
Il nostro fine non è tendere a quel tale bene, ma al bene in sé
1 Ottobre 2007
L’anima criminale come problema filosofico
6 Ottobre 2007Presentiamo il terzo capitolo del libro di Francesco Lamendola «Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d. C. », Poggibonsi (Siena), Antonio Lalli Editore, 1984, pp. 69-103. L’opera è da tempo esaurita ma un numero limitato di copie può essere richiesta direttamente all’Autore.
I n d i c e
IL COLPO DI STATO OTONIANO
LA FINE DI GALBA
IL BAGNO DI SANGUE
4.INDIRIZZO DEL GOVERNO OTONIANO
IL RAPPORTO FRA CAPITALE E PROVINCE
EVOLVERSI DELLA SITUAZIONE POLITICO-MILITARE
AZIONE POLITICA DI OTONE
IL COLPO DI STATO OTONIANO
Come si è visto (cfr. l’articolo Insurrezione di Vitellio contro Galba), la nomina di Pisone a collega dell’imperatore e le modalità del suo annunzio avevano scontentato sia i pretoriani sia, in parte, lo stesso Senato. Galba non prese misure militari efficaci per prevenire l’invasione dei Vitelliani in Italia, in compenso si diede a raccoglier danaro in previsione delle imminenti difficoltà finanziarie. Ricorse quindi all’espediente di ordinare la restituzione alle casse dello Stato delle folli elargizioni di Nerone a cittadini privati, ma il provvedimento, teoricamente giusto e inappuntabile, in pratica si rivelò disastroso, giacché la maggior parte dei beneficiari delle prodigalità del defunto imperatore aveva già dilapidato le somme favolose ricevute e non era quindi più in grado di restituirle. Questa fu forse la goccia che fece traboccare il vaso dello scontento generale. Benché una parte del popolo gli rimanesse ancora fedele, e nonostante l’appoggio di gran parte del Senato, Galba si era inimicato o alienato le simpatie di una categoria dopo l’altra. Tuttavia egli avrebbe ancora potuto reggersi, se si fosse appoggiato maggiormente sul nerbo principale della sua forza, le coorti pretorie; questo però a lui sarebbe parso un tradimento verso il Senato e verso le premesse aristocratico-conservatrici del suo governo.
Ciò che più dispiaceva in Galba, agli occhi dei soldati, era la sua rigidità senza sorriso, la sua severità in fatto di disciplina, la sua incomprensione per le loro esigenze di una maggiore partecipazione alla vita pubblica, la sua avarizia. Tutte cose che, invece, Otone possedeva in sommo grado e sapeva sfruttare abilmente per accrescere la sua già vasta popolarità fra i soldati. Per fare solo un esempio, ogni qual volta Otone prendeva parte a un banchetto al fianco di Galba, il suo aiutante Mevio Pudente distribuiva alla coorte di guardia cento sesterzi a testa. I soldati paragonavano inevitabilmente la taccagneria di Galba, che non aveva mai concesso loro il donativo, con la munificenza di Otone, il quale pagava di propria tasca per supplire alla avara politica dell’imperatore, e ne traevano le ovvie conclusioni. È ben vero che Otone, il quale già aveva messa tutta la propria fortuna al servizio della causa di Galba quando si trovava in Lusitania, era adesso l’uomo più indebitato di Roma. Con una spregiudicatezza e con una abilità demagogica ben degne di Cesare o di Catilina, Otone si era riempito di debiti per aumentare la propria popolarità fra le truppe al punto che l’ammontare di essi aveva raggiunto ormai una cifra enorme. Per una singolare coincidenza del destino, i due uomini che si accingevano a disputarsi sanguinosamente la supremazia nell’Impero erano economicamente del tutto rovinati. Vitellio, nel partire da Roma per andare ad assumere il governo della Germania Inferiore, aveva dovuto vendere la casa, lasciare la moglie ed i figli in una soffitta a pigione, e impegnare per il viaggio una perla d’orecchino di sua madre, e ciò nonostante era stato inseguito e quasi bloccato dai suoi creditori nell’uscire dall’Urbe, e perfino malmenato. Otone continuava a condurre una vita splendida e a dispensare con pazza prodigalità del suo, ma il suo debito complessivo era talmente enorme che, secondo le voci più maliziose, la sua sola speranza di evitare la prigione per debiti era ormai quella di un rivolgimento politico che mettesse nelle sue mani le casse dello Stato. Tuttavia, se è puerile affermare che egli tentò il colpo di Stato per salvarsi dai creditori, è perfettamente vero che egli giocò lutto sulla caria della popolarità nell’ambiente militare e che, pagando ai pretoriani le largizioni che Galba rifiutava, cerio non pensava che avrebbe dovuto estinguere i propri debiti quale privalo cittadino.
Le mene di Otone furono favorite dalla dabbenaggine del prefetto Cornelio Lacone, che non ebbe alcun sentore di quanto slava accadendo o che, se lo ebbe, preferì minimizzare i segnali d’allarme che gli giungevano. Alcuni abili agenti otoniani, dei soldati semplici che davano naturalmente poco nell’occhio, spargevano i semi del malcontento contro Galba e insinuavano i vantaggi che sarebbero venuti da un principato di Otone. Questi era giovane e cameratesco, Galba vecchio e inflessibile; Otone era prodigo, Galba estremamente avaro; Otone era amico di lutti i soldati, Galba difendeva a spada tratta le prerogative del Senato. Per non parlare dei molti nemici politici di Galba fatti arrestare, processare, condannare, alcuni per dei semplici sospetti; dell’assassinio di Ninfidio Sabino e di Fonteio Capitone; e, più grave di tutto il resto, il feroce massacro dei marinai, che aveva insanguinato l’ingresso di Galba a Roma. Tutto questo si vociferava e si diffondeva ad arte, mentre Lacone e lo stesso imperatore, i soli che avrebbero potuto attenuare l’irrequietezza dei soldati, non facevano nulla.
Il 14 dicembre, mentre rincasava, la sera, dopo cena, Otone fu preso in mezzo da una folla di soldati semiavvinazzati che cercarono di levarlo sugli scudi e proclamarlo senz’altro imperatore. A stento egli riuscì a placarli e a convincerli a desistere, rendendosi conto che le prospettive di successo erano troppo incerte e che un passo falso avrebbe potuto compromettere le fatiche di tante settimane. Pare che l’occasione del sollevamento fosse stata offerta ai soldati dalle gravi notizie della Germania, che continuavano a giungere in Roma: se ciò è vero, bisogna ammettere che gli sforzi di Galba per mascherare l’entità del movimento vitelliano erano falliti nel giro di pochi giorni.
Questo primo incidente comunque affrettò la decisione di Otone di sferrare al più presto il colpo decisivo. Diversi fattori lo spingevano a rompere gli indugi e a gettarsi a capofitto nell’avventura pazientemente preparata. I principali erano tre: l’impopolarità di Galba fra i pretoriani, accresciuta dalla nomina di Pisone e che occorreva sfruttare subito; il pericolo personale cui era esposto lo stesso Otone, vuoi per la nomina di Pisone, vuoi per i fatti del 14 dicembre, che potevano esser giunti alle orecchie dell’imperatore, vuoi infine per il pericolo che qualcosa della congiura trapelasse; e i rapidi progressi delle armate di Vitellio in Germania, chiaramente intenzionate a dirigersi verso le frontiere d’Italia, queste ragioni erano più che sufficienti per consigliare un pido colpo di mano, battendo il ferro, per così dire, sinché ra caldo: aspettare ancora avrebbe significato esporsi a una catastrofe. Sarebbe di grande interesse per noi poter stabilire il colpo di Stato del 15 dicembre, che rovesciò Galba, fu Otone premeditato, o se fu solamente la replica dell’incidente casuale della sera prima, che egli si limitò a sfruttare non potendo più tirarsi indietro: più probabile, a nostro avviso, la prima ipotesi. In ogni caso la versione, cara a certa storiografia moderna, che vorrebbe Otone trascinato quasi controvoglia dall’ondata antigalbiana dei pretoriani, è certa-mente illusoria. Se Otone fu colto alla sprovvista il 15 dicembre – il che non è nemmeno certo – lo fu per una questione di ore, in quanto il colpo di Stato era stato da tempo deciso.
2. LA FINE DI GALBA
Le ultime ore di Galba sono narrate con ricchezza di particolari dagli storici antichi, ma, purtroppo, con non altrettanta precisione. Cercheremo comunque di seguire passo passo, per quanto possibile, gli spostamenti dell’imperatore morituro e del suo collega Pisone, così come quelli di Otone.
Il giorno 15 dicembre Galba, insieme ai suoi principali collaboratori, stava compiendo un sacrificio davanti al tempio di Apollo (certamente il tempio di Apollo Palatino, a breve distanza dal palazzo imperiale, e non quello di Apollo Sosio, che sorgeva ai piedi del Campidoglio di fronte al teatro di Marcello); Otone era tra i presenti. A un certo punto il liberto di quest’ultimo, Onomasto, che aveva svolto un ruolo importante nel preparare gli animi dei soldati alla rivolta, venne a chiamare il suo padrone. Qualcuno del seguito di Galba gli chiese allora per qual motivo si allontanava, e Otone rispose che si recava a visitare una villa ch’era intenzionato ad acquistare: l’architetto e gli appaltatori lo stavano aspettando. Accompagnato quindi dal fedele Onomasto, lasciò il tempio di Apollo e si avviò velocemente per il Palatino; passò la villa di Tiberio e ridiscese verso il Tevere, nel quartiere detto del Velabro, fittamente abitato e sempre animato per la presenza dei magazzini e dei moli d’approdo sulla riva del fiume; indi si diresse al Foro. Giunto che fu al miliarium aureum presso il tempio di Saturno, un gruppo d’una ventina di pretoriani lo circondò acclamandolo imperatore. La folla che si trovava nel Foro non prese parte, a quanto sembra, al colpo di Stato. Otone salì in lettiga, i soldati fecero quadrato attorno a lui e il gruppo si mise in movimento, con le spade sguainate, in direzione della caserma dei pretoriani.Si assistette allora a una scena fantastica: Otone, con l’aria non troppo sicura di sé, procedeva in lettiga con la sua piccola ma agguerrita scorta, fendendo la folla che assisteva trasecolata, senza che si formasse intorno a lui un seguito più numeroso e senza che alcuno gli contrastasse il passo. La caserma dei pretoriani, posta fra le porte Collina e Viminale, era all’altro capo della città, e Otone attraversò coi suoi mezza. Roma senza che si potesse capire come sarebbe andata a finire. Solo una ventina di soldati si unirono alla sua scorta durante il lungo tragitto, e per di più molti si astenevano dal partecipare alle grida esultanti dei compagni, come se aspettassero di vedere se convenisse loro imbarcarsi in un’avventura così incerta e pericolosa.
Se l’acclamazione presso il tempio di Saturno era stata concordata fra Otone e i pretoriani, dobbiamo credere che egli sia rimasto sconcertato dal piccolo numero dei suoi sostenitori: fu così forse che nacque l’impressione, ripresa anche da alcuni storici moderni, ma assente in verità negli antichi, che Otone fosse trascinato al pretorio senza sua premeditazione. Comunque sia, data l’attitudine assolutamente passiva della popolazione, a Otone non restava che sperare in una sollevazione massiccia dei pretoriani; né le sue speranze dovevano andare deluse. Quando la singolare processione fu giunta davanti alla caserma, il tribuno di guardia, benché non fosse al corrente della congiura, intimorito aprì la porta e non fece alcuna resistenza. Pare che buona parte dei soldati siano stati presi alla sprovvista dal precipitare degli eventi, che li obbligava a prendere una immediata decisione; ma i partigiani di Otone si diedero un gran daffare e il loro candidato riuscì a imporsi. La statua d’oro di Galba venne rovesciata dalla tribuna e su quest’ultima venne fatto salire Otone in mezzo a una grande confusione. Quelli che erano a parte del colpo di Stato incitavano i soldati a tener lontani i centurioni e i tribuni, diffidando dei loro sentimenti: così si vide manifesta fin dai primi istanti quella che sarebbe stata una caratteristica del regime otoniano, lo stato di « rivoluzione permanente » dei soldati nei confronti degli ufficiali, accusati di non servire fedelmente la causa del nuovo imperatore.
Fu la legione di marina, quella che Galba aveva fatto decimare alcuni mesi innanzi, che per prima giurò fedeltà a Otone, trascinando col suo esempio anche i pretoriani. Dall’alto della tribuna, dopo aver manifestato nelle solite forme ostentate e demagogiche la propria riconoscenza alle truppe, questi tenne un discorso concitato e fremente. Ricordò loro il comune pericolo in cui si trovavano, e l’impossibilità di tornare indietro; ricordò gli assassini di Sabino, di Macro e di Capitone; la strage dei marinai, che lì presenti lo ascoltavano frementi d’ira e di sdegno; l’avarizia di Galba e il donativo mai concesso; infine, la corruzione degli uomini al potere, le ricchezze ammassate da Icelo e Tito Vinio, gli scandali e le ruberie ancor maggiori che al tempo di Nerone. Quando l’eccitazione fu giunta al culmine, Otone ordinò di spalancar gli arsenali: e si vide allora una folla scatenata di soldati correre alle armi, dimentica di ogni ombra di disciplina militare, e gli ufficiali mescolati ai soldati che anziché comandare, si limitavano a seguire la corrente. Dopo di che, su ordine di Otone, i soldati uscirono per andare ad ammazzare Galba e Pisone.
Questi ultimi furono sorpresi dalle prime notizie della rivolta mentre ancora si trovavano al tempio d’Apollo intenti nel sacrificio. Si trattava di notizie disparate, confuse, talvolta palesemente contraddittorie, alimentate di continuo da quanti, imbattutisi nel Foro o nelle sue vicinanze nel gruppo dei ribelli, accorrevano a darne l’annuncio all’imperatore. Si diceva che un senatore era stato acclamato dai soldati e condotto verso il Pretorio e solo in un secondo momento venne precisato trattarsi di Otone. È evidente che Galba venne colto di sorpresa da questa notizia: solo poco prima aveva abbracciato Otone in quello stesso luogo e l’aveva lasciato allontanarsi senza sospetti. Tuttavia mantenne il controllo di sé, fece ritorno al palazzo imperiale ove montava di guardia
una coorte in permanenza, e si consultò con i suoi collaboratori. Il suo primo impulso sarebbe stato quello di recarsi personalmente alla caserma dei pretoriani, tanta era la sua fiducia che con la sola presenza avrebbe domato l’insurrezione e riportato i soldati all’obbedienza. Ma questa dimostrazione di coraggio personale, che certamente non gli mancava e che nemmeno i suoi nemici potevano disconoscergli, non fu approvata dai suoi ufficiali. Troppo vaghe e confuse le notizie, che continuavano a giungere da fuori; troppo incerta la disposizione d’animo dei pretoriani; troppo insicura l’attitudine della plebe. All’interno del palazzo, era tutto un profondersi in manifestazioni di sdegno contro Otone e di fedeltà incondizionata a Galba, né c’era senatore che mancasse di farsi bello con le proprie inutili millanterie, aumentando, più che altro, la confusione; ma fuori? Qual era la situazione reale, in quel momento, al Pretorio e nel resto della città? Si decise per prima cosa di radunare la coorte di guardia al palazzo sulla gradinata esterna, quella che scendeva verso i rostri, per saggiarne l’animo e galvanizzarlo con un discorso; e si volle che ad arringarla fosse Risone, poiché Galba non poteva correre il rischio di compromettere la propria immagine con un insuccesso iniziale. Fu una decisione sbagliata, molto probabilmente, perché i soldati, nonostante tutto, potevano ancora sentirsi obbligati nei confronti del vecchio imperatore, mentre Pisone, ai più sconosciuto e associato al potere da appena quattro giorni, era ancor meno popolare di Galba fra i soldati. Pisone comunque tenne sui gradini antistanti il palazzo il suo discorso: un discorso magniloquente e pieno di retorica, in cui rammentava che la sola legittimità stava dalla parte di Galba, denunciava l’infingardaggine e i vizi spregevoli di Otone, la sua vita dissipata, tutte cose non molto adatte a far presa sull’animo rude dei soldati. Essi lo ascoltavano con sentimenti contrastanti, consci della propria bassezza e debolezza, molti in cuor loro già pronti ad abbandonarlo come avevano fatto con Caligola e Nerone, pur sapendo di essere cordialmente disprezzati dai pretoriani che li consideravano soldati da parata e perfino da Otone che li aveva definiti « togati », ossia borghesi e imbelli. La guardia del corpo di Pisone si sciolse quasi subito, mentre ancora parlava; gli altri però lo ascoltarono al loro posto, senza interromperlo, e quando ebbe finito, corsero a prendere le insegne come animati da uno zelo improvviso: si vide dopo ch’era stato un mero espediente per piantarlo in asso. Rientrato Pisone a palazzo e consultatesi ancora con Galba, decisero di spedire in varie direzioni della città a sollecitare rinforzi e perfino di mandare degli ambasciatori alla caserma dei pretoriani. Oltre ai pretoriani, che si trovavano quasi tutti nella loro caserma, vi erano allora in città altre truppe di passaggio, specialmente due grossi distaccamenti richiamati da Nerone per schiacciare il movimento di Vindice: uno di veterani illirici, accampato sotto il portico di Vipsanio, l’altro di soldati germanici, attendato nell’atrio della Libertà. Furono mandati dei messi ad entrambi, per metterli in moto contro i partigiani di Otone, ma senza alcun successo. Il coraggioso Mario Gelso, ex comandante della XV legione in Pannonia e veterano della guerra armena contro Vologese e Tiridate, che era corso al portico di Vipsanio per mobilitare i soldati illirici, fu accolto da una pioggia di giavellotti e salvò a stento la vita. Le truppe germaniche poi, già mandate ad Alessandria da Nerone e richiamate con una faticosa navigazione, snervate dal clima e dagli ozi cittadini non avevano più nulla di militare e, dopo lunghe incertezze, si mossero quand’era ormai troppo tardi. Infine i tre tribuni, che si erano assunti il pericoloso compito di recarsi al Pretorio, nella tana stessa del leone, furono insultati, minacciati e percossi dalle truppe furibonde.
Mentre nei diversi punti di Roma avvenivano queste scene, a palazzo Galba era ancora all’oscuro sia del precipitar degli eventi al Pretorio, sia del fallimento del suo tentativo di far venire rinforzi. Intorno a lui regnava la confusione più completa, poiché il popolino, resosi finalmente conto di quello che stava accadendo, timoroso di perdere lo spettacolo si era precipitato all’interno senza trovare chi lo fermasse e incitava l’imperatore a far giustizia dei rivoltosi. Anche molti senatori accorsero e non provavano vergogna di vantarsi scioccamente, anzi questa folla scomposta giunse a tal punto d’impudenza da sfondar le porte del palazzo, già chiuse per prudenza, per protestare davanti a Galba la propria devozione. Come se non bastasse, mentre si cercava, fra tante chiacchiere, di prendere delle decisioni efficaci, sorse un ennesimo contrasto tra i fedeli dell’imperatore. Il console Tito Vinio consigliava di non muoversi dal palazzo, di sbarrare le porte, e perfino di armare il popolino accorso, non parendo sufficiente la sola coorte di guardia, e così asserragliati attendere lo sviluppo degli eventi. Tito Vinio era stato intimo amico di Otone e, colto di sorpresa, alla pari degli altri, dal suo colpo di mano, sperava forse di guadagnare tempo senza compromettersi né con Galba, né con Otone: ignorava che proprio in quel momento quest’ultimo, arringando i pretoriani, li stava eccitando col rammentar loro che la sola villa di Vinio sarebbe bastata a offrire il donativo che Galba aveva ostinatamente rifiutato.
La proposta di Tito Vinio provocò l’immediata reazione di Icelo e Lacone, i quali, ostili da sempre ad Otone, proponevano invece un’audace sortita fino al campo pretorio, fiduciosi di poter stroncare la rivolta se solo l’imperatore si fosse mostrato di persona. Questa proposta finì per prevalere, accordandosi meglio con l’impazienza di Galba e col suo timore che un atteggiamento puramente passivo potesse aggravare la situazione, ancora fluida e aperta a ogni possibile colpo di scena. Parve però consigliabile mandare avanti Pisone, per predisporre al pentimento l’animo dei soldati; Galba gli avrebbe tenuto dietro di lì a poco. Questa la versione fornita da Tacito; secondo Svetonio invece, dopo contrastanti consigli, Galba avrebbe deciso di restar fermo e di attendere l’arrivo dei rinforzi mandati a chiamare in città, ossia quei soldati illirici e germanici che proprio allora accoglievano con ostilità o indifferenza i suoi inviati.
Proprio in quel momento, comunque, di tra la folla che aveva invaso il palazzo, cominciò a prender fiato una voce entusiastica, presto ripetuta da infinite bocche, che cioè la rivolta si era spenta così repentinamente com’era iniziata, che Otone era stato ucciso e che tutto era finito. Impossibile stabilire l’origine di questa diceria: fatto sta che essa parve rianimare anche i più vili, contagiò il palazzo di un malsano e sfrenato ottimismo e diede inizio a una disgustosa gara di adulazione attorno al principe morituro. Pisone era appena uscito, diretto al campo dei pretoriani, e Galba, rimasto solo e mal consigliato, finì per decidersi a uscire a sua volta. Vestì una leggera corazza di lino, poi fu fatto salire in lettiga perché, anziano e tormentato dalla gotta, non era in grado di affrettarsi: una folla confusa di popolo e di soldati della coorte palatina lo accompagnava. Quasi subito gli si fece incontro un soldato che, mostrando enfaticamente la spada macchiata di sangue, si vantava di aver ucciso di propria mano Otone. Per un istante l’ottimismo travolse quella folla disordinata; il solo Galba, sempre ligio alla disciplina militare, sempre sicuro del proprio ascendente personale, rimproverò il soldato dicendogli: « Commilito, quis iussit? », «Camerata, chi te l’aveva ordinato?».
Ma la tragedia, dopo essersi mascherata per qualche minuto sotto le vesti della farsa, volgeva ormai rapidamente verso la fine. Mentre Galba viveva ancora l’illusione che tutto fosse finito, Pisone, spintosi in direzione dei castra praetoria, prima ancora di giungervi restava atterrito dalle grida e dal clamore provenienti da essi. Allora, non osando presentarsi alla moltitudine scalmanata dei pretoriani, tornò velocemente sui propri passi, inseguito da quello strepito che giungeva fino ai quartieri cittadini, e corse a dar la notizia a Galba. Ma questi era già scomparso dal numero dei viventi. Arrivato nel Foro in mezzo a una confusione crescente, il vecchio imperatore era stato raggiunto dal valoroso Mario Gelso che gli annunziava come i soldati illirici lo avessero cacciato armi alla mano. Allora il panico piombò rovinosamente su quella moltitudine imbelle. Mentre i soldati cominciavano a sbandarsi e a fuggire, alcuni consigliavano Galba di far ritorno al Palatino prima che fosse troppo tardi, altri di asserragliarsi sulla rocca del Campidoglio. Cornelio Lacone, che, come comandante dei pretoriani, era il massimo responsabile della sorpresa e della situazione disperata in cui si trovavano, anziché organizzare le scarse forze presenti chiese a Galba di far uccidere Tito Vinio, sfogando il suo odio personale col pretesto che Vinio li aveva traditi e venduti ad Otone.
In mezzo a questa confusione la lettiga veniva sballottata di qua e di là, finché, giunti all’altezza del lago Curzio, i portatori si diedero anch’essi alla fuga rovesciando l’infelice sovrano. Proprio in quel momento apparvero all’ingresso del Foro i cavalieri pretoriani, che avevano già travolto lungo la strada un gruppo di senatori. Quando videro il corteo imperiale, si fermarono un attimo, poi, mentre soldati e popolino fuggivano in tutte le direzioni, spronarono nuovamente i cavalli verso l’imperatore rimasto solo. Un soldato della XV legione gli fu sopra brandendo la spada; Galba esclamò: – Che fate, compagni? Io sono vostro e voi siete miei! -. Secondo un’altra versione invece, sarebbe giunto a promettere una gratifica se lo avessero risparmiato; una terza voce volle infine che offrisse il collo agli assassini, dicendo: – Fatelo, se lo ritenete giusto -. Questa ridda di versioni contrastanti dimostra se non altro che nessun testimone attendibile colse le sue ultime parole. Dopo averlo crivellato di colpi, infierirono con sadica ferocia contro il suo cadavere, ma trovando resistenza nella corazza, gli spiccarono la testa dal busto e insultarono anch’essa. Un soldato semplice volle portarla ad Otone: non potendo afferrarla per i capelli, perché era quasi calvo, gli mise l’indice e il pollice in bocca e così la mostrò al nuovo imperatore. Questi la abbandonò ai vivandieri del pretorio, che subito la infissero in cima a una picca e continuarono a schernirla con motti osceni.
È da notare che al momento dell’assassinio di Galba né i soldati né i popolani mossero un dito in sua difesa.
3. IL BAGNO DI SANGUE
Si scatenarono allora i furori della soldatesca, lungamente sopiti e ora eccitati anziché placati dalla tragica morte dell’imperatore. Il partito di Galba si era dissolto come nebbia al sole nel momento stesso della sua morte. La coorte palatina era dispersa ancor prima della carica della cavalleria tauriana presso il lago Curzio. Il popolino, che solo mezz’ora la protestava così rumorosamente la propria fedeltà al principe legittimo, lo aveva completamente abbandonato al destino. Solo la coorte germanica accampata nell’atrio Libertà, quella che era tornata dall’Egitto e che Galba in special modo favorita, si era finalmente messa in movimento per soccorrere il suo benefattore. Ma, non conoscendo l’immensa città, aveva perduto la strada e così, mentre Galba veniva ucciso, quei soldati nativi delle foreste del Reno stavano ancora correndo a tentoni per le vie attorno al Foro. Quando poi seppero della fine di Galba e dell’inutilità di ogni ulteriore resistenza, anche i Germani abbandonarono la causa del vinto.
Ebbe allora inizio una feroce caccia all’uomo, al lume torce, nella quale non è possibile stabilire con un certo rado di attendibilità quale fosse l’atteggiamento personale di Otone. Secondo Plutarco, ad esempio, quando gli portarono testa mozza di Galba, egli avrebbe esclamato: – Ma questo n è ancora tutto, camerati; dovete portarmi anche quella Pisone -, e Tacito conferma il suo odio implacabile per il neo-imperatore, che lo avrebbe spinto a bearsi della vista cella testa recisa di Pisone in modo particolare. A noi però sembra più probabile, come lo è sembrato, tra gli altri, al Barbagallo, che tutto quel bagno di sangue abbia piuttosto profondamente disgustato il mite filosofo stoico, l’antico raffinato crapulone della corte neroniana. Resta però il fatto che Otone, trascinato al potere da una forza che in quelle ore era umanamente impossibile tenere sotto controllo, ben reco poté fare per rendere meno sanguinoso il crepuscolo del principato di Galba.
Una delle prime vittime del furore dei soldati fu il console Tito Vinio, la cui avarizia e corruzione avevano così potentemente contribuito a esacerbare l’animo dei pretoriani contro il governo di Galba. La storia non è riuscita a chiarire, re ormai lo potrà, quale fu esattamente il ruolo di Vinio nel colpo di Stato di Otone. Si è già detto della loro amicizia e della voce pubblica, che voleva Otone futuro genero di Vinio, come pure dei consigli ambigui di quest’ultimo a Galba, poco prima della fine, e della rabbiosa reazione di Lacone, che tuttavia non ebbe il tempo di eliminarlo. Quando i soldati di Otone gli furono intorno, Vinio ricordò loro invano che era amico del nuovo imperatore e che questi non poteva aver certo ordinata la sua morte. Ma i pretoriani agivano ormai di propria iniziativa e nessuna forza al mondo avrebbe potuto fermarli: il console fu trapassato da parte a parte mentre tentava di fuggire. La fine di Cornelio Lacone fu più misteriosa. Forse temendo di irritare l’animo di una parte dei pretoriani, dei quali Lacone era pur sempre il prefetto, Otone non lo fece uccidere subito, ma dopo avere sparso ad arte la voce che lo aveva relegato in esilio su di un’isola, mandò un sicario ad assassinarlo. Quanto a Marciano Icelo, come liberto e come uno dei più odiati rappresentanti del caduto regime gli venne riservato un supplizio pubblico.
Infine Pisone. Quando Galba era stato ucciso, anche il suo giovane collega stava per fare la medesima fine, ma un valoroso centurione addetto alla sua guardia del corpo riuscì a procurargli un momentaneo scampo, attirando su di sé il furore dei soldati. Pisone riuscì così a infilarsi nel vicino tempio di Vesta, dove uno schiavo impietosito dal suo terrore acconsentì a nasconderlo. Giunsero allora sul posto dei soldati particolarmente decisi, penetrarono a loro volta nel sacro tempio e, scoperto il disgraziato, lo trascinarono fuori (per non macchiarsi di sacrilegio spargendo del sangue entro un luogo sacro) e lo uccisero subito. La sua testa decapitata venne infissa, come quella di Galba, in cima a una picca, e portata in giro per la città sinistramente illuminata dalle fiaccole e percorsa incessantemente da torme di soldati ebbri di sangue.
Forse si fu a un pelo da un più grave disastro, perché molti pretoriani non aspettavano che un segnale per dar l’assalto alla Curia, massacrare i senatori e mettere a sacco le loro abitazioni. Essi bene intuivano che era quella una lotta per il supremo potere fra loro e il Senato, e che quest’ultimo, uscito vincitore, con Galba, dalla prima prova (quella contro Nerone), era adesso completamente alla loro mercé. Ma Otone, oltre che per naturale inclinazione alieno dalle violenze inutili, era politicamente ben consapevole di non potersi sostenere senza un qualche appoggio da parte del Senato. Beninteso, i padroni della situazione erano adesso loro, i pretoriani, che lo idolatravano almeno quanto odiavano e disprezzavano il Senato, e Otone non avrebbe potuto scordarlo neppure per un attimo, anche se lo avesse voluto. Ma se la forza del suo potere veniva interamente dall’ambiente militare, il Senato era pure necessario per legalizzare quel potere, e sia pure contro voglia: ed era necessario non solo per motivi di politica interna, ma anche e soprattutto per stabilire una differenza qualitativa fondamentale tra lui e il suo temibile competitore d’oltr’Alpe, Aulo Vitellio. Poiché, se erano, in effetti, dei semplici usurpatori fortunati sia l’uno l’altro, la differenza, agli occhi dell’Impero tutto, doveva esser questa: che a un’orda provinciale, semibarbarica, incontrollabile, si contrapponevano il Senato e il popolo di Roma, le leggi, l’ordine e la civiltà. E fu per poter giocare questa importante carta che Salvie Otone, la sera del 15 gennaio, cercò in qualche modo di placare gli eccessi dei soldati inferociti.
Gli fu condotto il valoroso Mario Celso, già scampato fortunosamente alla morte presso il portico di Vipsanio, fedelissimo del defunto imperatore; Otone lo fece incatenare e così, sottrattolo senza averne l’aria alla furia dei soldati, gli salvò la vita.
4. INDIRIZZO DEL GOVERNO OTONIANO
Quella stessa terribile sera del 15 gennaio, mentre la confusione e il terrore imperversavano in città e un liberto acquistava a peso d’oro la testa di Galba, per gettarla sulla tomba del suo padrone da lui fatto uccidere, Otone fece il suo ingresso nella Curia. È da credere che fin dal primo annuncio della rivolta dei pretoriani il Senato fosse stato convocato d’urgenza, e forse inviò al Pretorio una delegazione che fu però travolta per via dalla cavalleria otoniana; questo almeno pare potersi desumere da un oscuro passo tacitiano. È facile immaginare l’incertezza, l’angoscia e la paura che erano piombate allora sull’antico consesso. Quegli stessi senatori, che appena un’ora prima si erano stupidamente vantati con Galba di portargli la testa di Otone, si erano adesso sprangati nell’aula della Curia aspettando di momento in momento che un soldato, più feroce o più ubriaco degli altri, si spingesse fin là dando inizio al massacro. E in realtà l’eccitazione degli animi doveva essere giunta davvero al parossismo, se è vero, come è vero, che più di centoventi petizioni caddero in mano di Otone, al termine della tragica giornata, richiedenti una qualche ricompensa per l’assassinio di Galba e dei suoi seguaci. Pareva infatti che ai pretoriani si fosse unita una parte del popolino, quella più nostalgica delle folli elargizioni e del clima di eterna festa instaurato da Nerone, più che mai stanca dell’austerità di Galba e speranzosa di trovare nel nuovo imperatore un Nerone redivivo, così come lo ricordava compagno di bagordi del figlio di Agrippina. Ma il Senato riuscì anche questa volta a superare indenne la burrasca, grazie ad un voltafaccia politico a dir poco sconcertante. Dopo che Otone ebbe lasciati liberi i soldati di nominare da sé i due nuovi prefetti del Pretorio, e acconsentito alla conferma di Flavio Sabino quale prefetto urbano, secondo la volontà di Nerone, questi convocò i senatori che tributarono al nuovo principe un’ovazione tanto entusiastica quanto servile e insincera. Ricevette le cariche di console, di censore, di Pontefice Massimo, la potestà tribunizia e il titolo di Augusto, che, a differenza di Vitellio, accettò senz’altro. La sua prima preoccupazione fu quella di rassicurare i senatori che il regno dell’ordine sarebbe al più presto stato restaurato e che in nulla sarebbero state sminuite le prerogative dell’augusto consesso. Tuttavia, bastava tender l’orecchio ai clamori del Foro per comprendere che a quelle parole non corrispondeva la realtà e che l’intera città era adesso in balìa delle prepotenze soldatesche. Otone, è vero, pensava in buona fede di riportare un po’ di calma, non appena gli animi esacerbati si fossero un poco acquietati, e in parte almeno bisogna riconoscere che vi sarebbe riuscito. Ma indipendentemente dal fatto che quella sera i soldati sfuggivano ad ogni ragionevole possibilità di controllo, mentre già l’indomani, forse, sarebbe stato possibile ristabilire un po’ di disciplina, era chiaro sin d’allora quale sarebbe stata la differenza fondamentale tra il regime di Galba e quello di Otone. Entrambi basati sulla forza militare dei pretoriani, entrambi formalmente ligi e rispettosi delle prerogative del Senato: ma mentre il primo era stato un compromesso senatorio-militare, questo sarebbe stato un compromesso militare-senatorio. Sotto Galba il Senato aveva goduto di una effimera restaurazione, utilizzando le coorti pretorie come puro strumento di potere; adesso erano queste ultime che reclamavano per sé la sostanza del potere, lasciandone al Senato le parvenze. E così come sotto Galba il Senato si era servito della forza materiale dell’esercito, così ora l’esercito intendeva puramente servirsi del prestigio giuridico e morale del Senato come di una garanzia di legittimità sia nei confronti del caduto regime, sia nei confronti della pericolosa minaccia vitelliana.
Veramente il compito di Otone era tutt’altro che facile, come subito si vide, per l’istintiva diffidenza dei soldati nei confronti del Senato e per la segreta ma irriducibile avversione di quest’ultimo all’arbitrio militaresco. È vero che una parte dei senatori, specialmente i vecchi amici di Nerone, e con loro buona parte del popolino aderivano sinceramente alla causa di Otone, al di là di un puro calcolo di momentanea convenienza; ma come conciliare la difficile convivenza tra un Senato diviso, insincero, pronto a darsi al vincitore del momento chiunque egli fosse, e pur tuttavia geloso dei privilegi che non poteva più far valere; e un esercito privilegiato, disadatto ormai alle fatiche di guerra e assuefatto ai dolci ozi di Roma, ma cosciente della propria forza nella capitale e deciso a farla valere su tutto e su tutti? E come fronteggiare, con forze tanto divise e segretamente discordi, una minaccia compatta e decisa, quale quella costituita dalle agguerrite legioni di Germania?
La posizione di Otone era ancor più delicata e incresciosa sul piano strettamente personale – un piano che a torto e con suo danno tanta parte della storiografia moderna tende a misconoscere come del tutto privo di incidenza sulla vita politica. Mentre infatti, circondato dai senatori plaudenti, il nuovo imperatore scrutava quei volti eccitati, entusiasti, non poteva non riconoscere coloro che fino al giorno innanzi lo avevano insultato e disprezzato, paragonato alla dissolutezza di Nerone, calunniato al cospetto di Galba. Pochi uomini a Roma, forse nessuno, erano a un tempo più amati e più odiati di lui. I pretoriani lo idolatravano, e molta parte del popolo lo amava sinceramente, tanto da applaudirlo, nel Foro, quella notte stessa, col nome di Nerone, ma il suo passato gaudente e burrascoso gli attirava lo sprezzo altero della nobiltà conservatrice, così come le circostanze sanguinose della sua ascesa al potere avevano acceso un segreto desiderio di vendetta negli amici di Galba.
Il problema di governo di Otone era naturalmente di duplice natura, e i due piani s’intrecciavano e si fondevano, condizionandosi a vicenda. Come si seppe subito dopo la morte di Galba, il movimento di Vitellio non comprendeva un paio di legioni appena, come il defunto imperatore aveva cercato di far credere, e non era nemmeno limitato agli eserciti di Germania, ma comprendeva la più parte ormai dell’occidente transalpino. Organizzare le difese, ciò che Galba aveva troppo a lungo differito, era il primo compito del nuovo governo, come pure avviare delle trattative con Vitellio nella speranza di indurlo a cedere pacificamente – se una simile speranza poteva mai esistere. Ma nella facile previsione che tali negoziati sarebbero falliti, il problema difensivo dell’Italia appariva chiaramente di natura non solo militare. Come poteva Otone pensar di avanzarsi a fronteggiare la minaccia, senza prima essersi assicurate le spalle? In altre parole: era prudente, era saggio lasciar Roma, muovere coi pretoriani verso la frontiera alpina, lasciando il Senato padrone dell’Urbe e di sfogare la propria avversione e insofferenza contro gli assassini di Galba? In secondo luogo: era pensabile di imbarcarsi in una campagna militare cosi pericolosa e difficile, così densa di rischi e incerta di prospettive, con un esercito che era non solo numericamente molto inferiore, ma anche irrimediabilmente minato dalle spirito di rivolta e dalla psicosi del tradimento delle truppe da parte dei propri ufficiali? Non avrebbe favorito questa indisciplina, questo zelo dei soldati nei confronti della persona di Otone, paradossalmente, i piani d’invasione dei generali di Vitellio?
Per quanto riguarda il primo aspetto del problema governativo, quello del rapporto tra pretoriani e Senato alla luce dell’avanzata vitelliana, Otone agì con innegabile abilità. Frenando l’eccitazione dei soldati, impedì che il massacro degli amici di Galba si estendesse alla massa dei senatori in quanto tali; chiese e ottenne la loro approvazione ad assumere il titolo imperiale; promise il rispetto delle leggi e delle prerogative senatorie; esortò i senatori a uno sforzo comune per la difesa della patria minacciata; evitò ogni polemica e si astenne, dopo i tragici fatti del 15 gennaio, dall’abbandonarsi alle vendette private, così da dare l’impressione di aver scordato completamente le mordaci calunnie cui era stato fatto oggetto nell’ambiente di Galba. In breve, rassicurò il Senato che nulla, almeno formalmente, sarebbe cambiato nel reggimento dell’Impero: chiese anzi la collaborazione della Curia, ostentando di volersi riallacciare alla tradizione augustea di collaborazione tra princeps e Senatus.
Un semplice colpo d’occhio era bastato, a Otone, la vigilia dell’irruzione vitelliana, per comprendere che tale collaborazione era necessaria, anzi vitale, alla sopravvivenza del proprio governo; che proprio qui egli poteva giocare il suo asso nella manica nella difficile partita, la garanzia di legalità che veniva a lui, di contro a Vitellio, dall’essere riconosciuto e fattivamente sostenuto dal Senato. Giacché quest’ultimo, lungo tutta la storia dell’Impero Romano da Giulio Cesare in poi, non aveva più né la forza, né, spesso, la volontà di mantenersi nella posizione di supremo garante della vita politica e giuridica dello Stato, e tuttavia continuava, per la forza tenace della tradizione, a essere considerato tale sia dal popolo, sia dagli stessi eserciti e imperatori che di fatto lo spogliavano di tale ruolo. Infatti se vi è, senza dubbio, della esagerazione nella tesi di Guglielmo Ferrerò, che cioè il Senato continuò a governare sino alla crisi del III secolo, talvolta nominando, talaltra ratificando gl’imperatori, è pur vero che esso continuò a rappresentare la continuità delle leggi e della tradizione anche agli occhi di quegli imperatori che, come Settimio Severo, più si adoperarono per infliggergli il colpo mortale. Nel caso di Otone, poi, il bisogno di sostegno fra potere militare e assemblea senatoria era almeno reciproco: perché se il primo aveva bisogno della legittima/ione del secondo per sostenere in condizioni di vantaggio politico l’urto con Vitellio, il secondo era legato a Otone dal timore delle violenze soldatesche, che potevano ad ogni istante ridestarsi, nonché dal terrore istintivo dell’avanzata degli eserciti provinciali, semibarbarici, che apparivano anche più incontrollabili delle prepotenti coorti pretoriane.
Certamente la nomina di Flavio Sabino a prefetto urbano fu, da parte di Otone, un colpo magistrale. In primo luogo, perché aveva lasciato libertà di scelta ai soldati, guadagnandosi ancor più la loro fiducia, mentre in effetti il loro candidato soddisfaceva pienamente anche lui. Poi perché Sabino, come fratello di Vespasiano, costituiva un’ottima carta da giocare nella partita contro Vitellio, in quanto gli procurava la simpatia e l’appoggio delle legioni di Palestina. Infine perché Sabino, personaggio gradito non solo ai soldati, ma anche a gran parte del popolo e del Senato, e personalmente alieno da ogni ambizione di potere, era l’uomo adatto da lasciare in Roma mentre Otone sarebbe andato coll’esercito incontro alle legioni del Reno. Restava un ostacolo ancora da superare, nei rapporti col Senato: il cadavere di Galba, la sua testa mozza portata in trionfo per le strade, tutti gli orrendi ricordi legati alla conquista del potere da parte del nuovo imperatore in quella notte di sangue. Otone cercò di rimuoverlo presentandosi alla Curia come lo strumento di un destino più grande di lui; sostenne che i soldati l’avevano forzato ad accettare quel potere, che ormai era sfuggito palesemente e per sempre dalle mani di Galba, e fece ricadere sugli errori politici di quest’ultimo la vera responsabilità di quanto era accaduto. Certo, ai senatori all’antica, ai vecchi amici di Galba, non poteva riuscire gradito il fatto che il nuovo imperatore si lasciasse salutare per la via col nome di Nerone, e che, di lì a poco, arrivasse al punto di firmare i rescritti imperiali come Otone-Nerone, anzi ciò doveva apparir loro come cosa di pessimo gusto e come rivendica/ione di un programma politico non certo rispettoso dell’autorità del Senato.
Tuttavia la giustificazione fornita da Otone sulla fine di Galba, in quanto scindeva le sue proprie responsabilità, e sia pure implicitamente, da quelle dei pretoriani, venne accettata, tanto più che con vero tatto e senso della misura il nuovo imperatore evitò di istituire un processo morale contro la memoria del suo infelice predecessore. Noi però possiamo facilmente immaginare l’imbarazzo politico, e non solo politico, di Otone, costretto a recitare contemporaneamente il ruolo di Nerone coi soldati e col popolino, di Galba redivivo con l’assemblea curule, e a toccare con mano le contraddizioni in cui si dibatteva il proprio governo, non troppo dissimili da quelle che avevano tratto Galba a rovina. Accettare il ruolo di un novello Nerone, poi, se era politicamente opportuno nei confronti dei pretoriani, sempre legati al ricordo di quel principe, e del popolino, più che mai desideroso di frumentazioni e di feste, era indubbiamente penoso per lui sul piano personale. Nerone, che gli aveva tolta la bellissima e amatissima Poppea Sabina; che aveva spezzato la sua carriera e la sua privata felicità, esiliandolo per dieci anni da Roma; Nerone, il vecchio compagno di gozzoviglie, contro il quale pure era insorto fra i primi, mettendo le proprie forze e le proprie sostanze al servizio della causa di Galba; Nerone lo perseguitava anche adesso, a sette mesi dalla sua morte, imponendogli quella incredibile e fastidiosa finzione. Pure, l’Otone ritornato dalla Lusitania, dopo dieci anni d’assenza, era un uomo nuovo, come presto i suoi concittadini avrebbero veduto, affatto diverso dal giovane debosciato che aveva gareggiato con Petronio quale arbiter elegantiarum in mezzo alla dorata gioventù romana. Torneremo più avanti su questo cambiamento; è certo, comunque, che se di Nerone accettava adesso, per motivi di convenienza politica, di ostentare il nome, non era però una semplice riedizione del passato regime quella che offriva adesso ai Romani; era un Nerone ben diverso dall’antico, rafforzato, come disse il Barbagallo, sia pure adoperando toni un po’ troppo patetici, e purificato dal dolore.
L’altro grande problema politico di Otone, quello della disciplina militare minata dal clima di sospetto dei soldati verso i propri ufficiali, l’imperatore ben comprese che l’unica maniera di risolverlo era quella di assicurarsi la fedeltà dei centurioni e dei tribuni. Già essi dovevano essere rimasti a dir poco contrariati dal contegno assunto dai soldati semplici verso di loro fin dall’inizio, quando li avevano allontanati, nella caserma pretoria, dalla tribuna di Otone; e dal fatto che quest’ultimo aveva concesso loro libertà di scegliersi i due nuovi prefetti passando sopra al parere di graduati e ufficiali. Otone, che aveva dovuto servirsi, nel primo furore dell’insurrezione, di mezzi politici largamente demagogici, ma che non era uno sprovveduto, comprese che non avrebbe mai potuto fondare il proprio potere, e tanto meno affrontare il cimento con Vitellio, con un esercito disorganizzato e privo di comando.
Con una mossa estremamente abile riuscì allora a raggiungere un duplice obiettivo: esentò i soldati semplici dal pagamento ai centurioni delle esenzioni dal servizio, allora frequentissime, e al tempo stesso si assunse di sostenere il pagamento di tali esenzioni di propria tasca. Poté quindi accrescere la propria popolarità fra le truppe senza contrariare la classe degli ufficiali inferiori, della cui leale collaborazione aveva pure estremo bisogno; ed essi apprezzarono il suo gesto, tanto è vero che da allora in poi divenne consuetudine che l’imperatore provvedesse con la sua cassa personale al pagamento delle esenzioni. Era e restava, comunque, una politica arrischiata e demagogica, tale da istituzionalizzare il decadimento professionale e morale dei pretoriani. Liberi dal servizio attivo, già così poco gravoso a paragone di quello dei legionari, essi potevano vagabondare per la metropoli abbandonandosi all’ozio e alle dissolutezze, così da ridurre ulteriormente le loro già limitate capacità combattive. E tuttavia, proprio il fatto che tale demagogico provvedimento di Otone venisse confermato dai suoi più stimati successori, che a parole bollarono la memoria del suo regno coi peggiori epiteti di corruzione e anarchia, dimostra che la posizione di forza, acquistata in Roma dai pretoriani, era divenuta ormai una realtà definitiva e un diritto acquisito, che si poteva in teoria deprecare, ma che non si aveva la capacità o la volontà di ridimensionare.
La posizione privilegiata delle coorti pretorie, che durante il breve regno di Otone raggiunse il culmine, ma che si mantenne in seguito per molto tempo ancora, sta in esatto parallelo con quella della plebe urbana, piaggiata da Nerone senza limiti con gli spettacoli, le distribuzioni di generi alimentari, e la politica delle terme pubbliche, assolutamente antieconomica, tutte cose però mantenute e perfino aumentate dagli imperatori successivi, mano a mano che il principato si trasformava in una monarchia militare sempre più assolutista. È chiaro che il ritorno a tali mezzi politici, nei confronti tanto dell’elemento militare che di quello popolare, dopo l’avversata parentesi di austerità galbiana, poteva creare l’illusione di una ripresa del regime neroniano dopo quello che, per la sua brevità e impopolarità, era sembrato a molti un semplice incidente.
5. IL RAPPORTO TRA CAPITALE E PROVINCE
Ma appunto durante il regno di Nerone erano andate maturando quelle contraddizioni, nella vita politica del vasto Impero, che avevano tanto contribuito alla sua caduta e che adesso si ripresentavano, accresciute e divenute pressanti, al nuovo governo di Otone. La rivoluzionaria novità, che un imperatore poteva essere proclamato anche lungi da Roma era stata insegnata da Galba, il quale tuttavia non ne aveva inteso le profonde implicazioni e aveva creduto di poter riportare tutta l’attività politica dell’Impero nella sola Roma, e più particolarmente in seno alla Curia, come se la caduta di Nerone e la sua stessa venuta vittoriosa dalla Spagna fossero una realtà che si poteva adesso cancellare, senza che ne rimanesse traccia alcuna. Questo fu un grossolano errore di ordine politico. Se le province occidentali, la Gallia e la Spagna, erano insorte contro Nerone, ciò non era stato sol per rivendicare l’autorità calpestata e offesa del Senato dal folle imperatore; questo diceva bensì a parole Giulio Vindice, ma altra e più profonda era la realtà dei fatti. Ed essa era questa, che le province, e in modo particolare gli eserciti provinciali, si erano stancati di esser considerati dal governo centrale alla stregua di colonie, e aspiravano, pur restando nell’ambito dell’Impero e delle leggi di Roma, a svolge anch’esse un ruolo più attivo nel complesso della vita statale. Ma poiché il movimento di Vindice era stato pel momento schiacciato, e la sua stessa legione spagnola era troppo debole per avanzare rivendicazioni, Galba si era illuso che dopo gli sconvolgimenti che avevano accompagnato la caduta di Nerone, tutto fosse tornato come prima. La risposta alla sua miopia politica era venuta da Vitellio, a capo degli eserciti germanici, indi dagli stessi pretoriani, gelosi del potere che il Sena aveva riacquistato.
Erede di questa complessa situazione Otone, che era stato portato al successo dall’ondata risentimento dei pretoriani, si ritrovò subito sulle braccia pressante problema germanico. Più acuto osservatore del realtà politica che Galba non fosse stato, Otone intuì il malcontento latente e le cause profonde di malessere de province, e il fatto che tali forze, sino ad ora sotterranee, nel venire alla ribalta della storia, si erano occasionalmente coagulate intorno alla figura, di per sé insignificante, di Aulo Vitellio. La sua politica generale nei confronti delle province, cui tra poco faremo cenno, dimostra una sua maggiore sensibilità, rispetto al predecessore, verso le aspirazioni di maggior emancipazione di una parte di esse. Ma il dato fatto, del quale Otone doveva tener sempre conto e che costituiva, anzi, il suo punto di partenza politico, era che egli andava debitore dell’Impero alle coorti pretorie e, in misura minore, al favore del popolino della capitale: interessi municipali, dunque, diversi da quelli che avevano costituto il nerbo della forza di Galba, ma quanto quelli ristretti ed egoistici, gelosi di ogni intromissione delle legioni e delle province nella vita politica. La base del partito di Otone rimaneva insomma la città di Roma e, secondariamente, l’Italia, dalla quale per antico privilegio si traevano le leve dei pretoriani e che di conseguenza guardava con orgoglio e sufficienza tanto il proletariato militare, ossia i rozzi legionari «semibarbari» di Gallia, Germania, Pannonia; sia le province in generale, le cui aspirazioni di promozione sociale e politica nei confronti della Penisola e della capitale erano guardate con sospetto e avversione.
L’Impero Romano era giunto in quel delicatissimo momento della propria storia, in cui non solo il potere politico non coincideva più, come al tempo della Repubblica, con quello militare; ma in cui perfino tra il dominante potere militare s’era aperta una larga breccia tra potere nominale e potere effettivo. Il potere nominale era in Italia, a Roma, e più precisamente nei castra praetoria che, essendo la base militare di gran lunga più vicina al Senato e al palatium. pretendevano di esercitare un vero e proprio protettorato sull’Impero: così avevano fatto dal tempo di Caligola fino all’ascesa di Otone, passando per la proclamazione di Claudio e la caduta di Nerone. Ma adesso, di contro alle loro pretese, si levavano gli eserciti provinciali, finalmente coscienti della propria forza e decisi a contrastare ai pretoriani, che odiavano per i loro privilegi e detestavano per la loro mollezza, la nomina dell’imperatore. Nel caso di Vitellio, gli eserciti provinciali avevano addirittura preso sul tempo i pretoriani: quando infatti questi ultimi si resero conto che Galba non serviva i loro interessi e lo rovesciarono, sostituendolo con Otone, Vitellio aveva già avuto il vantaggio della prima mossa e stava spingendo i suoi eserciti sull’Italia.
Ne scaturì una situazione per molti versi singolare: i legionari si erano mossi per spazzare un nemico, il regime monarchico senatorio-conservatore, che più non esisteva; esso era stato rimpiazzato dal nuovo regime pretoriano neo-neroniano, anch’esso però espressione di forze anacronistiche. e votato alla sconfitta. Con profonda ragione ha scritto il Mommsen che la storia non riconosce agl’inermi il diritto di comandare: e tale era adesso la situazione dei pretoriani, dopo esserlo stata del Senato. I privilegi di cui andavano tanto fiere Roma e l’Italia nella vita dell’Impero non solo erano in ritardo sui tempi; ma non riposavano più nemmeno su di una forza materiale effettiva: superati sul piane economico, erano dunque anche insostenibili su quella militare. Il governo di Vespasiano avrebbe saputo trarre le logiche conseguenze di tale stato di cose, stabilendo la fine di molti privilegi della Penisola e avviando il caratteristico cosmopolitismo del medio Impero.
È interessante notare come la crisi imperiale del 68-69 troverà esatta rispondenza in quella del 192-93, dopo l’assassinio di Còmmodo. Anche allora, il crollo di una lunga dinastia aprì il varco allo scatenarsi della lotta politica: anche allora i pretoriani, col loro candidato Didio Giuliano, arrivarono per primi ad afferrare il supremo potere, ma dovettero cederlo al più veloce degli eserciti provinciali a piombare sull’Italia – quello di Settimio Severo; e anche allora, infine, una guerra civile di vaste proporzioni divise le varie province, manifestando alcuni tratti assolutamente analoghi, quali l’odio del proletariato militare semibarbaro nei confronti delle città, identificate come la roccaforte del predominio italico e delle sperequazioni economiche e sociali: il destino di Lione o di Bisanzio fu l’esatta ripetizione di quello che già era stato di Cremona e di Roma stessa. Infine, anche nella crisi del 192-93 la vittoria finale rimase non alle legioni transalpine occidentali, ma quelle illiriche e pannoniche, il che aprì la strada all’irruzione culturale greco-asiatica nella vita politica e morale dell’Impero e alla concomitante decadenza dell’elemento latino originario. Punto d’approdo di tale lento processo storico sarà, nel 326 d. C, la fondazione di Costantinopoli ad opera di Costantino il Grande e il trasferimento dal Tevere al Bosforo del cuore politico-militare dello Stato.
6. EVOLVERSI DELLA SITUAZIONE POLITICO-MILITARE
A prima vista, si sarebbe potuto credere che la situazione di Otone fosse vantaggiosa e più favorevole di quella rivale germanico. La più gran parte dell’Impero, le province più ricche, le città più famose si erano schierate dalla sua parte, non tanto, osserva forse giustamente Tacito, per una predilezione nei suoi confronti, quanto per il prestigio che gli derivava dall’avere Roma e il Senato dalla propria parte. In Giudea, ove le tre legioni impegnate nella dura guerra contro gli Ebrei stavano stringendo d’assedio Gerusalemme, il loro comandante Tito Flavio Vespasiano aveva fatto giurar loro fedeltà davanti alle immagini di Otone. Lo stesso avevano fatto Licinio Muciano con le legioni di Siria e Tiberio Alessandro con quelle d’Egitto. Anche l’Africa aveva abbracciato la causa di Otone, sollevando l’Urbe dallo spettro della fame, che già per un attimo era balenato al momento del tentativo di Clodio Macro contro Galba. Le due maggiori province granarie dell’Impero, l’Africa Proconsolare e l’Egitto, erano dunque aperte al traffico marittimo con Ostia e Pozzuoli e ciò rimuoveva il pericolo di sommosse del popolino ormai abituato alla consuetudine delle pubbliche distribuzioni di grano. Così pure la Spagna, antica roccaforte di Galba, e l’Aquitania parevano fedeli a Otone. Ma l’adesione più importante al nuovo imperatore venne dalle legioni della Dalmazia, della Pannonia e della Mesia, che per valore e disciplina erano in grado di battersi alla pari con quelle germaniche e per vicinanza geografica al teatro d’operazioni sarebbero state in grado di intervenire nella lotta assai prima delle lontane legioni d’Asia e d’Egitto.
Questo quadro d’insieme, all’apparenza così rassicurante, era in realtà molto meno favorevole a Otone che non paresse. Poiché le legioni di Vitellio si erano già messe in movimento ai primi di gennaio verso l’Italia, era evidente che la contesa fra i due imperatori si sarebbe risolta in una gara di velocità fra le loro rispettive armate. E in questa gara le legioni del Reno, forti del vantaggio della prima mossa, compatte, agguerrite, comandate da abili generali, nonché molto più numerose delle forze dislocate in Italia, partivano chiaramente avvantaggiate. Un altro fattore di superiorità solo apparente del partito di Otone era la passività e la lontananza delle legioni d’Oriente. Non era pensabile di trarre anche un sol uomo dagli eserciti della Palestina, duramente impegnati
contro i Giudei, anche se il loro comandante Vespasiano doveva essere personalmente ben disposto verso il governo di Otone a motivo dell’alta carica confermata al fratello. Quanto alle truppe di Siria e d’Egitto, esse avevano giurato fedeltà a Otone di lontano, senza particolare trasporto, anzi forse segretamente irritate dal fatto che in Occidente – a Roma, in Spagna, in Germania – le legioni e i pretoriani continuavano a fare e disfare imperatori senza minimamente consultarle. In secondo luogo, spostare queste truppe dall’Oriente in Italia, nei porti di Brindisi, Siracusa, Pozzuoli. Ostia, avrebbe richiesto un tempo considerevole, specie considerando che si era in piena stagione invernale e che di conseguenza i trasporti marittimi nel Mediterraneo erano completamente interrotti, a eccezione del cabotaggio. Sempre a causa della stagione avversa appariva del pari difficile spostare le legioni di Muciano dal caldo della Siria e dalle delizie di Antiochia attraverso i passi del Tauro coperti di neve e di ghiaccio.
Venendo alla situazione in Occidente, nella seconda metà di gennaio gli Otoniani dovettero assistere a tutta una serie di amare sorprese. Quando era partito per assumere il potere a Roma, Galba aveva nominato legato della Spagna Tarraconense Cluvio Rufo, il quale, saputa la notizia della fine del suo benefattore, dopo qualche oscillazione passò con le sue forze al partito di Vitellio. Similmente l’Aquitania e la stessa provincia Narbonense, a ridosso della frontiera d’Italia, avevano giurato fedeltà all’imperatore germanico, certo influenzate anche dal minaccioso approssimarsi dell’esercito di Fabio Valente. La Rezia, spinta forse, come si vedrà, dalla speranza di bottino a danno dei vicini Elvezi, prese anch’essa le armi contro il partito di Otone. Perfino la Corsica, a un dato momento, parve sul punto di passare dalla parte di Vitellio, il che fu evitato all’ultimo momento mediante un breve ma violento conflitto interno. In conclusione tutto l’Occidente transalpino, dalla Britannia alla Spagna e dalla Rezia all’Aquitania, entro la fine di gennaio aveva preso le armi a favore del partito vitelliano, salvo eccezioni isolate, come quella degli Elvezi: Otone, dunque, fin dall’inizio della partita sapeva di non poter contare su di un solo alleato al di là delle Alpi, per ritardare la marcia di Cecina e Valente e dar tempo alle legioni del Danubio di affrettarsi in Italia. Giacché su di esse ormai, come era chiaro a tutti, si appuntavano le principali speranze degli amici del partito otoniano: troppo deboli le forze della Penisola, troppo lontane quelle d’Oriente, la più realistica speranza di contenere e sconfiggere le legioni del Reno veniva necessariamente da quelle danubiane, cui Otone aveva fissato come punto di concentramento al di qua delle Alpi la colonia di Aquileia.
Naturalmente il nodo della situazione strategica era, per Otone, riuscire a trattenere le armate di Cecina e di Valente fino al sopraggiungere dei grossi delle legioni pannoniche e mesiche, compito che la conformazione delle frontiere settentrionali d’Italia, sbarrate dalla formidabile catena alpina, e le nevi invernali, sembravano facilitare. Ma una serie di circostanze sfortunate impedì a Otone di bloccare i passi alpini anche solo con forze di copertura, là dove la natura del terreno avrebbe consentito di trattenere a lungo un nemico numericamente assai superiore. La prima era da attribuirsi, come abbiamo visto, all’imprevidenza di Galba, che aveva sprecato quasi due settimane senza far nulla di concreto per fronteggiare la minaccia sul piano militare. Poi c’era il fatto che il nerbo delle scarse forze otoniane, ossia le coorti pretoriane e quelle urbane, essendo concentrate a Roma erano in effetti più lontane dai valichi alpini che non le legioni di Cecina, già in movimento e a ridosso del paese degli Elvezi. Connessa con questa era la circostanza che Otone non poteva spedire subito le proprie forze al nord, lasciando sguarnita Roma e liberi di tramare i suoi segreti oppositori, senza prima aver consolidato la propria posizione ed essersi assicurato la lealtà del Senato. E infine un evento catastrofico, ma inatteso, del quale non conosciamo neppure l’esatta cronologia: il passaggio a Vitellio della cavalleria cosiddetta siliana. Si trattava di un contingente di cavalleria reclutato fra le truppe di Germania e che, al pari di quella coorte germanica accampata a Roma che fu coinvolta nel colpo di Stato di Otone, Nerone aveva avviata verso l’Egitto per la progettata campagna contro gli Etiopi, e poi, alla notizia della rivolta di Vindice, chiamata indietro in Italia e attualmente stanziata nella valle del Po.
Questi cavalleggeri non nutrivano particolare nostalgia per il ricordo di Galba, ma poiché erano stati alle dirette dipendenze di Vitellio al tempo in cui questi era proconsole d’Africa, e ne avevano riportata un’impressione favorevole, all’avvicinarsi delle legioni di Cecina da oltre le Alpi si ribellarono improvvisamente e giurarono fedeltà a Vitellio. Poiché l’Italia settentrionale era sguarnita di altre forze militari, essi s’impadronirono senza colpo ferire di Milano, Vercelli. Novara ed Ivrea (Eporedia) e si affrettarono ad inviare messaggeri ad Alieno Cecina, informandolo della nuova situazione creatasi a mezzodì delle Alpi e invitandolo a sfruttare sollecitamente l’ampia e sicura testa di ponte ch’essi gli offrivano, rimuovendo ogni minaccia di una resistenza otoniana sul difficile terreno dei monti. Così, nel giro di poche settimane dalla sua ascesa al potere, Otone doveva constatare il brusco peggiorare della propria situazione strategica. La ricca pianura della Cisalpina a nord del Po e a ovest dell’Adda, che già allora Tacito descrive come la più ferace provincia d’Italia, era caduta senza lotta e d’un sol colpo nelle mani del partito avversario, annullando ogni speranza di ritardare lo sbocco di Cecina e Valente dai monti e di guadagnare così del tempo prezioso, sino all’arrivo delle legioni danubiane.
Se l’esito della guerra dipendeva dalla rapidità di mosse dei contendenti, a questo punto l’ago della bilancia si era già rovesciato a favore di Vitellio. Bruciato sul tempo nella corsa alle Alpi, minacciato perfino sulla linea del Po, con Roma e le retrovie pericolosamente poco sicure, lontano dalle sue forze principali, Otone andava incontro a una battaglia disperata. Era evidente che la prospettiva più sicura era, per lui, evitare il più a lungo possibile lo scontro e cercar di guadagnare tempo. Ma era questa strategia possibile, allorché si trattava di lasciare in balìa del nemico non già una lontana ed oscura provincia, ma l’Italia stessa, cuore politico e morale dell’Impero?
7. AZIONE POLITICA DI OTONE
Come si è visto, Otone, dapprima per iniziativa del popolino e con sua personale sorpresa, indi seguendo un calcolo ben preciso di natura politica, non aveva esitato ad assumere il ruolo di continuatore del regime neroniano. Dopo aver permesso alla folla di salutarlo col nome di Nerone, ed essersi poi in tal modo firmato anche nei documenti ufficiali, era giunto al punto di far rialzare le abbattute statue di Nerone e perfino di Poppea in vari luoghi dell’Impero. Inoltre uno dei suoi primi atti di governo fu quello di stanziare una forte somma di denaro pubblico per ultimare la costruzione della grandiosa Domus Aurea, la dispendiosissima e volgarissima costruzione iniziata da Nerone sul colle Palatino e da lui lasciata incompiuta. Venne poi la volta di Ofonio Tigellino, l’ex prefetto del pretorio di Nerone, che dopo aver terrorizzato Roma con la sua crudeltà e perfidia, aveva abbandonato il suo benefattore nel momento del pericolo provocandone la fine ingloriosa. Il popolo dell’Urbe ne chiedeva a gran voce la condanna e Otone si affrettò a secondarlo – e a far cosa gradita al Senato – inviando a Tigellino, che si trovava ai bagni di Sinuessa in Campania, l’ordine di uccidersi: ciò che l’ex prefetto fece, nel più puro stile petroniano, banchettando e bevendo, non senza aver prima cercato di eludere l’inevitabile fine.
È chiaro che i provvedimenti filo-neroniani intrapresi da Otone avevano la doppia mira di accattivarsi le simpatie del popolino di Roma da un lato e delle province orientali – ove il ricordo di Nerone era tuttora vivissimo – dall’altro. D’altra parte, per non irritare troppo la fazione conservatrice del Senato con una esaltazione troppo sfacciata del regime neroniano, Otone si preoccupò di restituire le sostanze ad alcuni senatori già colpiti da confische sotto il passato governo, e ne onorò altri con cariche pubbliche.
Nei confronti delle province adottò una politica estremamente liberale, per non dire demagogica, moltiplicando concessioni e privilegi nel brevissimo arco del suo principato
e atteggiandosi quasi a continuatore della politica provinciale di Augusto. Aggregò alla provincia Betica alcuni distretti della Mauretania Tingitana; concesse un ampliamento dei nuclei familiari a Hispalis (Siviglia) ed Emerita (Mèrida); elargì all’Africa e alla Cappadocia nuovi privilegi. Tentò perfino di accattivarsi qualche simpatia fra le legioni germaniche coll’offrire il consolato a Verginio Rufo, il vincitore di Vindice, ma senza alcun effetto. Intanto avviava febbrili iniziative per cercar di bloccare con mezzi diplomatici l’avanzata inesorabile degli eserciti vitelliani. Per prima cosa scrisse direttamente a Vitellio, nella vana speranza di indurlo a rinunciare al potere e offrendogli in cambio uno splendido ritiro dove avesse voluto, per trascorrervi indisturbato una tranquilla vita privata. Tanto Plutarco che Svetonio arrivano a dire che Otone avrebbe offerto a Vitellio perfino di associarlo nell’Impero e di farlo proprio genero, il che, francamente, appare poco credibile. In ogni caso non una sola lettera Otone scrisse al rivale, ma parecchie (scrive Tacito: infectae epistulae), e questo dimostra se non altro che egli non aveva compreso essere Vitellio poco più che lo strumento di una sfrenata volontà di dominio delle legioni germaniche, fin dall’inizio condizionato nelle sue scelte dall’ambizione dei generali e dalle passioni dei soldati. La logica risposta di Vitellio alle lettere di Otone fu una serie di controproposte, nelle quali egli offriva al rivale tutto ciò che questi era pronto a offrire a lui, con cortesia ostentata all’inizio, poi scambiandosi reciproci rimproveri e accuse. Esaurite rapidamente le prospettive di addivenire a una soluzione incruenta della contesa, cercavano almeno di scaricarsi reciprocamente la responsabilità delle conseguenze, come sempre fanno a scopo propagandistico i governi quando parlano di pace già in cuor loro ben decisi alla guerra.
Otone aveva, è vero, degli ostaggi formidabili nelle proprie mani: la madre, la moglie e i figli del rivale, che vivevano a Roma e che erano stati colà sorpresi dal precipitare della situazione. Non ne approfittò tuttavia in alcun modo, lasciando assolutamente indisturbati i parenti di Vitellio, vuoi per la sua naturale ripugnanza a infierire contro degli inermi, vuoi per non esporre i propri parenti, in caso di sconfitta, alle vendette del rivale. Un estremo tentativo fu quello di inviare degli ambasciatori in Gallia, incontro all’esercito di Valente, dopo aver richiamato quelli già spediti da Galba: ma ancora senza successo. I legionari germanici ardevano dal desiderio di battersi, galvanizzati com’erano dalla prospettiva di una facile e rapida vittoria. Gli ambasciatori otoniani parte furono rimandati, parte furono trattenuti o forse, com’è più probabile, scelsero di restare presso il favorito della guerra imminente; dopo di che ogni trattativa diplomatica venne definitivamente abbandonata.
La parola toccava adesso alle armi.
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