
«Che cosa hai fatto nella tua vita che ti sembri sufficiente?»
15 Settembre 2007
Dal desiderio alla nostalgia alla speranza, le tappe del ritorno all’essere
17 Settembre 2007Che cosa accade quando la coscienza riceve un vulnus, una ferita, che sconvolge il suo orizzonte esistenziale e sovverte il suo sistema valoriale? Intendiamo parlare di una ferita profonda, dolorosa, che arriva dritta al cuore più riposto di essa e ne offusca, intorbidendolo, lo sguardo, sì da sprofondarla in una densa caligine che offusca i colori naturali delle cose, delle persone, delle situazioni; e il mondo intero, di colpo, pare mutato, pare diventato un altro mondo. Si è verificato qualche cosa di traumatico, che appare irreparabile: nulla è più come prima, anche se la superficie delle cose si direbbe ancora la stessa di sempre.
Si dirà che la prima distinzione da fare, per comprendere il dramma della coscienza ferita e il significato delle strategie che essa mette in opera per cercare di medicarsi, è tra la ferita che sia stata operata da un evento esterno, che ha agito dal di fuori contro di essa, e quella che, invece, è la conseguenza di una cattiva azione da lei stessa compiuta su qualcun altro. E invece a noi pare che questa sia una distinzione secondaria, perché il rimorso del male fatto, dell’ordine morale infranto, della fiducia altrui tradita, non sono meno devastanti della sofferenza causata da un torto ricevuto, da una slealtà subita, da una delusione di cui si è stati vittime. Per certi aspetti, anzi, la consapevolezza della propria coscienza pulita attenua e addolcisce, in parte, il crudo dolore della ferita morale; mentre la chiara percezione del proprio venir meno alla lealtà, all’onore, ai doveri e agli impegni assunti nei confronti dell’altro rincrudiscono, e di molto, il disorientamento e il senso di impotente disperazione che sconvolge la vita della coscienza.
No: la prima e più importante distinzione da operare, per tentar di gettare un raggio di luce sull’oscuro dramma della coscienza ferita, non è quella fra colpa e innocenza, ma quella fra volontà e conoscenza. Se la coscienza ha visto fin dall’inizio e rettamente conosciuto quel che andava fatto, in una determinata situazione, ma la sua volontà ha preso il sopravvento ad esclusivo vantaggio delle egoistiche ragioni dell’io, allora la ferita coscienziale è il prodotto di un prevalere della volontà sulla conoscenza, intesa, quest’ultima, come una sintesi di libertà e di dovere in vista di un certo valore. Ad esempio, io posso vedere che il desiderio di autoaffermazione del mio ego entra in conflitto con il rispetto dovuto ad altri essenti, che vorrebbe piegare ai suoi fini e ridurre a meri strumenti della sua soddisfazione: e tuttavia posso dare il mio assenso all’azione ingiusta, perché la ricerca del "mio" bene mi fa disprezzare il diritto al bene altrui. Questa è la cattiva azione scientemente perseguita e realizzata con ferma determinazione, calpestando apertamente la legge morale che pure mi era stato dato di conoscere.
Altro è il caso in cui, pur vedendo chiaramente quali sarebbero le conseguenze negative del mio agire egoistico e cercando, in conseguenza di ciò, di esercitare un controllo e un dominio sugli appetiti disordinati dell’ego, anzi – magari – sforzandomi di perseguire lealmente il bene altrui, vengo sopraffatto dalle tentazioni della mia umana debolezza e, mio malgrado, finisco per cedere agli allettamenti del mio piacere immediato ed egoistico. Nel primo caso si avrà il male come prodotto di una volontà distorta ed ipertrofica rispetto al conoscere; nel secondo caso avremo il male come effetto della debolezza del retto volere e della incoerenza del volere rispetto al conoscere.
Dunque, per agire rettamente è necessario vedere rettamente: vedere l’Essere come è in se stesso, in modo veridico e non deformato; e, in secondo luogo, accordare la volontà con la conoscenza, indirizzandola nel senso dell’azione etica così come la verità dell’Essere ce la indica, alla luce del valore. Ma cos’è il valore? Potremmo definirlo come la pietra del paragone di ogni decisione che si presenta alla coscienza sotto forma di libera scelta. Il valore è la percezione di un accordo profondo fra il nostro agire e il nostro sentire, nella prospettiva di una rete di relazioni fra gli essenti che non ammette squilibri e scompensi parziali senza che l’intero ordine esistenziale ne venga turbato. Non esiste valore dove non esiste libertà di scelta: decidere, significa decidersi a favore di una data azione, alla luce di un determinato valore. Si tratta di un circolo virtuoso della coscienza: il valore illumina gli enti e rischiara le decisioni della coscienza; la libertà è lo strumento per la realizzazione di una determinata scelta; la retta azione morale riempie di senso la libertà della coscienza e si trasforma a sua volta in valore, che a sua volta illumina gli enti e rischiara la coscienza; e così via. Si potrebbe perciò affermare che il valore produce ancora valore, inesauribilmente, a patto che la coscienza sappia ispirare costantemente la sua azione a un progetto di fedeltà all’Essere, giudice supremo e garante super partes di una retta impostazione dei rapporti fra i diversi essenti, fra una coscienza e l’altra.
Questo è un punto molto importante del nostro ragionamento. Se l’azione etica si fonda sulla normatività dei valori, è necessario che vi sia qualcosa capace di garantire la gerarchia dei valori, la loro corrispondenza reciproca, la loro stessa fondatezza ontologica. In altre parole, la fondazione dei valori richiama a un progetto di trascendenza, perché i valori non sono in grado di fondare da sé stessi, ontologicamente, la loro assolutezza. Senza questo salto di qualità dal divenire all’essere e, quindi, senza questa fondazione metafisica dei valori, non si dà Valore, dunque non si dà Bene in senso assoluto. E sappiamo anche troppo – la storia ce lo insegna e ce lo ricorda continuamente – che lo scontro fra i valori finiti, fra il mio bene ed il tuo, rimanda a una guerra di tutti contro tutti il cui effetto è l’eclisse della coscienza morale e lo scatenamento dei più bassi istinti della coscienza, addirittura la distruzione dell’etica. Gli essenti non potrebbero perseguire il vero bene, se non vi fosse un Bene assoluto, un Bene senza alcun altro attributo o specificazione: un Bene che è tale per tutti e per ciascuno e che è in grado di imporsi con evidenza immediata, al di sopra del caos dei piccoli valori parziali scatenati gli uni contro gli altri.
Giungiamo così all’intuizione che il sommo Bene, di necessità, deve coincidere col Sacro: perché sacro è solo il Bene assoluto, infinito, senza specificazioni ulteriori; il bene chiuso in sé stesso, parziale e limitato, preclude la trascendenza e respinge la vita dell’io entro gli orizzonti del parziale e del relativo. Solo l’Essere è apertura assoluta, dono infinito perenne e sovrabbondante: pur distribuendosi e irradiandosi su tutti gli enti, non diminuisce minimamente alla sorgente, ma sempre zampilla fresco e vivo come una fontana magica. Ed esso coincide necessariamente col Sacro, perché è proprio del sacro il progetto di Amore assoluto e incondizionato che rischiara imparzialmente tutti gli enti e fonda, garantendoli, tutti i valori morali, evitando che possano in alcun modo sovrapporsi e smentirsi gli uni con gli altri, entrando in conflitto reciproco. Nel Sacro vi è un di più di amore imparziale e incondizionato che non si trova nel Bene chiuso in sé stesso: una apertura coscienziale a trecentosessanta gradi, una larghezza e una infinita generosità e sollecitudine che previene la stessa domanda degli essenti.
Questo è appunto il salto di qualità che, per effetto del Sacro, la vita della coscienza è chiamata a compiere: trascendere i propri limiti ontologici, la propria pigrizia costituzionale, gli stessi schemi logici del Logos calcolante, per inebriarsi delle vastità sconfinate dell’Amore illimitato, onnipervasivo. Il Sacro comprende il Bene, ma lo trascende, lo supera e lo trasfigura: così come – osserva Kierkegaard in Timore e tremore – il gesto di fedeltà totale a Dio di Abramo, allorché dice sì alla richiesta di sacrificargli il figlio Isacco, entra in contrasto con le categorie logiche dell’etica e crea un senso di vuoto, di assoluta solitudine, quasi di orrore in cui la coscienza, a un certo momento, si sente sul punto di sprofondare. È qui che l’autonomia della coscienza ordinaria cede il passo alle theonomia della coscienza ispirata; e il soccorso della Grazia comunica all’uomo quello slancio, quell’ardore, quella vastità di comprensione che le consentono di oltrepassare lo scandalo dell’infrazione alla stessa etica (che è storicamente determinata e non si appoggia sul Valore assoluto, ma su valori transeunti e parziali).
Dicevamo del vulnus, della ferita. La coscienza ferita soffre e vaga qua e là, con passo smarrito, in cerca di pace: cerca istintivamente di ristabilire l’equilibrio, di restituire senso al proprio orizzonte morale. La coscienza ferita è un grido di disperazione e di aiuto che scuote la dimora dell’Essere e interroga tutti gli enti, nessuno dei quali può dirsi totalmente estraneo e dire: «Sono forse il custode di mio fratello?».
E qui si danno due possibilità: o la coscienza, benché ferita, riesce a mantenersi nella propria unità di volere e di conoscere e, per quanto sofferente, cerca di ritrovare, con tutte le sue forze, il bene perduto del legame intimo con l’Essere; oppure la ferita è segno e occasione di una rottura irreparabile dell’unità coscienziale fra volere e conoscere, e determina il distacco definitivo dell’essente dall’Essere. Questa dinamica è stata bene analizzata da Bernhard Häring nel suo libro Il sacro e il bene. Rapporti tra etica e religione (tr. it. Brescia, Morcelliana, 1968), che così ne parla (pp. 75-77):
"Se la persona, nel suo intimo fondo, è ancora amore, allora il dolore può sciogliere il convulso irrigidimento della volontà, l’irretimento nell’amore di sé. Le forme della conoscenza, poggiandosi sul proprio amore originario, cercheranno la via verso la verità, appena la verità divenuta sovrana di sé, si libera dalla propria usurpata tirannia. La forza conoscitiva dell’anima, in realtà, secondo la sua natura, va seguendo un amore, originario e inestinguibile, verso il vero e vero l’autentico e reale valore. Può di nuovo intessere un dialogo con il valore che ha mancato. Ma bisogna notare bene che in ciò si dà qualche cosa di totalmente nuovo ,oltre il primo elementare dolore della cattiva coscienza, qualche cosa di nuovo perfino rispetto al desiderio di superare questo dolore e di ricomporre l’unità guastata dell’anima. È un nuovo incontro con il valore. Il dolore, il senso sordo e rodente della lacerazione interiore ha così prodotto un nuovo movimento verso il valore, dall’intimo amore originario della persona. Questo movimento, certo, non è ancora completo, non è ancora tale a arrivare all’obbedienza al valore. Ma è però già una inclinazione germinata nel profondo della persona, un fenomeno morale positivo." (…)
Ma vi è una seconda possibilità, ben più drammatica: quella in cui la persona, che forse già da prima oscillava pericolosamente sul confine fra il vero amore e l’amor di sè, ossia tra amore e non-amore, reagisce al vulnus, alla ferita, intestardendosi nel percorrere sino in fondo la via del divorzio fra il volere e il conoscere, mettendo a tacere ogni scrupolo di coscienza e cercando di ritrovare l’equilibrio non nel salto di qualità verso un nuovo livello di valore, dopo l’esperienza della caduta e della sofferenza (non importa – secondo noi – se inferta o subita), bensì semplicemente riducendo al silenzio il grido di giustizia che sale, silenzioso, dalle profondità dell’anima; il grido di dolore e di soccorso verso l’Essere con cui è stato reciso il legame originario. Così descrive Häring questa seconda possibilità:
"La volontà è profondamente irretita nell’orgoglio; vede il suo bene non più nel servizio al valore incontrato, ma nel tener ferma la propria sovranità. Il sentimento di intima lacerazione, il dolore del rimorso di coscienza è per lei un ammonimento. Ne va della tua autonomia! Si scuoterà ancor più in convulsioni; si irrigidisce, tiranneggia la ragione, in modo che non possa più venire ad un dialogo con il valore. Il tiranno della volontà, rattrappito in sé, o si sottrarrà ad ogni apertura verso un richiamo dall’esterno o, dove non è ancora presente questa completa chiusura ad ogni valore, si affermerà contro l’io conoscente: Ho avuto dunque ragione! La ragione verrà costretta ad accettare la volontà perché, alla fine, al posto del vero valore verrà trasportato «ciò che è importante per me». Questo atteggiamento di chiusura ammette naturalmente i più vari gradi. Ed è puramente un dato di fatto che dal rimorso di coscienza non nasce di necessità un nuovo movimento verso il valore e un nuovo dialogo, perché molto spesso ne può seguire un’ancor più profonda chiusura di contro al valore. La coscienza che rimorde, allora tacerà poco a poco. Il sentimento dell’interna lacerazione svanirà. L’unità dell’anima anzi è già ricostituita per il fatto che l’io conoscente rinuncia ad orientarsi verso il valore oggettivo. Al posto dell’interna lacerazione, è subentrato il chiudersi dell’intera persona, con l’odio e l’inimicizia verso il valore. La conseguenza sarà un più o meno totale accecamento verso i valori più alti, in conseguenza di un crescente interesse per i valori che hanno importanza per l’atteggiamento di orgoglio e di concupiscenza. Al posto dello strappo intimo, è subentrata una barriera divisoria tra la persona e il mondo dei valori."
Ora, il dramma della coscienza contemporanea è proprio questo: che l’oblio dell’Essere e il voltar le spalle alla Grazia e al Valore originario fa sì che la cosa più importante appaia non già ricostituire l’unità della coscienza sulla base di una redenzione dalla colpa e di un salto di qualità verso un più organico legame con l’Essere, proprio sulla base dell’esperienza della ferita e del dolore ad essa conseguente, bensì ricostituire l’unità della coscienza in qualunque modo. E il modo più facile è proprio quello di mettere a tacere la conoscenza del valore, imbavagliare la consapevolezza dell’errore compiuto, puntando tutto sul reintegro della volontà diretta alla restaurazione della piena autonomia dell’essente. Una siffatta autonomia, che misconosce la pedagogia della ferita e del dolore e che pretende di affermarsi al di sopra di ogni altro criterio di verità, equivale, in realtà, a una forma di degradazione e di schiavitù dell’essente. La vera libertà, infatti, nasce dalla consapevolezza dei doveri e dall’accordo fra la doverosità insita nella coscienza e la gerarchia dei valori che ispirano la scelta morale. Quando l’unità della coscienza si costruisce, o si ricostruisce, a spese di tale accodo e sulla base di un primato del volere indirizzato a "ciò che è bene per me" e non a "ciò che è giusto in se stesso", allora ci troviamo di fronte a una coscienza stravolta, inautentica, inumana, in cui il grido dell’anima è stato soffocato in nome di una autonomia che non è se non la maschera di rispettabilità destinata a camuffare gli appetiti egoistici e disordinati dell’io. Si tratta di una condizione, probabilmente oggi assai diffusa, che ha in sé una componente profondamente tragica, perché allontana e distrugge con le sue stesse mani ogni possibilità di imparare dal male, sia inferto che subito, e quindi ogni possibilità di redenzione.
E che altro è la coscienza privata di ogni possibilità di redenzione, se non una coscienza ossessionata e, alla lettera, posseduta dalle forze infere che albergano al fondo di essa? Per la psicologia moderna, e specialmente per la psichiatria, ciò che conta è ripristinare l’equilibrio della coscienza, a partire dalla propria limitata visione di "ciò che è bene per me". Si tratta di un tragico equivoco, poiché "ciò che è bene per me" esprime solo il livello più basso e meschino della coscienza, quello più egoico e autocentrato: e, adagiandosi in esso, a dispetto di un benessere superficiale e momentaneo, l’anima si avvia su di una strada senza ritorno, ove finirà per smarrirsi e per infliggersi da sé il peggiore castigo: l’oblio della sua vera natura, del suo destino, della sua meta. La meta dell’anima non è il soddisfacimento dei suoi bisogni estemporanei, ma il ritorno alla dimora dell’Essere. Pertanto, finché il grido dell’anima ferita si leva nel buio della coscienza sofferente, vi è ancora una possibilità di redenzione. Ma quando quel grido viene messo a tacere del tutto, l’anima è perduta: si è costruita l’Inferno da se stessa, l’Inferno che è la separazione voluta, intenzionale dall’Essere – il tradimento della sua vera natura e della sua ultima meta.
Guai all’anima ferita che ha smesso di gridare! Quel grido vuol dire che essa è ancora viva, che ancora una parte di lei anela alle regioni superiori della Verità, della Bontà, della Bellezza; al Sacro che tutte le comprende e, fondandole, le invera e le illumina della sua luce imperitura. Finché quel grido risuona dall’abisso dell’anima ferita, vi è ancora una speranza di redenzione e la Grazia può ancora esercitare su di essa la sua benefica azione di aiuto e di soccorso. Poi, sarà troppo tardi.
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