tutto, in realtà, come gli eventi successivi avrebbero dimostrato, esso era come un fuoco che continua ostinatamente a covare sotto le ceneri. E ciò che lo manteneva acceso era l’odio contro i persecutori armati e contro i loro mandanti, gli sfruttatori economici di sempre.
XXXIX
Verso la fine del 349 l’imperatore Costante poteva guardare con orgogliosa soddisfazione ai risultati di dodici anni di governo. In Africa, sia pare a prezzo di molto sangue, era stata schiacciata la guerriglia. I confini parevano tranquilli. L’ortossia trionfava ovunque, anche in Oriente, ove Atanasio sedeva di nuovo nella diocesi di Alessandria. Costanzo, per contro, era sempre invischiato penosamente nella guerra persiana, e proprio l’anno prima aveva subito la sconfitta di Singara.
II paganesimo, che rimaneva, nonostante tutto, la religione della grande maggioranza degli abitanti dell’Occidente, pareva boccheggiare come un pesce tratto a riva dai pescatori. Se nei primissimi anni del suo regno, per rafforzare la sua posizione interna, Costante aveva ostentato una certa benevolenza verso l’elemento pagano, la dimane della tragedia di Costantino egli aveva radicalmente mutato la propria politica religiosa. Aveva proibito i sacrifici pagani; aveva ordinato la chiusura dei templi entro le mura delle città; aveva condannato con durissime parole di sprezso la religione della maggioranza dei suoi sudditi. Tutto qòosto non poteva essere fatto impunemente. Richiedeva un prezzo: e presto si vide che sarebbe stato un prezzo assai alto.
Nel gennaio del 350 Costante si trovava in Gallia. Repentinamente, senza quasi preavviso, scoppiò una rivolta capeggiata dal suo comes rei privatae, Marcellino, e da un generale di origine barbarica, Magno Magnenzio, comandante degli Herculiani e degli Ioviani ( cfr. Zosimo, lib. II, 42, 2 ). Tutto si svolse con una rapidità tale che lo stesso Costante ebbe a stento il tempo di rendersene conto. Magnenzio era un pagano, e le simpatie di tutto l’Oc-cidente pagano, esacerbato dalla politica religiosa di Costante, condotta in alleanza col papa Giulio, si dichiarò per lui in breve volger di tempo. Nel palazzo di Augustodunum ( oggi Autun ) si svolgeva un banchetto, dato per celebrare il compleanno di un figlio di Marcellino, e a cui prendeva parte anche Magnenzio. In realtà, il comes e l’ufficiale germanico si erano già messi d’accordo tra loro. Ad un certo punto Magnenzio si assentò da tavola, e quanti non erano a parte del segreto, non vi fecero neppure caso; ma poco dopo egli rientrò vestendo la porpora imperiale. Subito scoppiarono le acclamazioni, e Magnenzio, lì per lì, fu riconosciuto dalle truppe e dai funzionari nuovo Augusto dell’Occidente.
Era il 18 gennaio del 350. Non una mano si levò in difesa del legittimo imperatore, del figliolo del grande Costantino, un tempo tanto amato proprio da quelle legioni e da quelle province dell’Occidente.
XL
Vistosi perduto, Costante – che si trovava nella foresta vicino ad Augustodunum impegnato in una battuta di caccia – immediatamente si diede a una fuga affannosa verso il mezzogiorno. Percorse gran parte della vasta provincia gallica senza mai trovare il sostegno di un reparto che si mostrasse disposto a proteggerlo e ad aiutarlo. Anticipando con impressionante analogia fino i particolari della tragica fuga di Graziano, molti anni dopo, Costante, abbandonato da tutti, arrivò fino ai piedi dei Pirenei, con l’intenzione di valicarli e mettersi in salvo, imbarcandosi in un porto della Spagna.
Ma nella cittadina di Helena ( oggi Elne, nei pressi di Perpignano ) fu raggiunto da un veloce reparto di cavalleria, mandato appositamente ad inseguirlo e guidato da un tal Gaisone, uomo di fiducia di Magnenzio. Costanzo, disperato, si rifugiò in una chiesa cristiana, abbracciando l’altare di quel Dio che non poteva più difenderlo. I suoi assassini violarono senza scrupolo la santità del luogo ed eseguirono sul posto la sentenza di morte pronunciata contro di lui dall’usurpatore della Gallia. Così ebbero fine la vita e il regno di Costante, che aveva regnato complessivamente tredici anni e che per dieci era stato padrone di circa due terzi dell’Impero Romano. Egli morì in età di circa trent’anni, forse meno, vittima più del complesso di circostanze messesi in moto dopo la scomparsa di Costantino il Grande, che della propria inettitudine. Del padre aveva ereditato il fanatismo religioso e la spietatezza politica, ma non la lungimiranza e l’accortezza e, soprattutto, quella misteriosa capacità di farsi amare e insieme temere. Costante aveva irritato i suoi molti sudditi pagani perseguitando gli antichi culti, e, a quanto ci vien detto, aveva scandalizzato i suoi sudditi più sensibili con un regime di vita sregolato e molle, nel quale non aveva esitato ad accordare una stravagante benevolenza ad alcuni soldati germanici. Ma queste, probabilmente, sono più le chiacchiere dei contemporanei che la verosimile realtà storica.
Il malcontento che lo travolse aveva origini più antiche, esso risaliva – probabilmente – agli ultimi anni di Costantino il Grande. Fin da allora l’imperatore, dimentico di esser salito a tanta potenza grazie alla fedeltà delle province transalpine e al valore delle legioni galliche, aveva spostato l’asse politico dell’Impero verso Oriente, creando sul Bosforo una nuova capitale, innalzando il Cristianesimo al rango di religione di Stato, e trascurando insomma il vecchio Occidente latino, che per tanti secoli aveva goduto del predominio politico e morale sull’Oriente greco-asiatico
La congiura e la rivolta che travolsero Costante ebbero un’origine singolare. Esse scaturirono da un’alleanza quasi incredibile fra l’alta burocrazia di corte pagana, e l’alta ufficialità barbarica dell’esercito. Per la prima volta, cioè, l’elemento pagano dell’Occidente, che era sempre stato il più accanito difensore del patrimonio classico e il massimo sostenitore della politica antibarbarica, si vedeva ridotto a stringere un’alleanza proprio con quell’elemento germanico dell’esercito, che Costantino il Grande aveva fatto accadere ai più alti gradi militari. Con le armi fabbricate da quest’ultimo, dunque, la burocrazia e l’intellettualità pagane dell’Occidente diedero battaglia proprio al figlio di quell’imperatore, che, tutto preso dal sogno di fare del mondo intero un regno cristiano, e anzi cristiano ortodosso, aveva finito col perdere di vista il fatto che la maggioranza dei suoi sudditi continuava a professare le antiche religioni.
Da questo momento i barbari incominciarono ad esercitare un influsso potente sulla vita dell’Impero, agendo dall’interno di esso, e non più solo dall’esterno. Magnenzio fu il primo di una lunga serie, che si sarebbe conclusa centotrenta anni dopo, con l’erulo Odoacre e con la deposizione di Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d’Occidente. Magnenzio finirà sconfitto e ucciso. Dopo di lui, Arbogaste ritenterà l’impresa, eliminerà il sovrano d’Occidente, ma sarà, come lui, travolto dalla reazione dell’Oriente. Stilicone perderà la testa – dopo aver sconfitto Alarico -, tratto fuori da una Chiesa ove si era vanamente, come Costante, rifugiato. Ezio perderà la vita dopo aver vinto Attila. Ma Ricimerò farà e disferà sei imperatori nel giro di pochi anni. E infine Odoacre scriverà la fine, dall’interno e non dall’esternno, del glorioso e millenario edificio eretto dal genio di Roma.
XLI
Alla notizia dell’elevazione di Magnenzio e della morte repentina di Costante, tutto l’Occidente, nel giro di poche settimane, rinnegò la dinastia di Costantino il Grande e si dichiarò per lui. La Spagna e la Britannia passarono senz’altro nel campo dell’usurpatore, in Gallia l’esercito romano e semibarbarico si trovò unito con le popolazioni agricole nell’acclamare il restauratore dei culti pagani. In Italia il risentimento dei pagani contro la politica di Costante facilitò l’avanzata delle truppe inviate da Magnenzio. Più in là non andò la secessione.
Il magister militum Vetranione, che si trovava in Pannonia con buon nerbo di truppe, assunse un atteggiamento indipendente tanto nei confronti di Magnenzio, che di Costanzo II. Il suo movimento, a differenza di quello gallico, era di origine quasi esclusivamente militare, però possedeva un peso tale che, se si fosse sommato a quello, il governo dell’ultimo figlio di Costantino il Grande ne sarebbe stato fatalmente travolto. Occorreva dunque a ogni costo impedire che Vetranione – il quale, trovandosi nella necessità di scegliere, inclinava già per il generale barbaro – si accordasse con Magnenzio ai danni del governo d’Oriente. Fu una donna, Costantina ( secondo altre fonti, Costanza ), la sorella di Costanzo II, che svolse un ruolo decisivo in questa difficile congiuntura politica. La vedova dell’infelice Annibaliano, il "re d’Armenia" che non aveva mai regnato effettivamente, avrebbe avuto molte ragioni per odiare suo fratello Costanzo, che la voce pubblica accusava dell’assassinio ingiustificabile del marito di lei. Pure, il ruolo svolto da questa donna scaltra e assetata di potere – come lo furono tutti nella casa di Costantino il Grande -, benché ignoriamo i particolari della vicenda, si risolse in definitiva proprio a vantaggio di Costanzo. Vetranione aveva bisogno di un riconoscimento da parte di un membro della famiglia di Costantino, e poiché Costanzo esitava a darglielo, egli non ebbe esitazioni ad accettarlo da sua sorella. Alla presenza degli ufficiali e delle truppe, Costantina in persona mise la corona di pietre preziose sul capo di Vetranione, che venne immediatamente acclamato Augusto. Egli pose la sua sede a Mursa ( oggi Osijek ), sul fiume Drava, e provvide a mettere in stato di guerra le sue numerose forze di fanteria e di cavalleria.
XLII
Costanzo non aveva potuto accordare il proprio riconoscimento a Vetranione, ma tutto lascia pensare che abbia guardato con occhio favorevole all’iniziativa di Costantina e alla nomina di lui ad Augusto. Egli aveva bisogno di un territorio cuscinetto che lo separasse, momentaneamente, da Magnenzio, col quale avrebbe dovuto combattere la partita decisiva. L’importante era che le legioni illiriche, ancor divise fra il ricordo di Costantino e l’esempio dei veterani gallici, non andassero a ingrossare le già formidabili armate di Magno Magnenzio. In un secondo tempo si sarebbe provveduto a guadagnarle alla causa dell’Oriente.
È pur vero che Magnenzio, dal canto suo, non aspirava al dominio di tutto l’Impero Romano. Egli era l’espressione del malcontento dell’Occidente verso la politica degli ultimi anni di Costantino e verso quella dei suoi figli. Il fatto stesso che la sua rivolta si fosse arrestata sui confini orientali d’Italia gli indicava chiaramente il carattere limitato della sua base politica. Per queste ragioni egli si affrettò ad inviare dei messaggeri a Costanzo, tra i quali lo stesso Marcellino, che in premio del suo tradimento era stato innalzato al rango di magister officiorum. Questo fu un grave errore, politico e psicologico, il cui coronamento si ebbe quando Gaisone, l’assassino materiale di Costanzo, fu creato console l’anno appresso insieme allo stesso Magnenzio.
Davanti all’ambasceria occidentale Costanzo, che era rientrato in fretta da Antiochia lasciando ai suoi generali il compito di tenere a bada i Persiani , pare abbia avuto un momento di esitazione e chiese una giornata per riflettere. Ma si riebbe subito dopo e agì con energia e risolutezza: fece rimandare uno dei messi a Magnenzio, rifiutando seccamente di riconoscerlo e annunciando la prossima guerra; gli altri li trattenne e li fece mettere ai ferri, allegando la loro indegnità a godere dei normali privilegi diplomatici. Tale comportamento ebbe la calorosa approvazione dei suoi ufficiali e soldati, che si dissero pronti a. combattere fino all’ultimo cntro l’usurpatore dell’Occidente e l’assassino del figlio del loro antico benefattore.
XLIII
Circa nello stesso tempo un’altra ambasceria raggiunse Costanzo a Costantinopoli, quella di Vetranione. L’anziano generale, uomo di natura semplice ( era addirittura analfabeta, e solo per l’occasione tentò di applicarsi allo studio ) e piuttosto a disagio nella selva degli intrighi politici, sollecitava, al pari di Magnenzio, il riconoscimento da parte dell’Augusto d’Oriente, al quale sarebbe stata accordata, naturalmente, una posizione di preminenza nell’Impero. Gli storici moderni non sono mai riusciti a ricostruire, sulla base delle scarse notizie tramandateci, il vero carattere e le reali ambizioni di questo vecchio generale, amato dalle sue truppe ma palesemente sprovvisto di doti poli-tiche. Porse egli sperava davvero di conservare la porpora, fidando nella sua neutralità o magari unendo le sue forze a quelle di Costanzo; forse, invece, egli per il primo sapeva che l’unica sua funzione, da quando Costantina gli aveva posto in capo il diadema, era di permettere a Costanze di pigliar tempo e prepararsi indisturbato alla campagna contro Magnenzio. Fatto sta che l’Augusto di Costantinopoli, nei confronti degli ambasciatori di Vetranione, usò ben diverso linguaggio che con quelli del generale barbaro. Si venne alla decisione di organizzare un incontro direttamente fra Costanze e Vetranione, incontro che si sarebbe svolto alla presenza dei due eserciti.
Tuttavia, prima di proseguire con le vicende di quest’incontro, che ebbe luogo solo verso la fine dell’anno, dobbiamo tornare indietro di alcune settimane per seguire gli avvenimenti improvvisi che ebbero luogo in Italia, poco tempo dopo la morte di Costante e l’usurpazione di Magnenzio.
XLIV
Come si è detto, notevole anche in Italia era il risentimento contro la politica antipagana dei Costantiniani, e favorevole, se non proprio entusiastico, l’atteggiamento dei funzionari, dei soldati e dal popolo al movimenta iniziato in Gallia da Magnenzio. Ma nella Penisola vi era un novello Massenzio, un nipote di Costantino il Grande, Flavio Popolio Nepoziano, deciso a tentare il tutto per tutto prima che Magnenzio avesse il tempo di consolidare il proprio potere al di qua delle Alpi.
Nepoziano era figlio di Eutropia, la quale a sua volta era figlia di Costanzo Cloro e di Teodora, e perciò sorella di Costantino. Nelle sue vene scorreva dunque sia il sangue di Massimiano Erculio, il padre di sua nonna Teodora, sia di Costanzo Cloro, che era suo nonno materno. Non sappiamo con esattezza quale fosse la base politica della rivolta di Nepoziano, che dovette essere, del resto, assai esigua. Sappiamo solo che Eutropia era ancora viva, che si trovava a Roma, e che probabilmente Nepoziano, attraverso di lei, intendeva avanzare delle legittime rivendicazioni al potere, più o meno come Massenzio un tempo si era servito del padre Massimiano Erculio. Però, se grande era lo scontento del popolo di Roma nei confronti degli imperatori, che da tanti anni, ormai, avevano disertato la vecchia capitale, non era punto affezionato al ricordo della casa di Costantino, anzi aveva parecchi motivi per detestarlo. La battaglia di Ponte Milvio, nel 312, era stata la tomba definitiva del sogno di riportare l’Urbe al vertice della vita politica dell’Impero; e quel sogno era stato infranto dallo stesso Costantino. Di suo figlio Costante, i pagani di Roma non ricordavano che la persecuzione religiosa, né avevano motivo per rammaricarsi della sua morte infelice.
Quanto a Nepoziano, poi, egli era assai poco conosciuto, e quel che si sapeva di lui, a quanto pare, autorizzava il sospetto che si trattasse di un avventuriere senza seguito e senza scrupoli, piuttosto che un parente di Costante giustamente indignato dall’assassinio del legittimo imperatore. Fuori di Roma, poi, il movimento secessionista aveva ancor meno forza; da gran tempo gli Italici sembravano caduti in una completa abulia, e rassegnati aspettavano di vedere, passivamente chi sarebbe uscito vincitore da quelle lotte confuse e sanguinose. In definitiva, il movimento di Nepoziano non riuscì mai a diventare un fenomeno di larghe proporzioni, e tanto meno l’espressione di un nazionalismo italico contro la prevaricazione dell’ufficialità barbarica degli eserciti d’oltre’Alpe.
XLV
Vetranione aveva vestito la porpora e il diadema il 1° marzo del 350, poco più di due mesi dopo l’usurpazione di Magnenzio, e aveva ricevuto i simboli della regalità direttamente da Costantina. Nepziano volle fare altrettanto e tentò di farsi riconoscere Augusto nella Penisola. Egli pensava forse di far recitare alla madre Eutropia la medesima parte, che Costantina aveva svolta con Vetranione; ma, inaspettatamente, Roma, anziché accoglierlo come un liberatore, gli chiuse le porte in faccia.
Nepoziano non si diede per vinto. Raccolse un piccolo esercito formato dai peggiori elementi possibili, si fece proclamare Augusto e marciò contro l’Urbe. Nelle sue file vi erano pirati e avventurieri senza scrupoli, oziosi abituati a pescare nel torbido ( Zos., 117 43j 2 ) e perfino gladiatori ( Oros. , VII, 295 II ). Con questa armata, degna piuttosto di un Catilina che di un legittimo pretendente all’Impero della casa di Costantino il Grande, egli si accinse a farsi riconoscere imperatore dai Romani, per amore o per forza. Può anche essere che la composizione delle sue truppe testimoni di una certa simpatia delle masse popolari più misere e sfruttate nei suoi confronti; quando i ricchi vincono, sono soliti dipingere gli sconfitti come dei briganti di strada ( come è accaduto, per esempio, nel caso della storiografia borghese fiorentina sul tumulto dei Ciompi ); oppure che queste confuse vicende abbiano avuto a che fare con le due anime dell’Urbe nel IV secolo, quella cristiana e quella pagana.
Magnenzio, allarmato dalle notizie provenienti dall’Italia, si affrettò a mandare rinforzi, ma essi giunsero troppo tardi. Nepoziano aveva già preso d’assalto la Città Eterna, dopo aver inflitto davanti ad essa una disastrosa sconfitta alle forze raccogliticce del prefetto del pretorio Anicio (o Aniceto ). Roma venne conquistata dopo un breve assedio e i partigiani di Magnenzio vennero inseguiti e massacrati. In questa fosca atmosfera ebbero inizio i ventotto giorni di regno di Flavio Nepoziano.
XLVI
Tutta la cronologia di questo periodo è terribilmente incerta e noi non possiamo stabilire con certezza se il movimento di Nepoziano e quello di Vetranione furono contemporanei, ovvero se l’uno precedette l’altro.
Il popolo di Roma, com’era avvezzo affare ormai da parecchio tempo, quando vide a chi andava la vittoria si accostò al trionfatore et del momento, accendendosi di vane speranza e ignorando le terribili conseguenze della» sua ingenua precipitazione. La posizione di Nepoziano in Roma, durante il suo brevissimo regno, non sembra esser mai stata molto forte. Egli rimaneva segretamente inviso a molti cittadini, e, data la composizione del suo esercito e le circostanze della sua momentanea vittoria, possiamo supporre che i suoi più implacabili nemici fossero i ricchi senatori che si vedevano minacciati nelle proprie fortune.
Fuori della Città Eterna, frattanto, la resistenza contro i partigiani di Magnenzio venne a mancare quasi del tutto. I generali dell’usurpatore scesero dalla Gallia in Italia, valicarono indisturbati le Alpi, il Po e gli Appennini, e si avvicinarono a grandi giornate all’infelice città di Roma. Nepoziano aveva ottenuto un formale riconoscimento dal Senato e dal popolo, ma non aveva forze sufficienti per resistere né, d’altra parte, osava fuggire, risoluto a giocare ancora una volta il tutto per tutto senza debolezze. Forse, lo incoraggiavano il ricordo della fortunata resistenza di Roma, ai tempi di Massenzio, prima contro Severo e poi contro
Galerio stesso, nonché la speranza di aiuti dall’Oriente da parte di suo cugino Costanzo. Ma le cose precipitarono con troppa rapidità perché alcun aiuto potesse raggiungere in tempo
l’antica regina del mondo romano.
XLVII
Né la robustezza delle Mura Aureliane, né la disperazione del popolo di Roma chiamato alle armi valse a salvare la Città Eterna da un destino terribile. I generali di Magnenzio la presero d’assalto appena poche settimane dopo l’ingresso di Neopziano, e si scatenarono con orribile ferocia contro i seguaci di lui e contro i cittadini innocenti.
Nepoziano venne subito messo a morte, e con lui la sventurata madre Eutropia e i suoi collaboratori ed anici. Poi cominciò il saccheggio. Le case e le strade, i palazzi e i templi bellissimi furono lordati di sangue; i cadaveri empivano le vie e da per tutto regnavano la desolazione e il terrore ( Vittore il Vecchio, De Ces., cap. XLII ). Marcellino condusse personalmente l’opera di epurazione contro i simpatizzanti del caduto regime, accanendosi a distruggere i miseri re siti della casa di Costantino, da lui tanto odiata. Perfino il vescovo Ario, da Alessandria, levò una voce di orrore per le sciagure di Roma.
Questo sacco di Roma è passato quasi inosservato alla storia, perché le notizie intorno ad esso sono estremamente scarse e confuse; non sappiamo neppure esattamente quando ebbe luogo, comunque nella prima metà del 350 ( e cioè non oltre il mese di giugno ). Ma è un episodio significativo per diverse ragioni. Costantino, dopo la battaglia contro Massenzio, non si era macchiato di una tale repressione in Roma, anzi aveva ostentato di entrarvi da liberatore ( ciò che certo non era ). Insomma era dai lontani tempi dei Gordiani che Roma non subiva tanto affronto, e bisogna risalire indietro fino al fatale 69 dopo Cristo, a Vitellio e Vespasiano, per trovare tanto orrore e una conquista violenta dall’esterno (cfr. il nostro articolo La guerra civile fra Vitellio e Vespasiano ); mentre l’ingresso di Settimio Severo era stato ostile, ma non sanguinoso. Se poi si riflette che Magnenzio era un barbaro, che i suoi generali e soldati erano, anch’essi, barbari o semibarbari ( Galli e Germani d’oltre Reno ), si giungerà alla conclusione che il sacco del 350 dopo Cristo fu, effettivamente, il primo di una tristissima serie, i cui anelli sono quello di Alarico nel 410, quello di Genserico nel 455 e quello di Ricimero nel 472 (sui quali cfr. i nostri articoli L’invasione di Alarico in Italia e il sacco di Roma e La fine dell’Impero Romano d’Occidente).
XLVIII
Abbiamo lasciato Costanzo II all’indomani del suo sprezzante rifiuto di riconoscere Magnenzio e alla vigilia del suo abboccamento con Vetranione, incontro per lui importantissimo, dal quale dipendevano le sorti sue e di tutto l’Impero.
Costanzo II e Vetranione si incontrarono a Sardica ( Sofia ), o forse a Naissus ( Nisch ), non lungi dalle frontiere tra i rispettivi Stati. Il vecchio generale aveva condotto seco un esercito più che doppio di quello di Costanzo, e, se ne avesse avuta l’intenzione, avrebbe potuto eliminare il rivale e tentar di vestire la porpora di tutto l’Oriente. Ma le sue ambizioni non andavano così lontano; già avanti negli anni, egli non era tormentato da un tale carattere, come ad esempio l’infelice Massimiano Erculio, da non sapersi assolutamente strappare dal potere. Quello che successe subito dopo potrebbe, anzi, suggerire che ogni cosa fosse stata segretamente concordata fra lui e Costanzo, riducendosi in definitiva a una semplice commedia il cui scopo era salvare la dignità e, naturalmente, la vita del candidato di Costantina.
Secondo quanto convenuto, i due imperatori avrebbero rivolto ciascuno il proprio discorso agli eserciti schierati. Costanzo, quale figlio di Costantino il Grande e assai più anziano nel grado, ebbe il privilegio di parlare per primo. Rivolgendosi allora alle truppe schierate tutt’intorno nella vasta pianura, dall’alto di un palco di legno le arringò appassionatamente, con trasporto, ricordando loro i benefici avuti dal padre suo, il delitto di Magnenzio e la necessità di muovergli guerra. Poi, vedendo che tutti lo ascoltavano attenti e, in molti casi, visibilmente commossi, proseguì affermando arditamente che solo al figlio di Costantino spettava di far giustizia dall’assassino di suo fratello.
Si levò un mortorio; crebbe d’intensità; divenne un muggito simile a quello del mare in tempesta. Tutti gridavano insieme che non riconoscevano altri sovrani se non il figlio superstite del loro grande benefattore. Vetranione, pallido in volto, così davanti a tutti, si spogliò del mantello di porpora e lo depose ai piedi di Costanzo. Questi, dal canto suo, chiamandolo padre e ostentando rispetto e deferenza per il vecchio generale, lo aiutò a scendere dal palco porgendogli il proprio braccio. Così Vetranione, davanti ai suoi soldati riuniti a migliaia, rinunciò spontaneamente al potere; e il suo numeroso esercito passò dalla parte dell’Augusto di Oriente.
Era il 25 dicembra del 350 dopo Cristo, il giorno della Natività del Dio di Costantino il Grande e di suo figlio Costanzo II. Una decisiva battaglia era stata vinta senza che una sola spada venisse estratta dal fodero.
XLIX
Costanzo fu clemente con Vetranione, e ciò contribuisce a rafforzare l’ipotesi che l’assunzione del diadema da parte di quest’ultimo fosse stata, fin dall’inizio, poco più che una commedia, un comodo paravento per Costanzo in difficoltà. Pochi altri uomini si sarebbero lasciati esautorare in presenza di un esercito più numeroso e agguerrito di quello del rivale. La sorte successiva di Vetranione conferma queste supposizioni. Egli si ritirò in Bitinia, lontano dalla vita pubblica, e vi trascorse gli ultimi sei anni della sua vita ringraziando Costanzo della sua generosità e senza mai dargli il benché minimo motivo di pentirsene. Egli, anzi, arrivò a tal segno d’ingenuità, da consigliare a un certo momento lo stesso Costanzo di far come lui e abbandonare gli affanni molesti del governo e del potere , solo lungi dai quali si può godere la vera serenità. Vetranione aveva ragione , ma parlava come uno che non conosce il proprio interlocutore. Questo aneddoto, se è vero, dovette confermare agli occhi di Costanzo l’innocuità del generale e l’assennatezza della sua clemenza
L’inverno del 350-351 trascorse nei febbrili preparativi di guerra da una parte e dall’altra. Magnenzio, occupata tutta l’Italia, indiceva grandi leve di truppe e cominciava a concentrarle sui confini orientali della Penisola. Poiché la superiorità numerica stava dalla parte di Costanzo, Magnenzio, generale esperto e uomo risoluto, era assolutamente deciso a prendere in mano l’iniziativa delle operazioni. Aspettare l’attacco a pie’ fermo, quando si è più deboli, era ed è sempre stato un rischio forse più grave dell’attacco controforze superiori. Costanzo, dal canto suo richiamava tutte le forze che potevano esser distratte dall’Asia e le univa a quelle dell’IIliria e della Pannonia. Per sua fortuna, una improvvisa invasione di Massageti sui confini nord-orientali dell’Impero Sassanide aveva costretto il Gran Re Shapur II a rimandare i suoi piani di rivincita contro la fortezza di Nisibis e ad accorrere in gran fretta sulle lontane sponde dell’Oxus. Ciò costrinse i Persiani a sospendere ogni operazione offensiva sul Tigri e permise a Costanzo di sguarnire notevolmente la propria frontiera orientale, concentrando ogni sforzo verso Occidente.
Costanzo, dopo l’unione delle sue forze con quelle di Vetranione, passava alquanto in vantaggio rispetto all’usurpatore della Gallia; la superiorità numerica del suo esercito era di almeno due a uno, anche se molti reparti orientali erano meno disciplinati e meno combattivi di quelli occidentali. Ma la poderosa cavalleria illirica ( si dice che fossero ventimila i cavalieri condotti seco da Vetranione al convegno di Sardica, o di Naissus, con Costanzo ) era senza paragoni più forte di quella gallica. Infine, le risorse economiche e finanziarie dell’Impero d’Oriente erano enormemente superiori a quelle dell’Occidente agricolo e in larga misura sottosviluppato.
Tale la situazione che si presentava alla vigilia del supremo conflitto per il dominio dell’Impero Romano.
L
All’inizio della stagione campale del 351 entrambi gli eserciti si misero in movimento. La nostra fonte principale su questi avvenimenti è Zosimo, che dopo aver speso soltanto poche righe sulle precedenti vicende della dinastia costantiniana, improvvisamente – come talvolta gli accade – si diffonde con inaspettata abbondanza di particolari sulle vicende di questa guerra. Disgraziatamente, la quantità delle notizie non è pari all’ordine narrativo e noi dobbiamo confessare che, a dispetto della gran mole di particolari, ci riesce quanto mai difficile farci un’idea precisa dei movimenti degli eserciti e di quanto realmente accadde.
La prima parte della stagione, dalla primavera fino al colmo dell’estate, trascorse senza che si venisse a uno scontro risolutivo. Costanzo aveva richiamato dall’esilio il cugino Gallo e gli aveva affidato il governo di Antichia, ossia – in pratica – la sorveglianza della frontiera mesopotamica contro i Persiani. Dal canto suo, però, non doveva ancora sentirsi del tutto sicuro, perché, pur disponendo di una nettissima superiorità numerica, preferì temporeggiare, rimandando la battaglia campale. Forse i suoi generali stavano ultimando il concentramento delle truppe; fatto sta che Magnenzio rimase padrone dell’iniziativa e, con una serie di complicate evoluzioni, scorrazzò da un capo all’altro della regione danubiana, cercando di accorciare i tempi della risoluzione.
Dapprima Magnenzio tese un’imboscata a un reparto di cavalleria avversario nelle gole di Adrana ( oggi Colle di Trojane ), menandone strage mentre esso procedeva del tutto ignaro alla volta della grande città di Siscia ( Sisek ), sulla Sava. Imbaldanzito dal successo, dopo una rapida puntata su Poetovio ( Ptuj ), sulla Drava, tornò indietro verso la Sava, respinse le offerte di compromesso avanzate dagli ambasciatori di Costanzo, e attaccò direttamente Siscia. Fu un errore, perché la guarnigione respinse l’assalto infliggendo agli attaccanti gravi perdite.
LI
Costanzo, intanto, si stava mettendo in movimento con il suo grosso esercito, ma sempre lentamente e con grande cautela. Egli era fermamente deciso a non dare battaglia finché non fosse stato assolutamente certo di disputarla in condizioni di schiacciante superiorità. In un primo tempo condusse la sua armata a Cibalis, un nome che accendeva molte speranze perché proprio là, trentasei anni prima, suo padre Costantino il Grande aveva vinto una grande battaglia contro Licinio. Costanzo fece costruire un vallo e una palizzata e vi trincerò prudentemente l’esercito, aspettando di vedere cosa avrebbe fatto il nemico. In quel momento sopraggiunse un ambasciatore di Magnenzio, il praefectus urbis Tiziano, che fu ammesso a parlare nella magnifica tenda dell’imperatore.
Forse Magnenzio aveva sopravvalutato gli approcci di Costanzo dopo la battaglia di Adrana; non aveva compreso che gli ambasciatori orientali erano venuti unicamente per spiare l’entità e lo stato delle sue forze e riferire a Costanzo. Fatto sta che Tiziano usò un linguaggio insolente, affermando che il suo signore invitava Costanzo ad abdicare e gli offriva un tranquillo ritiro se avesse desistito dall’inutile lotta. Questo discorso provocò molta indignazione fra gli ufficiali di Costanzo, e non ottenne altro effetto che quello di indurli a riconfermargli la loro fedeltà incondizionata. Poi, benché Magnenzio trattenesse ancora un ambasciatore orientale ( il prefetto del Pretorio Flavio Filippo ), Tiziano fu rimandato e i preparativi per la battaglia
furono intensificati.
LII
Neppure Magnenzio, però, sì sentiva ancora in grado di sferrare il colpo decisivo. Egli sapeva che perdere la battaglia sarebbe stato un disastro irrimediabile, poiché difficilmente, a differenza del suo avversario, avrebbe potuto reintegrare i reparti. Perciò non osò attaccare Cibalis e, descrivendo un ampio giro, attaccò nuovamente Siscia, la prese e la distrusse, indi puntò a sud verso Sirmium, la vecchia capitale di Galerio, contando del pari impadronirsene. Sotto le mura di Sirmium, però, le sue truppe soffrirono un cocente insuccesso; la guarnigione le respinse e inflisse loro perdite considerevoli. Allora tolse il campo da quel luogo e si diresse alla volta di Mursa.
L’estate volgeva ormai alla fine quando l’esercito occidentale giunse sotto le mura di Mursa, che i suoi abitanti in fretta e furia, conoscendo il destino di Siscia, avevano messo in stato di difesa. La città di Mursa ( oggi Osijek ) sorgeva sulla Drava, a nord di Cibalis, e costituiva un obiettivo di considerevole importanza. Costanzo, che per tutto quel tempo era rimasto stranamente inattivo, finalmente si risolse a portar fuori l’esercito da Cibalis e si affrettò alla volta della città attaccata. Il terreno pianeggiante gli dava buone speranze di schierare con successo la sua cavalleria assai superiore e di travolgere l’avversario, tagliandogli ogni via di ritirata.
LIII
L’esercito di Costanzo raggiunse Mursa proprio la dimane del fallito attacco delle truppe di Magnenzio. Queste ultime avevano tentato di incendiare i portoni della città, in parte lignei e in parte di ferro; ma i difensori erano riusciti a spegnere il fuoco e a mandare a vuoto l’attacco. Magnenzio allora, informato del sopraggiungere dell’esercito avversario, schierò un contingente di legionari gallici in un anfiteatro in rovina circondato dai boschi, poco discosto dalla città, poi si dispose col grosso nella pianura, contando di attaccare simultaneamente su due lati il nemico e di sbigottirlo con quella manovra improvvisa.
Era il 18 settembre dell’anno 351 e stava per incominciare una delle battaglie più decisive e sanguinose della tarda antichità. Costanze non vi prese parte personalmente; si ritirò in una chiesa lì vicino a pregare il Dio di Ponte Mivio e affidò la condotta delle operazioni ai suoi coraggiosi ed esperti generali.
Lo stratagemma ideato da Magnenzio andò in fumo sin dall’inizio. I comandanti orientali si avvidero dell’agguato e, circondato lo stadio con gli arcieri, rovesciarono una pioggia di dardi sui soldati ammassati là in basso. Quelli tentarono di uscire, per darsi alla fuga o iniziale il combattimento ravvicinato, ma le porte erano state sprangate e ogni via d’uscita interdetta. Così rimasero esposti alle infallibile frecce del nemico e caddero tutti fino all’ultimo uomo. L’astuzia di Magnenzio si era, così, rivolta contro di lui.
LIV
Poco dopo i due eserciti schierati nella pianura vennero a contatto e iniziarono una lotta furibonda. Come previsto dai generali di Costanzo, la cavalleria orientale, più numerosa e magnificamente armata, ruppe il fianco destro dello schieramento avversario fin dall’inizio dello scontro. Però i legionari gallici e i giganteschi ausiliari germani combattevano con energia indomabile, serrando gli scudi e moltiplicando i colpi mortali. Più volte la carica della cavalleria si infranse sotto quella foresta di scudi e di lance. Da una parte e dall’altra si combatteva con un accanimento eccezionale, quale suole scatenarsi solo nelle guerre civili. Né la strage ebbe sosta al cader delle tenebre, ma ancora nell’oscurità i soldati continuarono a battersi con cieco furore. Alla fine, il disperato valore dei Germani e dei Galli non servì che ad accrescerne la strage, poiché essi, invece di cercare la salvezza in una impossibile fuga, rimasero ai loro posti e caddero trafitti con le armi in pugno.
La disfatta fu completa. Anche gli orientali, però, pagarono la vittoria ad un prezzo altissimo, anzi le loro perdite furono ancor più alte di quelle degli sconfitti, e tra esse vi erano molti ufficiali. Secondo uno storico bizantino molto più tardo, Zonara, vissuto tra l’XI e il XII secolo, complessivamente caddero 24-000 soldati dell’esercito di Magnenzio ( compreso il generale in capo, Menela ), su un totale di 36.000, e 30.000 uomini di Costanzo, su circa 80.000. È possibile che queste cifre, purtroppo, non siano esagerate. Possiamo dunque considerare la battaglia di Mursa come una delle più gravi calamità che colpirono l’Impero Romano nel IV secolo, in tutto degna di essere paragonata alle gigantesche battaglie fra Costantino e Licinio del 324. In essa trovarono la tomba il fiore delle legioni romane, sia d’Oriente che d’Occidente, le quali avrebbero potute infliggere dei colpi decisivi alla Persia o ai Germani, che proprio in quel momento stavano tornando a farsi minacciosi e a compiere incursioni al di qua del Reno. In una sola giornata il meccanismo bellico meravigliosamente approntato da Costantino il Grande e lasciato in eredità ai suoi figli era stato colpito a morte e quasi scardinato. Presto se ne sarebbero viste le conseguenze.
LV
Magnenzio fuggì dal campo di battaglia di Mursa mentre ancora si combatteva, ma già si profilava inevitabile la catastrofe del suo magnifico esercito. Egli aveva perduto quasi tutti i suoi soldati, il suo generale Menelao e il suo magister officiorum Marcellino, l’uomo che lo aveva aiutato a vestire la porpora un anno e mezzo prima e che lo aveva seguito fedelmente fin lì. D’altra parte, i generali di Costanze non avevano la volontà o la capacità di sfruttare sino in fondo il successo, costringendolo con un rapido inseguimento a deporre ogni velleità di resistenza. Il loro esercito era uscito talmente disorganizzato dalla battaglia, che abbisognava di un certo periodo di tempo prima di rimettersi in campagna. Questa circostanza permise al generale barbaro, che aveva superbamente indossato il diadema dell’Occidente, e che adesso era più simile a un fuggiasco senza mezzi né futuro, di ritirarsi dalla Pannonia pressoché indisturbato e di far ritorno in Italia.
Qui giunto, pose il suo campo nella grande città di Aquileia, che già al tempo di Massimino il Trace aveva sbarrato la strada all’invasore e che era stata testimone, in tempi recenti, della tragica morte di Costantino II. Dispose le sue scarse forze sulle Alpi Giulie a bloccare i passi montani, mentre cercava di ricostituire il suo esercito disfatto. Dalla Gallia, però, giungevano notizie tutt’altro che buone. Prima di mettersi in marcia per la fatale battaglia di Mursa, aveva nominato Cesare suo cugino Decenzio e gli aveva affidato il governo delle province transalpine. Ma Costanzo non aveva esitato a profondere grandi somme di danaro presso i barbari del Reno, i secolari nemici di Roma, riuscendo a indurli ad attraversare il fiume e ad attaccare Decenzio.
Le prime vittime dell’invasione erano state le belle campagne di Gallia e le città di frontiera, che da molti anni vivevano in pace e sicure. Tali i metodi politici di Costanzo II, imperatore dì Costantinopoli poco o nulla interessato alle questioni dell’Occidente.
LVI
L’inverno 351-352 trascorse senza alcun fatto d’anime di qualche importanza.
Costanzo e i suoi generali erano impegnati a riorganizzare l’esercito e a completare l’occupazione della Dalmazia, della Savensis e della Pannonia. Magnenzio cercava disperatamente di ricostituire i suoi ranghi decimati per far fronte, in primavera, all’attacco inevitabile contro l’Italia, ma andava incontro ogni giorno a difficoltà sempre maggiori. La sua causa era visibilmente in declino. La notizia del disastro di Mursa aveva prodotto una grande, improvvisa stanchezza in tutto il campo pagano dell’Occidente. Qua e là si stavano perfino riaccendendo i vecchi e nuovi rancori, per esempio quelli suscitati in Roma dalla spietata repressione del movimento di Neopoziano. Il terreno stava franando sotto gli stessi piedi dell’usurpature gallico.
D’altra parte, le forze navali di Costanzo possedevano la padronanza assoluta dei mari. Esse erano in grado di bloccare le coste della Penisola, di minacciare degli sbarchi alle spalle dello schieramento Magnenzio presso Aquileia, di tagliare le sue naturali vie di rifornimento, prime fra tutte la Sicilia e l’Africa. Suo cugino Decenzio, in Gallia, era duramente impegnato contro gli Alamanni e altre tribù germaniche che avevano attraversato il Reno, e non era in grado di inviargli i soccorsi sperati, anzi versava egli stesso in gravi difficoltà. Né si erano potute sostituire le splendide legioni galli che, perite nell’immenso massacro del settembre: le leve di truppe italiche procedevano in modo tutt’altro che soddisfacente, e la stessa volontà di resistenza di Magnenzio, così risoluto a combattere sino all’ultimo, cominciava a vacillare.
LVII
Al principio della stagione campale del 352, gli orientali si rimisero in movimento. L’attacco principale contro l’Italia fu preceduto da una serie di rapide e fortunate operazioni marittime nel Mediterraneo centro-occidentale. Le flotte di Costanzo, nel giro di poche settimane, occuparono la Sicilia, 1’Africa e la Spagna. Così, mentre svaniva per l’Italia e per Roma la possibilità di continuare a rifornirsi di grano africano, le forze di Costanzo sbarcate nella Penisola Iberica si mettevano velocemente in marcia verso il nord-est e, senza incontrare, a quanto pare, che una debole resistenza, si approssimavano alla catena dei Pirenei.
Alla notizia di questi avvenimenti, anche la città di Roma si sollevò improvvisamente cacciando la guarnigione di Magnenzio e proclamandosi a gran voce per Costanzo II. Nell’Urbe, la feroce repressione del partito di Nepoziano aveva lascia-to un ricordo incancellabile, un odio sordo e terricole che la notizia del disastro di Mursa aveva rinfocolato e che finalmente era esploso in tutta la sua violenza contro il barbaro usurpatore, al quale un tempo aveva guardato con tanta speranza. Ma v’ha di più. Alcuni ricchi senatori erano riusciti a mettere insieme una piccola flotta che attraversò l’Adriatico e fece pressioni su Costando, sempre accampato’ co grosso della sua armata ai piedi delle Alpi Giulie, affinché si decidesse a stringere i tempi della sua offensiva. E allora l’Augusto di Costantinopoli, ormai certo di tenere in pugno l’usurpatore dell’Occidente, l’assassino di suo fratello, si risolse a rompere gli indugi e a sferrare il colpo decisivo.
I generali di Costanzo non vollero arrischiarsi ad attaccare frontalmente le posizioni difensive che Magnenzio aveva apprestato lungo il bastione delle Alpi Giulie e intorno alla formidabile Aquileia. Essi erano a conoscenza del miserevole stato delle forze che aveva potuto, in qualche modo, ammassare a protezione della Pianura Veneta, ma tenevano di impegnarsi in una lotta aperta col leone ferito e ormai ridotto alla disperazione. Perciò decisero di effettuare uno sbarco alle spalle della linea difensiva nemica, non sappiamo esattamente dove, in qualche punto della costa adriatica a mezzogiorno di Aquileia.
La notizia di questa invasione inaspettata colpì Magnenzio come un fulmine a ciel sereno. Fino ad ora, nonostante tutte le avversità, egli si era lusingato di potersi mantenere aggrappato al bastione delle Alpi Orientali, proteggendo così la Pianura Padana e sperando di stancare il nemico o di ricevere maggiori rinforzi dal paese che per primo aveva salutato la sua usurpazione, la Gallia Transalpina. Nemmeno la notizia della perdita della Sicilia, e quella, ancora più deprimente, della rivolta di Roma, avevano potuto piegarlo. Ma adesso, pensare di ostinarsi nella difesa di una posizione aggirata non avrebbe avuto alcun senso; e Magnenzio, serrato già alla gola dal presentimento della disfatta inevitabile, si affrettò a rinculare verso occidente, prima che l’avanzata dei generali di Costanzo dal sud gli tagliasse la via della ritirata. Sia Aquileia, sia la grande Milano, la capitale di Massimiano e di Costante, dovettero essere abbandonate al nemico. A Ticinum ( Pavia ), improvvisamente, Magnenzio si rivolse contro l’avanguardia orientale che, imprudentemente, si era scomposta nell’inseguimento e ne menò strage; poi riprese a indietreggiare. Il successo locale testé ottenuto non poteva modificare sostanzialmente la sua drammatica situazione, e lo sapeva. Avanzando lungo la valle del Po e sradicando successivamente i suoi affluenti, la poderosa armata di Costanzo poteva sfruttare magnificamente in quell’aperta pianura le sue grandi masse di cavalleria, protagoniste della vittoria di Mursa.
Così, incalzato dagli eventi, Magnenzio con i resti del suo superbo esercito dovette risalire quelle valli delle Alpi Occidentali, dalle quali era disceso pieno di speranze due anni prima, e abbandonare per sempre anche la Penisola in mano all’avversario.
LVIII
Nella Gallia meridionale Magenenzio si diede freneticamente a riorganizzare le sue forze decimate, dispiegando un’at-tività geniale e febbrile che tradiva la sua segreta disperazione e il presentimento della disfatta. Di nuovo l’inverno del 352-53 segnò una pausa nello svolgimento delle operazioni , e Costanzo, pago per ora dell’occupazione dell’Italia, accantonò le sue truppe ai piedi del formidabile bastione alpino. Il tempo lavorava a suo favore. Lassù, nella Gallia nord-orientale, gli Alamanni, suoi alleati di un giorno, lottavano duramente contro le forze di Decenzio, il quale nemmeno adesso fu in grado di ricongiungersi con l’armata di suo cugino. In Spagna 1 generali di Costanzo avevano varcato i Pirenei, e, traversata l’antica provincia Narbonense, si ‘ stavano avvicinando all’ultimo rifugio di Magnenzio, minacciando l’apertura di un secondo fronte alle sue spalle.
Eppure, anche questa volta, la perizia militare del generale barbaro fu tale, tale l’accanimento con cui seppe disputare palmo a palmo le sue ultime province, che l’avanzata dei suoi nemici, a dispetto della grande superiorità in uomini e mezzi, procedette con eccezionale lentezza. Solo nella primavera del 352, col disgelo, le armate di Costanzo poterono riprendere la marcia e investire direttamente la media vallata del Rodano, ultima linea di resistenza delle sparute legioni occidentali. Magnenzio, da Lugdunum ( Lione ), compiendouno sforzo supremo era riuscito a mettere insieme un nuovo esercito, probabilmente assai meno poderoso di quello che aveva perduto quasi due anni prima nella pianura di Mursa, e con esso tentò il tutto per tutto contro l’armata orientale.
La battaglia ebbe luogo presso il Mons Seleucus, nell’agosto del 353, e si concluse con la definitiva disfatta delle legioni galliche e germani che. Le ultime speranze di riscossa dell’indomabile condottiero ne furono annichilite. Ovunque volgesse lo sguardo, non altro vedeva che colonne nemiche avanzanti da ogni direzione per serrarlo nella morsa, come un cinghiale ferito che i cacciatori stringono da ogni parte con la muta dei cani.
LIX
Subito dopo il disastro di Mons Seleucus, Magnenzio rientrò nella sua capitale, Lione, senza più esercito né compagni.
E allora, coraggiosamente come aveva lottato, il 10 agosto del 353 » morì suicida gettandosi sulla propri a spada; giusto in tempo per prevenire i suoi ultimi soldati che intendevano consegnarlo al vincitore in cambio del perdono e della vita. Una settimana più tardi, il 18 agosto, suo cugino Decenzio, saputa la notizia, circondato anch’egli d’ogni parte dai nemici, si impiccò a Senone ( Sens ) per non cadere nelle mani del vincitore.
La tragica figura di Magnenzio si staglia con forza plastica sul rósso tramonto del mondo antico. Precursore dei patrizi germanici della seconda metà del IV e del V secolo, di Arbogaste, Stilicone, Rcimerò, pagò con la vita la sconfinata audacia e l’immaturità dei tempi. Con lui precipitò al suolo la speranza di far risorgere il morente paganesimo, anche se questo sogno non morì del tutto. Ci sarebbero voluti il breve remo di Giuliano l’Apostata e l’estremo tentativo di Eugenio e Arbogaste, sul cadere ormai del secolo, per fare la prova provata dell’incapacità del paganesimo a opporre una efficace resistenza, sia culturale sia militare, al dilagare della religione di Gesù Cristo. La strada iniziatasi al Ponte Milvio e snodatasi attraverso Scutari, Crisopoli e Mursa doveva concludersi in quella fatale, ventosa giornata di settembre del 394, lassù nella valle del fiume Frigido, uno sconosciuto affluente dell’Isonzo.
Per la prima volta dai tempi di Costantino il Grande, l’Impero Romano era nuovamente riunito nelle mani di un unico sovrano. Ma ciò era avvenuto a spese dell’Occidente, conquistato e sottomesso dalle legioni orientali; il che spostava ancor di più il baricentro politico dell’Impero verso la Nuova Roma costruita, appena qualche decennio prima, sulle rive del Bosforo. In un certo senso, la storia di Bisanzio era già incominciata.
Francesco Lamendola
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