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26 Settembre 2007Presentiamo il quarto capitolo del libro di Francesco Lamendola «Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d. C. », Poggibonsi (Siena), Antonio Lalli Editore, 1984, pp. 69-103. L’opera è da tempo esaurita ma un numero limitato di copie può essere richiesta direttamente all’Autore.
I n d i c e
L’INVASIONE DELL’ITALIA
PARTENZA DI OTONE DA ROMA
LA FASE INIZIALE DELLA GUERRA
LA BATTAGLIA DI BEDRIACO
LA FINE DI OTONE
L’INVASIONE DELL’ITALIA
Come si ricorderà (cfr. il nostro articolo Insurrezione di Vitellio contro Galba, § 4: Preparazione della marcia su Roma), le due armate di Fabio Valente e di Alieno Cecina s’erano messe in movimento verso sud fin dai primi giorni di gennaio, subito dopo la proclamazione di Vitellio, imponendo alla guerra un corso ancor più rapido e deciso di quanto lo stesso imperatore germanico sembrasse desiderare. L’esercito di Valente, forte di circa 40.000 uomini, s’era avviato dalla Germania Inferiore, traverso la Gallia Belgica, verso sud-ovest, con l’obiettivo di assicurare strada facendo il completo dominio di quei paesi ed irrompere in Italia per le Alpi Cozie. Quello di Cecina, composto da circa 30 mila effettivi, discendeva invece direttamente dagli accam-pamenti invernali nella Germania Superiore verso la Rezia, per entrare nella Penisola attraverso le Alpi Pennine. Giova ricordare che sia l’uno che l’altro non erano formati dalle legioni germaniche complete, ma da reparti scelti di esse, distaccamenti di cavalleria e unità ausiliarie; erano dunque stati concepiti per una avanzata rapida, con equipaggiamenti leggeri, e risultavano composti per buona parte da truppe di nazionalità germanica.
La marcia dell’esercito di Valente attraverso le terre della Gallia fu, per usare l’espressione in altro luogo adoperata da Erodiano, odiosa e terribile. Essa era iniziata in un clima di generale ottimismo ed entusiasmo, poiché i primi cantoni gallici interessati dall’avanzata erano quelli dei Treveri, alleati di vecchia data dei Romani e recenti compagni di lotta dei legionari contro l’insurrezione di Vindice. Amichevole fu quindi l’accoglienza delle popolazioni ai soldati di Valente, anzi addirittura festosa; eppure, giunte le truppe a Divoduro (Metz), assalite da un furore improvviso si gettarono sugl’inermi abitanti massacrando tutti senza distinzione, nonostante le suppliche dello stesso Valente, che invano cercava di ricondurle all’umanità e alla ragione. Quando finalmente si stancarono di strage e si rimisero in marcia, lasciavano alle loro spalle i corpi senza vita di 4.000 fra uomini, donne e bambini. Questo esordio della marcia dell’esercito vitelliano produsse, com’è naturale, un’ondata di autentico panico in tutta la Gallia e anziché placare, accrebbe a dismisura l’anarchia e il selvaggio furore dei soldati.
Si tracciavano così, fin dalle prime battute, alcuni tratti caratteristici della guerra civile fra otoniani e vitelliani, non mai smentiti sino al termine di essa. Primo, l’assoluta indisciplina degli eserciti d’ambo le parti, l’impotenza degli ufficiali, sia inferiori che superiori, a controllare la situazione – e questo perfino in delicati frangenti di carattere tattico-strategico, come si sarebbe visto più avanti. Secondo, la propensione dei due avversari di trattare i paesi attraversati, anche se alleati, come nemici e come terra di conquista: agli orrori commessi dai vitelliani in Gallia faranno riscontro quelli degli otoniani in Liguria; e Vitelliani e Flaviani, dopo la sanguinosissima battaglia di Cremona, si uniranno nel saccheggio spieiato della città. Terzo, il carattere culturale e in parte anche etnico delle armate vitelliane, più-germanico che romano (così come Vitellio stesso aveva rifiutato il titolo di Cesare e quello di Augusto, ma aveva accettato quello di Germanico), tale da conferire una particolare fisionomia vagamente barbarica alla loro marcia su Roma, oggetto di particolare terrore fra i Galli e gl’Italici e, naturalmente, argomento di attiva propaganda antivitelliana nelle mani di Otone.
Ripresa la marcia senza fretta, Valente era giunto nei dintorni di Tullum (Toul) quando seppe della fine di Galba e della proclamazione di Otone da parte dei pretoriani. Più che mai decisi alla guerra, i suoi soldati accolsero la notizia con assoluta indifferenza e non aspettarono nemmeno di ricevere da Colonia eventuali nuove istruzioni. Passati nel territorio degli Edui (capitale Augustodonum, l’odierna Autun), ricevettero spontaneamente denaro, armi e vettovaglie dalle popolazioni, ansiose di far dimenticare la propria partecipazione alla rivolta di Vindice. Scoppiarono frattanto alcuni incidenti fra legionari romani ed ausiliari batavi, che obbligarono Valente a prender provvedimenti per ristabilire un minimo di disciplina fra questi ultimi. Quando l’armata entrò in Lione, essa fu accolta con particolare entusiasmo dalla popolazione e ricevette l’adesione della legione Italica e del corpo di cavalleria detta tauriana. Durante la guerra di Giulio Vindice i Lionesi avevano patteggiato per Verginio Rufo mentre gli abitanti della vicina Vienna (Vienne), sull’opposta riva del Rodano, avevano preso le armi a favore dei Galli e si erano spinti fino ad assediar Lione, per la qual cosa Galba aveva premiato poi questi ultimi e punito con provvedimenti fiscali i Lionesi. Adesso costoro, frementi di sdegno e da tempo gelosi della prosperità della colonia rivale, con discorsi infiammati esasperavano il furore dei Vitelliani contro i Viennesi, ricordando loro che essi avevano parteggiato sia per Vindice che per Galba, due nomi egualmente odiosi ai legionari, e allettandoli con la descrizione delle ricchezze di quella città. I soldati di Valente, già avvezzi a commettere ogni sorta di soprusi e naturalmente inclini alla ferocia, si sarebbero perciò abbandonati a una strage se il loro comandante, dopo aver estorto segretamente un lauto riscatto ai Viennesi, non avesse distribuito trecento sesterzi a ciascun soldato per ridurli a più miti consigli. La popolazione di Vienne, atterrita, uscì incontro all’esercito e uomini e donne si gettarono a terra abbracciando le ginocchia dei legionari; solo così l’esercito, dopo aver requisito armi e vettovaglie, ammansito, avanzò oltre risparmiando alla città il saccheggio.
Di lì, traverso gli odierni Delfinato e Provenza, sempre minacciando, taglieggiando e atterrendo, con lunghe tappe e senza fretta l’armata di Valente arrivò sul confine delle Alpi Cozie. Il valico dei monti fu effettuato per il passo del Monginevro, con l’unico ostacolo della neve e, nelle retrovie, qualche inefficace tentativo di una flotta otoniana mandata, come vedremo, sulle coste della Provenza a disturbare il transito dei Vitelliani.
Se la marcia dell’armata di Valente attraverso la Gallia era stata caratterizzata da violenze gratuite e atrocità a danno delle popolazioni, quella dell’esercito di Cecina fu tale da superarla in furore barbarico. Giunto sui confini del paese degli Elvezi, esso ebbe un primo incidente con quel popolo, un tempo famoso per le sue gesta guerriere, e che non sapendo ancora della morte di Galba rifiutava di riconoscere Vitellio.
Cecina, invece di cercar di placare gli animi già eccitati de suoi soldati, ordinò una rappresaglia spietata. Incendiate le città, massacrati o fatti schiavi gli abitanti, i soldati giunsero a inseguire i fuggiaschi che avevano cercato scampo sulle cime del Giura, braccarli e sterminarli. Subito dopo, spintosi ai piedi delle Alpi Pennine, l’esercito venne raggiunto da messaggeri della cavalleria siliana che annunciavano l’occupazione di Milano e delle altre città cisalpine e lo invitavano ad affrettarsi oltre i monti. Cecina rimase per un attimo esitante, poiché se le truppe della Rezia lo avevano aiutato a schiacciare gli Elvezi, assalendoli alle spalle, il procuratore Urbico del Norico aveva assunto un atteggiamento ostile. Poi però, rinunciando a perder tempo contro un obiettivo secondario, il generale avviò le truppe leggere attraverso valico del Gran San Bernardo e tenne loro dietro col grosso dell’esercito. Anche qui non vi fu alcuna resistenza da parte degli otoniani e l’intera armata di Valente poté scende indisturbata nella Pianura Padana.
Le chiavi dell’Italia erano quindi in mano ai vitelliani e, con ciò, la via era aperta anche al terzo e più formidabile esercito invasore, quello che stesso Vitellio, lassù sulle rive del Reno, stava radunando fra grandi preparativi.
- PARTENZA DI OTONE DA ROMA
II forzamento della barriera alpina da parte di Cecina Valente, benché condotto con abilità e tempismo, era st quasi privo di rischi perché del tutto incontrastato. > avendo potuto impedire al nemico lo sbocco dai monti, Oti intendeva almeno contenerlo sulla linea del Po, per cui affn la propria partenza da Roma. Sul Danubio una massii incursione di Roxolani era stata ricacciata con grande sti dei barbari dal governatore della Mesia, Marco Aponio dalla terza legione, e nonostante l’incidente gli eserciti Balcani si erano già messi in movimento alla volta dell’Italia. Otone sperava dunque di poter ritardare con le sue modeste forze l’avanzata nemica fino a quando quelle legioni fossero
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash