
Alcune ipotesi sull’«altro mondo» e sulla mente non localizzata
7 Agosto 2007
I piani per il fronte occidentale e l’invasione del Belgio nel 1914
10 Agosto 2007PARTE QUINTA
.CAPITOLO PRIMO
– Vuole dirci, señor Sarmiento, quando maturò in lei l’idea del delitto? –
L’avvocato Castelàr mi fissa coi suoi occhietti porcini e ha l’aria trionfante di chi si sente spalleggiato dal sentimento comune. Il pubblico trattiene il fiato; la giornata di oggi promette un ghiotto spettacolo. Gratuito, il che non guasta.
– Dopo i fatti di Antofagasta. – È un altro che parla, quella è solo la mia voce. Ma bisogna terminare le recita, fa parte del copione.
– Ma quando, esattamente? –
– Nell’agosto. –
– E lei vuol farci credere di aver organizzato ogni cosa da solo? – Imbecille. Pazienza, Mariano; porta pazienza.
– Per me, lei può credere quel che vuole. Mi sono consegnato spontaneamente: che ragioni avrei di non dire la verità? Forse lei pensa che se un uomo è capace di uccidere, certamente saprà anche mentire. In questo caso, si risparmi la fatica d’interrogarmi. Ho raccontato tutto, al giudice Caballero, nella fase istruttoria; basta leggere le carte. –
– Le ho lette, quelle carte. Lei sostiene di aver saputo dalla stampa che il generale era stato trasferito a Talcahuano, e di essere stato in grado di identificarlo perché, sempre sulla stampa, ne vide la fotografia. Dopo di che si recò in treno a Talcahuano e cominciò ad appostarsi nei pressi della caserma, finché vide il generale, e, seguendolo, risalì alla sua abitazione. Dopo di che, avendone studiato gli orari, e avendo constatato che egli usciva di casa ogni mattina alle sette per recarsi in caserma, a piedi, gli tese 1’agguato mortale, il mattino del giorno 7 dicembre 1908. È esatto questo riassunto della sua deposizione? –
– Sì. –
– Tuttavia, vi sono degli elementi che non convincono. Innanzitutto, lei era sottoposto, e da anni, a regime di sorveglianze speciale. Come spiega di aver potuto organizzare e compiere il delitto, senza che la polizia ne abbia avuto il minimo sentore? –
– Questa è una domande che lei dovrebbe fare a qualcun altro. Io non mi sono mai accorto di essere pedinato, né prima né dopo. Comunque, presi alcune elementari precauzioni. Per esempio, acquistai un biglietto ferroviario fino a Los Angeles, come se avessi voluto recarmi al mio paese natale, Nascimiento, nella provincia di Bìo-Bìo. Da lì, in un secondo tempo, proseguii per Talcahuano, cambiando spesso di scompartimento e tenendo sempre d’occhio i miei occasionali compagni di viaggio. –
– Poi, c’è il fatto che il proprietario della locanda da lei indicata non ricorda la sua permanenza e, messo a confronto con lei, non gli è sembrato di averla già vista. –
– Sono passati quasi sette anni. In sette anni un albergatore vedrà come minimo alcune migliaia di volti sconosciuti. Giusto? –
– Señor Sarmiento, l’elenco delle strane coincidenze non finisce qui. Per esempio, c’è da dire che lei non era un sovversivo isolato, ma militava attivamente nei piccoli gruppi dell’estrema sinistra; scriveva sui loro giornali, anche clandestini; ed era presente là dove c’erano disordini, scioperi, manifestazioni, spesso con funzioni organizzative. Può negarlo? –
– Per quanto riguarda il mio ruolo organizzativo, penso si sia trattato dello zelo o della fantasia delle autorità che mi tenevano d’occhio. –
– È stato anche arrestato due volte per regioni precauzionali, in occasione di visite di personalità politiche a Valparaìso. Ma nel dicembre 1908, lei lascia tranquillamente la città, si reca a Talcahuano, uccide il generale Muñoz-Gamero e se ne ritorna indietro: il tutto senza aiuti né fiancheggiamenti, e senza che la polizia si accorga di nulla. Non è strano? –
– Le ripeto che dovrebbe chiederlo a qualcun altro. –
– Dove si era procurato l’arma del delitto? –
– L’avevo da anni. Regolarmente acquistata, credo verso il 1904. Forse, allora, non ero ancora sorvegliato dalla polizia politica. –
– Una Mauser tedesca modello 1903, vero? –
– Esatto. –
– Di cui sparò l’intero caricatore: otto colpi, tutti a segno. Inutile rispondergli, non è neanche una domanda. Vuol fare effetto sulla giuria, ma era già stato detto ieri. Non importa, si vede che, nella sua strategia processuale, repetita iuvant.
– Sicché, suoi amici sovversivi non ne sapevano nulla? –
– No. E poi, mi ero già allontanato da loro. –
– Come mai? –
– Divergenze politiche. –
– Potrebbe essere più preciso? –
– Loro parlavano tanto, ma fatti se ne vedevano pochi. –
– Capisco. Lei, allora, viveva con una giovane donna, una operaia di nome Sabina Alberti: non è vero? –
– Sì. –
– E nemmeno a lei rivelò il suo progetto? –
– Certo che no. –
– Allora, con aria trionfante, l’imbecille si rivolge al presidente: – Chiamo a deporre la señorita Sabina Alberti! –
Caballero ha chiesto se era in aula; provo non poca emozione nell’udire la sua voce, esile ma ferma, provenire dalle file del pubblico: – Sono qui! -.
Sabina, Sabina, perché sei venuta? Ecco che ti ho coinvolta, alla fine. Ma tanto, l’avrebbero convocata anche se non fosse stata qui.
Attraversa l’aula sotto gli sguardi incuriositi di tutti e va a sedersi, arrossendo un poco, al banco dei testimoni.
– Lei è Sabina Alberti? Ha con sé un documento?
Crstelàr ha letto dai suoi appunti: – Nata a La Serena il 18 giugno 1869, operaia, celibe; figlia di Carlo Alberti, oriundo italiano, operaio, condannato nel 1901 a tre anni di confino a Puerto Aysèn per reati politici. Fu arrestato durante gli incidenti fra lavoratori e carabineros in occasione del 1° maggio 1901. –
Poi si è rivolto a lei: – Mi dica, señorita: quando ha visto l’imputato per l’ultima volta? A parte quest’ultimo mese, naturalmente. –
– Il 2 ottobre 1911. –
– Come mai ricorda così bene quella data? –
– Perché quel giorno furono sospese le visite ai detenuti politici destinati al confino, anche se poi furono fatti partire solo ai primi di novembre. –
Sabina non mi guarda, fissa Castelàr, ogni tanto abbassa gli occhi sulle mani che tiene in grembo. È nervosa, intimidita, ma si controlla bene. Non credo si aspettasse di essere chiamata a testimoniare.
– Lei, dunque, il 2 ottobre 1911 si recò al carcere per vedere Mariano Sarmiento. Lui, che cosa le disse? –
– Abbiamo parlato solo di questioni strettamente personali. –
– E prima di quella data, le aveva mai parlato del generale Muñoz-Gamero? –
– Sì, ma in maniera generica. A proposito dei fatti di Antofagasta. –
– Ah, davvero? E che cosa le disse? –
Attenta, Sabina; la vecchia volpe ti tende una trappola.
– Niente, le solite cose. A quell’epoca, tutti parlavano dei fatti di Antofagasta. Della strage dei minatori, e tutto il resto. –
– Le disse che il generale Muñoz-Gamero avrebbe meritato la morte? –
– No. –
– Non le disse che qualcuno avrebbe dovuto, per cosi dire, giustiziarlo? –
– No. –
– E quando partì per Talcahuano, il 12 dicembre, cosa le disse? A lei non sembrò una strana coincidenza che si recasse proprio laggiù?
– Ma io non sapevo affatto, che sarebbe andato a Talcahuano! –
– Cosa le disse, partendo? –
– Che andava al suo paese, per sbrigare delle faccende personali. –
– Cioè? –
– Questioni di eredità. Era morto un suo parente, uno zio. –
– E lei ci credette? –
– Certo, perché no? Si era assentato altre volte. –
– Corrisponde a verità che Mariano Sarmiento, negli ultimi tempi, aveva interrotto le relazioni con i suoi compagni anarchici e socialisti? –
– Sì, credo di sì. Non li aveva mai portati a casa. Comunque, mi risulta che aveva smesso di frequentarli. –
– Glie ne disse il motivo? –
– Mi disse che non ci si trovava più. –
– Le ricordo che ha giurato di dire tutta la verità e soltanto la verità. Le ricordo, inoltre, che potrà essere incriminata per falce testimonianza, se risultasse che ha taciuto o deformato le informazioni delle quali è in possesso. –
Sabina ha taciuto, guardandolo. È arrossita, perché è timida. Ma non si è confusa in giustificazioni inutili; ha atteso una domande precisa.
– E mi dica, señorita Alberti, lei non ha mai avuto sospetti su quanto Sarmiento fece a Talcehuano i 7 dicembre 1908? –
– Le ripeto che non ho mai saputo che fosse andato lì. –
– E quando lo vide ritornare subito dopo la clamorosa notizia dell’assassinio? Neanche allora ebbe alcun sospetto? –
– No, perché avrei dovuto averne? Migliaia di persone avranno viaggiato, in quei giorni. –
– Già, ma Sarmiento odiave il generale. Non è così? –
– Se è per questo, erano in molti a non amarlo, in quei giorni. –
– Porti rispetto alla memoria di un valoroso ufficiale, caduto sul campo del dovere! –
– Io ho soltanto risposto alla sua domanda. Migliaia di operai e lavoratori odiavano il generale, per quel che aveva fatto ad Antofagasta. –
Breva Sabina; non lasciarti intimidire da questo cialtrone.
C’è adesso un momento come di sospensione, il pubblico rumoreggia. Castelàr, con gesto melodrammatico, si .rivolge in direzione della vedova del generale, che siede in prima fila con i suoi due figli, ed esclama: – Allora le chiedo io perdono, señora, per queste parole offensive e inaccettabili! –
Il pubblico rumoreggia ancora; il presidente agita il campanello, intima silenzio, poi si rivolge a Castelàr e gli ordina: – Prego, continui l’escussione del teste -; e pare seccato.
– Lei ci ha detto che vide per l’ultima volta Mariano Sarmiento il 2 ottobre 1911. Ma egli ha ammesso di essere rientrato clandestinamente in Cile da più di un anno, nel gennaio del 1914. Vuole dirci che, dopo il suo ritorno, non ebbe mai più occasione di rivederlo? –
Sabina ora guarde basso e parla con voce sommessa: – No, non l’ho più visto fino a dopo il suo arresto. –
– Come mai? – chiede l’imbecille, oltracotante.
Sabina è tutta rossa, mi sembra che qualcosa le brilli sull’angolo degli occhi. – Non lo so -, mormora.
– Può parlare più forte, per favore? Non tutti l’hanno sentita. –
Di nuovo c’è un gran silenzio. Canaglia, hai trovato il punto debole; non è vero che la voce non si è sentita. Vuoi sfruttare il vantaggio, ma a che scopo?
Per la prima volta da quando si è seduta al banco dei testimoni, Sabina lancia una rapide occhiata nella mia direzione, incontra il mio sguardo, lo rivolge subito e si confonde ancor di più.
– Ho detto che non lo so – ripete più forte, e si morde le labbra. Riconosco quel gesto di quando è fortemente agitata.
– Lei è stata a trovarlo in carcere; glie lo avrà chiesto, immagino. –
– Ha detto… Ha detto che era meglio così, che lui era un latitante, che aveva vissuto sotto una falsa identità. –
– E lei ci ha creduto? –
Finalmente interviene Lennox: – Presidente, la cosa è irrilevante. Riguarda palesemente questioni private che non hanno attinenza coi fatti. Cosa strana, Caballero gli ha dato ragione; e Castelàr ha detto: – Ho finito con la teste. –
Il presidente chiede a Lennox se vuole contro-interrogarla; lui declina.
– Señorita, può andare -, conclude Caballero. Sabina si guarda attorno per un attimo, stupita; poi si alza velocemente e ritorna verso il suo posto, fra centinaia d’occhi che la bucano come coltelli, che la frugano, che la soppesano in tutti i sensi. Torna a sedersi fra la gente e non la vedo più.
Castelàr ricomincia con me: – Ci dica, señor Sarmiento, perché decise di assassinare il generale Muñoz-Gamero? –
– L’ho già detto molte volte: per vendicare i morti innocenti di Antofagasta. –
– Quindi, lei si è autonominato giustiziere? –
– Se vuoi metterla così. –
– Odiava il generale? –
– Odiavo quel che aveva fatto. E quello che rappresentava. –
– Che cosa rappresentava, secondo lei? –
– Quella borghesia avida, ferocemente egoista, tutta protesa a far quattrini in un Paese dove nove uomini su dieci sono sfruttati, sette sono analfabeti e cinque sono sottoalimentati. – Brusio tra il pubblico.
– Quindi, lei si sentiva moralmente legittimato ad agire? –
– Sì. –
– Sapeva che il generale aveva moglie e figliuoli? –
– Sì. –
– Sapeva che era un marito esemplare e un padre amorevole? –
Lennox si è alzato: – Presidente, mi oppongo. Sono domande tendenziose! –
Me Cabellero, queste volta, gli dà torto ed esclama: – Imputato, risponda. –
– Non sapevo nulla della sua vita privata; e, anche se l’avessi conosciuta, ciò non mi avrebbe indotto a desistere. –
– Capisco. Il generale non era un uomo, per lei, ma un simbolo. –
– Più o meno. –
-Mi dica, señor Sarmiento. Se si ripresentassero le stesse condizioni e lei fosse libero di agire, oggi, sarebbe pronto ad uccidere ancora? –
Di nuovo, Lennox si è opposto: – Noi non siamo qui per giudicare le intenzioni o formulare ipotesi ,ma per valutare i fatti, signor presidente! –
Castelàr non si dà per vinto: – Presidente, ritengo utile che la giuria possa farsi un’idea completa della personalità morale dell’imputato e, inoltre, poterne valutare il grado attuale di pericolosità sociale! –
– Va bene; proceda pure. E l’imputato risponda alla domanda. –
Già, ma il guaio è che non so neppure io cosa rispondere. No, so che noni lo rifarei. So che è stato un errore. Ma se lo dicessi, crederebbero che ho paura, che spero di farmi alleviare la pena, che ho rinnegato le me convinzioni. No, grazie. Dico: – Non lo so. È un’ipotesi astratta. Solo davanti a delle situazioni concrete si può prendere una decisione. –
– Tuttavia, lei non ha avuto alcuna esitazione, nel 1908. –
– No, non l’ho avuta. Ma se mi chiede cosa farei oggi, nella medesima situazione, le rispondo: non lo so. Dovrei esserci. –
– Allora le farò una domanda non ipotetica, ma molto concreta. Lei, oggi, è pentito di quello che ha fatto? –
Eh, al diavolo; questo pallone gonfiato non sa che mi sono già fatto mille volte questa domanda da me stesso, e non ho trovato risposta.
– Dal punto di vista politico – scandisco lentamente, nel silenzio generale – non ho nulla di cui pentirmi. –
Esclamazioni tra il pubblico, scampanellate del presidente, che minaccia di far sgomberare l’aula. Ci vuole, tuttavia, un bel po’ di tempo perché ritorni la calma.
– Vi avverto che non tollererò altre interruzioni. Questa è un’aula di giustizia e non un volgare mercato! – ha gridato Caballero rivolto al pubblico. Poi, a Cestelàr: – Prego, proceda, avvocato.-
– Avevo fatto una domanda precisa all’imputato. E mi dica allora, señor Sarmiento: dal punto di vista umano, è pentito? –
– Dal punto di vista umano, sono spiacente per sua moglie e i suoi figli.-
– È spiacente! -, starnazza l’imbecille, declamando. – E’ spiacente! Ma prova pentimento, sì o no? –
– Io credo di non essere stato il solo a uccidere il generale Muñoz-Gamero. –
Queste mie parole l’hanno fatto trasalire; era incredulo e quasi non stava più nella pelle per l’insperata vittoria.- Come? Come? Lei adesso vuol dire, dopo aver negato nella maniera più energica di aver avuto dei complici, che non fu il solo a organizzare il delitto?
– Non fui il solo. –
– E chi altri, dunque? –
Di nuovo, silenzio carico di tensione.
– L’egoismo e la stupidità di quella borghesia di cui lei è un insigne rappresentante. E la spietata crudeltà dei militari, del generale in primo luogo. Questi sono stati i miei complici, senza i quali non avrei potuto far nulla. –
Si leva un tumulto ancora più forte. I pochi simpatizzanti di sinistra applaudono, gli altri imprecano e lanciano insulti, verso di me e verso di loro. Caballero perde la pazienza e sospende la seduta, si alza rabbiosamente ed esce, seguito dagli altri magistrati.
Mi pare che Alexandra, seduta in prima fila, sia impallidita. Lennox è molto seccato: – Un’altra sparata di questo genere, señor, e stia ben certo che la giuria non esiterà ad infliggerle il massimo della pena! –
CAPITOLO SECONDO
Caballero rientra dopo circa mezz’ora, scuro in volto. Tutti si alzano in piedi; la seduta riprende.
– Avvocato Castelàr, deve rivolgere altre domande all’imputato? –
– No, signor presidente. –
– E lei, avvocato Lennox, vuole interrogarlo? –
-Sì, certo. – E mi viene davanti, mentre l’aula è ritornata silenziosa e attenta.
– Señor Sarmiento, lei aveva davanti a sé una brillante carriere universitaria. Perché vi ha rinunciato? –
Terribile, questo don Vicente; è quasi peggio dell’altro. Per mettermi in una buone luce, mi costringe a cantare le lodi di. me stesso.
– Era sopraggiunta la passione per il giornalismo. –
– Sì, lo sappiamo. E, anche lì, lei si stava facendo un nome. Ma perché questo improvviso interesse per il giornalismo? –
– Per denunciare le ingiustizie sociali del nostro Paese. –
– Anche a quella carriera, però, ha voltato le spalle. Come mai? –
– Perché i giornali della borghesia non volevano pubblicare i miei pezzi. Dicevano che erano troppo estremisti. Temevano il sequestro. –
– Capisco. Di che cosa viveva, negli ultimi anni, prima della condanna al confino? –
– Di articoli scientifici che inviavo a delle riviste straniere. Di lezioni private. Di saltuarie collaborazioni con giornali, e altro. –
– Doveva essere un’esistenza disagiata. –
– Avevo fatto una scelta. –
– Anche Sabina Alberti faceva parte, diciamo così, del suo gruppo politico? –
– No. Lavorava dieci ore in fabbrica; non ne avrebbe avuto il tempo. –
– Quindi, non conosceva tutta quello che lei faceva in quel campo? –
– No, anzi, sapeva pochissimo. Preferivo che lei ne restasse fuori. –
– Perché si è costituito alla polizia, l’ultimo giorno di febbraio di quest’anno, a una così grande distanza di tempo dai fatti? –
– Perché avevano arrestato, per errore, un innocente. –
– Lei non conosceva Tomàs Ribeiro? –
– Mai visto in vita mia. –
– Tuttavia., per evitare la condanna di uno sconosciuto, lei ha rinunciato alla libertà, alla vita che si era rifatto, e si è costituito. È così? –
– Sì. Chiunque l’avrebbe fatto, al mio posto. –
– Non ne sono così certo. Ma ora torniamo al 1908,per favore. Lei seppe dalla stampa di ciò che era accaduto ad Antofagasta? –
– Dalla stampa, e da amici. Anche da testimoni oculari. –
– Che cosa le dissero? –
– Che il generale aveva dato ordine di fare .fuoco, senza alcuna provocazione, contro le famiglie dei minatori. E che i morti e i feriti furono molti, ma molti di più di quanto si disse allora ufficialmente. –
– Presidente – bercia a questo punto Castelàr – io non posso permettere… –
– Signor presidente – hprontamente ha parato Lennox – l’imputato riferisce quel che si diceva nella sua cerchia all’epoca dei fatti. Noi non siamo qui per discutere dell’esattezza della relazione che allora fece il governo, ma per capire l’atmosfera in cui maturò l’idea di vendicare i morti di Antofagasta.-
– Può continuare, avvocato Lennox -, ha deciso Caballero.
– Señor Sarmiento, lei, prima, si è detto addolorato per la vedova e i figli della sua vittima, pur non sconfessando le ragioni politiche che la spinsero ad agire. Sbaglio, o vi è una certa differenza fra l’uomo che, nel 1908, decide freddamente di spegnere una vita umana, e l’uomo che, oggi, rievoca quei fatti? –
– Forse. Sette anni sono molti: e, nel mio caso, sono stati particolarmente intensi. Nessuno di noi, nel corso della propria vita, resta uguale a se stesso. –
– In che cose lei, oggi, si sente di prendere le distanze…; no, diciamo meglio: in che cosa lei, oggi, non si riconosce più interamente nel suo agire e pensare di sette anni fa? –
Dover dire, dover spiegare a questa gente un processo interiore così intimo e difficile da comprendere anche per me! E sia. Parlerò non per loro, ma per me. Per chiarirmi meglio a me stesso, poiché ne ho bisogno.
– La differenza è questa: ho capito che la vita umana, pur non essendo in sé stessa un valore… –
– No? –
– Non è un valore, ma uno strumento per realizzare dei valori. –
– Continui, la prego. –
– Ho capito, dicevo, che la vita umano, pur non essendo un valore in quanto tale, possiede tuttavia un valore misterioso, ma innegabile. –
– Può spiegarsi meglio? –
– Non é un valore, ma ha un valore. –
– Sì, ora la seguo meglio. E, alla luce di questo valore, …?
– Non è bene spegnerla. Se proprio non è indispensabile. –
– Per esempio? –
– Per esempio, se vedo che lei sta per uccidere degli uomini, il valore di quelle vite mi autorizza, per legittima difesa, a calpestare il valore della sua vita. –
– Lei, nel 1908, pensava di poter salvare delle vite, sopprimendo il generale Muñoz-Gamero?
– Sì, forse, anche. Ma tante vite, le aveva già distrutte. Era tardi, ormai, per salvarle.
– Ed è questo che lei, oggi, disapprova? Il fatto che non ha senso esercitare una legittima difesa, diciamo così, a posteriori? –
– Sostanzialmente, sì.-
– Lei, dunque, oggi deplora il fatto che non sparò al generale per salvare delle vite, ma per vendicare, così lei pensava, delle vite che erano già state spente. –
– Sì, press’a poco. Mi chiedo se le giustizia possa essere soltanto vendetta, per quanto umanamente comprensibile. –
– E che risposte si è dato? –
– Che non può essere solo vendetta. Rispetto ai morti di Antofagasta, il mio gesto fu veramente inutile. Forse salvò delle vite per il futuro; ma queste non si saprà mai. –
– Lei, quindi, se si trovasse nuovamente in circostanze analoghe a quelle del 1908, non alzerebbe più la mano contro una vita umana?
– Non lo so. Forse no. –
– Forse? –
– No. Credo di no.-
– Ho finito, signor presidente. –
Credo che ora la seduta verrà aggiornata. Ma, che succede? C’è movimento tra il pubblico, la folla si scosta per lasciar passare qualcuno. È Sabina! Arrivata alle transenne, chiede di poter deporre ancora, spontaneamente. Caballero è meravigliato, come lo sono tutti, me compreso.
– Señorita, ha scordato di deporre qualcosa? –
– Vorrei dire ancore due parole, signor presidente. –
Tutta rossa, torna a sedersi al banco dei testimoni. Ma subito si alza in piedi e si rivolge prima a Caballero, poi alla giuria, che la guarda stupita.
– Dal modo in cui mi sono state rivolte le domande dall’avvocato dell’accusa – ha incominciato, con voce un po’ tremante, ma decisa ad andare avanti – non mi è stato possibile mettere in chiaro una cosa importante.. Mariano Sarmiento non è, e non è mai stato, un violento né, tantomeno, un fanatico. Potrei citare decine di episodi che mettono in luce…, che mettono in luce la sua gentilezze d’animo. –
– Señorita – la interrompe il giudice – a noi interessano i fatti, i fatti precisi relativi al delitto per cui egli è accusato; anzi, per cui egli si è autoaccusato, e del quale deve ora rispondere. –
Sabina rimane con la bocca aperta, cercando le parol; poi abbassa lo sguardo e si confonde del tutto.
– Signori, io…, quello che voglio dire è…, che non mi sembra, che non mi sembra possibile che Mariano abbia ucciso un essere umano… –
– Lei sospetta che si sia accollato la responsabilità di un delitto di cui è, invece, innocente? È questo che vuol dire, señorita? -, chiede Caballero, aggrottando le sopracciglia.
– Sì; no; insomma, non lo so… Tuttavia, secondo me.. –
Mi alzo, non ne posso più. – Signor presidente, posso parlare? -, chiedo.
– Avanti, parli. –
Solo adesso Sabina gira lo sguardo verso di me, implorante.
– Signor presidente, signori giurati – pronuncio lentamente le parole -. io mi assumo la responsabilità intera, morale e materiale, della morte del generale Muñoz-Gamero. Questo è quanto volevo dire. –
– Señorita – ha ripreso Caballero – lei è in possesso di qualche elemento preciso, per suffragare la sua ipotesi che l’imputato sia innocente, oppure si tratta una sua convinzione di natura esclusivamente soggettiva? –
Sabina, adesso, sembra vinta; scuote la teste guardando nel vuoto, ha rinunciato: – No, non possiedo alcun elemento preciso. –
– In tal caso, non possiamo prendere in considerazione queste sua deposizione spontanea. Prego anzi la giuria di non tenerne conto. Si accomodi.-
E Sabina se ne torna si suo posto, a capo chino, senza più guardare nessuno. Si vede che trattiene a stento le lacrime.
– Signori, la corte si aggiorna a domani mattina, alle ore nove. La seduta è tolta. –
Mentre mi conducono via, faccio in tempo a vedere Alexandra che mi guarda fisso, cercando di atteggiare il viso a un sorriso d’incoraggiamento. Avrei preferito che non venisse. Ma occorre bere 1’emero calice sino alla feccia, evidentemente: il passato ci segue, non possiamo sfuggirgli. Prima o poi bussa alla nostra porta, ad esigere il saldo di ogni debito.
Be’, ormai è passata; speriamo che questa sia stata la giornata peggiore. Speriamo di non rivedere Sabina, né Alexandra. No, ecco che ho detto una bugia. Vorrei rivedere Alexendra; solo, non nell’aula del tribunale. Pure, anche così è meglio di niente… Qualunque cose, Qualunque cosa è meglio di niente. Qualunque cosa, pur di vederla ancora una volta. La sua assenza mi pesa enormemente. E pensare che mi ero quasi rassegnato, prima che tutta questa storia avesse inizio… Ma averla rivista a Villa Hermosa, per due volte; averle parlato, averle stretto le mani… Mi ha reso più forte e più debole. Più forte, perché i miei pensieri hanno un centro di gravità nel marasma che è la mia vita, in questo momento. Più debole, perché sento terribilmente la lontananza di lei, il vuoto sconfortante della sua assenza.
CAPITOLO TERZO
Il processo è stato brevissimo; oggi ci sarà l’arringa dei due avvocati.
Il pubblico era più concentrato, più silenzioso del solito. Non ho rivisto Sabina Alberti, ma forse è dietro, nascosta tra la gente. Alvaro, gentile come sempre, mi ha accompagnato per tempo. Siamo in prima fila e possiamo vedere bene ogni fase del dibattimento. Mariano, apparentemente impassibile, è seduto a non più di dieci metri da me. Ha mantenuto la parola: non mi ha mai guardato. Probabilmente è imbarazzato, gli pesa essere visto da me sul banco degli imputati. Ma io non potevo fare a meno di essere qui. Ecco, ora il presidente dà la parola al pubblico ministero.
– In verità, signori della giuria, è uno strano tipo d’uomo quello che voi, oggi, siete chiamati a giudicare, nell’interesse della nazione e della giustizia. È un reo confesso, e il suo delitto è il più odioso fra quanti si possano concepire. Tuttavia, non voglio negare che, nella complicata personalità di Mariano Sarmiento, vi siano anche degli elementi positivi che, se indirizzati verso altri scopi e verso mete più nobili, avrebbero potuto fare di lui un uomo notevole, in grado di dare un valido contributo al progresso della società. Ma egli ha soffocato nel suo animo tali sorgenti generose e, scientemente, testardamente, per odio di classe, ha deciso di mettere la sua intelligenza, la sua forte volontà, la sua determinazione, al servizio di una causa nefasta: quella della rivoluzione.
Sì, o signori: la rivoluzione! L’assassinio del valoroso generale Muñoz-Gamero non è stato altro che la logica conseguenza di tele scelta fondamentale. Non per un impeto di furore incontrollato, ma con fredda, criminale decisione, dopo una vita intera spesa nei torbidi sociali, rimestando nel malcontento delle classi lavoratrici, , addestrandosi e rafforzandosi alla scuola del disordine, dell’odio e dell’insurrezione contro lo Stato, egli è giunto a compiere l’estremo e più efferato delitto. Un mostro, signori? No, una testimonianza visibile di quali orrori e di quali violenze sta cadendo preda la nostra amata patria, sotto l’influsso esecrando di una propaganda socialista atea e antipatriottica. Uomini come Mariano Sarmiento odiano non solo il nostro governo e le nostre più gloriose istituzioni: la Chiesa cattolica, l’esercito, strumenti della nostra difesa spirituale l’una, della nostra difese materiale l’altro; no, essi odiano anche l’ordine e la pace sociale, la concordia fra datori di lavoro e operai, fra proprietari terrieri e coloni; odiano i nostri più sacri concetti di giustizia, virtù e libertà; odiano, in una parola, la nostra stessa civiltà, frutto di secoli di storia cristiana e occidentale.
Non vi è sentimento dell’onore, della lealtà, dell’onestà che essi non deridano e non disprezzino; la pistola e la dinamite sono il loro credo, la loro Sacra Scrittura. Scontenti, furiosi, essi istigano il popolo contro di noi, lo lusingano con demagogiche promesse, lo incitano a folli ribellioni. Gonfi d’orgoglio e di superbia, promettono che tutta la terra sarà di tutti, gli uomini; che ogni uomo sarà padrone dei mezzi del lavoro; che la proprietà privata verrà distrutta. Ebbene, signori: io vi dico che noi dobbiamo difenderci! Dobbiamo schiacciare queste serpi velenose, strappare il pungiglione a questi insetti che sono portatori di una terribile epidemia, e il cui trionfo segnerebbe la fine della civiltà!
No, signori: nessuna indulgenza, nessuna debolezza nei confronti di Mariano Sarmiento. Egli, in cuor suo, vi disprezza, e ancor più vi disprezzerebbe se cedeste a scrupoli e compromessi con la vostra coscienza. Egli deve pagare nel modo più duro per il male che ha fatto. La sua indubbia intelligenza, la sua vasta cultura lo rendono ancor più colpevole. Possedeva gli strumenti per comprendere quello che stava facendo, eppure ha percorso fino in fondo la strada del delitto, ha chiuso il suo cuore orgoglioso a ogni forma di pietà. Non abbiate voi, ora, pietà per lui; non aggiungete ancora sofferenza a quella già provata dalla vedova e dai figli del generale Muñoz-Gamero. Mostratete che vi sono, nel nostro amato e infelice paese, dei sentimenti generosi, delle forze sane e capaci di opporsi alla barbarie dilagante dell’odio di classe!
Non c’è bisogno, signori, che vi ricapitoli la storia di questo efferato delitto: voi tutti l’avete udita. L’imputato e n’è assunto la piena responsabilità, morale e materiale. Egli vi ha sfidati, signori: voi e tutto il mondo che rappresentate, la laboriosa e tenace borghesia che ha costruito le fortune del nostro amato Paese. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Vi chiedo, in conclusione, di applicare il massimo della pena prevista per questo genere di reato, commesso con l’aggravante della piena premeditazione. Vi chiedo, signori, di comminare a Mariano Sarmiento la pena del carcere a vita; rammaricandomi che la pena di morte, anche per casi di tale gravita, sia stata abolita dal nostro codice penale. Ho finito.-
Ma sì, non mi aspettavo altro: la sua arringa ha toccato tutte le corde del nazionalismo, del clericalismo, del militarismo. È stata un concentrato di retorica reazionaria, condita con i soliti luoghi comuni dei benpensanti egoisti e privilegiati. La giuria l’ha ascoltato con evidente compiacimento; dal pubblico è iniziato un applauso, che però Caballero ha subito zittito. Ma è chiaro che, in questa sala, l’avvocato Castelàr ha interpretato i sentimenti di gran lunga più diffusi.
Ora è la volta di don Vicente. Mio Dio, come sembra vecchio e stanco; non me n’ero mai accorta. Si alza lentamente e, quasi a fatica, si porta davanti alla sbarra della giuria. Mariano lo segue senza batter ciglio, come ha fatto durante l’arringa dell’accusatore. Il pubblico tace e quasi trattiene il respiro per udire bene.
– Illustri signori, siamo qui chiamati a giudicare un delitto che, apparentemente, reca già scritta da sé la propria sentenza. Mariano Sarmiento, infatti, si è riconosciuto colpevole del reato per cui si sta celebrando questo processo. Fin dall’inizio, non si è trattato di stabilire se egli sia colpevole,
ma come un uomo come lui abbia potuto giungere al delitto, attraverso quali vie, per quali meccanismi. Quale parte vi abbiano avuto i drammatici avvenimenti di Antofagasta del 1908, la sanguinosa repressione dello sciopero che causò tanti lutti tra le famiglie dei minatori. Infine, dobbiamo cercare di comprendere quale strada sia opportuno far percorrere alla giustizia, se quella della durezza che genera inevitabilmente nuove tensioni e nuovi conflitti, o quella della riconciliazione e della pacificazione, capace di aprire alla nostra amata nazione un domani forse più prospero e più sereno. Certo, Mariano Sarmiento ha ucciso: non è possibile sminuire la gravita del fatto, ed egli, molto dignitosamente, non ha cercato di farlo in alcun modo. Pure, chiarito questo, resta da dire che non ci è stato possibile rintracciare in lui quei segni di ferocia che ci si aspetterebbe in un assassino.
Sulle nave che lo conduceva al confino, si è esposto per salvare una vita in pericolo, quella di uno sconosciuto. E anche ora., noi lo possiamo giudicare perché, spontaneamente e non in condizioni di pericolo, ha deciso di costituirsi alla giustizia, scagionando un innocente.Non è questa la maniera di agire d’un volgare assassino, né quella di uno spietato fanatico. La realtà è più complessa di quanto il mio illustre collega, facendone un caso paradigmatico, mostra di pensare. In fondo a ogni cuore umano vi è una regione di fitto mistero: dobbiamo prenderne atto, con umiltà, in quanto noi tutti esseri umani siamo partecipi di quel mistero. No, non tutto è .comprensibile, non tutto può essere spiegato in maniera perfettamente razionale: ciò dovrebbe indurci a un atteggiamento più cauto nel giudicare. Infine, oltre al fatto che Mariano Sarmiento si è consegnato spontaneamente, vi chiedo di collocare il delitto nel contesto di un delicatissimo momento storico, che il nostro paese stava attraversando. Gli animi erano esacerbati l’uso indiscriminato della forza, da parte delle istituzioni, produce talvolta più contraccolpi e disordini di quanti ne possa, sul momento, sedare.
La vittoria della forza è, per sua natura, solo apparente. Essa genera una spirale perversa che si allarga a macchia d’olio, surriscalda gli animi e le menti, spinge ad atti estremi anche persone solitamente sagge ed equilibrate. Non di questo ha bisogno la nostra amata nazione: ma di pace e riconciliazione. Perciò, signori, concludendo, io vi chiedo di tener conto di tali circostanze attenuanti, come del resto esplicitamente previsto dal nostro codice penale, e vi chiedo non certo di assolvere, ma di condannare a una pena meno drastica l’imputato.
Tenete anche conto che, dopo il suo rientro clandestino nel Cile, egli si era già ritirato a vita appartata e solitaria, aveva interrotto i rapporti coi suoi vecchi compagni di lotte e, non che preparare attentati alla sicurezza dello Stato, chiedeva solo di essere dimenticato. Non credo si possa, pertanto, affermare che egli costituirebbe, in futuro, un pericolo per alcuno. Ha anzi esplicitamente ammesso che non armerebbe più la pistola omicida e, mostrandosi addolorato per il male compiuto, ha in un certo senso riconosciuto il suo errore e la sua colpa. Ritengo che una condanna a dieci anni di prigione sarebbe una pena adeguata per lui, e consentirebbe al Paese, che ha bisogno di menti preparate come la sua, di non privarsi irreparabilmente del contributo che potrà ancora dare nell’ambito intellettuale ed educativo, dopo aver espiato secondo giustizia il suo crimine. Ho finito. –
Lennox torna al suo posto e si siede. Per la sala corre un leggero ma intenso brusio. Il presidente chiede a Mariano se vuole aggiungere qualcosa a quanto detto nei giorni scorsi, se vuole fare una breve dichiarazione. Mariano lo ascolta senza guardarlo, come distratto. Inaspettatamente, si alza e dice di sì, ringraziando.
Signor presidente, signori giurati- esordisce calmo, molto padrone di sé: o, almeno, lo sembra – ho ancora qualcosa da dire, effettivamente; ma non per me, bensì per il nostro Paese. Vorrei sbagliarmi, ma vedo giorni difficili all’orizzonte. Troppe ingiustizie, troppa miseria impediscono al Cile di essere un Paese moderno e felice, avviato sul sentiero del progresso pacifico. Finché il grido del popolo non verrà ascoltato, il grido dei minatori che estraggono il rame e il salnitro nell’Inferno del Deserto di Atacama, senza assistenza in caso di malattia o di morte; il grido dei contadini che faticano tutto l’anno per un salario che non basta loro neanche a mantenere la famiglia, altre pagine sanguinose verranno.
Ascoltate quel grido! Se non volete ascoltarlo per senso della giustizia, ascoltatelo nel vostro stesso interesse: non può reggersi una società le cui basi sono così squilibrate e precarie. Ignorare quel grido, è come ignorare le febbre: significa non riconoscere in tempo la malattia, non correre ai ripari, non cercare i rimedi quando ancora sarebbe possibile. Il mio avvocato ha detto che, nell’ultimo anno trascorso in patria, io ho rotto i rapporti coi miei vecchi compagni, riconoscendo implicitamente i miei errori. Sì, forse uccidere un uomo è stato un errore. Ma non è stato un errore aver odiato l’ingiustizia e lo sfruttamento, aver preso le parti degli oppressi. Di questo non mi pento. E se mi sono fatto da parte rispetto ai miei amici d’un tempo, non intendo però abiurare all’ideale della fratellanza di tutti i lavoratori, al loro diritto di vivere in modo più umano, come figli e non come figliastri del Paese che contribuiscono, col loro lavoro, a rendere prospero e rispettato.
Io ho fatto una scelta, a suo tempo, di cui mi assumo la piena responsabilità, perciò vado serenamente incontro al mio destino. Voi riflettete che non è possibile risolvere le contraddizioni laceranti create dal capitalismo, semplicemente ignorandole e mettendo in prigione o mandando al confino un certo numero di persone. Sono questioni aperte che attendono una risposta, e la storia non si fa con le baionette, ma con le idee. Ricordate che anche la storia. un giorno, giudicherà la classe dirigente del nostro Paese: la peserà sulla bilancia e, forse. la troverà scarsa. Quel giorno, la collera del popolo potrebbe scrivere un nuovo capitolo nella vita del Cile; per questo, signori, è bene che ascoltiate prima il grido d’angoscia che si leva dalle masse sofferenti. –
Si ferma di colpo, bruscamente, come se si fosse ricordato all’improvviso di qualcosa, come se avesse parlato più a lungo di quanto avrebbe voluto. Torna a sedere e guarda avanti a sé, quasi estraniandosi. Don Vicente scuote il capo: questa non se l’era aspettata, gli rompe le uova nel paniere. Teme che i giurati si sentano irritati, quasi sfidati; certo non si era aspettato il discorso di Mariano. Ma ormai è fatta.
Cabellero si alza, la corte si ritira per deliberare. Mariano esce, senza guardarmi.
CAPITOLO QUARTO
Mentre l’aula si svuota lentamente, don Vicente viene verso di noi, pensoso. Non può fare a meno di sbottare: – Quel pezzo di Sarmiento! Doveva proprio dire quelle cose? Temo che abbiano prodotto un’impressione disastrosa. I giurati sono tutti borghesi: proprietari terrieri, commercianti, impiegati. Non avranno gradito quel monito, era quasi una minaccia, dal loro punto di vista. –
– Lascia andare, Vicente – replica Alvaro. – Non credo che quell’ultimo discorso cambierà poi molto le cose. E ti dico subito che tu hai fatto senz’altro un ottimo lavoro, ma non credo che qualcuno avrebbe potuto evitare l’ergastolo a Sarmiento: perciò, non te la prendere. La giuria aveva già deciso, ed è vero quel che ha detto il tuo avversario Castelàr: se ci fosse la forca. lo condannerebbero alla forca. Per me, ne sono convinto. –
– E lei, Alexandra, cosa ne pensa? -, mi chiede don Vicente; con me usa sempre il "lei", mentre con mio marito si danno del tu.
– Sarà quel che Dio vorrà -, rispondo, cercando di mostrarmi il meno imbarazzata che potevo; pare una frase fatta, invece mi viene dal profondo del cuore. Sì, siamo nelle mani di Dio.
– Quanto ci vorrà per la sentenza? -, domanda Alvaro.
– Non molto, temo. È meglio restare qui. Secondo me, la giuria si metterà d’accordo in men che non si dica. –
– Tu conosci qualcuno dei giurati, per caso?
– Io? Mai visti. Separiamoci, ora. Il nostro deve sembrare un incontro casuale fra vecchi amici. Ma non allontanatevi troppo, se volete un consiglio. Sarà una faccenda breve. –
Torniamo a sederci. Alvaro giocherella un po’ con la punta del bastone da passeggio, facendola correre lungo il bordo delle piastrelle del pavimento. Pochi sono rimasti. la maggior parte è sciamata fuori, verso il bar di fronte al tribunale.
D’un tratto: – Alexandra, – mi dice, sempre guardando a terra – non vuoi aspettare a casa la notizia della sentenza? –
– No, preferirei restare qui. Ma se tu vuoi andare… –
– No, no. Rimango con te. –
Passano i minuti, non riesco a pensare a niente. Il cuore mi batte forte, per fortuna siamo seduti, la tensione mi rende così debole che non ce la farei ad aspettare in piedi. Dò un’occhiata intorno: tre file più indietro, tra le sedie vuote, scorgo Sabina Alberti. Anche lei è rimasta qui, in attesa. Sembra immersa nei suoi pensieri. Ha un bel viso, due occhi profondi e intelligenti. Mi commuove tanta fedeltà, mi chiedo se Mariano non avrebbe potuto farla felice, se la sua vita avesse preso una piega diversa. Mi sento un po’ a disagio, inspiegabilmente. Mi rasserena un po’ il pensiero che le aveva già detto addio, prima di partire per l’isola dove io e lui ci saremmo incontrati…
L’attesa si fa più lunga del previsto. Cose può significare? Evidentemente i giurati stanno discutendo: almeno qualcuno avrà preso in considerazione la richiesta di una pena più mite dell’ergastolo. L’ergastolo! Non riesco a immaginarmelo, Mariano, chiuso in cella per tutta la vita; non riesco a immaginare una cose simile per nessun essere umano. I minuti passano lenti e nulla accade. Chissà perché, mi vengono in mente, slegati e frammentari, ricordi di quei due mesi sull’isola; ricordi degli ultimi tre anni, quando non sapevo più niente di lui; ricordi di questi ultimi due mesi, parole, gesti, espressioni del suo viso…
Ecco, la gente rientra: si dev’essere sparsa la notizia che la giuria è uscita dalla camera di consiglio. C’è una gran confusione; impiegati e funzionari vanno su e giù, rapidi, nervosi. La sala si è nuovamente riempita, tutti parlano ad alta voce, gesticolano febbrili. A un certo punto si apre una porta laterale e Mariano rientra al suo posto, scortato come sempre da due gendarmi. Rientra subito dopo anche don Vicente, e va a sedersi accanto a lui; rientra il pubblico accusatore e siede al suo posto, dopo essersi brevemente intrettenuto con la vedova del generale Muñoz-Gamero. Altera, superciliosa più che addolorata, almeno così mi sembra, ella aspetta pregustando la vendetta. Chissà, forse è solo una mia impressione: non ho certo il diritto di giudicare il suo dolore.
Infine entra la giuria ed entra il presidente, accompagnato degli altri quattro magistrati. Tutti si alzano in piedi, le chiacchiere tacciono, tutti gli occhi sono rivolti alla corte. Lentamente, nel silenzio carico di tensione, Caballero pone la domanda di rito: – Signori, avete raggiunto un verdetto? –
Si alza uno dei giurati, un grasso proprietario terriero: -Sì, vostro onore. All’unanimità. –
All’unanimità, allora non c’è speranza! E io che pensavo che il ritardo significasse un minimo di discussione, un salutare dubbio all’interno della giuria. Mi sono illusa: noi non crediamo a quel che sappiamo essere vero, ma a quello che più si avvicina si nostri desideri. Ecco, un commesso prende un foglio dalle mani del giurato dall’aria porcina e lo consegna in quelle del giudice Caballero. Centinaia di sguardi sono fissi sull’espressione del suo volto, a cercar di leggervi un indizio rivelatore. Ma il volto del giudice rimane impassibile, appena una lievissima contrazione del sopracciglio sinistro, forse; non ne sono sicura. Caballero passa il foglio al magistrato seduto alla sua destra. Questi si alza, e le stesse cosa fanno tutti i presenti, compresi Mariano e don Vicente.
– Proceda alla letture della sentenza -, gli dice il presidente. Quegli, con voce inespressiva, legge lentamente: – In nome del popolo cileno, questa giuria, convocata per giudicare l’imputato Mariano Sarmiento per il delitto di omicidio premeditato nella persona del generale di divisione ne Hernàn [M]{.smallcaps}uñoz-Gamero, il 7 dicembre 1908, ha giudicato il detto Mariano Sarmiento colpevole del reato ascrittogli e, viste le norme relative del codice di procedura penale, lo condnnna alla pena dell’ergastolo. –
Una lama mi attraversa il cuore. Quasi non odo il tumulto che si è levato in sala; scoppiano gli applausi, cui rispondono violente scampanellate del giudice Caballero. Le forze mi mancano, mi lascio ricadere sulla sedia e intanto cerco lo sguardo di Mariano, per l’ultima volta. Ma lui non guarda nella mia direzione, né in quella del cancelliere che ha appena letto la sentenza, né della giuria, che ha ascoltato compunta e seriosa. Non guarda nessuno, pare assorto; non incurva le spalle, resta dritto al suo posto come se non avesse nemmeno udito.
Caballero batte col martello sul suo banco: – La seduta è tolta! –
Nella confusione generale, Mariano viene riaccompagnato fuori. Don Vicente ci si avvicina tristemente e dice solo: – È come pensavo. Quel pazzo li ha fatti arrabbiare. Ma forse mi sbaglio, forse sarebbe andata così in ogni caso. Non poteva finire diversamente. –
Alvaro gli stringe la mano e lo ringrazia, assicurandolo che ha fatto tutto quanto possibile. Che altro c’è da dire? Sono così confusa che non riesco nemmeno a raccogliere le idee.
Deve essere passato un bel po’ di tempo, perché l’aula è di nuovo semivuota, quando odo la voce di mio marito che mi sussurra: – Cara, andiamo a casa. I ragazzi ci staranno aspettando. –
Gli dò il braccio ed usciamo, senza parlare; cammino meccanicanente, come un automa, come un fantoccio che si va afflosciando.
Fuori c’è il Sole. Vorrei piangere, ma non ci riesco; e poi, non starebbe bene. Bisogna rispettare le parti, nella commedie della vita. Sempre meccanicamente salgo in carrozza con Alvaro, mentre lui dà il nostro indirizzo al cocchiere; uno strattone alle redini, e i cavalli partono, facendo risuonare il selciato sotto gli zoccoli.
Vicinissima, nel cielo azzurro sopra di noi, si erge la mole gigantesca dell’Aconcagua bianca di neve. È bella, di una bellezza indescrivibile, assurda. Un condor dalle ali spiegate volteggia in alto, in alto, sfruttando le correnti ascensionali, e mi fa sentire piccola e più che mai prigioniera.
Da un articolo del giornale conservatore El Paìs, 3 aprile 1915.
Giustizia è fatta! Mariano Sarmiento, 1’anarchico che, con criminale ferocia, uccise più di sei anni fa il generale Hernàn Muñoz-Gamero, è stato condannato dopo un processo-lampo al massimo della pena: l’ergastolo. Verrà trasferitoal più prest in una casa di pena del lontano Sud, probabilmente a Punta Arenas. Il suo avvocato ha rinunciato a presentare appello contro la sentenza, pare per volontà dello stesso Sarmiento. Del resto, nessun espediente gli sarebbe giovato per tentar di sottrarsi alla meritata pena. I giurati di Valparaìso hanno mostrato che esistono ancora, nel nostro Paese, uomini capaci di far trionfare la giustizia, di non lasciarsi intimidire dagli schiamazzi dei sovversivi e dei loro sostenitori. Disordini sono scoppiati davanti alla sede del tribunale dopo l’annuncio della sentenza, ma la polizia ha reagito con la massima decisione, compiendo numerosi arresti e caricando a più riprese la folla dei dimostranti, che alfine è stata dispersa.
Speriamo che questa condanna esemplare serva a scoraggiare, in futuro, ogni velleità dei gruppuscoli dell’ultrasinistra di levare la mano sacrilega contro lo Stato e le sue istituzioni ed inauguri, per il Cile, un periodo di ordine e ritorno alla legge, dopo il caos e l’eccessiva tolleranza i cui frutti maligni sono stati la violenza e la folle speranza di impunità da parte dei malvagi.
Lettera di Mariano ad Alexandra, 20 aprile. 1915.
Va tutto bene; datti pace. Pensa ai bambini, pensa alla tua famiglia; non essere preoccupata per me. Ringrazia don Alvaro e don Vicente. Dimenticami, se puoi; e, se non puoi, pensami con dolcezza, come io penso te.
Da un articolo del giornale El Mercurio, 23 aprile 1915.
Ieri, davanti alle trincee franco-inglesi nell’estremità del fronte occidentale, presso la cittadina belga di Ypres, una strana nuvola giallo-verdastra si è levata improvvisamente e, spinta dal vento, le ha investite silenziosamente. Subito gli uomini hanno cominciato a tossire, a lacrimare, a fuggire
disordinatamente in un groviglio di carri, cavalli e materiale abbandonato.
I Tedeschi hanno impiegato per la prima volte, massicciamente, una nuova micidiale arma in questa guerra mondiale: il gas. Grazie alla sorpresa, sono riusciti a spezzare il fronte per una profondità di diversi chilometri, e ora puntano in direzione di Dunkerque e di Calais che costituirono, dopo la battaglia della Marna dello scorso settembre, l’obiettivo della "corsa al mare" per entrambi gli eserciti. Già padroni di Anversa, se i Tedeschi riuscissero ad impadronirsi anche di Dunkerque e Calais, le chiavi della Manica e del Mare del Nord cadrebbero nelle loro mani, e i loro sottomarini avrebbero libero accesso in direzione dell’Oceano Atlantico.
Coloro che hanno visto le retrovie franco-inglesi ad Ypres, la sera del 22 aprile, riferiscono di uno spettacolo allucinante. Centinaia di uomini agonizzavano, tossendo e lacrimando, la pelle del viso orribilmente ustionata, vittime di un nemico senza volto e senza nome. Gli ospedali da campo sono impotenti, lunghe file di soldati semiaccecati vengono avviate indietro, dopo aver ricevuto i primi soccorsi. Protetti da maschere antigas sia per gli uomini che per i cavalli, i Tedeschi avanzano in tutto il settore, cercando di sfruttare lo sfondamento prima che gli Alleati possano far affluire le loro riserve.
E’ una data storica. La guerra, da oggi, non conosce più esclusione di colpi. Ogni senso di umanità è morto, quel che importa è vincere, con qualsiasi mezzo. Sono passati appena pochi mesi da quando il capitano von Müller, con l’incrociatore corsaro Emden, riempiva delle sue gesta eroiche le pagine dei giornali e, con il comportamento cavalieresco nei confronti delle navi catturate, strappava un plauso di ammirazione fr gli stessi avversari. Non c’è più posto per i vecchi codici di cavalleria, tutto questo è solo un malinconico ricordo del passato. La guerra sottomarina sempre più spietata, i bombardamenti aerei delle città (ricordiamo la distruzione della millenaria cattedrale di Chartres, gioiello dell’architettura gotica mondiale) e, ora, l’uso dei gas asfissianti hanno chiuso per sempre l’età romantica della guerra. Milioni di uomini non sono ormai altro che carne da cannone, mentre nei laboratori chimici al servizio degli Stati Maggiori si la.vora giorno e notte per mettere a punto armi sempre più micidiali e perfezionate, con l’aiuto dei ritrovati più moderni della scienza. Che ne è, adesso, degli ingenui sogni di gloria con cui milioni di giovani, nell’agosto dell’anno scorso, corsero ad arruolarsi in Francia, Germania, Inghilterra, Russia, Serbia e Austria-Ungheria? Che ne è delle bande militari, delle ragazze che offrivano fiori alle stazioni, dei treni risuonanti di allegre canzoni, che avrebbero dovuto riportare quei giovani, gloriosi e vi toriosi, a casa prima dell’inverno? Tutto lascia credere che questo immane conflitto durerà ancora mesi e anni, forse molti anni, e che verrà combattuto sempre meno con le armi tradizionali e con il coraggio degli assalti all’arma bianca, e sempre più con tecniche industriali di sterminio di massa.
Dal diario di Alexgndra, 15 maggio 1915.
Oggi Alvaro mi ha detto: – Questo nostro vecchio mondo dev’essere completamente impazzito Ma lo sai che notizie giungono dall’Impero Ottomano? Pare che i Turchi stiano sterminando un inter popolo, quello degli Armeni, accusato di parteggiare per l’Intesa e di favorire la sconfitta del sultano. Pare che. centinaia di migliaia d’uomini, donne e bambini vengano rastrellati e deportati sulle piste verso il deserto mesopotamico. A un diplomatico svedese che chiedeva notizie della loro sorte futura, quel masalzone di Talaat Pascià pare abbia risposto, né più né meno: – La loro destinazione? La loro destinazione è il nulla! -.Capisci, Alexandra? Non vogliono deportarli; vogliono farli morire di fame, di sete e di sfinimento nel deserto, lontano dagli occhi del mondo. Due milioni di persone! Capisci? È assurdo, mai si era vista una cosa simile, almeno ai nostri tempi.
Avrei voluto non vivere abbastanza da sentire cose del genere. Ho paura per i nostri figli, per il mondo spaventoso in cui si troveranno a vivere. L’uomo sta ritornando ai suoi peggiori istinti di animale da preda, e proprio nel momento in cui la. scienza e la tecnica avrebbero potuto permettergli, rettamente usate, di trasformare la Terra in un vero paradiso!
Dal diario di Alexandra, 17 maggio 1915.
Mi sono informata, il viaggio fino a Punta Arenas è veramente troppo lungo; Akvaro non capirebbe, e poi dovrei lasciare i ragazzi per un tempo eccessivo. Ma pare che a Punta Arenas lo terranno solo per un periodo, poi lo porteranno in una località più vicina, se non addirittura a Santiago o a Valparaìso. Sarebbe un vero miracolo.
Lettera di Alexandra a Mariano, 22 maggio 1915.
Carissimo,
ti scrivo solo ora perché, lo confesso tristemente, non ne ho avuto il coraggio prima. Inoltre, non sapevo se facessi bene o male; se tu preferissi cercare di dimenticarmi, se queste mie parole ridestino in te ricordi che, forse, preferisci accantonare. Ma mi faccio forza e ti scrivo ugualmente per dirti che ti sono e ti sarò sempre vicina, con il cuore e il pensiero; che non mi dimenticherò mai di te. Nulla e nessuno, ormai, potrebbero toglierti il posto che occupi nel mio cuore. Come vorrei conoscere il tuo stato d’animo!
Non ti dico vuote parole d’incoraggiamento, perché non ne hai bisogno. Prego sempre per te e chiedo a Dio di darti finalmente la pace del cuore; e a me, che sono debole, di dare la forza necessaria. Lui non ci lascia mai soli. Mai, credimi: anche quando tutto sembra affermare il contrario.
Ti prego, fammi sapere se hai bisogno di qualcosa. Provo pudore ad aggiungere altro, forse non sono ancora pronta. Ma vedrai che mi riprenderò presto. Per prima cosa, leggerò quella tua relazione, che avevo lasciata chiusa nella busta, seguendo il tuo consiglio. Credo che vi troverò la spiegazione di alcune cose importanti. Credo che riuscirò a entrare nei tuoi pensieri ancor meglio, e ad esserti ancora più vicina. Con tutto il mio bene,
Alexandra.
CAPITOLO QUINTO
Possono otto giorni cambiare la vite di un uomo?
Me lo domando, Alexandra, da quel febbraio del 1912 in cui ho vissuto, col mio amico Federico, una esperienza straordinaria, unica. C’è un buco di otto giorni, appunto, fra l’ultima pagina del suo diario, che allora teneva regolarmente, quasi aggrappandosi a quell’ultimo legame con la civiltà, e il giorno in cui siamo stati ritrovati sulla scialuppa alla deriva sulle onde dell’oceano australe, e tratti in salvo da una nave greca che era stata portata, per nostra fortuna, fuori dalla sua rotta a causa dell’imperversare della tempesta. So che, per quanto riguarda le vicende fino all’8 febbraio 1912, sei stata edotta, appunto, dalla lettura del diario di Federico; perciò ometto il racconto di come siamo giunti all’Isola Doughertji, di quel che vi abbiamo trovato, di come abbiamo perduto misteriosamente la maggior parte dei nostri compagni.
Un mistero inspiegabile, minaccioso pareva gravare su di noi, inesorabilmente. Io, Federico e il marchese di Villemer ci trovavano all’estremità sud-occidentale dell’isola Dougherty e lui stava per raccontarci il vero scopo del suo viaggio, quando siamo stati interrotti, un’altra volta, da quei ruggiti spaventosi, come di una tigre scatenata. Allora abbiamo deciso di ritirarci verso il nostro nuovo rifugio, la grotta che avevamo scoperto presso la spiaggia meridionale. Lungo tutto il tragitto siano stati accompagnati da quei ruggiti di belva, ora più lontani, ora talmente vicini che pensavamo di venire attaccati da un momento all’altro; pareva che l’essere capace di emetterli ci seguisse, tenendosi più in alto di noi, fra le rocce.
Quando siamo giunti alla grotta, non abbiamo trovato alcuna traccia degli altri marinai, che erano usciti per conto loro in un’altra direzione.Ma poicheé i ruggiti continuavano, era ben strano che non fossero corsi, come noi, a cercare rifugio nella grotta; ne abbiamo tratto un sinistro presagio. Del resto, erano usciti per tentar di pescare, dunque non avrebbero dovuto allontanarsi molto; il mare era solo quaranta metri più in basso. Abbiamo acceso il fuoco nel vestibolo della caverna, in modo che il fumo potesse uscire almeno in parte. Volevamo scaldare un po’ di cibo, ma soprattutto sentirci un po’ difesi, poiché il fuoco, a parte la pistola del marchese, era in quel momento la sola nostra possibile arma. Come gli uomini delle caverne vissuti migliaia di anni fa, ci sforzavamo di tener lontano il pericolo e la paura della notte con la fiamma crepitante che si alzava rossastra nella crescente oscurità del crepuscolo. La belva urlava ancora, ma solo di tanto in tanto, ora vicina e ora lontana, come se si fosse aggirata senza pace non lungi dall’imbocco del nostro rifugio. Eravamo spossati fisicamente e spiritualmente, ma la tensione nervosa ci impediva di prendere un po’ di riposo.
– Vi stavo dicendo – ha ripreso il marchese, mentre stavamo seduti presso il fuoco, inquieti e confusi, – che il meteorite che il capitano Richet vide precipitare sull’isola nel 1845 era lo stesso oggetto rinvenuto otto anni più tardi dal capitano Rosenberg del Valdivia. Vi chiederete come lo so, come faccio ad essere così sicuro. Ebbene, il motivo è molto più semplice e incontrovertibile di quanto voi forse supponiate; si tratta di questo: io ho conosciuto il capitano Rosenberg. L’ho conosciuto, intendo dire, dopo la tremenda avventura da lui vissuta nell’ottobre del 1853. Gli ho parlato, ho raccolto le sue ultime parole: perché è spirato, si può dire, fra le mie braccia. Ora vi racconto come.
Nel 1903, a Berlino, un amico tedesco, medico presso una casa di cura psichiatrica, durante un mio viaggio in Germania volle condurmi con sé per conoscere, disse, un caso veramente unico nel suo genere. Mi trovai davanti a un vecchio di circa novant’anni, che sedeva quieto, con sguardo assente, chiuso in una misteriosa follia che lo teneva nelle sue maglie esattamente da mezzo secolo: dal 1853. Era un ex marinaio, un capitano di navi mercantili: si chiamava Josef Rosenberg, era nato a Danzica nel 1812 e aveva fatto naufragio nel 1853, in pieno Oceano Pacifico, col suo clipper di nome Valdivia. Unico superstite dell’intero equipaggio, era stato mal giudicato dagli armatori, perché un capitano non dovrebbe salvarsi se la nave perisce con il carico e con tutti i suoi uomini. Ma lui era già oltre il biasimo o l’assoluzione degli uomini: la sua mente non aveva retto alle prove durissime cui era stata sottoposta. Ricoverato già nel 1854, era stato di fatto abbandonato dai parenti e ormai da cinquant’anni conduceva un’esistenza di quieta follia, perso in un mondo tutto suo, vaneggiando tra sé e sé e ripetendo sempre le stesse frasi smozzicate, le stesse parole incomprensibili. I medici, dopo i primi tempi, avevano praticamente rinunciato all’idea di un suo possibile miglioramento: era uno dei casi più insoliti che fossero loro mai capitati. Con stupore del medico mio amico, il signor Rosenberg parve animarsi un po’ sulla sedia quando mi ebbe davanti e lo salutai. Trattenne a lungo la mia mano nella sua, ossuta e fredda, ma ancora dotata di una forza straordinaria. Il suo sguardo, vacuo da anni e anni, mise a fuoco la mia immagine con insolito interesse, parve scrutarmi dentro gli occhi, in un certo senso come se mi avesse riconosciuto. E con agitazione crescente, come compiendo uno sforzo sovrumano, egli mi tenne il suo discorso più lungo, più articolato e più lucido che avesse mai pronunciato da quando si trovava in quel luogo.
Disse, con evidente fatica dovuta alle sue ormai critiche condizioni di salute, masticando le parole e tuttavia sforzandosi, si sarebbe detto, di farsi intendere da me: – Io l’ho vista, l’isola. Io l’ho vista, vi dico. Non è stata un’allucinazione… –
– Quale isola, signor Rosenberg? -, gli domandai, conciliante.
– L’isola Dougherty.. Loro credono che me la sia sognata, ma non è vero… L’isola c’è… e c’è anche la pietra verde, la pietra luminosa che uccide coloro che la toccano… Io lo so, non sono pazzo… Ma c’è il diavolo, su quell’isola… –
Qualcosa mi diceva che quell’uomo stava tentando di dire una verità, faticosamente: una verità alla quale era impossibile credere. Ogni tanto si fermava, lo sguardo perso, e cominciava a canticchiare una strana nenia malinconica; poi, di colpo, i suoi occhi si accendevano di una luce febbrile, mi stringeva il braccio nella morsa della sua mano scarna, mi faceva cenno d’ avvicinarmi, come per sussurrarmi qualche cosa all’orecchio.
– Che cos’è la pietra verde, signor Rosenberg? -, gli domandai..
– Si trova a bordo del vecchio brigantino inglese… Qualcuno l’ha posta lì, sì, qualcuno… su di un piedistallo… Chi può avercela messa? Il diavolo, dev’essere stato… Non può essere che così… C’è una forza, in essa, una forza spaventosa… Se la tocchi, muori… Come successe a quel marinaio, lo so bene…
Per quel giorno non disse altro; poi si chiuse in un silenzio totale, e il mio amico mi disse che era inutile insistere. Io tornai, nei giorni seguenti. Sempre ritornava nel suo primo discorso, aggiungendo confusamente qualche nuovo particolare; ma, per diverso tempo, non riuscii a portarlo più avanti nel suo racconto. Avevo sentito parlare dell’isola Dougherty, sapevo che era uno dei misteri insoluti del mare; e mi era stato detto che Rosenberg, nell’ottobre del 1853, era stato salvato miracolosamente da una nave americana proprio nelle acque ove essa, se esisteva, avrebbe dovuto trovarsi.
Intanto il povero vecchio andava perdendo le forze, quasi a vista d’occhio; era così debole che non si alzava più dal letto, dormiva o vaneggiava quasi tutto il tempo.
Finalmente, un giorno, mentre sedevo accanto al suo letto, stranamente affascinato da quel moribondo che aveva smarrito la ragione tanto e tanto tempo prima, all’improvviso egli aprì gli occhi e parlò quasi speditamente, con inaudita lucidità.
– È il diavolo che vaga su quell’isola, e ruggisce come una belva… Ma vi sono anche presenze celestiali, sicuro: si può udire una musica d’organo, bellissima, divina… –
Provai ad interrogarlo: – Ma la pietre verde, che cos’è? Chi ve l’ha portata e quali sono i suoi poteri? –
– La piietra verde… è un mistero. Io non so chi l’ha portata… Ma so che essa può dare il dominio del mondo… Non è una pietra, anzi, è una cosa viva. Sì, è viva. Ed è malvagia: sente e capisce, possiede un’intelligenza e una volontà… È scesa dal cielo per dominarci, a patto che qualcuno la risvegli dal suo lungo sonno… –
– Dove si trova, esattamente? –
– A bordo del brigantino inglese, il Newcestle…
– Ma in che modo può essere utilizzata? –
– Nessuno può toccarla, altrimenti muore… Ma lei, non morirà mai: è immortale. Scatena le forze del male, e non si lascia usare. È lei che può usare l’energia e la volontà di chi è disposto a servirla.
Volevo porgli altre domande, ma aveva chiuso gli occhi e pareva che dormisse. Fu il mio amico a farmi notale che era morto. Voi credete al destino, signori? Be’, io comincia a credervi quando incontrai, anni dopo, il baleniere Bull. Due uomini che dicevano di aver visto l’isola Dougherty, e i cui racconti si completavano stranamente. E in più, io solo ero a conoscenza di un segreto straordinario, di una possibilità unica si mondo che si trovava, avvolte in un velo di mistero, su quell’isola sperduta. Allora ho deciso di squarciare quel velo. Il mistero mi attira, lo confesso; mi attira la potenza di una forza sconosciuta. È per questo che sono venuto qui, ed è per questo che ho trafugato la pietra verde. –
Io e Federico ci siamo guardati, allibiti. – Lei ha trafugato la pietra?
– La notte stessa del nostro arrivo sull’isola, mentre dormivano tutti. –
– E dove si trova, adesso? -, gli abbiamo chiesto. –
– Nel mio sacco. È sempre stata con noi. –
– Dunque -,1’ho interrotto – lei ci ha presi in giro, quando siamo saliti sul Newcastle per cercarla…
– Ho dovuto, signori: me ne spiace. Non sapevo se potevo fidarmi fino in fondo, e inoltre non conoscevo io stesso i poteri di quell’oggetto. –
Abbiamo guardato nell’angolo della grotta, dove giaceva il sacco del marchese, accanto ai nostri. Eravamo inquieti.
– Come ha fatto a prenderla? Nel diario di Rosenberg si dice che il marinaio Halder è morto, per averla toccata… –
– Ho usato delle precauzioni. L’ho avvolta in un panno di lana e poi in un telo cerato, senza toccarla mai con le mani. Sapevo del pericolo. –
Fuori, nella notte fredda e buia, avevano ripreso ad echeggiare gli urli della belva, facendoci impallidire. C’è stati un lungo silenzio; dovevamo riflettere.
Poi gli ho detto: – Marchese, io credo che lei abbia messo in moto un meccanismo pericoloso e forse inarrestabile. Ha risvegliato delle forze latenti che sarà molto difficile ricondurre sotto il nostro controllo. Penso che vi sia una relazione, non so dire quale, fra la pietra verde, o meglio fra 1’averla presa e portata via, e tutti gli avvenimenti che sono accaduti in questi giorni, compresa la scomparsa di tanti uomini. –
Il marchese ascoltava in silenzio, impassibile. Le lingue di fiamma gettavano strani riflessi rossastri sul suo viso, conferendogli una luce sinistra, spaventosa. I suoi occhi freddi e spietati brillavano nella semioscurità, quando rispose lentamente: – Sì, lo penso anch’io. –
– Marchese -, gli si rivolse Federico – in nome del cielo, se non è troppo tardi, sbarazziamoci di quella cosa. Lei stesso ci ha detto che il vecchio Rosenberg la considerava una creatura viva e malvagia… –
Lui lo guardò senza scomporsi, quindi chiese: – Che dovrei fare, allora? –
– La butti in mare! Solo così, forse, potremo sopire quelle forze che abbiamo risvegliato, e sperare di salvarci; altrimenti finiremo come gli altri, e quest1isola diverrà la nostra tomba! –
Allora Villemer, con calma, estrasse la pistola e ce le puntò contro: – Vi ho sopravvalutati, signori. Ora capisco che è stata follia fidarmi di voi. Non siete che due esseri gretti e. meschini, incapaci di giudicare le cose in grande. Ma vi avverto che non vi lascerò toccare la pietra: essa, per me, riveste un valore ben maggiore delle vostre insignificanti vite. –
-Lei è un pazzo -, gli dissi. – Che cosa crede di fare? Pensa di poter sopravvivere anche senza di noi? Quella pietra le ha sconvolto la mente. –
I ruggiti erano sempre più forti, sempre più vicini; pareva che la mostruosa creatura fosse a pochi metri da noi, proprio sulla soglia della caverna.
– La butti, mi ascolti! Oh, è troppo tardi… Non possiamo più uscire da qui -, imprecò Federico.- Siamo in trappola! –
CAPITOLO SESTO
Seguito della relazione di Mariano sui fatti del febbraio 1912.
La luce negli occhi del marchese si era fatta spaventosa, demoniaca.
Egli si era avvicinato al suo sacco, minacciandoci sempre con la pistola, e con la mano sinistra lo stava aprendo. -Pazzi! Voi siete i pazzi, se credete che voglia disfarmi della pietra, dopo aver fatto tanto per impadronirmene! La vita di quegli sciocchi marinai, per me, valeva meno di niente: avrei sacrificato un numero dieci volte più grande di persone cento volte! Né m’importa qualcosa di voi, perciò non avvicinatevi. Ma voglio farvela vedere: è una cosa incredibile. –
Dopo aver slacciato le fibbie del sacco, lo prese per il fondo e lo rovesciò lentamente a terra: ne uscì un involto di tela cerata, e poi un altro di lana, che il marchese liberò allo stesso modo. Da ultimo apparve una piccola piramide irregolare di. colore verde-giallino, non più alta di trenta centimetri, che nello scarso chiarore della caverna pareva brillare di una misteriose luce propria.
In quel momento la belva giunse al parossismo del furore; si udì un trapestìo presso l’entrata della grotta, e un’ombra apparve confusamente, uscendo dal buio della notte.
Fu un attimo. Approfittando di un istante di distrazione del marchese, Federico gli si gettò addosso, disarmandolo. Io coprii in fretta la pietra con il telo cerato, poi cominciai a gettarvi sopra terra e sassi. Mi volsi verso gli altri due, e vidi che il marchese giaceva a terra: un filo di sangue gli usciva dal capo. Aveva battuto la testa su uno spigolo di roccia, cadendo, ed era morto sul colpo.
Solo dopo qualche secondo ci rendemmo conto che gli urli della belva non si udivano più, e nessuna ombra si muoveva presso l’entrata del nostro rifugio.
Fu una notte molto lunga, e dormimmo pochissimo. All’alba ci rendemmo conto che, da sotto il cumulo di terriccio e sassi che avevamo ammassato sopra la pietra, proveniva una debole, innaturale luminescenze verdastra. Fuori, benché più lontani, si udivano nuovamente i ruggiti spaventosi. I nostri nervi erano a pezzi: decidemmo di andarcene dall’isola. Sfiniti, tremanti di freddo, d’insonnia e per lo shock nervoso, trascinammo la scialuppa giù per il pendio sassoso, vi caricammo i nostri pochissimi viveri e gli altri oggetti, e la spingemmo in acqua. Per prima cosa remammo verso l’angolo sud-occidentale dell’isola: volevamo tornare alla cascatella e fare provvista d’acqua. Ci riuscimmo, con grandissima fatica, e riempimmo ogni recipiente disponibile. Poi decidemmo di tornare nella laguna per vedere se qualcosa si era salvato dall’incendio del Valdivia: di troppe cose avevamo ancora bisogno, prima di affrontare una traversata in mare aperto. Ma le correnti marine ci tradirono, afferrarono la nostra imbarcazione e vinsero facilmente la nostra debole resistenze, trascinandoci al largo.
Qui comincia la parte più confusa dei miei ricordi. Disperando ben presto di poterci salvare, quando ci rendemmo conto che era impossibile ritornare sull’isola a forza di remi, ci lasciammo andare alla deriva, aspettando la fine. Le onde gigantesche ci sollevavano e ci facevano sprofondare con terribile regolarità, ma le basse fiancate della scialuppa offrivano così poca presa ai venti, che essa rimaneva a galla come un turacciolo di sughero, praticamente inaffondabile. Il freddo ci tagliava il viso e le mani; mangiare era. un’operazione penosa: inghiottivamo pochi, nauseanti bocconi di carne di foca, crudi, portandoli alla bocca con le dita irrigidite dal gelo. Avremmo preferito essere già morti; la nozione del tempo non esisteva più, non c’era altro che l’urlo del vento e la immense masse verdastra dell’oceano antartico tutto intorno a noi, sotto un cielo grigio e impenetrabile.
Perdemmo conoscenza. Alternavo momenti di quasi lucidità con altri di torpore, popolati da strani sogni e allucinazioni. Vedevo frammenti di cose del passato, e persone e situazioni irreali si mescolavano a quelle della vita reale. Vedevo anche te, Alexandra: miraggio dolcissimo e lontano, sempre col tuo soave sorriso, come circondata da un’aureola di luce e di bellezza. Poi mi sembrava di essere tornato indietro nel tempo, ero fra i compagni anarchici di Valparaìso, discutevamo di quell’importante personaggio che tu sai, e che è inutile nominare qui. Ogni tanto, la pietra verde compariva come un’apparizione maligna, come un incubo tormentoso: la sua presenza coincideva con un senso di oppressione e di malessere, un brivido freddo mi correva per le ossa.
È impossibile, per me, ancor oggi, a distanza di tanto tempo, separare le fantasie dalla realtà, ciò che pensavo nello stato di veglia e ciò che credevo di vedere nel sogno. A un certo punto mi pareva di percorrere una strada nel bosco, in un rosso tramonto senza fine. Le cime degli alberi si stagliavano nere, in controluce, nel cielo purpureo della sera; ma sul sentiero, all’ombra del fogliame, era già buio fitto. No, non era più una strada, quella che stavo percorrendo, ma un ruscello che attraversava il bosco mormorando, all’ombra delle piante secolari. Io camminavo lungo la riva, ma a un tratto scorgevo un’ombra venirmi incontro. Fra i tronchi, dietro le fronde si udivano sussurri e bisbiglii, come se qualcuno stesse parlando di me; e non erano voci amichevoli. Quando l’ombra mi giunse vicina, vidi, con immenso stupore, che quella figura ero io stesso: un uomo che aveva il mio volto, la mia figura, il mio sguardo: era il mio doppio. Cosa ancora più strana, lui pareva non vedermi: guardava dritto avanti a sé, e camminava piuttosto spedito, come diretto verso una meta precisa. Mi passò accanto e proseguì oltre, lasciandomi muto e paralizzato per lo stupore. Lo vidi allontanarsi nella rossa luce del tramonto, e provai come un senso penoso di vuoto, di abbandono.
Provai una sensazione di freddo e mi strinsi nella giacca, rabbrividendo. Ed ecco, mentre ero lì, sulla sponda del fiume, solo coi miei pensieri, vidi (non so quale altra espressione migliore adoperare) tutta la mia vita, tutto il mio passato: non come un flusso di ricordi, ma come una entità completa, che io potevo abbracciare con un solo colpo d’occhio; e vidi che la seconda parte di essa era avvolta nella penembra, "Vidi" tutte le cose buone che avevo fatto, tutti i volti di coloro che avevo amato, e ne provai una indicibile sensazione di conforto; ma, allo stesso tempo, "vidi" anche i miei errori, le mie colpe e, in particolare, un essere umano al quale avevo provocato una crudele sofferenza. Intorno a lui c’erano i suoi cari, distrutti dall’angoscia. Ricordo che ne provai un tale sgomento, una tale vergogna, da aver pensato che quello non poteva essere che l’Inferno, ed io vi ero sprofondato. Quell’atroce impressione di dolore durò un secondo, oppure un secolo; non saprei dirlo. Poi vidi che, a un .certo punto, la mia vita scivolava nell’ombra, ma senza più rimorsi, senza più sofferenza, come se un peso mi fosse caduto dalle spalle. E sentii che una presenza amica rimaneva al mio fianco, anche se fisicamente lontana; e ciò mi dava una immensa sensazione di conforto.
Poi tutto scompariva, e una voce mi ammoniva di non rivelare a nessuno il segreto dell’isola Dougherty, a non parlare con nessuno della pietra verde; benché io, nel sogno (se era un sogno) non avessi mai udito prima quel nome, né sapessi nulla di una pietre verde. Infine mi sembrava che qualcuno mi avesse preso per mano, e mi stesse conducendo fuori dal bosco.
La notte era finita, gli uccelli cantavano, il cielo stava impallidendo e ovunque spirava un senso di pace. Una lontana musica d’organo si spandeva tra gli alberi del bosco, ormai sempre più radi, finché uscivo all’aperto e scorgevo una corona di monti circonfusi di gloria nella luce radente del primo mattino. La neve delle cime scintillava sotto i primi raggi che piovevano in controluce, sulla linea della cresta rocciosa. Non credo di aver mai provato, in tutta la mia vita, una tale infinita sensazione di pace e benessere. Non so come dirlo, mi pareva di essere in armonia con ogni cosa del mondo, dal filo d’erba stillante di rugiada mattutina, al candore splendente delle vette lontane e grandiose.
Ecco, questo è tutto. Non ricordo come fummo avvistati e tratti in salvo da una nave greca; tutto questo ci è stato raccontato dal capitano, soltanto più tardi. Posso dirti soltanto che il sogno, o la visione che ebbi sulla scialuppa che andava alla deriva, ha lasciato in me una traccia profonda, un senso, come dire?, di maggiore comprensione delle cose, di maggior consapevolezza che noi siamo una piccola parte di un tutto infinito, ma con uno scopo e una responsabilità precise nella, vita, con dei conti da fare onestamente con 1a nostra coscienza. E non è stata estranea alla mia decisione di rientrare clandestinamente in Cile, né a quella di volerti rivedere ma senza più entrare nella tua vita; né, infine, a quella di consegnarmi alle autorità, non appena ebbi la notizia dell’arresto di quel Tomàs Ribeiro. Eppure, devo dirti che l’idea di fare i conti con la giustizia mi frullava già da tempo nell’animo. Due cose mi trattenevano: il timore che il mio gesto potesse sembrare un’abiura dei miei ideali, e il fastidio all’idea del clamore che si sarebbe fatto intorno alla mia persona. No, ho mentito; una terza considerazione mi tratteneva: il pensiero di te, di poterti nuocere, coinvolgere; di poterti turbare, riportando a galla un passato che tu, forse, avevi deciso di dimenticare, o magari non di dimenticare, ma di collocare all’interno di un equilibrio faticosamente raggiunto. Di sconvolgere, insomma, la tua serenità.
Questo è tutto. Non so darti alcuna spiegazione per i fatti dell’isola Dougherty. Io non credo in Dio, lo sai, e quindi tantomeno potrei credere al diavolo o cose simili. Però credo che vi siano il Bene e il Male, e che l’uomo sia chiamato a scegliere tra essi. Esisteva, anzi, esiste, indubbiamente, su quell’isola, una qualche forma di presenza malvagia; ma credo che essa non abbia alcun potere, se non è alimentata dalla follia umana. Credo che la belva assassina sia stata prodotta dall’ambizione, dalla sete di potere del marchese; che la sua mente abbia agito da catalizzatore: come, non ne ho idea. Credo anche che, sull’isola, vi fossero delle presenze amiche: la musica di spinetta non poteva essere manifestazione di forze negative. Ricordo anche le parole del vecchio Rosenberg al marchese: egli disse che aleggiavano presenze celestiali, musiche divine. Anche questo è un aspetto che non so spiegare, naturalmente. Ho sempre pensato che la musica abbia in sé una scintilla divina; che sia l’arte buona per eccellenza, capace di elevare il nostro spirito nelle regioni più alte e nobili della bellezza, e della morale. Ma la musica che abbiamo udito sull’isola non ha alcuna spiegazione razionale. A meno che si pensi che, come la belva feroce era una creazione e una specie di prodotto delle nostre pulsioni distruttive ed egoistiche, così la musica celestiale era forse una risultante dei pensieri positivi presenti nel nostro gruppo. Ma è un’ipotesi talmente fantasiosa che io, per primo, stento a credervi.
Ecco, ti ho detto tutto; altro non ricordo, ed è la verità più assoluta. Mi hai chiesto di sapere cos’era accaduto sull’isola, e a te non terrei mai celato qualcosa. Per me, sei quanto di più prezioso ci sia al mondo. Ti ringrazio di ogni cosa, e non solo per quanto stai facendo adesso, ma per tutto: per il fatto di esserci, e di essere così come sei. Ora, comunque vadano le cose (e io non mi faccio illusioni), abbi cura di te e non preoccuparti di nulla. Io sto bene; devo pagare un debito. I sentimenti di dolcezza e di bontà che tu mi hai sempre trasmesso, hanno avuto su di me un effetto molto più grande di quanto tu possa mai immaginare. Io sono un altro uomo, dopo averti conosciuta. Un uomo migliore, credo. Grazie per questa benefica influenza che hai avuto nella mia vita.
Dal diario di Alexandra, 23 maggio 1915.
No, grazie a te, caro amico.
Anche la mia vita è cambiata, dopo averti conosciuto. Mi hai fatto capire tante cose, di me stessa e della vita. Non credo che potrò mai ringraziarti abbastanza; non credo che potrò mai dimenticare il nostro incontro. Io penso che Qualcuno ci abbia fatti incontrare perché ci aiutassimo reciprocamente, disinteressatamente; Qualcuno che continuerà a prendersi cura di noi, di me e di te, e di tutti quelli che amiamo
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CAPITOLO SETTIMO
Dal diario di Isabela Cienfuegos, 2 settembre 1963.
Quando ho richiuso la scatola di latta contenente il diario della mamma, le lettere di Mariano Sarmiento e il quaderno di Federico Kocbek,ero in preda a un’emozione vivissima. Ho pianto un poco, anche. La mamma non c’è più da quasi un anno.
Poco prima di andarsene, mi aveva detto: – Isabela, in quella scatola ci sono delle cose mie, che non ho mai fatto vedere a nessuno. Potrei distruggerle, ma forse non sarebbe giusto. Ci sono delle cose belle, credo, e vorrei che tu le conoscessi. Le leggerai quando vorrai, dopo che io non ci sarò più. Ora che sei grande, puoi capire tante cose che, da bambina, non avresti potuto certo comprendere. Mi avresti giudicata male. Ricordati che io ho sempre amato il babbo, sempre; che gli ho voluto bene per tutta la vite, e anche… dopo. Ma ho fatto pure un’altra esperienza, un’esperienza di cui mi è difficile parlare, perciò ti voglio lasciare quelle vecchie carte. Ho voluto bene anche a un’altra persona; certo, in modo diverso. E quella persona ne ha voluto a me, tantissimo.
Accadono cose strane, nella vita; si fanno degli incontri che sembrano quasi un’ironia. Ci si chiede: perché adesso? Perché non prima? Incontri importanti, che ci emozionano, ci confondono un poco, anche. Sul momento, pare che l’unica alternativa sia mandare all’aria il presente, sconvolgere la propria vita e quella degli altri, delle persone care; oppure far finta di niente, rinnegare dei sentimenti profondi che stanno nascendo, mentire a noi stessi, amputarci di una parte di noi, gettar via la bellezza che si è posta sul nostro cammino. Scelte comunque dolorosissime, che ci lascerebbero incompleti, insoddisfatti. Poi, lentamente, con fatica, si comprende che non è necessario porre una simile alternativa. Che la vita è più grande di come pensavamo noi, che può comprendere tutto, accogliere tutto; che non è giusto né necessario amputarci dell’amore che possiamo dare e ricevere; solo, dobbiamo collocare i nostri sentimenti in una dimensione tale, per cui essi arricchiscano e non impoveriscano il nostro essere, la nostra serenità, la verità che è in fondo a noi stessi. Io ho compreso tutte queste cose, con molta sofferenza; ma, alla fine, sono stata ripagata ampiamente di tutto. Sono maturata, sono cresciuta, sono diventata più forte, con l’aiuto di Dio. –
Povera mamma, quanto deve aver sofferto, in quei tre anni che vanno dal 1912 al 1915; e anche dopo! Quanto deve aver faticato, per non lasciar trasparire mai nulla del suo turbamento, per non toglierci mai nulla della nostra spensieratezza. E non aver potuto mai condividere con alcuno il suo segreto, la sua sofferenza, le sue paure.
Mi rasserena il fatto che, a un certo punto, la pace è scese nel suo cuore e le ha restituito serenità e coraggio. Cosi la ricorderò sempre, serena e coraggiosa. Ora so dove andava, una volta l’anno, a partire dal 1918 e fino al 1929. Andava a Iquique, col treno; stava via un giorno e tornava la sera del giorno dopo. A Iquique, nel 1918, era stato trasferito Mariano, dopo tre anni passati nel carcere di Punta Arenas. E lì è morto, nel 1929, per un tumore al cervello, a cinquantasei anni, senza più rivedere la libertà.
Non so se papà conosceva lo scopo di quei viaggi, per me e Ricardo un po’ misteriosi; forse sì. Lui è morto nel 1946, si è spento serenamente, in mezzo a noi. Ma a Iquioue, so che la mamma è andata ancora qualche volta, fra il 1929 e il 1955, quando la salute le ha reso impossibile viaggiare. Andava a trovare Mariano al cimitero, a portargli dei fiori. È rimasta fedele alla sua amicizia sino in fondo, sino all’ultimo; come gli aveva scritto una volta, non aveva mai potuto dimenticarlo.
È bella Parigi, in questa stagione; bella e un po’ malinconica. L’estate lentamente si spegne in una gloria di colori dai riflessi di fiamma. Sono belli i viali, i giardini, i boschi. Mi ricordano un poco il Cile lontano, dove riposano il babbo e la mamma.
Mamma, sei stata grande. Hai amato moltissimo, hai continuato a darmi un riflesso della tua serenità e saggezza anche oggi, permettendomi di condividere il tuo piccolo, grande segreto. Io non so che nome dare a quel che provavi per Mariano. So solo che doveva essere qualcosa di grande, di bello, di puro. Questo ho capito leggendo le tue lettere, le sue lettere. Vi siete voluti immensamente bene. Nemmeno la morte ha potuto dividervi. Grazie di tutto, mamma. Sono fiera di essere tua figlia. Cercherò di amare sempre la vita, come l’hai saputa amare tu.
Chissà, se davvero c’è quell’Aldilà in cui tanto credevi, ci ritroveremo tutti, e non vi saranno più né imbarazzo, né paure, né scelte dolorose da fare.
Ci abbracceremo in silenzio, felici. Non vi saranno gelosie o malintesi, ma solo un fiume di luce e di amore.
.(fine)
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels