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Lo studente spagnolo

Questo racconto è tratto dal volume di Francesco Lamendola «La bambina dei sogni e altri racconti», Poggibonsi (Siena), Antonio Lalli Editore, 1984, pp. 57-67.Il libro è da tempo esaurito ma può esserne fatta richiesta, in quantità limitata, direttamente all’Autore.

Quando fu cacciato dall’Università di Salamanca, il baccelliere Alfonso Narvàez giurò a se stesso che ben presto si sarebbe presa la rivincita. Partì dall’antica città spagnola dirigendosi a piedi verso i Pirenei, deciso a raddoppiare i suoi sforzi per impadronirsi delle fonti del supremo sapere. L’Inquisizione non aveva potuto fare altro che interrogarlo, ammonirlo, bruciare i suoi manoscritti e farlo espellere dalla celebre Università, troncandogli per sempre la meta del dottorato. Ma lui non era mai stato assetato di riconoscimenti umani: tutto ciò gli appariva semplice frivolezza. Ben altra era la sete che lo divorava. Arrivò al punto di rallegrarsi d’essere stato espulso dall’Università, perché altri aveva preso per lui la decisione, che da tempo accarezzava, di farla finita con quel sapere ottuso, libresco, generico, che lo angustiava e gli accendeva più viva la nostalgia per le vette eccelse della conoscenza. Le categorie aristoteliche gli parevano un gioco per bambini e le dimostrazioni della teologia lo facevano sorridere beffardamente. Perché egli non bramava di sapere ma bramava il sapere, tutto, illimitatamente. Bramava di penetrare alle remote regioni dell’Essere e di strappar loro il segreto del dominio sulla natura.

Un unico pensiero lo angustiava, quando lasciò Salamanca diretto alla frontiera. Quel giovane orgoglioso, che disprezzava i suoi pavidi insegnanti e si faceva beffe dei suoi giudici bigotti, nutriva un amore. La bellissima Francisca de Toledo, fiera come una imperatrice e giovane come una vergine della mitologia greca, era l’unico essere al mondo capace di strappare al suo cuore superbo dei battiti più rapidi, di diffondere sul suo volto altero il pallore della più totale ammirazione. Il pensiero che ella, alla notizia della sua cacciata dall’Università, avrebbe scrollato le spalle con la sufficienza di chi ben sapeva ogni cosa prima che accadesse, lo riempì di rabbia e umiliazione. Ma subito si riprese e giurò a se stesso che egli sarebbe tornato non solo per trionfare di quei boriosi pedanti e di quei fanatici bacchettoni che lo avevano condannato, ma anche del cuore inaccessibile di lei. Lo avrebbe preso d’assalto come una fortezza e, d’impeto, lo avrebbe conquistato. E al ricordo dei bellissimi occhi scuri di doña Francisca la terribile tempesta del suo animo si placava e sulla sua fronte corrucciata tornava a spuntare un raggio di fede rasserenatrice.

Procedeva lento e tenace alla volta di Parigi, povero e smagrito, macinando polvere e fango, pioggia e sole. Lo attirava irresistibilmente il fascino della città antichissima ove si assommavano tutte le scienze, tutte le arti, tutte le menti eccelse ed intrepide, menti che non indietreggiavano davanti al mistero del bene e del male, che non si smarrivano quando si trattava di squarciare i veli delle umane prudenze e debolezze. I più ricercato maestri, i più oscuri alchimisti, i più tenebrosi negromanti lo attendevano laggiù, insieme ai libri più antichi e alle formule più terribili. E di tutti gli ostacoli incontrati lungo il cammino riuscì sempre a trionfare, grazie alla sua ferrea volontà e alla smisurata ambizione che lo trascinavano avanti, avanti, a dispetto di tutto e di tutti.

Non lo fermarono i Pirenei coperti di neve, né la Garonna spumeggiante d’acque limacciose. Quando era ormai avviato verso Orléans seppe che era scoppiata nuovamente la guerra tra la Francia e la Spagna e, nel fatto di aver potuto attraversare in tempo la frontiera, vide uno speciale intervento del destino.

La sua stella lo guidava verso la conquista di confini sovrumani, tutta la scienza e tutta la potenza del mondo avrebbero dovuto inchinarsi davanti alla sua forza e alla sua audacia e avrebbero dovuto rivelare i tesori tenebrosi che ai vili e ai mediocri sono fatalmente preclusi.

Giunse a Parigi dopo aver consumati tre paia di calzature, senza più una moneta nella borsa e il mantello logoro e scucito. Era il mese di gennaio e la città gli apparve, nella rossa nebbia del tramonto, come una bizzarra fortezza irta di tetti e di camini protesi verso il cielo livido.

Penetrandovi, si stupì dello squallore e della desolazione che imperavano nelle vecchie strade, dei volti scuri e inquietanti dei cittadini, del silenzio che dominava irreale nei sobborghi. E quando venne a sapere che era scoppiata una epidemia di peste e che le autorità municipali avevano deciso la chiusura delle porte cittadine per la mezzanotte di quello stesso giorno, di nuovo ebbe la rivelazione che una potenza oscura ed a lui amica lo favoriva. Al pericolo che sovrastava lui pure non pensò nemmeno. Per una questione di poche ore aveva fatto in tempo a entrare in città e questo solo contava, questo era il prodigio.

Trovò alloggio in una miserabile locanda del quartiere di Les Halles, le cui strade col cattivo tempo si trasformavano in torrenti di fango e le cui case grandi e distanziate parevano le avanguardie smarrite della campagna. La notte nessun lume rompeva la tenebra spessa, e solo raramente il passo della ronda ricordava che anche quella era, dopo tutto, un’appendice della grande città. Lo studente spagnolo alloggiava in una stanza umida e tetra sotto il tetto, ove il tamburellare notturno della pioggia aveva un qualche cosa di singolarmente gelido e sinistro, come le urla raccapriccianti dei gatti in amore giù nel vicolo fetido e buio.

Ma a tutto questo egli non badava. Aveva trovato lavoro come scrivano comunale, e tutto il suo tempo libero lo trascorreva nelle antiche e polverose biblioteche di Parigi. Curvo su quelle carte ingiallite, circondato da altissimi scaffali di libri arcani e paurosi e da statue che gettavano ombre inquietanti, passava ore ed ore alla ricerca di segreti inesplorati. Simile ad un livido fantasma egli stesso, circondato dalla sapienza tenebrosa di epoche morte, si addentrava ogni giorno di più lungo i bui sentieri della conoscenza proibita.

Nel volger di alcuni mesi era già divenuto un esperto di alchimia, di occultismo, di magia nera. E già tutto questo sapere smisurato e fantastico cominciava ad apparirgli limitato e insufficiente a soddisfare le sue ambizioni immense, allorché fece un giorno, casualmente, l’incontro decisivo della sua vita.

Stava uscendo a sera, nell’infuriare di un violento temporale, dalla vasta biblioteca deserta, allorché venne fermato, sullo scalone di marmo, dal Cavaliere.

Gli si gelò il sangue nelle vene quando, alla luce repentina di un lampo, la sua alta e sinistra figura emerse dall’oscurità. Ma più di tutto lo colpì il viso del Cavaliere, incorniciato dall’enorme collare di seta, un volto così magro e allungato, dalla fronte così smisurata e dalle sopracciglia così bizzarramente arcuate, che pareva uscito da quegli stessi libri di magia, per incanto, o da quelle statue di marmo inanimate. Una luce rossa e implacabile brillava in quegli occhi profondamente incavati.

Lo studente ebbe un moto istintivo di ribrezzo e di paura, ma il Cavaliere, facendo un passo avanti, si presentò risolutamente. Disse che da tempo lo aveva notato in quel luogo, intento a interrogare i libri alla ricerca di una saggezza che essi, povera carta muta logorata dal tempo, non potevano dare. Abbandonasse dunque quella strada fallace e polverosa, si rimettesse con audacia alla guida di chi era già addentro nei misteri più profondi dell’Essere: solo con un volo d’intrepidezza avrebbe potuto estinguere la sua sete di potenza e di sapienza.

Queste cose le disse con voce grave e profonda, come salisse da un nero pozzo dalle profondità imperscrutabili, e strinse il braccio dello studente con la sua gelida mano per comunicargli la sua fiducia sacrilega nei poteri infami della scienza occulta.

Quella notte stessa lo studente accompagnò il Cavaliere alla sua antica dimora, e ne divenne l’amico e il discepolo inseparabile. Per alcune settimane fu iniziato ai segreti della filosofia esoterica, riservati a pochi eletti che non avevano paura d’aver paura, che non fuggivano inorriditi davanti all’orrore da essi stessi evocato. Poi, poco alla volta, fu introdotto nei misteri abominevoli della magia nera, non come sono descritti, in forma involontariamente caricaturale, dai libri, ma nella terribile concretezza degli esperimenti.

Nei profondi scantinati della casa secolare il Cavaliere gl’insegnò ad evocare coloro che è pazzia richiamare fra gli umani, ad ascoltare il ruggito di ciò che è saggezza lasciare incatenato sul fondo dei neri abissi di là dallo spazio e dal tempo.

La prima volta che ciò accadde, per poco lo studente non morì dal terrore.

Stava in piedi in mezzo al cerchio magico e d’un tratto un soffio pestifero si levò dal nulla e spense il massiccio candelabro posto alle sue spalle. La cantina cadde nel buio più totale, e in quel buio egli sentì entrare una presenza sozza e inqualificabile, che rimase ferma a ringhiargli sulla faccia con rossi occhi di brace. Ma la voce ferma e profonda del Cavaliere presso di lui gli restituì il coraggio perduto, e gli mostrò che perfino a quella presenza immonda e terribile era possibile comandare ed essere obbediti. Da allora, sempre più spesso lo studente scese nella buia cantina, e alla fine cominciò a farlo anche da solo.

Di giorno dormiva e non usciva quasi mai dal vetusto palazzo, indugiando dietro i finestroni dai riquadri multicolori e ripensando al momento in cui sarebbe tornato in patria per trionfare dei suoi nemici e per diventare il signore assoluto dei regni insondabili delle tenebre. Ma in genere era talmente preso dall’ebbrezza della sua nuova tremenda potenza, che volgeva le spalle al passato come a cosa del tutto trascurabile e vuota.

Solo l’immagine stupenda di doña Francisca, di tanto in tanto, visitava i suoi sogni allucinati e allontanava per qualche attimo l’innominabile corteo di mostri che li popolavano. Allora quell’immagine bianchissima e meravigliosa, un tempo tanto cara, riconquistava l’incanto struggente che nella veglia aveva ormai perduto, sopraffatta da altri insaziabili desideri. Ma poi nuovamente sfumava e si dissolveva, e il ritorno della coscienza portava seco una rinnovata, incontenibile brama di sapienza e di occulta potenza.

Divenuto ministro della magia del Cavaliere, lo studente finì per essere anche complice dei suoi atroci delitti. Le potenze inenarrabili ch’essi evocavano esigevano sempre più spesso un compenso per le loro apparizioni e i loro servigi, ed esso non poteva essere che un sacrificio umano.

Di notte, quando il buio e l’inquietudine scendevano come nere ali di pipistrello giù dai tetti spioventi degli antichi palazzi, i due negromanti uscivano intabarrati nei loro mantelli alla ricerca di vittime. E poiché le potenze dell’abisso esigevano l’empio banchetto dell’innocenza per soddisfare la loro sete di abominevole sapienza, bimbi e giovinette erano l’obiettivo preferito di quelle criminali sortite notturne.

Per lo studente che, a differenza del suo empio maestro, era nuovo a tali atrocità e il cui animo non era naturalmente malvagio, ciò all’inizio costituì un duro scotto da pagare. Per molti giorni gli rimase nelle orecchie l’urlo disperato di quella fanciulla che essi ghermirono, latrando e ansimando nella nera oscurità del sotterraneo. La sua coscienza fu in lotta mortale e per un momento lo studente fu sul punto di fuggire a precipizio da quella casa di perdizione, rinunciando per sempre ai suoi malsani sogni di potenza. Ma poi la visione dei volti beffardi dei professori di Salamanca, dei volti arcigni degli inquisitori, del volto altero e sdegnoso di doña Francisca lo trattennero ancora una volta.

E rimase.

Col passare dei mesi, i neri orizzonti della magia diabolica sempre più si allargavano dinanzi al suo sguardo allucinato. Ma un pensiero sempre più spesso lo tormentava, che nulla aveva a che fare coi ricordi o col rimorso e che gli appariva ormai come l’ultimo ostacolo al suo trionfale ritorno. Era il pensiero dell’ultimo gradino sulla via della morta conoscenza, del più fondo abisso degli arcani innominabili, oltre il quale non esiste più limite a nulla sulla china del male. Pure, fremeva a quel pensiero spaventoso e ogni qualvolta lo accarezzava con insano compiacimento, sempre finiva per allontanarlo da sé come pazzescamente audace e pericoloso.

Ma un giorno, raccolto tutto il suo coraggio, si decise a compiere il gran passo e afferrato per un braccio il Cavaliere, lo pregò di fare per lui un’ultima cosa: presentarlo al Maestro. Scolorò a quella richiesta inconcepibile il volto già esangue del Cavaliere, e un lampo di timore attraversò il suo sguardo. Pure, vedendo che lo studente non recedeva e che nulla sarebbe valso a dissuaderlo, piegò impercettibilmente il capo in un riluttante cenno d’assenso.

Quella notte stessa, armati di torce, i due uomini si avviarono con passo esitante giù per la tetra scala a chiocciola, che li risucchiò gradino dopo gradino fino al termine d’un pozzo incredibilmente profondo e silenzioso. Spingendo porte chiuse da secoli e cancelli cigolanti, essi si spinsero ancora più in basso del solito e gettarono i loro cerchi di luce tremolante lungo corridoi che da tempi immemorabili non avevano conosciuto più impronta di piede umano. Eserciti di grossi topi dall’aria selvatica e feroce fuggivano innanzi a loro, digrignando i denti e lanciando urla lamentose. Finalmente giunsero nella cella ottagonale, l’estremo locale dell’immenso sotterraneo, posto a diverse centinaia di piedi sotto il livello del suolo.

Un brivido gelido corse lungo le vertebre dello studente, stringendole una ad una nella sua morsa intollerabile, quando il Cavaliere con gesti esitanti e con voce tremante incominciò la formula della evocazione. Poi, vedendo il sudore scorrere sulle tempie della sua spaventosa guida, e i minuti trascorrere senza che nulla accadesse, lo studente cominciò a sperare che l’enormità stessa della chiamata l’avrebbe resa assolutamente inefficace.

Ma ecco, d’un tratto un soffio possente, nauseabondo, uscito da qualche angolo morto investire e spegnere i due candelabri, piombando ogni cosa nell’oscurità più totale. Ecco tacere ogni squittio di topi, ogni tramestio lontano lungo a scalinata, perfino ogni sgocciolio d’acqua dalla volta circolare e gonfia d’umidità del sotterraneo. Un silenzio spaventoso, rombante, era sceso nell’antro profondissimo.

Lo studente aveva appena registrato nella coscienza confusa e atterrita tali fenomeni, allorché lui venne, come se di colpo qualche cosa o qualcuno di immani proporzioni fosse penetrato nella cella ottagonale, qualcosa o qualcuno talmente selvaggio e smisurato da eccedere di molto le dimensioni del locale stesso. Lo studente ebbe quindi la fantastica impressione che nella cella fosse entrato qualcuno che la cella stessa non poteva in alcun modo contenere, ma che al contrario inglobava nella sua malvagia enormità la cella medesima e forse l’intero labirinto sotterraneo.

Le orecchie gli rombavano con violenza inconcepibile, come se qualcuno stesse urlando e latrando nel buio sino a far rimbombare le più lontane pietre; eppure era certo che nessun suono, nessun rumore turbava realmente lo spaventoso silenzio.

Alla luce della sua coscienza sconvolta udì con le orecchie della mente una domanda che gli veniva rivolta con inaudita malvagità, ma che nessuna voce o suono umano poteva realmente aver formulato. Il Maestro, in un parossismo d’ira per quella chiamata follemente audace, gli chiedeva come pensasse di placare la sua sete di distruzione e di vendetta. Voleva da lui la cosa più cara, la più preziosa, la più sacra: solo a tal patto non lo avrebbe squarciato coi suoi artigli smisurati. E subito al pensiero dello studente apparve, quasi inconsapevolmente, l’immagine dell’unica persona da lui amata con trasporto e fedeltà assoluti: l’immagine nivea e purissima della giovinetta di Salamanca, doña Francisca.

Alitandogli in viso una nuova spaventosa zaffata di bestiale fetore, "lui" gli significò che quel sacrificio sarebbe valso, per allora, a risparmiargli la vita, e ne richiese il consenso. La vita di lei in cambio della vita di lui.

Tremò in ogni fibra lo studente spagnolo, e arretrò come folgorato mentre la fronte gli s’imperlava di sudore freddo. Il suo tremito era così convulso che per poco non inciampò e cadde. Allora il Cavaliere, che fino a quel momento gli era rimasto accanto ugualmente atterrito e silenzioso, e che aveva misteriosamente udita lui pure la richiesta non detta, lo afferrò per una spalla e lo scosse con rabbia convulsa. Gli artigli del Cavaliere gli affondavano nella carne mentre una supplica feroce, un ordine disperato lottavano nel buio totale per trovare, invano, un aperto sfogo.

Doveva acconsentire, doveva cedere la vita di doña Francisca, con un assenso del cuore: questo supplicava, questo ordinava nella frenesia del terrore il Cavaliere, senza poter aprire la bocca né emettere suono.

La presenza immane, inconcepibilmente adirata, era lì su di loro e incombeva con urgenza terrificante. Allora dalla gola dello studente, serrata dall’angoscia e da un terrore incontenibile, la voce tornò improvvisamente e un urlo rimbombò disperatamente per le volte e le scalinate immense; un urlo convulso, assordante, lunghissimo: un "no" che si perdette negli abissi di quell’allucinante regno sotterraneo…

Quella notte stessa, a più di mille chilometri di distanza, doña Francisca si destò atterrita e madida di sudore nel mezzo di un incubo spaventoso.

Ma già l’indomani ella aveva quasi scordato i terrori notturni e, dopo qualche settimana, li seppellì per sempre nei recessi insondabili della coscienza. Allo studente continuò a pensare, di tanto in tanto, ancora per qualche mese, finché lo dimenticò del tutto.

Del Cavaliere e del suo giovane aiutante non si seppe più nulla. La servitù del palazzo non fu in grado di dir nulla circa la loro repentina e inspiegabile partenza.

Solo molti anni dopo un lontano parente del Cavaliere, un nipote di terzo grado che aveva ereditato la casa quale unico familiare vivente, ebbe un giorno l’idea di scendere a esplorare, per pura curiosità, i profondi sotterranei. Percorse non senza meraviglia e apprensione le interminabili rampe di scalini consunti dal tempo, oltrepassò porte infradicite dall’umidità e cancelli arrugginiti, scendendo sempre più in basso, a profondità fantastiche.

Un piccolo locale ottagonale era sul fondo, chiuso d’ogni parte.

Il nuovo padrone della casa se ne ritrasse inorridito e risalì a precipizio le scale da cui era disceso. Perché sul pavimento della cella ottagonale, accanto a due candelabri rovesciati, erano sparse tutt’attorno le povere ossa frantumate e le vesti già lacerate e semidisfatte di quelli che erano stati, molti anni prima, due esseri umani.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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