L’isola, terza parte
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L’isola, quarta parte

PARTE QUARTA

CAPITOLO PRIMO

Dal diario di Alexandra, 2 febbraio 1915.

È molto tardi. Oggi Alvaro mi ha portata a cena fuori e abbiamo fatto quasi mezzanotte seduti a un tavolino del Cristobàl Colòn, ascoltando la musica. E’ una cosa molto rara che ci facciamo vedere in società, ormai conduciamo una vita ritirata, frequentando solo pochissimi amici. Per questo mi sembrava strano essere lì, fra mille luci scintillanti, cullata dalle note dei motivi più in voga.

Osservavo le. coppie danzanti al centro del salone, eleganti, spensierate, e mi chiedevo: ma questa gente lo sa che il mondo è in guerra? Che un intero mondo, il nostro mondo, sta finendo per sempre? Qualche ora prima, recandoci al ristorante, ci eravamo fermati davanti alla vetrina di un negozio; una cartoleria, credo. Il proprietario, un tedesco, aveva esposto una grande carta geografica dell’Europa, con delle bandierine che regnavano le linee dei fronti combattimento. Sembrava nuasi un bel gioco di nuovo tipo: peccato che sia un gioco scritto col sangue di milioni di uomini. Mai si era vista, nella storia, una barbarie di tali proporzioni: è il collasso morale di una intera civiltà. Ma viviamo ormai nell’era delle comunicazioni di massa, e tutto serve a fare spettacolo. I giornali vanno a ruba con i resoconti della grande battaglia dei Carpazi: Russi e Austro-Ungarici si stanno massacrando nel cuore dell’inverno, con temperature di venti gradi sotto zero, lungo strade di montagne sepolte nel ghiaccio e nella neve. E la gente si entusiasma! Ne parlano ai caffè, nei ristoranti come di un interessante campionato sportivo; fanno i generali da salotto, trinciano giudizi, arrischiano previsioni; scommettono, quasi, su come andrà a finire!

Ricordo quando arrivò in porto, nel novembre, la squadra navale dell’ammiraglio von Spee, reduce dalla vittoriosa battaglia di Coronel! Tutti i Tedeschi di Valparaìso, e molti Cileni simpatizzanti, riempivano le strade al passeggio di quei superbi ufficiati gallonati; molti prendevano fotografie, ragazze gettavano fiori… Lo spettacolo della guerra! Panem et circenses, come dicevano gli antichi Romani: il popolo non vuole altro. E pensare che poco più di un mese dopo, con la battaglia delle Isole Falkland quei superbi ufficiali erano morti, con tutti i loro equipaggi; e l’ammiraglio aveva fatto la stessa fine, insieme ai due figli che erano imbarcati a bordo della sua squadra. L’uomo: essere infinitamente egoista, e non sai se più stupido o più cattivo! Ah, non dovrei parlare così, io che sono credente; parlo come…

Ma sì, perché fingere? Il pensiero torna sempre là, dopo la visita della señorita Kocbek non riesco a pensare ad altro… Il diario di suo padre Federico finiva lì, bruscamente, alla data dell’8 aprile 1912. Ma nell’ultima pagina era infilata una busta con una lettera, scritta dal señor Federico in data 5 ottobre 1914.

Lettera di Federico Kocbek ad Alexandra, 5 ottobre 1914.

Señora,

innanzitutto voglio scusarmi con lei di questa irruzione nella sua vita privata, forse inopportuna, certo intempestiva. Tuttavia, in previsione di un lungo viaggio in Europa che forse mi terrà lontano per degli anni, sento che questo quaderno di appunti potrebbe essere più utile a lei che a me, e pertanto chiederò a mia figlia Isabela di farglielo avere, anche se certo passerà del tempo prima che ciò si? possibile. Attualmente mi trovo in Argentina, per ragioni che lei certamente può immaginare, e non mi è possibile rientrare in patria, né so quando mai potrà accadere.

Spero che lei non mi serbi risentimento per le conseguenze che la nostra evasione dall’isola, tre anni or sono, potrebbero aver avuto sulla carriera di suo marito, l’eccellente don Alvaro Ho saputo, infatti, che subito dopo quegli avvenimenti egli è rientrato a Valparaìso, abbandonando il servizio dello Stato. Se, in qualche misura, siamo stati causa di ciò, me ne dispiace immensamente.

Credo lei possa immaginare le perplessità che ho avuto prima di risolvermi a inviarle questo documento, rievocando un passato che lei forse non desidera più ricordare. Se, alla fine, mi sono deciso a compiere questo passo, è stato unicamente in nome della stima e della simpatia che sempre ho nutrito per lei. Ho pensato che forse le avrebbe fatto piacere sapere qualcosa di quanto ci era accaduto, anche se attualmente non so dirle nulla di positivo circa quella tal persona, della quale immagino che lei non abbia più avuto notizie. In effetti, non l’ho più vista da moltissimo tempo e non ho idea di dove si trovi, né cosa le sia accaduto. Ma procediamo con ordine.

Se ha già letto le pagine del quaderno che le accludo, posso facilmente immaginare i suoi dubbi, se non addirittura la sua incredulità, a proposito di quanto in esse è scritto. Non ho alcuna obiezione da fare in proposito, poiché io per primo riconosco che le avventure accaduteci sono state talmente incredibili, che chiedere a un altro essere umano di prestarvi fede significa chiedere molto. Io stesso, a volte, ho come la sensazione di non poter quasi credere a ciò che ho visto e vissuto in prima persona, quasi fosse stato tutto uno strano e allucinante sogno. Pure, è un fatto che niente di quanto ho scritto allora si svolse unicamente nella mia mente, niente è stato aggiunto a quanto realmente accaduto.

Il diario, come avrà notato, si interrompe alla data dell’8 febbraio di tre anni fa, e la ragione è questa. Non so cosa accadde dopo, e invano ho tentato, in tutto questo tempo, di ricordarlo. Capisce, señora? Ho perduto la memoria, ma soltanto relativamente a quei fatti. Non ho smarrito il ricordo di tutto il mio passato, ma solo di ciò che accadde sull’isola Dougherty nel febbraio del 1912, dopo gli avvenimenti impressionanti verifìcatisi nella laguna interna. Non so se il mio amico ne sappia qualcosa di più; lui sostiene di no, di non ricordare assolutamente nulla, proprio come me. Tuttavia, non so perché, ho come la cessazione che lui, invece, qualcosa ricordi, ma non abbia mai voluto dirmelo. Posso solo dire che, dopo quelle stranissime esperienze, il suo sguardo era cambiato, come se vi si fosse affacciato il riflesso di una voragine senza fine, di un qualcosa che, una volta visto, non permette ad un uomo di tornare a essere esattamente quello di prima. Come, vorrei dire, se egli si fosse spinto in una terra sconosciuta, una terra senz’uomini, e avesse riportato con sé l’odore di una solitudine quasi percepibile fisicamente.

Ma una cosa alla volta; avevo detto di voler procedere con ordine, e ora tenterò di farlo.

Il 16 febbraio 1912, mentre la nostra scialuppa andava alla deriva in mare aperto, a circa cinquantasette gradi di latitudine sud e centodiciotto di longitudine ovest da Greenwich, Mariano ed io fummo tratti in salvo dagli uomini della nave mercantile greca Tenedos Eravamo semi assiderati, semi-disidratati e in stato d’Incoscienza. Ci riprendemmo nei giorni seguenti, ma non fummo in grado di raccontare nulla al capitano della Tenedos, se non che la goletta Santa Inés aveva fatto naufragio in quei paraggi, e che noi eravamo gli unici superstiti. Naturalmente ere solo una parte della verità, ma non potevamo certo raccontare di essere due forzati evasi del bagno penale. Ma quanto agli ultimi avvenimenti sull’isola Dougherty (isola della quale non facemmo parola con anima viva), li avevamo veramente dimenticati.

Il mio ultimo ricordo, e anche del mio amico, era una conversazione col misterioso marchese di Villemer, durante un’escursione alla punta sud-occidentale dell’isola, che venne bruscamente interrotta dai ruggiti spaventosi di una tigre. A quel punto ci mettemmo in allarme e decidemmo di tornare immediatamente al rifugio della nostra grotta. Ricordo che, per fare più in fretta, ci arrampicammo lungo il fianco di un canalone che tagliava al disopra del sentiero lungo la spiaggia, sempre incalzati dai ruggiti furibondi che parevano avvicinarsi. Ma, a metà del canalone, il terreno ghiaioso e cedevole ci tradì, e scivolammo rovinosamente, uno dopo l’altro, giù per la parete rocciosa, per alcune decine di metri, acquistando velocità nella caduta e senza trovare il minimo appiglio per fermarci o almeno per rallentare. Quello è il mio ultimo ricordo: e, come poi mi disse, anche di Mariano. Come giungemmo fino alle caverna, come mettemmo in mare la scialuppa, come andammo alla deriva finché la nave greca, fortunatamente fuori rotta in seguito a una violenta tempesta, ci avvistò e ci trasse in salvo, tutto questo rimane per me avvolto nel più fitto mistero. Non riesco a ricordarlo, come ho già detto, e temo che non riuscirò mai più a spezzare la barriere dell’oblio.

Posso solo narrarle, dunque, señora, quel che è accaduto prima e dopo la nostra permanenza sulla dimenticata isola Dougherty. Ci eravamo imbarcati su une goletta da pesca, la Santa Inés, il cui comandante era un parente di uno dei deportati "comuni" fuggiti con noi. Prima di riuscire a imbarcarci, vivemmo alcuni giorni molto difficoltosi. Tra l’altro, il nostre compagno "comune" morì precipitando sulla costa occidentale, mentre gli altri due, dai quali ci separammo in circostanze drammatiche, furono per noi un grave pericolo: erano armati e cercavano l’oro in un torrente che, a loro dire, ne era ricco. Posso testimoniarle che per tutto il tempo, allora e in séguito, oggetto dei continui pensieri del mio amico fu una gentile señora le cui squisite qualità egli non poteva e non voleva in alcun modo dimenticare. Quando vi fu la scosse di terremoto, Mariano volle tornare indietro per sincerarsi se non fosse accaduto nulla di male alle persone che gli stavano a cuore; ma questo lei lo sa già.

La Santa Inés ere stata noleggiata da un eccentrico e inquietante personaggio, quel barone di Villemer di cui si parla empiamente nel quaderno che le ho inviato. Per sua volontà facemmo rotta a sud-ovest, fino a localizzare un’isola fantasma che costituiva uno dei grandi misteri del mare: l’isola Dougherty, più volte riscoperta e altrettante perduta. Nel frattempo, però, le Santa Inés aveva fatto naufragio, urtando di notte contro un iceberg alla deriva. Sbarcammo perciò con una semplice scialuppa, la stessa che fu poi le nostra salvezza, quando il Tenedos ci ritrovò. Il capitano Demetriades della nave greca aveva doppiato Capo Horn ed era diretto a Papeete, sull’isola di Tahiti. Vi giungemmo ai primi di marzo, e le autorità francesi vollero fare una minuziose indagine sul nostro conto. In quanto deportati politici, declinammo le nostre vere generalità e domandammo esilio politico, che alla fine ci venne concesso. Sull’isola esisteva un minuscolo nucleo socialista, formato in buona parte dai figli dei deportati politici dopo la repressione della Comune di Parigi del 1871 Con il loro aiuto trovammo lavoro presso un giornale locale, io come tipografo e Mariano, dopo che ebbe acquistato una sufficiente padronanza del francese, come redattore. Non ere un lavoro faticoso, e questo ci permise di rimetterci definitivamente in salute e di risparmiare il denaro necessario per tornare in Sud America. Quello fu un periodo incredibilmente sereno, e lo ricordo ancore con profonde nostalgia: solo il pensiero dei familiari e degli amici ci convinse a ripartire, un anno dopo. Quanto a me, ho sempre considerato il nostro salvataggio da parte del Tenedos come una specie di autentico miracolo. Avremmo dovuto morire in quella acque deserte e tempestose, secondo ogni verosimiglianza. Invece siamo ritornati alla vita, e la cosa ha dell’incredibile.

Nel maggio del 1913 ci siamo imbarcati su un vapore francese diretto a Panama, il cui canale sarebbe stato aperto alla navigazione solo un anno dopo. Da lì, via terra, ci siamo portati a Colòn, sulla sponda atlantica, e con una nave italiana abbiamo raggiunto Caracas ai primi di luglio, e poi Rio de Janeiro, in agosto. Lì ci siamo fermati circe un mese, a causa di ungi mia improvvisa malattia, e poi, sempre con l’aiuto dei compagni socialisti e anarchici, siamo ripartiti per Buenos Aires, giungendovi in ottobre.

Buenos Aires è piena di anarchici, in gran parte di origine italiana e spagnola, ma il mio amico, stranamente, volle frequentarli pochissimo, anzi dopo appena due mesi mi disse che voleva ripartire. Io avevo già trovato un buon lavoro in un laboratorio di orologiaio, ed ero riuscito, finalmente, a mettermi in contatto con la mia famiglia (che ormai mi credeva morto), perciò decisi di fermarmi lì. Anche ora mi trovo in Argentina, ma più vicino al confine, a Mendoza, dove mi trovo tuttora. Perciò ci siamo separati, non senza commozione, dopo tante avventure condivise in perfetto cameratismo, senza mai un contrasto.

Ho già detto che Mariano, dopo l’esperienza sull’isola Dougherty, mi è perso indefinibilmente cambiato. Nei miei confronti è sempre rimasto l’ottimo amico di prima, generoso, disponibile; e so che anche nei confronti di quella tale señora i suoi sentimenti sono rimasti gli stessi, benché avesse praticamente cessato di parlarne. Ma so da alcuni indizi, poiché ormai lo conoscevo bene, che non ha mai smesso di pensarla, sempre con immenso affetto e gratitudine. Il suo cambiamento era difficile da definire: e tuttavia c’era. Parlava ancora meno di prima, per esempio, ma al tempo stesso appariva meno cupo e accigliato; era spesso pensoso, ma non in modo sdegnoso e superbo, come prima. Sembrala diventato più indulgente, con gli altri se non con se stesso; più volte l’ho visto giocare con dei bambini, figli di un mio amico argentino: e ho notato che anche loro stavano volentieri con lui. Facevamo ancora, ma solo di tanto in tanto, quelle lunghe e affascinanti discussioni sui grandi problemi della vita, che tanto cara mi avevano resa la sua amicizia. Anche allora si notava una sfumatura di cambiamento in lui: parlava di meno e ascoltava di più; era capace di sorridere delle debolezze umane, mentre prima se ne indignava; e quasi non si interessava più alla politica, pur restando sensibilissimo alle questioni sociali. Aveva anche sviluppato un certo qual senso dell’umorismo, con il quale sdrammatizzava le riflessioni più amare; anche se il suo fondo di pessimismo esistenziale persisteva sempre, pareva disposto a guardare con più attenzione anche i lati un po’ più rosei della vita.

Non ha voluto dirmi esattamente dove sarebbe andato, ma ho avuto l’impressione che volesse ritornare in patria, ovviamente in marniera illegale, forse procacciandosi una nuova identità. E’ partito alla fine di dicembre del 1913, e da allora non ho più avuto sue notizie, se non un biglietto senza firma, ma che ho riconosciuto lo stesso, speditomi nel marzo del 1914 da Santiago. Due sole parole: "tutto bene"; e basta.

CAPITOLO SECONDO

£

Dal diario di Alexandra, 3 febbraio 1915.

E’ vivo!! !

Dio, ti ringrazio.

Dal diario di Alexandra, 4 febbraio 1915.

Ma dove sarà? Cosa starà facendo? E se fosse qui, proprio qui, in questa città? Pensiero strano, quasi pauroso. È come se il passato si materializzasse e venisse ad occupare un suo posto nel mezzo del presente. Pure, so che anche Mariano deve pensarla così. Perché, altrimenti, non si sarebbe mai fatto vivo, neppure con una lettera? Oh, è stato infinitamente delicato ad imporsi un tale sacrificio. E quanto deve essergli costato!

Ma… Alexandra, è proprio questo che pensi veramente?

Ascolta meglio il tuo cuore, smettila di fingere la parte della donna ragionevole, che ha sepolto i ricordi troppo dolorosi. È allora potrai sentirlo sussurrare: quanto vorrei avere sue notizie! Quanto vorrei un segno della sua presenza! Quanto vorrei vederlo, magari per una volta sola!!

Dal diarie di Alexandra, 7 febbraio.

"A cosa stai pensando, mamma?", mi ha chiesto oggi Isabela, interrompendo bruscamente di suonare il pianoforte. È tutto il giorno che ti vedo distratta. C’è qualcosa che ti preoccupa?". Bambina mia, c’è qualcosa, ma non posso dirlo né a te, né ad alcun altro. Chissà, perché no, quando sarai grande, se saremo amiche, se avrò la sensazione che non vorrai giudicare tua madre. Mi è accaduto questo: di provare un affetto profondo per un uomo che, a sua volta, mi ha voluto immensamente bene. Non ho mai tolto nulla né a te, né a Ricardo, né a papà: è stata una cosa soltanto mia. Una cosa intensa, che mi ha regalato molta gioia e molta sofferenzache mi ha anche cambiata, in un certo senso. Perché mi ha fatto vedere cose che prima non vedevo, mi ha aperto quasi a forza a una dimensione nuova della vita. E dunque mi ha arricchita, maturata: e di ciò sono grata a Mariano. E a quei singolari fili del destino che l’hanno messo un giorno sulla mia strada. Il destino! O qualcosa di più profondo, di più bello?

Dal diario di Alexandra, 14 febbraio.

San Valentino: festa degli innamorati.

Alvaro oggi mi ha donato un meraviglioso mazzo dei miei fiori preferiti. Sono arrossita violentemente, e ho chinato il capo per non incontrare il suo sguardo. Lo amo, come lo amavo il primo giorno, come lo amerò sempre. Posso dirlo in tutta coscienza. Ma allora, cos’è il sentimento che provo, innegabilmente, per un altro essere umano, che non so neppure dove sia? Un pensiero curioso, improvviso: e se si fosse fatto une sua esistenza, se si fosse sposato? E subito una lama mi ha attraversato il cuore: so che nome darle. Gelosia. Per un attimo solo, ma intensa, inequivocabile. Certo, la Alexandra positiva e ragionevole, subito dopo,si è ripresa e ha pensato: ne sarei felice per lui. Si merita un po’ di serenità, il suo cuore ha sofferto abbastanza… Ma, appunto, questi pensieri sono venuti un attimo dopo. E io credo che la profonda verità dei nostri sentimenti si possa cogliere nelle reazioni immediate, istintive, alle emozioni non nella riflessione che poi subentra, imposta – direbbe quel medico austriaco, quel Freud – dal nostro super-io.

No, non è nella riflessione razionale la nostra verità vera, ultima, profonda…

Dal diario di Alexandra, 16 febbraio.

I giorni passano, ma l’inquietudine rimane. Credevo che un poco alla volta sarei ritornata padrona di me, invece così non è stato, la tensione non accenna neppure a diminuire.

Nel pomeriggio sono entrata in chiesa, per raccogliere i pensieri. C’era una densa penombra, i ceri tremolavano sotto le immagini dei santi. Mille emozioni, mille timori mi affollavano la mente.

Ricordi slegati della mia infanzia tornavano d’improvviso, chissà perché: mi rivedevo bambina nella lontana fattoria di Puerto Montt, il mare le foreste il vulcano el’orizzonte. Alexandra che si arrampica sui rami del ciliegio, intrepida e spericolata come un maschio; il giorno di Natale di quando avevo nove anni, e ricevetti in dono quel vestito bianco che ancora conservo fra le cose più care. E ancora: i giochi con mio fratello e con la mia sorellina, l’odore forte della scuderia, il suono monotono dei campanacci delle mucche al pascolo, il rosso infuocato dei tramonti estivi…

E poi, d’improvviso, un frammento di conversazione con Mariano, nel giardino della nostra casa sull’isola, dopo la lezione al piccolo Ricardo.

"Sono immensamente felice di vederla anche quest’oggi, señora", mi dice con semplicità, illuminandosi tutto, quando m’incontra presso il roseto. Ci guardiamo per un po’ in silenzio, emozionati entrambi.

"Anch’io ne sono lieta,’ don Mariano…, anzi, Mariano."

Mi sembrava ancora di udire il cinguettio dei pappagallini nella loro voliera, nella lunga pausa densa di cose non dette, e accennate solo, inconsapevolmente, con gli sguardi.

"Per me, Alexandra, è sempre una buona giornate quando vi incontro… Quando ti incontro!". ha aggiunto infine, e rivolgendomi un breve inchino, ha fatto per allontanarsi.

Ma io l’ho richiamato d’istinto, e lui si è voltato tornando verso di me, un po’ stupito. "Per quanto avete di più caro…, per quanto hai di più caro, ti prego, sta’ attento", gli ho sussurrato, pensando alle oscure minacce degli altri confinati "politici".

Pochi giorni prima mi era giunta notizia dell’incidente dell’albero, nella foresta, mentre le squadre erano al lavoro.

Lui ha abbassato lo sguardo, come frugando qualcosa nella sua mente, poi lo ha rialzato, fissandomi dritto e ha detto, sorridendo: – Ma certo, è tutto a posto, non c’è nulla di cui preoccuparsi", e intanto si vedeva che stava pensando ad altro, che parlava un po’ meccanicamente. D’impulso abbiamo levato il braccio, stesso momento, e ci siamo stretti la mano con forza. Poi s’è allontanato a passi rapidi.

Non so perché, d’improvviso le emozioni mi hanno fatto groppo in gola, e alcune lacrime mi sono scivolate giù per le guance. Sconvolta, mi sono alzata, dirigendomi all’uscita. Quasi sul portone una donna bellissima, dai lunghi capelli neri e due occhi viola dall’espressione intensa, che non scorderò mai, passandomi accanto mi ha sorriso e mi ha sussurrato: "Coraggio!".

Mi sono trovato all’esterno, frastornata, il mondo velato da una nebbiolina di lacrime. Chi era quella donna? Sono certo di non averla mai vista, eppure mi ricordava stranamente qualcosa. Mi aveva parlato con una dolcezza e una confidenza, come se lei mi conoscesse. Possibile? Quando il cuore ha smesso di battere furiosamente e ho riacquistato una certa calma, sono tornata dentro. Volevo chiarire il mistero. Ma non l’ho rivista. Ho percorso tutto il perimetro della chiesa, lungo le navate, e guardato nelle cappelle laterali. C’era solo qualche vecchietta, ma lei era sparita. Alla fine me ne sono andata, perplessa.

Ma una strana dolcezza nuova m’era scesa nell’anima. Non so come, al turbamento ere succeduta la calma.

Conservavo nitidamente tutti i frammenti di ricordo avuti mentre sedevo nella penombra presso i ceri, quelli dell’infanzia, quelli con Mariano, ma senza più pena o rammarico: pacificata. Sono tornata a casa con coraggio, ne ero uscita confusa e sfiduciata.

Dal diario di Alexandra, 23 febbraio 1915.

Oggi stavamo rientrando dalla solita passeggiata serale, Alvaro e io, quando uno strillone ci è venuto incontro con il fascio di copie di El Mercurio, gridando: "Edizione straordinaria! Catturato l’assassino del generale Muñoz-Gamero! Edizione straordinaria!…".

Alvaro lo ha fermato e ne ha acquistato una copia, fermandosi a sfogliarla lì in strada, contro tutte le sue abitudini. Eravamo sul paseo Bernardo O’Higgins, all’altezza del parco di una villa, presso la cancellata in ferro battuto. Lo ha scorso per un po’ in silenzio, tutto concentrato, poi ha esclamato:

– Muñoz-Gamero! Te lo ricordi? –

– Certo. E mi ricordo anche cosa mi hai detto in proposito sull’isola, quando hai deciso di mandare la lettera delle tue dimissioni. –

– Davvero? Cosa ti ho detto? –

– Hai detto, più o meno: "Dio mi perdoni, ma quando l’hanno ammazzato… ho pensato che se l’era proprio voluta". –

– Già, già… Bene, pare che abbiano preso il suo assassino. Strano, non ti pare? A distanza di anni…

– E chi è?

– Un operaio, un sovversivo, naturalmente. Un certo Tomàs Ribeiro, rispose.- Sposato, con quattro figlioli. Un uomo di quarantadue anni. –

Ci siamo rimessi in cammino verso casa. La gente si affrettava a comperare il giornale e discuteva animatamente del fatto. Non so perché, mi sono sentita stranamente inquieta.

Dal diario di Alexandra, 26 febbraio 1915.

Questo pomeriggio ero sola in casa con Isabela, che stava facendo i suoi esercizi al pianoforte, quando hanno suonato alla porta. Poco dopo, Marina è venuta a dirmi, un po’ imbarazzata, che c’era di nuovo quella señorita dell’altra volta, Isabela Kocbek, e che chiedeva di me. Involontariamente sono arrossita, mentre mi alzavo per accoglierla. Ho mandato Isabela nella sua stanza a fare le lezioni di scuola, e poco dopo io e la figlia di Federico ci siamo ritrovate sole sul divano, come l’altra volta.

La ragazza, oggi, aveva perso la sicurezza del primo incontro. Era visibilmente inquieta, si tormentava le mani e raramente mi guardava negli occhi. Mi fece un discorso inizialmente un po’ confuso, più o meno in questi termini: – Señora, sono spiacente di disturbarla di nuovo.

– Lei non mi ha disturbato affatto -, l’ho rassicurata. – Sono lieta, anzi, che abbia pensato di rivolgersi a me, se c’è un problema che 1′ angustia. –

– Sì, ma non è come forse crede… Non si tratta di un problema economico, né di ordine materiale. Vorrei piuttosto… un consiglio. –

– Mi parli tranquillamente. Può fidarsi di me. –

– Lei ha sentito senz’altro la notizia del giorno. .. quella dell’arresto del presunto assassino del generale Muñoz-Gamero. –

– Perché dice "presunto"? La polizia non ha dubbi…

– Ecco, è proprio questo il punto. Señora, ho la sua parola che non farà cenno ad alcuno delle nostra conversazione, nemmeno a suo marito? –

– E’ una cose che lui non deve sapere? –

– E’ una cosa che nessuno deve sapere, finché non avrò deciso come agire. E ho bisogno appunto del suo consiglio, presto capirà perché. Dunque, mi promette di non dir nulla senza il mio assenso?

– È una richiesta un po’ insolita… Ma vedo che lei è profondamente turbata, e, se ritiene che io possa aiutarla, glielo prometto. –

– Allora, vengo subito al punto. Si tratta di questo: io so che quell’uomo, quell’operaio, quel tale Ribeiro, è innocente. –

– In nome del cielo, come può dire una cosa simile? –

– È molto semplice, señora. Perché so… perché so chi è stato il vero assassino. –

Sono rimasta senza parole. Poi mi sono ripreso, e le ho chiesto: – Ma in che modo, mi scusi, lei pensa che io possa esserle d’aiuto? –

– Ora le spiego. L’altra volta, ho avuto la sensazione che lei nutrisse uni sincera simpatia per mio padre. E io ho saputo, circa un anno fa, il nome di colui che uccise il generale Muñoz-Gamero nel 1908. Come le ho già detto, io non vedo mio padre da mesi, e non so quando potrò rivederlo. Lui vive all’estero, non può rientrare in patria. Gli ho scritto per conoscere il suo parere, ma temo che passerà del tempo, e quel poveretto sarà processato per direttissima… –

– Il suo è un caso di coscienza, dunque. Mi dica, ha delle prove di quanto sostiene? Sarebbe la prima cosa che le domanderebbero… –

– No, non ho alcuna prova. E, per di più, mio padre è un deportato politico, già evaso da un penitenziario dello Stato, e tuttora latitante. Chi mai potrebbe credermi? Peggio ancora: potrebbero pensare che io so quel nome per il fatto che è stato mio padre a compiere l’omicidio. Accusare un latitante, costa poca fatica; e intanto si scagiona un altro sovversivo… –

– Eh, sì, è una faccenda complicata. –

– E’ ancora più complicata di quello che lei pensa, señora.

– Che cosa intende dire? –

– Che l’autore del delitto è una persona che mio padre, e forse anche lei,

señora, stimate profondamente. –

Mi è sembrato di annaspare.. Devo aver balbettato, replicando: – Mi sta dicendo che io…, che io conosco… quella tal persona? –

– Sì, señora.

Mi sono fatta forza, ho cercato di assumere un tono fermo: – Me lo dica, allora.

– In via assolutamente riservata, mio padre mi confidò, appunto un anno fa, essendo caduta la nostra conversazione sul delitto Muñoz-Gamero, che a uccidere il generale era stato il suo migliore amico: don Mariano Sarmiento.

Un fulmine mi si è abbattuto sopra, d’improvviso.

CAPITOLO TERZO

Dal diario di Alexandra, 27 febbraio 1915.

Di colpo il mio corpo ha cominciato a sudare abbondantemente; la testa mi girava un poco e avvertivo in gola una sensazione spiacevole, come quando si sta per vomitare: un brusco celo della pressione arteriosa. Ho appoggiato le spalle allo schienale del divano e sono rimasta in silenzio, aspettando di riprendermi.

La ragazza era preoccupata: – Señora, posso fare qualcosa? Si sente male?

– Per favore, mi dia solo un momento per raccogliere le idee. –

Dopo circa un minuto mi sono un po’ ripresa e mi sono fatta portare da Marina un bicchiere d’acqua.

Poi, rimaste nuovamente sole, sforzandomi disperatamente di essere lucida, le ho chiesto: – Lei è assolutamente certa di quanto mi ha riferito? –

– Assolutamente. Mio padre aveva anzi scritto quella conversazione con don Mariano Sarmiento in un suo diario che teneva al tempo della deportazione sull’isola: diario, che purtroppo, andò smarrito in seguito. –

– E lei si chiede se non sia il caso, per tentar di salvare un innocente, di rivolgersi alla polizia, raccontando quello che sa. –

– Esatto. –

– Mi dica allora, in tutti i particolari che lei conosce, come si sarebbe svolta la cosa. –

– Ai tempi del massacro di Antofagasta, mio padre parlava continuamente del crimine inqualificabile commesso dal generale Munoz-Gamero, allorché diede .ondine di sparare sulla folla dei minatori e sulle loro famiglie inermi. Ne parlava in casa, coi suoi amici socialisti, e tutti dicevano che bisognava fare qualcosa, uno sciopero generale, una interrogazione in Parlamento… Ma la polizia fece degli arresti, imbavagliò la stampa; anzi, come certo ricorderà, il generale fu insignito di un’altissima onorificenza militare, come se avesse vinto un glorioso fatto d’armi contro chissà quale minaccioso esercito nemico… E la cosa, poco a poco, finì lì. Non dico che venne dimenticata, negli ambienti politici di sinistra essa non venne mai dimenticata. Ma quando, il sette dicembre 1908, come una bomba giunse la notizia che il generale era stato assassinato a Talcahuano, dov’era stato trasferito, nel sud del paese… la notizia ci colse tutti impreparati. Le indagini non approdarono a nulla. Si disse che erano stati gli anarchici, ma non si trovarono tracce. –

– Sì, tutto questo lo so, lo ricordo. –

– Un anno fa, parlando casualmente della cosa, mio padre mi disse che a uccidere, anzi a "giustiziare" il generale, era stato il suo amico. E, naturalmente, mi chiese di non farne mai parola ad alcuno. Ma ecco che ora hanno arrestato quell’operaio, quel Ribeiro. In tutto il paese si grida che è un mostro, un essere indegno di vivere. Lo processeranno in tutta fretta, e non ci sono dubbi su quale sarà la sentenza. E io non so che fare… –

– Ma vostro padre, come lo aveva saputo? –

– Direttamente da don Mariano Sarmiento.-

– Señora, voi cosa fareste? –

– Aspettate, devo riflettere. Voi non avete alcuna prova di quanto sostenete. Per di più, siete la figlia di un latitante. E colui che indicate come l’uccisore del generale, è latitante anch’egli, e nessuna sa dove si trovi né sotto quale nome vada. No, nessuno vi crederebbe, señorita. –

Lei scosse tristemente il capo, e disse, come parlando a sé stessa: – Già, è proprio quel che pensavo anch’io.

– Del resto, avste detto di aver scritto a vostro padre. Il processo, per quanto rapido, non potrà durare meno di qualche settimana. Aspettate: qualcosa potrebbe ancora accadere.

– Sì, voi mi confermate quello che anch’io andavo pensando. Abbiano parlato ancora un poco, ma non ricordo bene tutto. La mia mente si rifiutava di prestare attenzione. Finalmente se n’è andata, promettendo di ritornare se vi fossero stati dei fatti nuovi, e lasciandomi, per ogni evenienza, il suo indirizzo.

Rimasta sola, ho dovuto ricadere sul divano come se le gambe non mi avessero più retto. Cercalo affannosamente una possibile spiegazione, ma non la trovavo. Ero sconvolta, incredula. E lo sono tutt’ora. E’ vero, io e Mariano ci siamo conosciuti per un tempo molto breve; troppo breve per conoscerci veramente? Eppure, io credevo di aver capito quel che c’è da capire di un altro essere umano, ossia l’essenziale… Possibile che mi sia ingannata fino a questo punto? Ricordo le parole di Ricardo entusiasta del suo nuovo professore: "Mamma, io so che non può aver fatto niente di male, non è vero?". Ma che cosa è bene e che cosa è male, dunque? Uccidere un uomo come Muñoz-Gamero, è male? Non vi sono delle situazioni, nella storia, in_ cui il male diventa necessario, per difendere un bene più alto? Eh, temo che Gesù non sarebbe d’accordo su questo. No, non sarebbe d’accordo mai e poi mai. Eppure, i Maccabei hanno combattuto, hanno sparso il sangue, e non solamente il loro… Cosa sto dicendo, cerco giustificazioni all’omicidio nella Bibbia?

E poi, il dubbio che mi assilla non è solo questo. C’è anche il fatto che un innocente sta per essere processato e condannato per quel delitto. Possibile che Mariano, se è qui e se è in grado di agire, lasci fare come se nulla fosse? No, questo non potrò crederlo mai. O non ha saputo, o non può muoversi, o… o…, no, non voglio scriverlo. Non posso neanche pensarlo.

Da un articolo del giornale El Mercurio, edizione straordinaria del 1-marzo 1915.

Questa mattina un clamoroso colpo di scena ha rimesso in discussione tutte le certezze nel dramma dell’affare Mùnoz-Gamero. Quando già era stata fissata al 10 marzo la data per l’inizio del processo all’operaio socialista Tomàs Ribeiro, è accaduto un fatto nuovo che ha modificato radicalmente lo scenario dell’inchiesta. Un anarchico cileno, Mariano Sarmiento, nativo del villaggio di Nascimiento presso Los Angeles, nel distretto di Bìo-Bìo, si è costituito alla polizia di Valparaìso, autoaccusandosi dell’assassinio del generale Muñoz-Gamero. La notizia è filtrata alle stampa nelle prime ore del pomeriggio e ha sollevato un’enorme impressione. Non si conoscono ancora i particolari della vicenda, ma è certo che, se Sarmiento fornisse prove concrete di quanto sostiene, ciò scagionerebbe automaticamente Ribeiro: la polizia, infatti, ha sempre sostenuto di essere certa che quest’ultimo, che risiedeva a Talcahuano all’epoca dei fatti, abbia agito da solo e senza l’aiuto di alcun complice. Pare, intanto, che i due uomini non si conoscessero affatto, anche se non stati ancora messi a confronto; fra l’altro, Ribeiro è un militante socialista mentre Sarmiento è un anarchico che da anni aveva fatto perdere le proprie tracce. Quarantadue anni, giornalista di professione, aveva subito una condanna per attività contro la sicurezza dello Stato nel 1911, subendo la deportazione su un’isola lontana, dove avrebbe dovuto scontare due anni di lavori forzati; ma era evaso appena qualche mese dopo, ai primi del 1912, con alcuni compagni, e in seguito era riuscito a far perdere le proprie tracce. Pare che fosse rientrato in Cile alla fine del 1913 o al principio del 1914, naturalmente sotto falsa identità, stabilendosi in una località non identificata e dedicandosi alle professione di insegnante in un istituto scolastico privato tenuto da religiosi. Questo è quanto si è saputo finora. Pare che, alla notizia dell’arresto del Ribeiro sotto l’imputazione di aver assassinato il generale Muñoz-Gamero, egli abbia deciso di costituirsi spontaneamente, quando ormai era riuscito a rifarsi una nuova vita. Ora dovrà rendere conto alla giustizia del nefando attentato in cui perdette la vita un valoroso militare e fedele servitore del Paese.

Dal diario di Alexandra, 1° marzo 1915.

È vivo: Dio, ti ringrazio.

Si è costituito per salvare un altro: è stato grande.

Ora dovrà subire il processo: Dio, dacci la forza: a lui, e a me.

Dichiarazione di Mariano Sarmiento inviata al giornale El Mercurio subito prima di costituirsi, .e pubblicata il 2 marzo 1915.

Io, Mariano Sarmiento, di professione giornalista, nato nella provincia di Bìo-Bìo, presso Los Angeles, il 4 novembre 1873, affermo di aver ucciso il generale Hernan Muñoz-Gamero, il 7 dicembre 1908, per vendicare le vittime dei fatti di Antofagasta. Mi assumo la responsabilità completa di quella azione e dichiaro di non aver avuto complici. Dichiaro anche la totale estraneità ai fatti di tale Tomàs Ribeiro, che non ho mai conosciuto e che non può essere stato l’autore di quell’azione. Dichiaro, infine, di costituirmi alle autorità dello Stato di mia spontanea volontà, non appena sono venuto a conoscenza del suo arresto e ho potuto sbrigare alcune faccende di carattere strettamente privato. Respingo fin d’ora ogni eventuale tentativo di strumentalizzare la mia decisione e di coinvolgere altre persone nell’inchiesta sulla morte di Muñoz-Gamero.

Dal diario di Alexandra, 3 marzo 1915.

Gli avvenimenti stanno prendendo un ritmo vertiginoso, superiore alla mia capacità di controllarli. Pure, devo farmi forza, forza, forza. Stamani è venuto a casa nostra un sottufficiale dei carabineros per convocare Alvaro alla centrale di polizia. Il magistrato che si occupa dell’inchiesta Muñoz-Gamero vuole sentirlo per la faccenda dell’evasione dal confino sull’isola, nel 1912. Quando il sottufficiale è andato via, mio marito mi ha detto: – Alexandra, vorrei parlarti -, e ci siamo chiusi nel suo studio. Il cuore mi batteva forte.

– Devo recarmi dal giudice Cabellero. Dovrò testimoniare su quel Sarmiento, capisci, che era tra i confinati alla fine del 1911. Ma non avrò molto da dirgli: me lo ricordo appena. Io partii per Valparaiso pochi giorni dopo il suo arrivo e, quando tornai, nel febbraio 1912, era già evaso. Tu, invece, l’hai conosciuto bene, e anche i ragazzi se lo ricordano perfettamente. Hai visto come hanno preso la notizia del suo arresto. Da parte mia, non intendo assolutamente coinvolgerti in questa spiacevole vicenda, ma è possibile che sentano anche il mio vice di allora, don Venustiano – te lo ricordi – e quel pettegolo non si terrà certo per sé il fatto che tu avevi incaricato Ssrmiento di dare lezioni di spagnolo e latino a Ricardo. In questo caso, il magistrato potrebbe forse voler sentire anche te.

-Sì, lo credo anch’io. E allora preferisco non aspettare di essere convocata. Che ne diresti se venissi con te, ora?

Ha riflettuto un attimo, guardandomi negli occhi. Ho avuto la sensazione che cercasse di leggermi un pensiero segreto.

– Senti, Alexandra. Per me va bene, ma… è necessario, d’ora in poi, che ci fidiamo interamente l’uno dell’altra. A te quell’uomo piaceva, vero? No, non fraintendermi! Voglio dire: ti ispirava fiducia, lo trovavi simpatico, non è così? Altrimenti, non lo avresti scelto come maestro di nostro figlio. –

Ho chiamato a raccolta tutte le mie forze per conservare il perfetto autocontrollo; ho risposto: – E’ evidente. E sai che anche i ragazzi la pensano così.

-Sì, lo so, lo so. Bene, il fatto è questo: devi stare attenta a non lasciar trasparire troppo questa simpatia davanti al giudice o, Dio non voglia, davanti della giuria, se saremo chiamati a testimoniare anche al processo. Ci sarà un sacco di gente, e anche la stampa, capisci? – Mi sono morsa la lingua, cercando disperatamente di pensare. Alvaro, solo allora, sembrò accorgersi del mio turbamento.

– Alexandra, non mi rispondi? –

– Che cosa posso dire? Risponderò secondo coscienza alle domande che mi faranno. Cosa che farai anche tu, del resto, non ho il minimo dubbio. –

– Sì, ma vedi, quell’uomo è il mostro del momento. Sui giornali chiedono a gran voce la sua testa. E nessuno riuscirà mai a convincerli che le cose stiano diversamente. Esiste una pubblica opinione, e i suoi umori, in questo momento… –

– Oh, Alvaro! Che discorsi sono questi? Al diavolo la pubblica opinione! Mi ha guardato stupito: – Ma davvero vorresti sfidarla? –

– Io non voglio sfidare nessuno. Alle domande che mi faranno, dirò quello che ho visto. Non volterò le spalle a un amico in difficoltà… –

– Un amico? –

– Io, Ricardo e Isabela lo consideravamo tale. E non ho motivo di modificare i miei sentimenti, ora. –

– Ma è un assassino! –

– Può darsi: ciò riguarda la sua coscienza. Mi ricordo un uomo buono e gentile, perfettamente cavalleresco. Non sarò interrogata come giudice delle sue azioni, ma come testimone del suo comportamento, quando l’ho conosciuto. Non posso e non voglio alterare la verità della mia testimonianza, solo per fare un piacere all’opinione pubblica assetata di vendetta. –

– Alexandra, io credo di capire i tuoi sentimenti e li rispetto profondamente. Avevo però il dovere di metterti in guardia, di prevenirti sulla piega che potrebbero prendere le cose. Non ti chiedo certo di alterare i fatti, e non è per amore del quieto vivere che ti ho parlato.

– Lo so, caro. Ti ringrazio e lo apprezzo. E adesso, prepariamoci ad uscire; la carrozza è già fuori che aspetta. –

Più tardi, dal giudice, siamo entrati entrambi, spiegandogliene subito la ragione. Caballero non ha sentito ancora don Venusti ano, che, del resto, risiede a Santiago e dirige un carcere minorile. Non importa; è già stato convocato anche lui, e certamente avrebbe raccontato tutto. Meglio averlo preceduto. Il colloquio si è svolto più o meno in questi termini.

– Don Alvaro, sono spiacente di averla dovuta convocare per questa faccenda, ma vedrà che sarà cose di pochi minuti. Mariano Sarmiento era affidato alla sua custodie quando evase dal confino, nel 1912?

– Sì. Ma quando evase, io ero assente: mi trovavo qui, a Valparaiso, per colloqui con i miei superiori. Ho visto anche l’allora ministro della giustizia, a Santiago. Quando sono tornato sull’isola, ho appreso della sua evasione, in compagnia di altri quattro deportati: tre comuni e un politico, tale Federico Kocbek, militante socialista. –

– Che non sono più stati assicurati alla giustizia, vero? –

– Due dei comuni vennero ripresi circa due mesi dopo, ma non seppero dare informazioni sugli altri. –

– E lei, a quell’epoca, lasciò il servizio attivo, ritornando sul continente, non è vero? –

– Sì , è così. –

– Lei si ricorda di Mariano Sarmiento? –

– Molto ,vagamente. Lo vidi una volta sola. Ho controllato le date: il suo gruppo giunse sull’isola il 13 novembre 1911, ed io m’imbarcai per Valparaìso il 18 seguente. Prima di partire, però, lasciando le consegne al mio vice, don Venustiano Viamonte, volli fare le conoscenza di ciascuno dei nuovi arrivati, come sempre. Devo dire che, quando ho visto la sua fotografia sui giornali, ho stentato a riconoscerlo. Un volto visto una sola volta, tre anni e mezzo fa. ..

– Ricorda qualcosa di lui, a parte l’aspetto? –

– Be’, non sembrava uno dei soliti politici. Era… diverso. –

– Potrebbe essere più preciso? –

– Mi diede l’impressione d una persona colta e intelligente, ma non di un fanatico, o di un esaltato. Sembrava, anzi, molto ragionevole. Ricordo che la sua cartella personale sembrava quella di uno studioso, più che di un rivoluzionario. Aveva fatto ottimi studi all’università di Santiago, era un giornalista preparato; aveva scritto anche dei libri, credo… –

– Sì, questo lo sappiamo. Ma lei, ricorda qualcos’altro del suo comportamento? –

– No, non ce ne fu il tempo. –

– Capisco. E il suo vice, quando lei tornò sull’isola, le riferì qualcosa di particolare? –

– No. Stese una relazione sull’accaduto, naturalmente. Ma mi disse che l’evasione lo aveva colto inaspettata, che né Sarmiento né Kocbek gli avevano dato problemi. Piuttosto, mi riferì che si era cresta una forte tensione all’interno del gruppo dei "politici", e che quei due sembravano essere venuti in rotta con gli altri. –

– Bepe, don Alvaro, non c’è altro, per ora. Le chiedo solo di firmare questo verbale. – Poi si è rivolto a me.

– E lei, señora. Mi ha detto di avere chiesto proprio a Mariano Sarmiento se era disposto a impartire lezioni private a suo figlio Ricardo, giusto? –

– Sì. Per l’esattezza, diedi incarico a don Venustiano Viamonte, essendo già partito mio marito, di riferire a Sarmiento la mia richiesta. –

– E lui accettò senz’altro? –

– Sì. Vede, i miei figli erano lontani da qualunque scuola, e io mi sforzavo di assicurar loro un’educazione, in modo che, tornati a casa, potessero riprendere gli studi senza perdere degli anni.-

– Che lezioni impartiva Sarmiento al suo figlioli? –

– Spagnolo e latino. Poi, eventualmente, sarebbero passati al greco. Ma si capisce che non ce ne fu il tempo. –

– Perché lei individuò proprio quell’uomo come possibile maestro del ragazzo? –

– Perché mi ero informata sui nuovi arrivati, proprio a quello scopo. E lui sembrava possedere senz’altro i requisiti adatti. –

– Da chi si era informata, señora?

– Parlando con mio meritò, prima che partisse. –

– Aveva già preso iniziative del genere, in passato? –

– Intende in altri istituti di pena? –

– No, certo. Intendo lì, sull’isola. –

– Be’, sull’isola le circostanze erano eccezionali. Eravamo completamente tagliati fuori dalle civiltà. Sì, mi ero già rivolta ad un confinato, e sempre perché desse lezioni a Ricardo, il mio figlio maggiore; alla piccola pensavamo noi, mio marito ed io. Eravamo arrivati sull’isola nel dicembre del 1910. Da gennaio a novembre trovai una brava persona per le lezioni di matematica,, un professore in pensione che ripartì appunto con la nave che aveva portato il nuovo gruppo di confinati. –

– Certo una prassi un po’ insolita, tuttavia mi rendo conto che anche le circostanze lo erano. E… com’era Sarmiento, come professore di suo figlio? "Attenta, mi sono detta; qui comincia la parte più difficile." Ho assunto un’aria indifferente e ho risposto: – Era bravo. Mio figlio ne era contento. Anzi, dovrei dire: entusiasta. –

– E il motivo di tanto entusiasmo…? –

– Oltre ad essere bravo, ci sapeva fare con Ricardo. E anche con Isabela, sua sorella, benché a lei non desse lezioni. Gli si erano affezionati entrambi, e parlavano spesso di lui. –

– E lei, cosa ne pensava? –

– In che senso? –

– Condivideva… come dire… quell’entusiasmo?

Le mani in grembo al disotto della scrivania, credo di aver stretto forte il fazzoletto per scaricare in qualche modo la tensione. Avrei voluto gridargli: – Era un uomo centomila volte meglio di voi, sacco di m…! -, ma naturalmente mi sono contenuta, sono rimasta impassibile, e ho detto nel tono più naturale di cui fossi capace: – A me era sembrato une persona come si deve. Se così non fosse stato, la prima lezione con mio figlio sarebbe stata anche l’ultima. –

– Rimase sorpresa alla notizia della sue fuga? –

Qui, forse, sono arrossita: dovevo proprio mentire, perché io sapevo tutto della fuga, naturalmente. Ho risposto solamente: – Sì. – E lo guardavo dritto in viso.

– E i suoi figlioli? –

– Non cambiarono opinione su di lui. A Ricardo lasciò in regala i suoi libri, e a Isabela una raccolta di piante rare dell’isola. Semplicemente furono tristi, dopo la sua partenza. –

– E lei? –

A questo punto è intervenuto Alvaro: – Signor giudice, non le pare che mia moglie abbia già risposto esaurientemente alle sue domande, dicendole tutto quanto sapeva? –

Caballero ha guardato per un attimo Alvaro, poi me, poi di nuovo Alvaro; improvvisamente ha spianato il volto a un sorriso formale e ha detto: – Ma certo, mi scuso per avervi fatto perdere del tempo. Ecco, señora, se vuoi firmare anche lei… Diego – e si rivolse allo scrivano – cancella la mia ultima domanda, non ha alcuna importanza. –

Sulla porta, accompagnandoci, ha aggiunto: – A proposito, temo che verrete disturbati di nuovo, quando ci sarà il processo. Tuttavia, sarete convocati solo se sarà proprio indispensabile.

– Quando crede che ci sarà il dibattimento? -, ha chiesto Alvaro.

– Presto, prestissimo: il caso è chiaro. Anzi, so che Tomàs Ribeiro è già stato rilasciato. Ai primi di aprile, forse. –

Al ritorno, in carrozza, abbiamo parlato pochissimo. Ho detto soltanto, stringendo la mano di Alvaro: – Grazie -; lui mi ha sorriso un momento, poi è tornato a guardare fuori del finestrino. E siamo tornati fino a casa senza dire altro.

CAPITOLO QUARTO

Dal diario di Alexandra, 4 marzo 1915.

Ricardo oggi mi ha chiesto: – A te sembra possibile, mamma? –

– Che cosa? -, ma sapevo già cosa.

– Che Mari ano abbia fatto quello che dicono. –

– Ricardo, quello che lui dice d’aver fatto. –

– D’accordo. Ma a te, sembra possibile? –

Commovente, questa fedeltà dei ragazzi a una persona che hanno conosciuto per così poco tempo, ma che aveva lasciato in loro un’impressione indelebile. Ricardo ha ora quattordici anni, eppure dice ancora "Mariano" e non "Sarmiento" o "don Mariano", come se lo avesse visto, per l’ultima volta, solo qualche giorno fa.

– Vedi, a volte è difficile conoscere bene le persone, anche dopo molto tempo che le si frequenta. E, nel nostro caso, non abbiamo avuto il tempo di conoscerlo abbastanza; capisci? –

– Ma tu non mi hai risposto. Ti ho chiesto se lo ritieni possibile. –

– Posso dirti soltanto che, se lui stesso si autoaccusa, dobbiamo credergli. Si è consegnato spontaneamente, non lo hanno costretto. –

– Va bene, ma lui voleva scaglionare quell’altro, che era dentro. –

– Sì, ciò gli fa onore e dimostra che è sempre quella persona leale che abbiamo conosciuto sull’isola. Ma se lo hanno trattenuto e si accingono a processarlo, vuol dire che non hanno dubbi. Se avessero cercato un colpevole qualsiasi, il primo gli sarebbe bastato. È chiaro che deve aver fornito particolari su quel fatto, su quell’omicidio, che solo l’autore di esso poteva conoscere. Anche i giornali lo dicono, del resto. –

– Ma tu, in cuor tuo, lo credi possibile? –

– Non so cosa dirti. Sì, è possibile. Era stato condannato al confino per le sue idee politiche. Uno come il generale Muñoz-Gamero, per lui, doveva essere null’altro che un assassino.

– Ma cosa aveva fatto, quel generale? –

– Ricerdo, non sei troppo giovane per capire queste cose? –

– Non trattarmi come un bambino! Frequento il liceo, studio la storia: penso di essere in grado di capire quanto basta, anche se, a scuola, ci pariano solo dei Greci e dei Romani, e non certo del presidente Balmaceda…

– Tu che cosa ne sai, del presidente Balmaceda?

– Be’, so che voleva fare delle riforme, per esempio togliere agli stranieri, agli Inglesi, lo sfruttamento delle miniere di salnitro: quelle che abbiamo strappato al Perù e alla Bolivia con la guerra banditesca del. 1879… E che per questo è stato rovesciato da un colpo di stato dei militari, dopo una vera e propria guerra civile, nel 1891… –

Ero sbalordita. – Ma tu come sai queste cose? E come mai definisci la guerra del Pacifico "un’azione banditesca"? Non credo che i tuoi professori si esprimano in questi termini. – !

Allora ha taciuto, ostinato; ho visto che non voleva dirmi qualcosa. –

– Ricardo, non hai più fiducia in me? –

– Ma certo, mamma. –

– Fra i tuoi compagni, c’è qualcuno che ti parla di questi argomenti? –

– Sì , mamma. –

– Qualche studente con idee… socialiste? –

– Sì, mamma. –

– Bene, stai tranquillo, non sarò indiscreta, non ti chiederò nomi. Del resto, secondo me, ognuno ha diritto alle sue idee. Ma tu devi capire che dire certe cose in pubblico può essere imprudente, mi comprendi?

-Sì, lo capisco. –

– Immagino, a questo punto, che tu ne sappia più di me, su certi argomenti. Non è vero? –

– Forse. Per esempio, sapevi che nel 1912 Recabarren e alcuni altri hanno fondato il Partido Obrero Proletario? –

– Secondo le idee di quel Karl Marx? –

– Esatto. –

– Ricardo, se hai dei compagni comunisti, devi stare attento. Potrebbero essere espulsi dalla scuola, o peggio. E tu potresti trovarti coinvolto. –

– Comunque, Mariano non è un marxista. È un anarchico, l’ho letto sui I giornali. Ma non so bene cosa significhi…

– È difficile che tu possa capire adesso tutte queste cose. Sono difficili anche per un adulto, io stessa non ne so molto. E quanto a Balmaceda, non fare domande del genere ai tuoi professori. Al babbo, casomai. Ma, parlando con lui, non adoperare quel linguaggio che hai usato poc’anzi. Lo sai che |non approverebbe, gli daresti un inutile dispiacere. –

– Papa è un conservatore, non è vero? –

– Pepa è un uomo onesto, che ha scelto di mettersi in pensione anticipata quando ha ritenuto di non poter servire un governo le cui azioni disapprovava dal punto di vista morale. E questo è tutto. –

– Azioni come quelle compiute dal generale Muñoz-Gamero? –

– Poco fa mi hai chiesto cosa avesse fatto: lo sai già? –

– Non esattamente. Il giornale dice che, nel 1908, represse energicamente un pericoloso sciopero dei minatori di Antofagasta. Mamma, perché non mi rispondi? Dimmelo tu come andarono le cose! –

– Fece sparare su uomini, donne e bambini disarmati. Fu un inutile massacro. –

– E per una cosa del genere gli diedero una medaglia? –

– Ricardo, il nostro senso della giustizia, purtroppo, non sempre coincide con la ragion di Stato. –

– Ma tu, voglio sapere che ne pensi! Fece bene, secondo te? –

– Ricardo, ti ho già detto che sei troppo giovane per capire… –

– No, devi dirmelo, mamma. A questo punto, voglio sapere il tuo pensiero. –

– Fece male, tesoro; malissimo. Fu un’azione vile e spietata. –

– Dunque, Mariano avrà pensato che quei morti andavano vendicati… , vero? –

– Sì, è possibile… –

– E di questo, cosa ne pensi? –

– Ricardo, basta: ti prego. Mi stai facendo un interrogatorio! –

Allora ha scosso il capo, pensieroso, e se n’è andato senza insistere oltre. Io ero turbata e stupita. È già diventato così grande, mio figlio? Possibile che non me ne fossi mai accorta prima?

Più tardi, dopo la sua lezione di piano, ho dovuto affrontare anche Isabela Ha solo undici anni, ma è molto sveglia.

Mi ha detto: – Mamma, è inutile che tu e papà facciate finta di niente, pensando che noi non capiamo quel che succede. Avete dovuto andare dal giudice, vero?, per via di Mariano. Ma guarda che io capisco abbastanza, anzi preferirei che ne parlassimo apertamente. Del resto, ne parlano tutti, fuori di qui. –

– Hai ragione, Isabela. Volevamo proteggere la vostra serenità, ma forse abbiamo sbagliato nel giudicarvi troppo piccoli. Volevamo evitarvi un dispiacere, perché sappiamo che siete sempre affezionati al ricordo di quella persona. –

– E tu no, mamma? –

– Ma certo, Isabela, anch’io. –

– Però è strano, non ti pare? –

– Che cosa, amore? –

– La vita. È strana, la vita. –

E, con queste parole enigmatiche, ha interrotto il discorso.

**M]{.smallcaps}i ero aspettata mille domande, come aveva fatto Ricardo; invece non ha chiesto altro. Ma è una ragazzina sensibile, e so che continuerà a pensarci, cercando con tutte le sue forze una risposta nel suo giovane cuore.

CAPITOLO QUINTO

Dal diario di Alexandra, 5 marzo 1915.

Un desiderio fortissimo, straziante si è impossessato di me ormai da alcun: giorni: rivederlo.

E’ detenuto nelle carceri di Villa Hermosa (che nome eufemistico!). Il processo, pare, si aprirà con rito direttissimo fra meno di un mese, forse anche prima. E io vorrei vederlo, prima; magari une volta sola. Non per chiedergli se è vero, se è stato lui: non per fargli il mio piccolo interrogatorio privato. Soltanto per vederlo, per rendermi conto di come stia, per dirgli una parola d’incoraggiamento: nient’altro.

Ma no, Alexandra, sii sincera con te stessa: vorresti rivederlo perché tu ne hai bisogno, un bisogno che sgorga dal più profondo dell’anima. E anche per sapere come sta, e per incoraggiarlo. Ora va meglio, Alexandra: adesso sì, che ti posso credere…. Ora so che hai detto proprio tutta la verità.

Ma, come potrei fare per vederlo? Certo, so che può ricevere visite, non è in isolamento. Ma dovrei andarci all’insaputa di Alvaro? No, non è possibile, e poi, magari, lo verrebbe a sapere ugualmente. E allora? Dovrei dirlo ad Alvaro, prima: non c’è dubbio. Ma come la prenderebbe? Non gli sembrerebbe eccessivo, il mio interessamento? Per fortuna, si è ritirato dal servizio; ma anche così, non rischierei di compromettere la sua posizione? "Moglie di un ex magistrato si reca in visita carceraria dall’assassino di un pezzo grosso dell’esercito": se la notizia dovesse trapelare (e qui de noi trapela sempre tutto), quali potrebbero essere le conseguenze? D’altra parte se io, potendolo, non andassi da Mariano, potrei mai perdonarmelo? E lui: cosa ne penserebbe, lui? Sarebbe un bene o un male, per lui?

Quanti dubbi, quanti interrogativi; che groviglio di doveri, convenzioni, maschere sociali da dipanare!

E tutto per cercare di essere autentica, per poter essere me stessa.

Da un articolo del giornale conservatore El Pais, 6 marzo 1915.

Statura medie, capelli castani, occhi inquieti dietro gli occhiali dalla montature d’oro: ha l’aria di un professore,, di un intellettuale, più che di un rivoluzionario. Eppure quest’uomo solitario, apparentemente senza parenti né amici, uscito, con une falsa identità, da un’esistenza "normale" e quasi grigia, è un pericoloso delinquente e una minaccia per la sicurezza dello Stato. Ha ucciso, vantandosene, un alt ufficiale del nostro glorioso esercito, simbolo dell’unità patriottica dell’intera nazione, reo di aver difeso l’ordine sociale in un momento di grave pericolo per le nostre istituzioni, per i nostri beni, per la nostra stesse civiltà. Egli è figlio di quel materialismo ateo, nichilista, distruttivo, che già il grande scrittore russo Dostojevskij ha magistralmente descritto nei suoi romanzi, e specialmente ne I fratelli Karamazov e ne I demoni. Ecco dove ci potrebbe condurre una certa cultura moderna, irrispettosa dei valori del passato, sprezzante verso secoli di civiltà cristiana, che considera il patriottismo ella stregua di un crimine, la proprietà privata e l’onesto lavoro come vizi decadenti della società borghese!

Certo non sapevano, i bravi preti della scuola privata ove insegnava de circa un anno, che razza di serpe si stavano scaldando in seno! Un individuo simile, le mani macchiate di un atroce delitto, promosso all’altissima responsabilità di educare la nostra gioventù! Eppure, propri questo paradosso dovrebbe farci riflettere sul pericoloso lassismo, sulla colpevole debolezza con "cui abbiamo permesso, negli ultimi anni, che i germi di una nuova e micidiale malattia, chiamata socialismo, penetrassero nel corpo sano e vigoroso delle nostra società, e ne minassero, sotto apparenze non di rado rispettabili, la salute e la stesse sopravvivenza. Ma è tempo di riscuotersi! Mai più, mai più dovremo consentire che simili individui avvelenino le pure sorgenti della nostre società cattolica e liberale. Non deve più esserci posto per i Mariano Sarmiento, nella nostra pacifica e laboriosa patria. Un solo grido, una sola volontà deve ardere in ogni petto: mai più colpevoli indulgenze; mai più! ‘

Lettera di Isabela Kocbek ad Alexandra, 7 marzo 1915.

Gentilissima señora,

mi scuso ancora per averla disturbata, chiedendole un consiglio su una delicata questione morale che gli eventi, negli ultimi giorni, si sono incaricati di rendere superata.

Voglio anche informarla di aver ricevuto risposta da mio padre il quale si è espresso così: "Non ti preoccupare, per adesso non fare niente. Se quella persona è in patria ed è libera di disporre di sé, certamente provvederà a fare qualcosa".

Le rinnovo il mio grazie per la simpatia e la generosità dimostratemi e le porgo i piùdistinti saluti, estendendoli alla sua meravigliosa famiglia.

Con l’augurio di ogni bene futuro

sua Isabela Kocbek.

Dal diario di Alexandra, 8 marzo1915.

Ho deciso. Dopo giorni di violento e spossante conflitto interiore, ho capito che non potrei mai sottrarrai a quello che sento essere un dovere morale, ma anche un bisogno insopprimibile della mia anima. Andrò a trovare Mariano, o almeno ne farò richiesta, costi quello che costi.

Nel pomeriggio ne ho parlato con Alvaro. Mi ha ascoltato in silenzio, senza mai interrompermi, per lo più guardando il tappeto e seguendone i disegni con eccessiva attenzione. Gli ho detto, ed è la verità, che anche i ragazzi mi avevano espresso un’idea del genere, che noi abbiamo un debito di gratitudine che chiede ora di essere onorato, a dispetto delle circostanze avverse. Che comprendo la delicatezza della sua e della nostra posizione, ma che non avrei più stima di me stessa se mi tirassi indietro.

Quando ho terminato, è rimasto ancora a lungo in silenzio. Passata l’iniziale ombro di sorpresa dai suoi occhi, le spalle un po’ curve rivelavano solo una certa stanchezza. Era come se, in fondo, la mia richiesta non lo avesse trovato del tutto impreparato; o almeno, così m’è sembrato.

– Tu comprendi, cara – mi ha detto alla fine, levando gli occhi nei miei – l’estrema delicatezza del passo che intendi compiere. Vi hai ben riflettuto? Questo soltanto ti chiedo. –

Ho risposto di sì. – Allora -, ha proseguito – non mi resta che scegliere di essere dalla tua parte. Mi informerò presso la direzione della Villa Hermosa e ti farò sapere quanto prima quel che si debba fare.

Stava per uscire dallo studio senza aggiungere altro, ma io l’ho trattenuto. – Alvaro – gli ho detto -, se in qualche misura e per qualche motivo disapprovi la mia decisione, ti prego di dirmelo, e di dirmelo ora. –

– Io non ti disapprovo, anche se non ti comprendo sino in fondo. In questi anni ci siamo sempre detti ogni cosa, credo. Tu, hai ancora qualche cosa che vorresti dirmi? –

– Soltanto, caro, di aver pazienza, e di fidarti di me, come hai sempre fatto. –

– Sì, certo. Come abbiamo sempre fatto entrambi. – E ci sismo stretti la mano, a lungo, con calore, sorridendoci.

Dal diario di Alexandra, 9 marzo 1915.

Alvaro è stato personalmente a Villa Hermosa ed è tornato annunciandomi che potrò recarmi a trovare Mariano in qualunque giorno, fra le quattro e le sei del pomeriggio, senza altre formalità che quella di esibire un documento. L’ho ringraziato con calore. Avrei voluto abbracciarlo, ma m’è sembrato, non so perché, un gesto inopportuno, e mi sono trattenuta.

– Quando conti di andarvi? -, mi ha chiesto.

– Domani. –

– Molto bene. Ci andrai da sola? –

– Sì, per favore. Ti sei già esposto abbastanza. –

– Domani, alle quattro, ti farò trovare una carrozza davanti a casa. Noi abitiamo un po’ fuori città, all’inizio di Viña del Mar, il quartiere residenziale. Villa Hermosa è sulla collina che domina Valparaìso: se non si prende la teleferica, occorre fare un lungo giro per la strada alberata che sale pigramente il declivio. Sarà circa mezz’ora di strada: alle quattro e mezze, di domani potrei già essere ammessa al colloquio. Dio, mi sembra incredibile! Sentimenti stranissimi, contrastanti, che non riesco a razionalizzare, mi si agitano nell’animo e collidono fra loro. Il cuore mi batte forte già al solo pensiero di rivederlo.

E lui, sarà contento di rivedermi? O magari, date anche le circostanze, lo farò soffrire? Ah, se sapessi quello che pensa! Ma non c’è niente da fare, dovrò correre il rischio di essere inopportuna. In questo caso, me ne andrò subito. Tuttavia… sarò abbastanza forte? Riuscirò a non farmi sopraffare dall’emozione?

Da un articolo del giornale "El Mercurio", 9 marzo 1915.

Dalla procura della Repubblica giunge notizia che il processo Muñoz-Gamero è stato fissato per il mattino del 12 aprile: a un mese esatto, quindi, dal giorno in cui Mariano Sarmiento si è consegnato alla giustizia. Non è stati ancora designato l’avvocato difensore, mentre il pubblico accusatore sarà don Eusebio Castelàr.

Dicono che l’imputato sia tranquillo e che non abbia tradito alcun segno di nervosismo. Durante gli interrogatori ha sempre ribadito di aver seguito da solo e senza complici, allo scopo di vendicare i morti di Antofagasta. Sono state sentite diverse persone che lo hanno conosciuto prima del 1911, quando venne deportato per attentato alla sicurezza dello Stato. Laureato in filosofia, pere sia stato un brillante studente universitario, tanto da prendere una seconda laurea in scienze naturali. Il professor Alessandro Mackenna, direttore dell’Orto Botanico di Santiago, lo ricorda come un promettente ricercatore, ma lo perse di vista dopo il 1899. Anche nell’ambiente giornalistico era ben conosciuto e apprezzato, ma sembra che a partire del 1903 si sia dedicato interamente alla causa dell’anarchismo, perdendo i contatti con gli ambienti della sua vita di studioso. Sembra però, stranamente, che dopo il fortunoso rientro in patria a seguito dell’evasione, non abbia riallacciato i contatti nemmeno con gli ambienti sovversivi. Faceva una vita molto ritirata, insegnando lettere in un istituto religioso nei sobborghi della città, il "San Ignazio de Loyola", ed era cornsiderato un elemento tranquillo e riservato, apprezzato dai suoi alunni e dai colleghi, forse solo un po’ troppo taciturno. Viveva sotto il nome di Beniamino Guillèn e aveva affittato un piccolo appartamento nel quartiere operaio. I vicini di casa lo ricordano come una persona educata ma estremamente riservata, che non riceveva quasi mai visite. Effettivamente, non sembrano emersi, finora, collegamenti diretti fra lui e altri membri dei gruppi anarchici e socialisti delle città né di Santiago, dove risiedeva prima del 1911 e dove non ha parenti, essendo nativo della provincia di Bìo-Bìo, nella provincia araucana. Egli sostiene di essersi recato a Talcahuano,nel 1908, da solo e senza aiuti; di aver pedinato per alcuni giorni il generale Muñoz-Gamero, allora di servizio presso quella piazza d’ami; e di averlo ucciso di sua iniziativa, all’insaputa dei suoi compagni di idee, che non voleva coinvolgere in una azione individualista.

Dal diario di Alexandra, 10 marzo 1915.

L ‘ho visto.

Dal diario di Alexandra, 11 marzo1915.

Troppe emozioni ieri; impossibile scrivere. Anche adesso ci riesco a stento, mi sembra di muovermi in un sogno, barcollando. Intorno a me non le cose di tutti i giorni, ma un’ombra di esse, incerta e tremolante, come il riflesso in un’acqua torbida.

Alle quattro la carrozza era pronta sotto casa; prima delle quattro e mezza ero già in parlatorio, in attesa che lo chiamassero. Ero in una stanzetta squallida e poco illuminata, con un tavolo al centro e due sedie, una da una parte e una dall’altra. Presso la porta, un agente in divisa la cui presenza m’innervosiva non poco. Mentre ero in attesa, mi sono fatta coraggio e mi sono avvicinata a quell’uomo – era un caporale – e gli ho detto, tirando fuori un paio di banconote, se per favore non avrebbe potuto lasciarmi sola qualche minuto. Lui ha guardato il denaro, ha guardato me, e per qualche istante ho creduto che avrebbe rifiutato e magari che mi avrebbero negato il colloquio. Invece ha preso le banconote e mi ha fatto un piccolo inchino, dicendo: – Quando verrà il detenuto, señora, la lascerò sola -, probabilmente perché non voleva farsi accorgere dal suo collega.

Sono tornata a sedermi al tavolo di quercia, contando assurdamente le fessure della sua superficie, quando ho inteso dei passi avvicinarsi dall’altra porta, quella di fronte a me. La porta si è aperta, ed è entrato Mariano. Il sergente ha detto: Avete Quindici minuti, signori -, e ha richiuso. Alle mie spalle, ho sentito chiudersi anche l’altra porta: il caporale era uscito, come aveva promesso. Così, eravamo soli.

No, non potrò mai esprimere quel che provavo in quei momenti, mentre il cuore mi martellava in petto così forte, che mi sembrava impossibile non si udisse distintamente per tutta la stanza.

Mariano mi guardava senza dir nulla, ma si vedeva che era in preda a un’emozione fortissima. Mi ero aspettata chissà quali cambiamenti, invece la prima impressione che ebbi fu quella di rivedere l’uomo conosciuto più di tre anni fa, pressoché immutato fisicamente. La seconda impressione, che potei ricevere quando fui in grado di osservarlo meglio, fu che il cambiamento dovuto a. tutte le cose accadute in quegli anni si fosse interamente concentrato nei suoi occhi verde-castani. Il suo sguardo aveva acquistato un che di strano, d’indefinibile, come se avesse registrato esperienze che non si possono esprimere a parole; mi vennero in mente le parole di Federico e la sua sensazione che Mariano non gli avesse raccontato proprio tutto ciò che era accaduto sull’isola Dougherty.

Non riesco a ricordare le prime parole che ci scambiammo; credo di essere stata io a. rompere il silenzio, domandandogli: – Mariano, come stai? -, e porgendogli la mano che lui, dopo una lunga pausa, afferrò con entrambe le sue. Fu un attimo: mi trovai il viso inondato di lacrime ed è chiaro che girammo intorno al tavolo, anche se non riesco proprio a ricordare il movimento consapevole delle mie gambe, poiché subito dopo eravamo abbracciati stretti, incapaci di parlare, di fare qualsiasi cosa.

Non so dopo quanto ci separammo, guardandoci negli occhi. Poi, faticosamente, lui mi indicò la mia sedia e andò a sedersi di fronte a me, dall’altra parte del tavolo.

– Alexandra, come mai sei qui? –

– Come avrei potuto non esserci? –

– Ti prego, dimmi come stai. – .

– Sto bene, davvero. Tu, piuttosto… –

– E i bambini? E. tuo marito? –

– Tutti bene, grazie. A proposito, Isabela e Ricardo ti ricordano sempre. Avrebbero voluto venire anche loro: ti porto i loro saluti. –

– Davvero mi ricordano, dopo tutto questo tempo? –

– Non ti hanno mai dimenticato, Mariano. –

– E don Alvaro? –

– E’ lui che mi ha fatto condurre qui. –

– Ah. Bene, è stato molto gentile da parte sua. Immagino che ora avrete un mucchio di seccature, a causa mia. Per la faccenda dell’evasione… –

– Dai, non preoccupartene. Niente di grave. –

– Non fu quella la causa del vostro ritorno dall’isola? –

– No, Alvaro aveva già deciso di chiedere il pensionamento. Non avere alcuna preoccupazione per noi, ti ripeto. Devi pensare solo a essere il più possibile sereno. –

– Ma io lo sono già, Alexandra. Insomma, quanto basta; devi credermi. –

Ogni tanto smettevamo di parlare, guardandoci intensamente: e riuscivamo a dirci più cose in quel modo, e a dircele meglio. Eravamo felici.

– Mariano, hai avuto un coraggio da leone a consegnarti. –

– Ma no. Era una cosa che andava, fatta, e basta. Non c’era scelta. –

– E adesso…? –

– Niente. Sai, c’è una sola cosa che mi secca veramente, in tutta questa faccenda: il clamore che si è levato intorno alla mia persona. Tutta questa curiosità su chi sono, cosa facevo, chi frequentavo: è insopportabile. Mi dà veramente la nausea. Ma pazienza, fa parte dello spettacolo. –

– Solo questo ti angustia? –

– No, anche un’altra cosa. Se avessi dovuto fare questa scelta nel 1908, l’avrei l’atta ugualmente, credo, ma con un altro spirito. Allora ci credevo veramente. Sarei stato pronto ad ammazzare un altro generale, se si fosse dato il caso. E avrei sputato in faccia alle istituzioni tutto il mio disprezzo. Avrei, semplicemente, rifiutato di rispondere alle domande di questa gente, rifiutando di riconoscere loro alcuna legittimità, politica o morale. Invece, ho dovuto fare la scelte nel 1915, e quello che sento adesso, è diverso da quel che sentivo allora… Ma la vita è strana: le azioni passate ci seguono, non c’è niente da fare. –

-Sì, le vita è strana… Me lo diceva proprio Isabela, qualche giorno fa. –

I minuti scorrevano inesorabili, sapevo che presto il colloquio sarebbe finito. Con uno sforzo, riuscii a ricondurre le mia concentrazione sui problemi pratici più immediati. –

– Come ti trattano, qui? –

– Ah, non c’è male. Sai, devono presentarmi in tribunale con un aspetto come si deve, poiché il dibattimento sarà pubblico. E io sarò la bestia esotica del loro piacevolissimo giardino zoologico. –

– Il vitto è decente? –

– Ma sì, ma sì… –

– E hai già provveduto per 1’avvocato? –

– Mi farò assegnare un avvocato d’ufficio. Tanto, la sentenze è già scritt.a. Ed è logico che sia così, non ho sconti da chiedere. –

– Qui ti sbagli, Mariano. Devi avere un giusto processo, che valuti opportunamente tutte le circostanze del fatto. Senti, mi permetti di contattare un avvocato di nostra fiducia?

– Ah, questo no. Costano, quegli avvocatoni che dici tu. E io vi sto dando già abbastanza seccature. Cosa ne penserebbe tuo marito? Non puoi abusare della sua compressione… –

– No, lasciami fare. Ti prego. Mi dai il tuo consenso? –

– Alexandra, non mi sembra il caso… –

– Per favore! –

– Ci tieni dunque tanto?

– Sì –

– E allora, sia come tu vuoi. Ma solo se tuo marito sarà d’accordo. E, francamente, la cosa mi sembra un po’ improbabile. Lo dico senza alcuna ironia; penso che anch’io, se fossi nei suoi panni… –

– Basta, non sprechiamo il tempo in discorsi inutili. Dimmi solo un’ultima cosa: ho fatto bene o male a venirti a trovare?

– Io non ti aspettavo di certo, Alexandra. Non avevi alcun obbligo, neanche lontanamente… Ma insomma, sono stato felice di vederti.

– E io anche. Ti ho pensato, sai, in tutto questo tempo… E sono riuscita ad avere tue notizie, non per merito mio. Federico Kocbek si è messo indirettamente in contatto con me, ma solo un quaranta giorni fa… Sino ad allora, mi sono sempre tormentata, chiedendomi cosa ti fosse accaduto.

– Se non ti ho fatto avere mie notizie, è .stato solo perché temevo di turbare, in qualche modo, la tua serenità. Io, però, avevo bisogno di sapere come stavi. Ti ho vista, sai, in quest’ultimo anno…

– Mi hai vista? Quando?

– E perché credi che sia tornato in Cile, e proprio in questa città, se non per vederti qualche volta, anche solo da lontano? – Ero senza parole.

– Ma, Alexandra, non credere che ti abbia spiata. Solo, una volta al mese, facevo una passeggiata fino a Viña del Mar, per vederti e sapere che c’eri, che stavi bene… Ma, ovviamente, non mi sono mai avvicinato. –

– Ma… perché? –

– Te l’ho detto. Avevo troppa paura di disturbare la tua vita, il corso dei tuoi… sentimenti. Ci eravamo già salutati, sull’isola, ricordi? Non c’era altro da aggiungere. –

– Capisco… Non so se sia stato più difficile per me, non sapere mai più nulla di te; o per te, essere qui, vedermi e rinunciare ad avvicinarti.

Quien sabe? -, e ha sorriso.

La porta si è aperta alle mie spalle, il caporale è rientrato, restando in fondo alla stanza. Ho capito che da un momento all’altro sarebbe rientrato anche il sergente per condurre via Mariano e, per un attimo, mi sono smarrita, mi pareva di non aver più terreno solido sotto la sedia. Ma mi sono ripresa a tempo e gli ho chiesto: – Puoi ricevere libri, indumenti? Hai bisogno di qualcosa? Devo dire qualcosa a qualcuno? –

– No, grazie, Alexandra. È tutto a posto. –

– Il tuo Virgilio? -, e cercavo di sorridere anch’io.

– Vada per il Virgilio. –

Rumore di passi, si è aperta la porta dietro di lui ed è entrato il sergente. Ci siamo alzati in piedi, ci siamo stretti forte le mani attraverso il tavolo.

Ho chiesto: – Mi permetti di ritornare? –

– Ma non occorre. Manca ormai poco al processo… –

– Ma me lo permetti? –

Señora – ha detto il sergente – mi spiace, il tempo è finito.

– Regolati in tutta libertà -, mi ha detto Mariano, avviandosi. – Ma se non ti rivedrò, non fa niente, va bene lo stesso. Ceree di stare serena anche tu. –

Ed è uscito, rivolgendomi un ultimo sorriso. Il sergente ha richiuso la porta alle sue spalle.

CAPITOLO SESTO

Dal diario di Alexandra, 12 marzo 1915.

È una fortuna che sia riuscita a piangere, ieri sera; e anche stamattina Ora mi sento un po’ meglio, e posso pensare al presente con maggiore lucidità.

In primo luogo, l’avvocato. Ne conosco uno bravo, è da anni un amico di famiglia, di Alvaro naturalmente, ma anche mio; e, anche se ultimamente abbiamo un po’ diradato le visite, come con tutti, del resto, siamo rimasti in rapporti assai cordiali. È l’avvocato Vicente Lennox, figlio di immigrati scozzesi, un perfetto gentleman. Un tempo ci vedevamo spesso, lui e Alvaro facevano lunghe chiacchierate dopo cena, fumando un cigarillo, mentre io e sua moglie avevamo stretto un’amicizia che non era esclusivamente formale. Dona Adelaide è una persona sensibile e fine, e sa parlare non solo di cucina e di bambini; timida, si apre solo quando è messa completamente a suo agio.

Ne ho parlato con mio marito, dopo averlo messo al corrente del mio colloquio con Mariano e spiegandogli bene che si tratta di una mia iniziativa, che ho dovuto anzi faticare per strappare a Mariano un mezzo assenso.

– Sì, – ha detto – riconosco che quell’uomo si è comportato da gentiluomo. Ma tu, pensi che sia una mossa prudente? –

– Non so se sia prudente, so che vorrei farla. Non mi fido degli avvocati difensori nominati d’ufficio, non mi fido di questi tribunali così palesemente prevenuti…

– Alexandra, devi capire che il processo sarà una pura formalità. La condanna è assolutamente certa, e non potrebbe essere diversamente, dal momento che è lui stesso ad accusarsi.

– Va bene, lui si è autoaccusato. Ma vi sono delle circostanze, come dire, morali, che potrebbero attenuare il peso della sentenza. –

– Per esempio? –

– Via, lo sai anche tu che Muñoz-Gemero era solo un assassino in uniforme. –

– Può essere – ha detto pensosamente, – può essere. –

– Quanto al lato economico della cosa, scusami, caro, se te ne parlo, tu sai che io dispongo… –

Mi ha interrotto: – Eh, via, che discorsi sono questi? Insieme prenderemo o non prenderemo questa decisione, e non parliamo di soldi. Non è certo questo il problema! –

– Certo, scusami. Hai ragione, non volevo intendere una cose simile. –

– Hai già pensato a qualcuno, in particolare? –

– Sì, ho pensato a don Vicente, si capisce. –

– Già, già. È la scelta più logica. Un bravo avvocato, un buon amico. Se si può dire che abbiamo ancora degli amici. –

– Ma sì, don Vicente non è il tipo che gira come una banderuola al vento, a seconda delle fortune politiche. È una persona di principi, come lo è dona Adelaide, del resto. –

– Sì, mi sembra la persona adatta. Ma… credi che accetterà di assumersi un incarico così impopolare?

– Non dimenticare che, impopolarità a parte, sarà un processo importante, e… storico. Potrebbe sentirsi lusingato. –

– Ve bene. Resta l’altra questione: se, cioè, sia opportuno che noi ci esponiamo così tanto. –

– Ho pensato che non sarebbe poi necessario farlo sapere. Far sapere, cioè, che ci siamo noi dietro l’avvocato Lennox. Se accetterà, beninteso. –

– Sì, hai ragione. Anche se la cosa potrebbe trapelare ugualmente. Ma preferirei di no… per la tranquillità nostra e dei nostri figli. –

– Sai bene che questa è anche la mia profonda preoccupazione. –

– Quand’è così, e visto che sei proprio decisa… Domattina andremo a trovare il vecchio Vicente, e sentiremo cosa ne pensa. –

Ho provato un’immensa gratitudine, un’immensa stima, un immenso amore per quell’uomo stupendo, disposto a sfidare il mondo per essermi accanto in una battaglia che non capisce, o che capisce solo fino a un certo punto.

Dal diario di Alexandra, 13 marzo 1915.

Oggi siamo stati da don Vicente. Ha accettato di assumere la difesa di Mariano, sia pure dopo alcuni momenti di perplessità, e ci ha assicurato che nel pomeriggio sarebbe passato dal giudice Caballero per iniziare a visionare le carte dell’inchiesta: non c’è tempo da perdere, infatti. Immagino lo stupore malizioso di quella vecchia talpa di Caballero, quando gli si presenterà uno dei migliori avvocati del foro cittadino. Quanto a don Vicente, se anche si è chiesto cosa mai ci spinga ad assumere la difesa di un uomo che abbiamo conosciuto così poco, e in circostanze così poco favorevoli a una reciproca amicizia, ha tenuto per sé la sua curiosità. È un uomo discreto, non mi ero ingannata su di lui. Infine, è stato d’accordo anche sul fatto di non fare mai i nostri nomi, nel corso del processo e anche al di fuori di esso, approvando una simile misura di riservatezza

Di onorario, non ha voluto sentir parlare. – Vedremo – ha detto – di affrontare la cosa, se otterrò qualche risultato. Ma vi avverto: le speranze di ottenere una pena non dico clemente, ma non troppo severa, sono molto vicine allo zero. Questo bisogna saperlo fin dall’inizio. –

– Dimmi, Vicente, in tutta franchezza: cos’è allora che ti ha spinto ad accettare? -, gli ha chiesto Alvaro.

Lui ci ha guardati a lungo coi suoi occhietti azzurro cielo, piccoli e mobilissimi; poi, sorridendo: – Credo che non lo immaginereste mai: il fatto che. non ho mai potuto sopportare gorilla come quel Muñoz-Gamero. Un autentico macellaio: altro che eroe nazionale! –

Dal diario di Alexandra, 14 marzo 1915.

Giorni strani, esaltanti, angosciosi, felici! Felici? Non posso negarlo: c’è anche questo sentimento in me, da quando l’ho rivisto. Penso e ripenso al nostro incontro dell’altro giorno, cerco di ricordare ogni parola, ogni gesto. E meno male che ho trovato uno scopo alle mie prossime settimane: occuparmi della difesa di Mariano; anche se dovrò restare nell’ombra, per non far sapere che don Vicente è stato assunto da noi. Se non avessi nulla da fare, credo che impazzirei. Strano, non solo non ho chiesto a Mariano se è vero che ha sparato al generale Muñoz-Gamero (ho scritto "sparato" e non "ucciso", o magari "assassinato": come sono vile!); non mi sono neanche posta più il problema. Sì, credo che l’abbia fatto. E credo che sia stato male, che abbia commesso un’azione inaccettabile, di cui forse si è già pentito. Ma – ecco il fatto notevole – la cose non riveste poi un’importanza decisiva, dopotutto. E’ perché do anch’io poca importanza alla vita umana? O perché mi sentirei comunque, qualunque cose possa aver fatto, dalla parte di Mariano? E che cosa significa questo? Che ho perduto le mie facoltà critiche, le mie salde convinzioni morali? O che, quando si ama, si è disposti a scusare tutto, a giustificare tutto… Ho scritto proprio così? Quando si ama? M’è uscito dalla penna e dal cuore, senza averlo voluto… Ma non può essere. Io amo Alvaro. E che cos’è quest’altro sentimento che mi fruga il cuore, che me lo fa battere, che ora mi getta nell’angoscia e nella disperazione, ora mi innalza a volo nelle zone più alte e più pure della felicità umana?

Nel pomeriggio mi sono recata all’ufficio poetale e ho spedito un pacco per laVilla Hermosa. Ero stata in libreria e avevo chiesto una edizione delle opere di Virgilio in volume unico. Mi hanno presentato un bel volume rilegato in tela verde, con il testo latino a fronte di quello spagnolo. L’ho messo in una busta e ho scritto sopra: "Aperto per l’ispezione". Spero che glielo consegneranno senza fare difficoltà. Ecco, anche di una piccola cosa come quella mi sono sentita felice. C’era un venticello che portava via le ultime foglie dei pioppi, ma non freddo né sgradevole, anzi stranamente dolce, e il cielo azzurro era solcato da poche nuvole bianche e leggere. Si avvicina l’inverno e, con esso, la stagione piovosa, ma oggi l’aria aveva quasi una trasparenza primaverile.

Arrivata vicino a case, mi sono fermata all’angolo dell’avenida, presso il grande albero di catalpa che, in primavera, si copre di quei bellissimi fiori purpurei, ma che ora ha ormai perso tutte le sue grandi foglie; e. guardando il cielo azzurro, ho respirato l’aria frizzante a pieni polmoni, pensando: – Oggi è un altro giorno, ed è meraviglioso essere vivi; essere vivi e amare amare amare!

Dal diario di Alexandra, 15 marzo 1915.

Sono stata a trovare don Vicente, non all’insaputa di Alvaro, ma dopo averlo avvertito. Mi ha chiesto se volevo che mi accompagnasse; gli ho detto di no, che si è dato già troppi fastidi per assecondarmi. Gli ho promesso che sarò prudente, che non farò nulla di avventato, che non prenderò iniziative senza parlarne prima con lui.

Don Vicente non è apparso sorpreso della mia visita. Gli ho detto che mi sarei fermata poco, per non sottrargli del tempo prezioso: ha solo due settimane di tempo per impostare la difese. Poi gli ho chiesto quale impressione abbia avuto, sul momento, delle carte dell’inchiesta.

– Non c’è molto da dire, in verità – ha risposto – sapevo quasi già tutto dai giornali. È incredibile come fuoriescano le notizie dai palazzi di giustizia, la stampa è informata quasi meglio di noi avvocati. Piuttosto, mi sto documentando sui fatti di Antofagsta, del febbraio 1908. E’ lì che devo cercare di battere, per insinuare almeno qualche scomoda domandina nei membri della giuria. Ma non so se me lo permetteranno; temo anzi che non potrò farne una vera e propria linea difensiva, perché non mi lasceranno certo trasformare il processo a Mariano in un processo al defunto generale… –

– Non esistono, secondo lei, circostanze attenuanti? –

– Temo di no, se non, appunto, il clima morale di quell’epoca: un clima saturo di rabbia per l’eccidio di quella gente… Comunque, bisogna prima che parli con l’imputato. Avrò il primo colloquio con lui domandi mattina. Devo rendermi conto di che tipo sia, vedere se mi potrà offrire, magari involontariamente, qualche appiglio. Devo chiarire, soprattutto, se è proprio vero che abbia agito da solo… –

– Ma don Vicente, se anche così non fosse, è chiaro che non vorrà mai coinvolgere i suoi compagni di allora! Non avrebbe esposto se stesso per salvare un innocente, se poi dovesse compromettere altre persone, le pare? –

– Sì, è possibile. Io, però, devo farmi un’idea precisa di come andarono le cose. Altra faccende è se poi utilizzerò tutto quel che sarò venuto a sapere. Può darsi che non convenga, nello stesso interesse del mio assistito… –

Prima di andarmene, sono passata a salutare Adelaide, che non vedevo da circa due mesi. Don Vicente, infatti, tiene lo studio legale in un’ala della sua abitazione privata, una elegante palazzina in stile liberty.

Abbiamo conversato a lungo, ritrovando quasi l’affettuosa intimità dei vecchi tempi. Seduta nel suo grazioso salottino azzurro, sorseggiando une tazza di eccellente tè scozzese, mi sono sentita avvolta da una calda atmosfera protettiva, mentre fuori il vento autunnale portava via le ultime foglie dei tigli del giardino.

– Ma dimmi, Alexandra, se hai voglia di rispondermi – mi ha chiesto a un certo punto Adelaide, – che tipo è questo Sarmiento? –

– È un uomo raro, un uomo come ce ne sono pochi. –

Mi ha guardato senz’ombra di malizia femminile, con lo sguardo comprensivo di une sorella maggiore: – È per questo che vuoi difenderlo a tutti i costi, dunque? –

– Sì, è per questo. –

– Tuttavia, le sue mani sono sporche di sangue. –

– È vero, non voglio difenderlo su questo punto. Eppure, in una strana maniera che non so spiegare, so anche che la sua anima è pulita. –

Ha sospirato, riflettendo. – II cuore umano è un grande mistero – ha mormorato poi lentamente, quasi parlando a sé stessa.

– E tu, Adelaide, cosa mi dici di te? –

La sua bocca ha preso una piega amara, il suo bel viso si è eclissato dietro un velo di tristezza. – La mia vita, Alexandra, è stata tutta un fallimento -, e guardava basso. Sono rimasta sorpresa da tanta sincerità, e anche da una tristezza così profonda.

– Perché dici questo? I tuoi figli, tuo marito… –

– Ho quarantotto anni, Alexandra: dieci più di te. Non sono vecchia, ma mi sento vecchia ugualmente, perché sento di aver sprecato la mia vita, e ormai è troppo tardi per ricominciare. I figli? Sono grandi, Virginia è sposata ormai da tre anni, Manuel frequenta l’università e vive a Santiago: non hanno più bisogno di me e, forse, non l’hanno mai avuto. Mio marito? Vicente non sa nulla di me, lui ha sposato il suo lavoro; è da una intera vita che recito la parte della moglie felice, anche con lui… –

Lacrime silenziose le sgorgavano irrefrenabili, togliendole la parola. Ho posato una mano su : quelle spalle esili, scosse dai singhiozzi.

Si è ripresa quasi subito, si è asciugata col fazzoletto e ha perfino tentato di sorridere:- Scusami, sai, non so cosa m’abbia preso. Non capisco nemmeno io come sia successo.., dirti tutte queste cose… –

Le ho stretto le mano con forza, sorridendole con simpatia: – No, hai fatto benissimo a parlare. Potrai farlo ogni volta che vorrai. Io credo di aver capito che ne hai bisogno, ma non hai amici fidati coi quali condividere la tua pena. Ricorda che io ci sarò sempre, se vorrai… –

Andandomene, poco dopo, ho ripensato a quelle parole: che la vita è strana. Anche io credevo che Adelaide fosse una donna felice e realizzata, senza grandi travagli interiori. Oppure mi faceva comodo pensarlo? Tante volte noi fingiamo di non vedere i problemi degli altri, per evitarci seccature, per non essere disturbati dall’altrui sofferenza…

CAPITOLO SETTIMO

Da un articolo del giornale El Mercurio, 16 marzo 1915.

Di nuovo un’eco della guerra mondiale ha bussato alle porte del nostro Paese, ricordandoci quanto sia difficile conservare la neutralità in un mondo ferocemente diviso in due campi contrapposti, che si combattono senza esclusione di colpi.

Dall’isola Juan Fernandez è giunta notizia che il governatore ha telegrafato "per denunciare un grave atto di guerra avvenuto nelle nostre acque territoriali, in spregio della nostra condizione di Stato neutrale. L’incrociatore tedesco Dresden, che nel novembre scorso entrò a Valparaiso insieme alle altre nevi dell’ammiraglio von Spee, dopo la tragica battaglia delle Isole Falkland era riuscito ad eclissarsi, tenendosi nascosto per diversi mesi in un ancoraggio segreto della provincia di Magallanes, pare in una isoletta della Terra del Fuoco. Poi, a corto di combustibile, aveva eluso le ricerche delle squadra britannica e aveva fatto rotta verso nord, raggiungendo appunto l’isola Juan Fernandez. Qui è stato raggiunto da alcuni incrociatori inglesi che gli hanno tagliato la rotta, inducendo il suo comandante a cercare rifugio a 500 metri dalla costa, nelle nostre acque territoriali. A dispetto di ciò, le unità di Sua Maestà britannica hanno aperto il fuoco, tanto da lasciare tracce evidenti del loro tiro sulle rocce dell’isola, nella Baia di Cumberland. A questo punto, per non cadere nelle meni del nemico, il Dresden si è autoaffonduto e il suo equipaggio è sbarcato, subendo l’internamento riservato alle forze combattenti di qualsiasi Paese belligerante. Da Santiago è giunta notizia che il nostro ministro degli Esteri ha consegnato all’ambasciatore britannico una vibrata nota di protesta da parte del governo cileno. È stato fatto notare che, se il Dresden si fosse trattenuto per più di ventiquattr’ore nelle acque territoriali del Cile, automaticamente avrebbe dovuto subire l’internamento, secondo le leggi di guerra internazionali. L’azione militare della squadra britannica è stata, quindi, inutilmente cruenta e ha calpestato le più elementari norme del diritto internazionale, ledendo la sovranità nazionale del libero popolo cileno.

Dal diario di Alexendra, 17 marzo 1915.

L’affondamento dell’incrociatore tedesco e l’incidente diplomatico fra noi e la Gran Bretagna sono giunti in buon punto per distrarre, almeno in parte, la morbosa attenzione della stampe, e quindi dell’opinione pubblica, dal processo imminente. Sia lode al cielo! Chissà che fra qualche giorno il clima di furiosa ostilità sia un po’ sbollito intorno a Mariano. Ciò sarebbe quanto mai necessario, perché nelle ultime settimane si è parlato veramente troppo di lui e dell’affare Muñoz-Gamero. Anche le prossime elezioni politiche potrebbero fare al caso nostro; tutto può servire…

Dal diario di Alexandra, 18 marzo 1915.

Ho fatto un sogno strano e meraviglioso.

Ero tornate bambina di sei o sette armi, laggiù, nelle verde regione dei laghi e dei fiordi della mia infanzia felice. Distesa su un prato con un filo d’erba tra i denti, guardavo il cielo azzurro, immenso, limpido, senza una nuvola (cosa ben diversa dalla realtà, perché il Cile meridionale è una delle zone più piovose della Terra). Mi sentivo in pace col mondo, e felice. Un lontano suono di campane giungeva da dietro la collina, le cui pendici erano tutte disseminate di milioni di fiori variopinti.

Ad un tratto un’ombra scura ha coperto il Sole e si è levato un vento gagliardo, mentre in distanza si udiva rimbombare lungamente il tuon estivo. Mi sono alzata per avviarmi verso casa, ma la natura, fino a un momento prima così amichevole, ha rivelato inaspettatamente il suo volto minaccioso, quasi ostile. L’erba che stavo attraversando si faceva sempre più alta, sempre più alta; ormai superava la mia statura, ed io avanzavo con estrema fatica, ansimante, sotto un cielo scuro come la notte, spaventoso a verdersi. E il vento continuava ad aumentare.

Mi aspettavo da un momento all’altro che scoppiasse il temporale, quando ho visto venirmi incontro la nonna, presso il boschetto dei pioppi. Mi sorrideva col suo sorriso dolce e buono, e apriva le braccia per accogliermi mentre correvo, spaventata e felice, a rifugiarmi sul suo seno. Intanto gridavo con tutti i miei polmoni: – Nonna! Nonna! -, e le volavo incontro.

A questo punto mi sono svegliata, emozionata, quasi piangente. Non avevo più sognato la nonna, morta ormai da tanti anni, da moltissimo tempo. Lei è stata una presenza fondamentale nella mia esistenza di bambina, e non ho mai smesso di sentirne la nostalgia, per quanto si finisca sempre per rassegnarsi, prima o poi, alla scomparsa di una persona cara.

È stato bello rivederla con tale evidenza, con tanto calore. Il cuore mi batte ancora al solo ricordo.

Dal diario di Alexandra, 19 marzo 1915.

Oggi è venuta Adelaide e rendermi la visita dell’altro giorno.

Credevo, e lo avrei capito, avesse bisogno di riprendere il discorso dell’altra volta, di sfogarsi fino in fondo e di essere consolata. Invece ho capito quasi subito che era venuta per autentica amicizia verso di me, per riferirmi ciò che suo marito le ha confidato circa la difesa di Mariano. Mi ha detto che don Vicente è rimasto perplesso di fronte all’atteggiamento del suo assistito, pare che sia poco incline a collaborare. Gli ha chiesto i nomi delle persone che potrebbero essere chiamate a testimoniare in suo favore, ma lui non ha voluto darglieli. La cosa è rimediabile, perché Mariano era schedato come sovversivo, e quindi sorvegliato dalla polizia, da diversi anni .prime del 191l. Vicente si è recato al commissariato e ha potuto, come suo avvocato difensore, esaminare la cartella che lo riguarda. Lì, e anche all’Università di Santi ago, ha potuto trovare quei nomi e quegli indirizzi che cercava. Tuttavia, non sarà facile difendere qualcuno che si mostra così scettico sull’utilità di imbastire una seria linea di difesa. Pare che, a un certo punto, un po’ spazientito, don Vicente gli abbia chiesto: – Devo concludere che le è indifferente quel che accadrà in tribunale? –

– Signor avvocato – ha risposto Mariano – io apprezzo il suo zelo e sono grato alle persone che si preoccupano di assicurarmi la miglior difesa possibile. Ma non mi faccio illusioni. Inoltre, non voglio coinvolgere altre persone nella vicenda, non voglio i vecchi amici come testimoni a discarico; non vorrei nemmeno che si parlasse così tanto di me, che si andasse e caccia di notizie che mi riguardano, che si ricostruisse la mia vita passata. Tutto questo mi è molto sgradito. –

– Don Mariano, anch’io debbo dirle qualcosa – ha ribattuto don Vicente. – Io porterò avanti la sua difesa con ogni mezzo a mia disposizione, che lei lo voglia o no. Forse lei ha fretta di arrivare alla conclusione; io no. Intendo insinuare qualche dubbio nel cervello dei giurati e, per farlo, ho bisogno di tempo: devo tirare le cose in lungo. Non è in ballo solo la sua persona, questo non è un suo affare privato. Si tratta di vedere se è possibile scuotere lo strapotere dei conservatori, inceppare il meccanismo dello Stato autoritario, aprire qualche spiraglio di libertà di pensiero e di parola. Lei non è lo scopo, ma lo strumento di una tale battaglia. È per questo che io la difenderò senza trascurare alcuna opportunità, alcun espediente: anche a dispetto del fatto che lei non ne abbia voglia.-

Queste parole di Adelaide mi hanno colpite non poco, non pensavo che Mariano fosse così rassegnato. Forse che ha accettato il mio avvocato solo perché ha capito che non potrei perdonarmi di aver lasciato qualche strada intentata? Devo concludere che, quanto a lui, avrebbe preferito lasciare che le cose vadano come devono andare?

Sono rimasta a lungo pensierosa. Adelaide, con delicatezza, mi ha chiesto, sussurrando quasi le parole: – Ti sta molto a cuore, vero, la sorte di quell’uomo? -; e di nuovo percepivo in lei non la curiosità indiscreta di una donna maliziosa, ma la calda partecipazione di un’amica sincera.

i

– Sì -, e l’ho guardata negli occhi – sì.

Poi, nel silenzio accogliente e fiducioso che si era creato, ho aggiunto: – Ma non è come gli altri potrebbero pensare, Adelaide. Non ci sono sottintesi inconfessabili; non siano mai stati amanti. –

– Lo so, Alexandra, lo so. Io ti credo, lo avrei creduto in ogni modo, anche se tu non me lo avessi detto. –

L’ho guardata con stupore: – Ma come hai fatto a capire così facilmente? E’ stato difficile perfino per me, capire quel che provo per lui… –

– Credo di capirti, cara, perché anch’io, una volta… Oh, ma a che serve parlarne? Non voglio parlarti di me, oggi. Voglio solo tu sappia che penso di poter capire il tuo stato d’animo, perché so… insomma, ho sperimentato che si può voler bene immensamente a qualcuno, senza per questo…, senza per questo, come dire. .., be’, andarci a letto. –

– Adelaide, davvero tu hai fatto questa esperienza? –

– Sì, capisco il tuo stupore. Non sembrerebbe possibile, vero? Adelaide, la moglie felice e perfetta; la dolce, la timida Adelaide. Invece anch’io, un giorno, ho dovuto fare una scelta dolorosa, all’insaputa del mondo. –

È proprio vero che le persone intorno a noi, anche quelle che crediamo di conoscere meglio, sono in realtà un mistero insondabile. Che cosa, conosciamo noi, veramente, degli altri? Meno ancora di quel che conosciamo di noi stessi, che è quasi niente: dunque, niente del tutto. Non c’è nulla di più assurdo della pretesa di conoscere l’altro, e incasellarlo e catalogarlo in base ai nostri facili e frettolosi schemi precostituiti. No, neanche se avessimo una pazienza e una umiltà infinitamente più grandi di quelle che abbiamo, arriveremmo mai a comprendere veramente l’altro; mai, non ci riusciremmo mai.

Dal diario di Alexandra, 20 marzo 1915.

I ragazzi continuano a chiedermi se non sia possibile che vadano a visitare Mariano, ma io non voglio, e per vari motivi.

Quanto ad Alvaro, non mi ha più parlato della cosa, tranne una volta. Mi ha detto: – Sai, Alexandra, poiché non ricordo bene quel Sarmiento, sono andato a guardarmi le carte dell’epoca. Gli originali sono rimasti al penitenziario dell’isola, naturalmente, ma ne esistono altre due copie: una che inviavo regolarmente alla Direzione centrale degli Istituti di pena, a Santiago; e un’altra che tenevo per mio archivio personale.

Così, mi sono ricordato di una cosa: durante la navigazione dal continente all’isola, Sarmiento intervenne in un regolamento di conti fra detenuti comuni, chiamando le guardie. In pratica, salvò la vita a un uomo, con suo grave rischio personale. Politici e "comuni" non volevano avere nulla a che fare gli uni con gli altri, te ne ricorderai. Be’, mi pare che questo confermi una certa coerenza morale del personaggio. Per salvare una vita ha rischiato la sua nel 1911, ed ora si è ripetute Ir stessa situazione. Sì, devo ammettere che non è un volgare assassino, anche se ha ammazzato un uomo a sangue freddo. Forse quell’uomo possiede delle qualità che avrebbero potuto emergere ben diversamente, se a un certo punto non avesse imboccato la strada dello scontro frontale con le istituzioni dello Stato.

– Quelle istituzioni e quello Stato, Alvaro, in cui hai smesso di credere anche tu, e da parecchio tempo. –

  • Sì, Alexandra, è vero. Ma, è il caso di notarlo?, da qui a prendere una pistola e farsi giustizia ciascuno per sé, ce ne corre. Dove si andrebbe a finire, in questo modo? L’umanità ripiomberebbe nella barbarie dei nostri antichissimi progenitori!

Dal diario di Alexandra, 21 marzo 1915.

Incredibile dolcezza dell’aria dopo la pioggia, questo autunno è tenero e vaporoso come una primavera. In cielo, grandioso spettacolo di nubi gialle, grigie, rosa e verdi nello splendore del tramonto, che disegnavano fantastici arabeschi e volute immense.

Giù, oltre le luci e la nebbiolina del porto, il mare: sconfinato, bellissimo, bianco di spuma e punteggiato del volo di gabbiani innumerevoli.

Mi pareva quasi di poter intravedere, lontano lontano, verso il rosso fuoco del tramonto, la mia isola, la nostra isola: mia e di Mariano. Dove siamo stati stranamente felici per una brevissima, commovente stagione e dove tante volte è ritornato il mio pensiero, in tutti questi giorni e mesi e anni.

Dal diario di Alexandra, 22 marzo 1915.

Don Vicente mi ha fatto recapitare un biglietto per informarmi, a nome di Mariano, che il volume di Virgilio gli è stato consegnato e che gli ha fatto un grandissimo piacere. Aggiunge che non gli manca nulla, che non ha bisogno di nulla, che non mi preoccupi per lui e che non mi esponga in alcun modo.

Infine, mi chiede di salutare affettuosamente Ricardo e Isabela, da parte sua.

Da un articolo del giornale El Mercurio, 23 febbraio 1915.

Dal fronte orientale della guerra mondiale è giunta la notizia che la grande piazzaforte austriaca di Przemysl, in Galizia, dopo quattro mesi di assedio da parte dei Russi, ha dovuto capitolare. Il generale Kusmanek è stato fatto prigioniero con 120.000 uomini e 1.000 cannoni, dopo che la guarnigione aveva esaurito completamente le scorte alimentari e dopo che alcuni tentativi di sortita erano stati respinti.

E’ un grande successo per 1’esercito russo: ora, infatti, altre divisioni dello Zar potranno affluire al fronte dei Carpazi, dove gli Austro-Ungheresi resistono con sempre maggior difficoltà, nonostante l’aiuto di alcune divisioni germaniche.

Siamo forse alla vigilia di una svolta clamorosa nell’andamento della guerra? Una cosa è certa, il "rullo compressore" sta avanzando lentamente, ma inesorabilmente in direzione di Budapest e Vienna; è certo che gli Imperi Centrali avevano pericolosamente sottovalutato il potenziale bellico della Russia.

Dal diario di Alexandrà, 24 febbraio 1915.

II giorno del processo si avvicina e io sono inquieta, vorrei capire meglio quali siano le intenzioni di Mariano; vorrei parlargli per convincerlo ad assumere il giusto strato d’animo. È necessario fargli capire che deve affrontare il giudizio con la massima lucidità e concentrazione e, soprattutto, senza sottovalutare la possibilità di influire in senso positivo sull’opinione dei giurati.

Ma Alvaro, che ne penserebbe? Forse, questa volta, dovrò andarci senza dirglielo: sarebbe la prima volta. Ma non posso pretendere che abbia una fiducia illimitata, le apparenze sono troppo contrarie, e lui, sino ad oggi, è stato fin troppo comprensivo.

CAPITOLO OTTAVO

Dal diario di Alexandra, 25 marzo 1915.

L’ho fatto: ci sono andata. Da sola, senza dirlo a nessuno.

Ho preso una carrozza sulla avenida e mi son fatta condurre a Villa Hermosa, alle quattro del pomeriggio. Mi hanno riconosciuta subito e sono stata introdotta nel parlatorio dell’altre volta, senza altre formalità. Anche il caporale era lo stesso: stessa mancia, stesso tacito accordo per essere lasciati soli.

Mariano, questa volta, mi è sembrato un po’ diverso: dimagrito, innanzitutto. Ma anche più disinvolto, più naturale nei miei confronti. Era felice di vedermi e non lo nascondeva, però sembrava anche più tranquillo, più sereno. A tratti, nel suo sguardo brillava l’antica luce, quella calda ed entusiasta che gli avevo visto sull’isola, più di tre anni fa, quando deponeva l’abituale malinconia per aprirmi il suo cuore.

Ci siamo abbracciati e poi separati, quasi a fatica; e poi abbracciati di nuovo, e baciati: per la prima volta, ma non come amanti. Credo di essere onesta con me stessa, dicendolo: no, non come amanti, ma come due esseri che si vogliono immensamente bene. Poi ci siamo seduti al tavolo.

– Alexandra, non sai quanto sia felice di vederti; ma non dovevi. E, comunque, se tu non fossi venuta, io non avrei dubitato di te, non mi sarei sentito deluso. Mai potrei dubitare di te. –

– Mariano, non sono venuta perché pensavo che tu mi aspettassi, ma perché volevo vederti. È molto semplice. –

– Come stai? –

– Bene, sto bene. E tu? –

– Sai, ho ricevuto il tuo Virgilio: è un compagno prezioso. E i ragazzi, come l’hanno presa? –

– Abbiamo parlato della cosa; ti ricordano sempre con uguale affetto. –

– Il vostro avvocato si sta dando un gran da fare. –

– Sì, ma temo che tu non lo sostenga abbastanza. Devi collaborare di più, devi aiutarlo nella sua linea difensiva. –

– Ma certo, non ti preoccupare. –

– No, sto parlando seriamente. Per favore. –

– Certo, va bene. Sai… dovrei avercela un po’ con te. –

– E perché? –

– Perché, fino a qualche giorno fa, non m’importava tanto di quello che deve accadere. Non m’importava di me. Adesso, invece, tutto è cambiato m’importa, perché da quando ti ho rivista e so che io sono importante per te, anch’io mi sento divenuto prezioso, più importante di come mi giudicavo prima.. Curioso, no? Mi attribuisco valore perché me ne dai tu… –

– Questa è la cosa più bella che potevi dirmi. Così devi fare: devi lottare e non darti per vinto, devi amare la vita, anche adesso. –

– Già. –

– Ma…? Si direbbe che ci sia un "ma".

– Be’, può essere pericoloso innamorarsi della vita, in queste circostanze. –

– Sì, è vero; ma solo se ami la vita, puoi aver voglia di lottare per difenderla. –

– No, io mi sto preparando alla partenza. Ma partirò più felice, per merito tuo. Rasserenato e riconciliato, non da sconfitto. –

– Dobbiamo aver fede, Mariano; tutti e due.

– Alexandra, bisogna guardare in faccia la realtà. Forse questa è l’ultima volta che ci vediamo e che possiamo parlare. Io porterò sempre con me la tua immagine serena di questi momenti. Al processo, non venire.

– Per favore, lascia che ci venga. Starò seduta in un angolo, non cercherò nemmeno il tuo sguardo. –

– Sarebbe meglio di no… –

– A casa, mi tormenterei inutilmente, leggendo i giornali. No, ho bisogno di sentire, di sapere, giorno per giorno: non puoi negarmelo. –

– No, non posso. Vieni, allora, se vuoi. Sentiti libera di agire come ti dice il tuo cuore. Non posso e non voglio impedirtelo. –

– Grazie. Un’altra cosa, Mariano. Tu non hai nessun parente? –

– No. Non ho più i genitori: per fortuna, vista la situazione. Né fratelli. Degli altri non mi curo, non li vedo e non li sento da anni. –

– C’è qualche amico…, qualche persona, da avvertire? –

– Vuoi dire, qualche donna? Ce n’era una: Sabina. Ma quando mi hanno spedito al confino sull’isola, le ho detto che non era il caso mi aspettasse per due anni. E infatti, non l’ho più rivista. Del resto, con tutto il baccano che hanno fatto i giornali intorno al mio caso, non credo ci sia qualcuno in tutto il Paese, da Arica al Capo Horn, che non abbia saputo… E, se quel qualcuno avesse voluto mettersi in contatto con me, lo avrebbe potuto fare. –

– Non è venuto nessuno a trovarti, qui in carcere? –

– Sì, due o tre vecchie conoscenze. Avrei preferito di no. –

– Sabina. ..? –

– Ma sì, è venuta. Sai, era un po’ imbarazzante. Mi ha chiesto perché non l’avevo mai avvertita di essere tornato, da più di un anno… –

– Vuol dire che non ti ha dimenticato. Le sarà sembrato strano il tuo comportamento. Non avevi desiderio di rivederla? –

– Alexandra, tu meglio di chiunque altro dovresti sapere perché non l’avevo. –

– Sì, è vero. Però credo che non ci tenessi molto, già da prima… Altrimenti, non le avresti detto di non aspettarti. –

– Giusto. Comunque, per me aveva il diritto di fare la sua vita. –

– Forse non ere questo che voleva.

– Sai, da qualunque parte la si guardi, la vita è una faccenda maledettamente complicata. Più ci penso e più me ne convinco. –

– E’ così, hai ragione. –

C’è stata una pausa di silenzio piuttosto lunga. Eravamo pensosi, io sentivo di essere anche arrossita.

– Mariano, c’è una domanda che ti vorrei fare. Ma non sono certa di averne il diritto, e non so neanche se sia giusto sprecare così questi ultimi preziosi minuti… –

– Fammela. –

– Mariano, cosa accadde sull’Isola Dougherty? –

E’ impallidito. – Cosa sai , tu, dell’isola Dougherty? –

– Ti ho detto che Federico si è messo in contatto con me. Sa però soltanto una parte della storia: c’è un buco nei suoi ricordi… –

– E anche nei miei. –

– Capisco. –

– No, Alexandra; scusami, non ti sto dicendo la verità. A Federico ho detto così, ma tu sei l’unica persona al mondo alla quale non voglio tacere nulla. Però, vedi, è una storia lunga e complicata, ed è vero che non avrei il tempo di raccontartela adesso. –

– Non fa niente, se non ti va di parlarne. Non voglio che ti senta forzato a farlo, in nessun modo. –

– No, non è questo. Ti ripeto, il fatto è che non ci sarebbe tempo. Facciamo così: ti scriverò un resoconto. Qui mi lasciano scrivere, però poi leggono e magari censurano le lettere. Questo non mi va, senza contare che si tratta di cose che non voglio rivelare a nessun altro che a te. Vedrò di dare la lettera all’avvocato Lennox, di nascosto. Credo che sia possibile, ci lasciano soli durante i colloqui. –

– Non voglio darti un tale pensiero in questi ultimi giorni, devi pensare solo al processo, studiare bene le prossime mosse. –

– Non ti preoccupare: avrò perfino tempo di annoiarmi. E poi, ripensandoci, forse è giusto che qualcuno sappia, che sia tu a sapere. Sarebbe un peccato che una tale esperienza vada completamente perduta. –

– Temo che il tempo sia quasi scaduto. Cerco di farmi venire in mente se vi siano altre cose importanti da dire… –

– Una sola: stai serena. Non te la prendere, comunque vada. Vivi la tua vita e cerca di essere felice: te lo meriti. –

– Mariano, ti voglio bene. Ricordalo sempre. –

– Me lo ricorderò. –

– E… tu? Scusami, che domanda idiota. Sono un po’ nervosa. –

– Io? Io ti ho sempre amata, dal primo momento che ti ho vista. Come già ti dissi, ricordi?, un giorno sull’isola. E non è cambiato nulla, da allora. –

– Che Dio ti protegga.

La porta, dietro a lui si è aperta, è entrato il sergente. Mariano s’è alzato, mi ha preso la mano e l’ha stretta a lungo, sorridendomi, senza parlare. Poi, sempre sorridendomi, è uscito.

Dal diario di Alexandra, 26 marzo.

È tutto il giorn che continua a piovere, ed è piovuto tutta la notte, frusciando sulle araucarie del giardino.

La pioggia è iniziate ieri pomeriggio, mentre tornavo a casa dal colloquio con Mariano. Prime ancora di aver lasciato la collina, la strada era tutta lucida e l’acqua vi ruscellava incessantemente, riflettendo le cime tremolanti dei pioppi e dei cipressi. Vedevo il mondo come in una nebbia: forse anche perché avevo gli occhi gonfi di lacrime, ma non mi scorrevano fuori, erano come trattenute sul ciglio delle palpebre, in un velo trasparente. Intanto la pioggia picchiettava sul tetto della carrozza, la sentivo più forte quando il cavallo rallentava sulle curve e il crepitare degli zoccoli si faceva più rado Rabbrividivo nella mantilla, eppure non faceva tanto freddo. In basso, giù giù verso il porto, il cielo si era fatto tutto scuro, benché fossero appena le cinque del pomeriggio.

A casa, finalmente sola, sono riuscita a piangere, e a lungo. Poi mi sono sentita meglio, e sono andata a dormire un po’ sollevata.

Dal diario di Alexandra, 27 marzo 1915.

Queste giornate dopo l’equinozio si stanno accorciando rapidamente, cariche di malinconia per l’estate trascorsa.

Nel pomeriggio sono entrata in chiesa, una piccola chiesa semibuia dov’ero stata poche volte, benché non sia molto lontana da casa. Ero seduta da pochi minuti, quando l’organo ha cominciato a suonare, in una maniera meravigliosa. Evidentemente l’organista viene durante la settimana per esercitarsi, e si sbizzarrisce a suonare pezzi diversi da quelli della messa domenicale. Era Bach, ma non so quale pezzo, non sono esperta di musica. Le note vibravano e correvano attraverso le navate con impeto possente, poi dolcemente scendevano di tono, quindi risalivano trionfanti, disegnando un’architettura prodigiosa, elegantissima di puri suoni, slanciandosi verso vette ineguagliabili.

Mi sentivo come rapita in cielo. Non potevo certo dimenticare le pena che mi aveva condotta in quel luogo, eppure ero stranamente, inspiegabilmente felice. Poche volte nella mia vita ho provato una tale sensazione di benessere, di libertà e di gioia; il tutto, incredibile a dirsi, non disgiunto dalla consapevolezza del difficile momento che sto attraversando, dalla preoccupazione per Mariano, dal turbamento per un groviglio di sentimenti che fatico a comprendere e ricomporre. Eppure, in quei momenti, la vita mi sembrava semplicemente giusta. Mi pareva che tutto, anche i dolori, anche le angosce, rientrassero in un disegno più ampio, che non ha termine con un nulla incomprensibile, ma che trasporta ogni frammento della vita di un essere umano in una regione superiore d’ineffabile armonia.

Quella musica aveva un’anima, un’anima palpitante che mi infondeva fiducia e speranza, che confortava le mie paure e asciugava le mie lacrime. Poche volte ho ricevuto tanto, e da uno sconosciuto senza volto, come in quei momenti.

Dal diario di Alexandra, 28 marzo 1915.

Ma che cosa ne penserà, ora, di quel gesto che compì sette anni fa? Di aver tolto la vita ad un essere umano? Non ho avuto il coraggio di chiederglielo; volevo che da me, almeno, non si sentisse giudicato. Ma quanto vorrei sapere se prova del rammarico, del pentimento! Non sul piano politico (sono certa di no), ma su quello umano. Lo vorrei sapere perché credo che solo se così fosse vi sarebbe, per lui, una possibilità di riconciliarsi veramente. Non con Dio, in cui non crede. Ma con se stesso.

Dal diario di Alexandra, 29 marzo 1915.

Don Vicente è passato da noi, questa sera, per una breve visita e per metterci al corrente della situazione; ha declinato l’invito a fermarsi per la cena, dicendo che ha ancora molte carte da esaminare, ma che ormai è a buon punto. I fatti sono chiari, non c’è da indagare per quanto riguarda l’omicidio di Muñoz-Gamero; Mariano dovrà fare solo la sua deposizione.

Ma egli intende lavorare per ricostruire l’atmosfera morale di quel 1908, la rabbia e la disperazione dopo l’eccidio di Antofagssta; e, inoltre, vuol presentare in maniera esauriente la personalità di Mariano, per far capire alla giuria che Mariano non è un mostro privo di sentimenti, come la stampa lo sta dipingendo, ma un uomo colto e sensibile, che ha agito sotto l’impulso di un dovere morale, e sia pure erroneamente inteso.

Poi ci ha chiesto se abbiamo nulla in contrario, Alvaro ed io, ad essere citati come testimoni per la difesa. Gli abbiamo risposto di no. Mio marito, a sua volta, gli ha domandato se ha rintracciato qualche testimone a discarico che potrebbe giocare un ruolo importante nella strategia difensiva. Don Vicente ha detto di averne individuati diversi che potrebbero mettere in buona luce l’onestà, la rettitudine e il valore intellettuale di Mariano; ma, ovviamente, nessuno che possa attenuare la sua responsabilità diretta ed esclusiva nel delitto. Quanto ai suoi vecchi compagni anarchici, ha deciso di non citarli; pensa che non farebbero una buona impressione, e del resto è probabile che verranno citati dall’accusa.

Quando è andato via, Alvaro mi ha chiesto se ho intenzione di assistere a tutte le sedute del dibattimento.

– Sì, per favore; se non ti dispiace -, ho risposto.

– Lo avevo immaginato – ha detto, annuendo pensoso. – Del resto, il processo sarà a porte aperte, chiunque può andarvi. Ma io non ti lascerò sola. –

– Alvaro, ti sto dando un mucchio di seccature. –

– No, stai tranquilla. Visto che dovrò comunque deporre, tanto vale che ci vada, anche per rendermi conto di come si metteranno le cose. Immagino già tutte le domande che ci faranno i ragazzi. Devo esserci anch’io. –

L’ho ringraziato dal profondo del cuore.

– C’è un’altra cosa, Alexendra, di cui ti volevo parlare. E non te ne parlerò mai più. –

Il suo tono serio mi ha messo in allarme.

– Alexendra, volevo chiederti… -, e ha fatto un gesto con la mano, come per afferrare qualcosa; ma poi l’ha lasciata ricadere, è rimasto pensoso, e non ha terminato la frase. Non l’avevo mai visto così imbarazzato; in genere è un uomo deciso, che parla senza esitazioni. Ciò mi ha confusa ancor di più.

– Ti prego, Alvaro, a me puoi chiedere qualunque cosa… –

Ha aperto la bocca come per riprendere il discorso, è rimasto un po’ con la bocca aperta, poi ha rinunciato di nuovo, e questa volta definitivamente. – Niente, cara – ha detto, scuotendo il capo – non era niente d’importante. Non farci caso, sono solo un po’ stanco. Era una sciocchezza. – Ed è passato nel suo studio, sorridendomi imbarazzato.

Dal diario di Alexandra, 30 marzo 1915.

Ho ricevuto un biglietto di Adelaide, che mi chiede di passere de lei, oggi, nel pomeriggio. Immagino che voglia parlarmi di qualcosa. Potrebbe aver a che fare con Mariano, ci andrò sicuramente.

Dal diario di Alexandra, 30 marzo 1915 (più tardi).

Nel primo pomeriggio ero seduta nel salotto di Adelaide, una tazza di tè in mano, e la scrutavo ansiosamente negli occhi. È entrata quasi subito in discorso.

– Ieri, a pranzo, mio marito mi ha consegnato una busta indirizzata a te, che Meriano Sarmiento gli ha dato nel corso del colloquio avuto con lui nel mattino. Per questo motivoti ho invitata da me, oggi. –

E ha tirato fuori una normale .busta da lettera, chiusa, porgendomela. L’ho presa, certo con una punta di imbarazzo.

He aggiunto: – Non devi dirmi niente, cara. Non mi devi alcuna spiegazione. – Del resto, hai già voluto dirmi come stanno le cose. Mi hai detto che non siete…, che non siete in una intimità sconveniente; io ti credo, e non voglio sapere altro. È spiacevole, la censure delle autorità carcerarie. Naturale, quindi, che egli abbia voluto evitarla, rivolgendosi al suo avvocato. Comunque la lettera è indirizzata a te, per cui tuo merito non ne sa. e non c’è motivo che ne sappia, niente. –

– Infatti, Adelaide, in questa lettera c’è une relazione su quel che accadde dopo la sua partenza dell’isola, nel 1912: sono stata io a chiederglielo. –

– Ti ripeto che non mi devi spiegare nulla. Tuttavia, ritieni che quella relazione possa contenere elementi utili per la difese di Vicente? –

– No, purtroppo. Niente che abbia e che fare col caso Muñoz-Gamero, quindi niente di utile per il processo.-

– Come stai, Alexendra? –

– Bene. No, non è vero. Posso nasconderti la verità? Sono in ansia. –

– È naturale. Abbi pazienza con te stessa, in questo periodo. Non colpevolizzarti, te ne prego. Né per il fatto di pensare così tanto a Sarmiento, né per quello che ti par di sottrarre ai tuoi doveri di moglie e di madre. –

– Come fai a leggermi dentro così bene, Adelaide? –

– Te l’ho detto, è semplice: perché ci sono passata anch’io. Oh, le circostanze erano diverse, si capisce. Ma le circostanze sono sempre diverse. Quel che non è nuovo sotto il sole, è la capacità del cuore umano di accendersi per qualcosa. O per qualcuno. –

– Sai, credevo di essere più forte. –

– Non pensare di essere debole perché ti senti così. Essere vivi, vuol dire anche sentirsi fragili, esposti, vulnerabili. –

– Credevo anche di aver più fiducia in Dio, di sapergli chiedere quello di cui ho bisogno. E invece, non riesco quasi a pregare: proprio adesso, che ne avrei tanto bisogno. –

– Non importa, non importa. Lui lo sa che ne hai bisogno. E sa anche quello di cui hai bisogno. Lui ti è già vicino. –

Improvvisamente, senza alcun preavviso, mi sono sgorgate le lacrime: copiose, per tutto il viso. Piangevo senza singhiozzare: le lacrime venivano giù da sole, come la pioggia. Mi vergognavo. – Tutta questa tensione… -, ho incominciato.

– Sssttt -, mi ha zittita dolcemente Adelaide, alzandosi e sedendomisi accanto. Mi ha stretto la vita con gesto delicato e affettuoso. – Non dire niente, niente. Va tutto bene. Piangi, si vede che ne hai bisogno. Poi ti sentirai meglio. –

Ed è stato così.

Più tardi, a casa, dopo cena, quando i ragazzi dormivano e Alvaro si è ritirato nella sua stanza, ho tirato fuori la lettera. Ma non l’ho aperta. Troppe emozioni, troppa confusione, troppo tutto. L’ho messa da parte, per domani, forse.

Invece, ho cercato di pregare: e ci sono riuscita.

Sono andata a letto in parte rasserenata.

CAPITOLO NONO

Dal diario di Alexandra, 31 marzo 1915.

Domani è il gran giorno: che il Signore ci assista.

Ho girato e rigirato la busta di Mariano tra le dita, e infine l’ho aperta.

Ma mi sono fermata dopo poche righe, come lui mi chiede: voglio rispettare la sua volontà. :

Lettera di Mariano ad Alexandra, 27 marzo 1915.

Carissima,

questa che segue è una breve relazione sui fatti che mi avevi chiesto di conoscere. Si tratta di cose talmente strane, che difficilmente un altro potrebbe crederle. Tuttavia, se posso chiederti un favore, e se ciò non ti è troppo gravoso, preferirei che tu ne riservassi la lettura ad altro momento.

Mi sono accorto che sei stanca, turbata, ed è naturale che sia così. In ogni caso, io penso che nei prossimi giorni avrei già abbastanza motivi di tensione, e naturalmente devi pensare anche alla tua famiglia, non è giusto che tu ti trascuri per causa mia. Quindi, se posso darti un consiglio, rimanda la lettura di questo resoconto di qualche giorno; però fai come ti senti, in conclusione. Io vorrei solo che tu fossi il più possibile serena: ti sono, a mia volta, debitore della serenità che mi hai donato in questi ultimi giorni. Che sono stati, devo confessartelo?, quasi più belli ed esaltanti di quelli del nostro incontro, laggiù, sull’isola in mezzo al mare. Ti abbraccio e ti auguro ogni bene.

Da un articolo del giornale El diario de Valparaìso, 19 aprile 1915.

Si è aperto oggi, in un’aula affollatissima del Palazzo di Giustizia della nostra città, l’atteso processo a carico di Mariano Sarmiento per l’assassinio del generale Hernan Muñoz-Gamero, avvenuto a Talcahuano il 7 dicembre 1908 e rimasto sinora impunito.

Presiede il giudice Refael Caballero; pubblico ministero è don Eusebio Castelàr, avvocato difensore don Vicente Lennox.

L’aulea era così gremita e le folla così rumorose, che il giudice Cestelàr ha più volte minacciato di farla sgomberare e di proseguire il dibattimento e porte chiuse. Un cordone di gendarmi ere schierato tutto attorno alle pareti e davanti al banco dell’imputato. La stampa affollava le prime file del pubblico, me il presidente ha proibito fin dall’inizio i lampi dei fotografi e ha ammonito severamente i giornalisti a non disturbare le udienze. Davanti sedeva la vedova del generale Muñoz-Gamero, con due figli già grandi: Rodrigo, di diciott’anni e Alejandro, di venti: entrambi studenti presso l’Accademia Militare di Santiago. Nessun parente dell’imputato. Un gruppetto di simpatizzanti dell’estrema sinistra, che aveva inscenato una manifestazione di solidarietà con Sarmiento davanti all’edificio del tribunale, era già stato disperso dai carabineros, che avevano eseguito anche alcuni arresti e alcuni fermi precauzionali. Il pericolo di attentati, comunque, a giudizio della polizia, è minimo. "Non oseranno nemmeno cacciar fuori la testa", aveva detto, nei giorni scorsi il capo della polizia di Valaparìso. Di fatto, solo pochi socialisti hanno potuto trovar posto all’interno dell’aula, dopo essere stati doverosamente perquisiti, come tutti gli altri, del resto. La maggior parte del pubblico era costituita da rispettabili cittadini, amanti dell’ordine e della legge, e che de questo processo si aspettano una giusta sentenze e una condanna esemplare. Questi sono i sentimenti della stragrande maggioranza del popolo cileno, e non sarà une sciagurata i

minoranza di sovversivi e influenzare il lavoro delle corte.

L’imputato è entrato in aula ammanettato e scortato da due gendarmi, ma, quando è giunto il suo posto, le manette gli sono state tolte. Appariva impenetrabile, freddo, quasi come se quanto gli accadeva intorno non lo riguardasse. Ha attraversato l’aula senza mai rivolgere lo sguardo alla folla, dalla quale partivano in quel momento grida d ‘indignazione verso di lui. Camminava rigido, le spalle erette, poi si è seduto senza curvare la schiena, con gesti decisi quasi da militare. Non sembrava 1’imputato reo confesso di un atroce delitto politico, ma tutt’al più un testimone. Alla richiesta del presidente Caballero si è alzato e ha declinato le proprie generalità, con voce chiara e ferma. Non pareva, del resto, che ostentasse un atteggiamento di sfida, ma piuttosto che si accingesse ad adempiere ad un dovere forse sgradevole, ma necessario.

La folla, ammonita dal giudice Caballero, si è calmata e ha smesso di rumoreggiare; è subentrato il silenzio. Tutti tacevano, trattenendo quasi il fiato per udire ogni fase del dibattimento. I giornalisti prendevano freneticamente i loro appunti stenografici. C’erano anche numerose signore della buona borghesia cittadina, e alcune venute da fuori, da Santiago specialmente: guardavano l’imputato con curiosità, sotto una selva di cappellani a larghe tese.

I giudici sedevano a destra, a sinistra l’imputato e, accanto a lui, l’avvocato difensore. La giuria è composta di dieci .membri: due commercianti, due impiegati, quattro proprietari terrieri. Il cancelliere ha dato lettura dell’atto d’accusa. Quindi il presidente ha domandato all’imputato se si riconosceva colpevole. In un silenzio impressionante, Mariano Sarmiento si è alzato in piedi e, guardando fisso avanti a sé, con voce distinta ha esclamato: – Sì. – Non pareva particolarmente emozionato.

Poi sono stati chiamati i testimoni: prima quelli dell’accusa.

Ha deposto il: giudice militare che, all’epoca dei fatti, condusse l’inchiesta, capitano Augusto Montales.

– Quanti colpi d’arma da fuoco colpirono il generale Muñoz-Gamero? -, ha domandato l’avvocato Castelàr.

– Otto colpi. Tutto il caricatore di quel tipo di pistola, una Mauser tedesca modello 1903. –

– Tutti mortali? –

– Sei mortali: tre al torace, due al collo, uno alla testa; più altri due, non mortali, alla spalla sinistra. –

– La morte fu istantanea, secondo i risultati dell’inchiesta?

– No, anzi. Il generale ebbe la forza di aprire la fondina ed estrarre la pistola d’ordinanza, con cui sparò due colpi prima di soccombere. –

– Da quale distanza furono sparati i colpi che uccisero il generale? –

– Da una distanza molto breve, pochissimi metri. Quello alla testa, presumibilmente, dal tipo di- scottatura che produsse, fu sparato sicuramente da pochi centimetri. –

– Come definirebbe colui che sparò al generale? In senso tecnico, s’intende. Mi spiego: un uomo determinato ad uccidere? –

– Certamente: freddo e determinato. –

– Perché anche "freddo"? –

– A causa di quel colpo alla testa della vittima, sparato a bruciapelo. E del fatto che tese 1’agguato a pochi passi di distanza da lei. –

– Un uomo che spara in quel modo, non agisce d’impulso? –

– Assolutamente no. Secondo un piano preciso. –

Poi è stata la volta del commissario di polizia Manuel Riesco.

– Ci risulta che il señor Sarmiento era da tempo iscritto nel registro dei sovversivi ritenuti pericolosi. È così? –

– Era iscritto in quel registro fin dal 1902. –

– In che modo il suo nome era finito negli schedari della polizia? –

– Aveva scritto e firmato un gran numero di articoli sovversivi, sulla stampa dell’estrema sinistra. Articoli in cui incitava il popolo alla rivoluzione e gettava il discredito sulle più sacre istituzioni della Patria. –

– Aveva compiuto anche azioni illegali? –

– Aveva partecipato all’organizzazione di scioperi dei minatori del rame, nel 1903, e dei portuali di Valparaìso, nel 1906. Era anche sospettato di aver partecipato ai fatti di Coquimbo, nel settembre 1907. –

– Vuole ricordarci brevemente di che si trattò? –

– Una sommossa popolare, culminata nel saccheggio e nell’incendio di alcune proprietà, e in una sassaiola contro la polizia. –

– Nient’altro? –

– Era stato arrestato due volte, per misura precauzionale, in occasione di visite di alte autorità alla nostra città. –

– Perché fu condannato al confino nel 1911? –

– Per aver partecipato ai disordini del 12 maggio di quell’anno, a Santiago,

allorché due o tremila operai e braccianti si scontrarono coi carabineros e ci furono quattro morti e più di cento feriti. Era da noi ritenuto, anzi, uno degli organizzatori di quella tragica giornata. –

– E fu condannato a due anni di confino? –

-Sì. Ma ne scontò solo tre mesi, perché poi riuscì a evadere. –

A questo punto, l’avvocato Castelàr ha chiamato a deporre don Venustiano Viamonte, che nel 1911 era vicedirettore del bagno penale ove si trovava l’imputato, e che al momento dell’evasione sostituiva il direttore, momentaneamente assente. –

– Eccellenza, quando avvenne 1’evasione di Mariano Sarmiento? –

– Ai primi di gennaio del 1912. Precisamente, la notte fra il 4 e il 5 gennaio.

– Fuggì da solo? –

– No, con altri quattro deportati: tre "comuni" e un politico. –

– Cosa vuoi dire "comuni"? Glielo chiedo per la giuria e per il pubblico. –

– Detenuti che avevano commesso reati comuni. Erano tre fra i peggiori elementi, assassini e falsari. E l’altro politico evaso era un sovversivo come lui. –

– E non riusciste a riprenderli? –

– Riprendemmo due dei comuni, qualche tempo dopo. –

– E gli altri? –

– Scomparvero senza lasciar traccia. Lasciarono l’isola, probabilmente con la complicità di gruppi sovversivi loro amici.

– Mi dica, eccellenza. Era cosa frequente, in quella situazione, che "comuni" e politici si unissero per collaborare?

– No, al contrario. Si evitavano in tutti i modi.’

– L’imputato, però, si unì ad alcuni dei peggiori elementi del gruppo dei comuni, a quanto ci ha detto. –

– Infatti. –

– Non esisteva, fra i politici, una sorta di "codice d’onore", che vietava loro qualunque rapporto con i delinquenti comuni? –

– Sì, certo. Esisteva. –

– Ma il señor Sarmiento, a quanto pare, non ne tenne alcun conto. –

– No. Anzi, risulta che anche prima fosse in buoni rapporti con delinquenti comuni. E ciò era disapprovato dai suoi stessi compagni. –

– Capisco. Bene, è tutto. –

Qui, inaspettatamente, è intervenuto l’avvocato difensore, chiedendo di poter subito contro-interrogare il teste; il presidente ha acconsentito.

– Eccellenza, lei ci ha parlato di questi buoni rapporti esistenti fra il il

señor Sarmiento ed elementi "comuni" della colonia penale. Potrebbe essere più preciso, citare qualche fatto? –

– Risulta che fosse in rapporti di amicizia con un falsario, tale Diego Ramirez, uno dei tre con i quali, più tardi, evase. –

– Lei, però, non ci ha raccontato tutta la storia. –

Don Venustiano è parso un po’ imbarazzato.

– Lei non ci ha detto come quei due erano diventati amici. Tuttavia deve esserne al corrente.. Ce lo dice, per favore. –

– Ecco… Pare che durante la navigazione verso l’isola, don Diego fosse stato aggredito e accoltellato da altri "comuni", rimasti non identificati. E pare che Mariano Sarmiento, in quella occasione, lo abbia aiutato. –

– Pare, o è stato accertato da un’apposita inchiesta riservata? Le ricordo che esistono delle carte in proposito, e che posso rivolgere la stessa domanda e don Alvaro Cienfuegos, allora direttore dello stabilimento e suo diretto superiore. Le domando una risposta precisa. –

– Sì, mi sembra di sì. Ma non posso ricordare tutto… –

– Si può dire che il señor Sarmiento salvò la vita a Diego Ramirez, intervenendo tempestivamente durante un regolamento di conti fra i "comuni"? –

– Sì… ritengo di sì. –

– Si può dire che il señor Sarmiento pose a rischio la sua stessa vita, e per aiutare uno sconosciuto, perché, come lei stesso ha detto, la nave coi deportati era ancora in viaggio, e non avevano avuto il tempo né la voglia di conoscersi fra "comuni" e politici? –

– Immagino che abbia corso dei rischi, quella è gente violenta, spietata. –

– Alla luce di tutto questo, non le pare che l’essersi attirato la riprovazione dei suoi compagni, per soccorre un uomo in pericolo, e sia pure violando un "codice d’onore" non scritto, costituisce, per lui un motivo di lode piuttosto che di biasimo?

L’avvocato Castelàr si è opposto, rivolgendosi al presidente: – Protesto: si chiede al teste non di esporre dei fatti, ma di esprimere una valutazione morale soggettiva. Ciò è ininfluente, ai fini del processo. –

Il giudice Caballero ha accolto l’obiezione; ma l’avvocato Lennox ha fatto un’ultima domanda:

– Eccellenza, lei come definirebbe il comportamento dell’imputato, fino al momento della sua evasione? –

– Scusi, in che senso? –

– Aveva mai creato problemi, a lei o al personale di sorveglianza? –

– No. –

– Non è stato lei a proporre al señor Sarmiento di svolgere funzioni di insegnante privato per il figlio del suo direttore? –

– Sì, ma dietro richiesta della señora direttrice.

– Va bene, va bene. Né lei avrebbe trasmesso quella richiesta, se avesse giudicato il señor Sarmiento inadatto dal punto di vista morale: è vero? –

– Be’, no… No, certo. Però… –

– Non è forse vero che egli, fino a quel momento, aveva tenuto una condotta irreprensibile? –

– Non aveva mai violato i regolamenti… –

– Già. E lei, eccellenza, fu molto irritato per la fuga di quei cinque uomini? Voglio dire: non fu una buona cosa, per le sue prospettive di carriera. –

Qui don Castelàr si è opposto di nuovo, l’avvocato Lennox ha ritirato la sua ultima domande, e il teste è stato licenziato.

CAPITOLO DECIMO

Seguito dell’articolo di El diario de Valparaìso del 1° aprile 1913.

A questo punto sono stati chiamati i testimoni della difesa. Per primo, il professor Alessandro Mackenna, direttore dell’Orto Botanico di Santiago. –

– Professore – ho chiesto l’avvocato Lennox -, lei ricorda Mariano Sarmiento, che fu suo studente ?11’università e si laureò con lei nel 1898? –

– Lo ricordo bene. –

– Ere un bravo studente? –

– Molto, molto promettente. –

– Si segnalò in campo scientifico, in qualche modo? –

– Nel 1897 prese parte a una spedizione botanica alla Penisola Taitao, nella provincia di Aysén, nel corso della quale scoprì una nuova pianta: il rubus geoides, un piccolo rovo della flora sub-antartica…

-Presidente – ha interloquito l’avvocato Castelàr – tutto questo è molto istruttivo e interessante, ma ha attinenza col nostro caso?

– Signor presidente – ha replicato l’avvocato Lennox – chiedo rispettosamente il diritto di poter lumeggiare anche questi aspetti della personalità del mio assistito, affinché la giuria possa farsene un’idea più completa e precisa. –

II giudice Caballero ha dato facoltà a quest’ultimo di proseguire.

– Professor Mackenna, mi dica, è cosa ordinaria scoprire una nuovoa nuova specie di vegetale superiore, ai nostri tempi?

– In Sud America vi sono ancora molte specie vegetali da identificare, soprattuto in Amazzonia e Mato Grosso, ma anche nell’estremo sud, in Patagonia e Terra del Fuoco. Tuttavia, non si può certo definire "ordinaria" la scoperta di una nuove specie.

– Se Mariano Sarmiento avesse voluto proseguire la carriere universitaria, avrebbe avuto buone prospettive? –

– Molto buone. Oltretutto, aveva già una laurea in filosofia. E mi risulta che anche in quella facoltà avesse degli estimatori, e che avesse al suo attivo delle apprezzate pubblicazioni. –

-Lei come ricorda lo studente Sarmiento, voglio dire come persona? –

– Serio. Affidabile, in tutti i sensi. E realmente appassionato delle materie di studio. –

– Grazie, professore. Può andare. –

Poi è stato chiamato don Alvaro Cienfuegos, direttore della colonia penale ove fu inviato Sarmiento nel 1911.

– Eccellenza, lei ricorda l’imputato? –

– Sì. Lo vidi una sola volta, perché lasciai l’isola pochi giorni dopo l’arrivo dei nuovi deportati. Ma lo ricordo ugualmente. –

– Che impressione ne ebbe? –

– Non negativa. Tantopiù che il sergente della scorta mi aveva consegnato una relazione sull’incidente verificatosi a bordo della nave durante la traversata, e del ruolo provvidenziale da lui svoltovi. –

– Lei, nella sua carriera, ha visto molti delinquenti, vero? –

– Sì, molti. –

– Il señor Sarmiento le sembrò uno dei soliti? –

– No, no. Non mi parve affatto un delinquente. –

– La ringrazio, eccellenza. Non c’è altro. –

È stata poi la volta della moglie di don Alvaro, dona Alexandra.

– Mi dica, señora, corrisponde al vero che lei fece chiedere al señor Sarmiento di dare delle lezioni private di spagnolo e di latino al suo figlio maggiore, dato che sull’isola, ovviamente, non esistevano scuole? –

– Sì, è esatto. –

– E lui accettò. Fu poi contenta di quella scelta? –

– Sì. E lo fu anche mio figlio Ricardo. –

– Si trovava bene con un tale insegnante? –

– Ne era entusiasta. Era bravo e paziente, a volte scherzoso. –

– Il señor Sarmiento pretese un compenso per quelle lezioni? –

– Io gli accennai alla cosa, ma lui non volle sentirne parlare. –

– Quindi, non accettò nulla. –

– Nulla. –

– Che cosa la indusse a fare al señor Sarmiento la richiesta di dare lezioni private a suo figlio? –

– Avevo sentito dire che era molto colto, ma anche che era una persona perbene. Insomma, che potevo fidarmi ad affidargli il ragazzo. –

– Sentito dire, da chi? –

– Be’, sa, è un piccolo mondo quello di una colonia penale su un’isola lontana e dimenticata. Si sa presto un po’ tutto di tutti. –

– Capisco. Ed è vero che il señor Sarmiento regalò ai suoi due figli tutti i suoi effetti di un qualche valore? –

– Sì. Dei libri e un erbario. –

– I suoi figli lo ricordano ancora adesso? –

– Sì, con molta simpatia. Per loro, è stato un amico. –

  • Bene, señora. Può bastare, si accomodi pure.

Dal diario di Alexandra, 15 aprile 1915.

È stata una delle giornate più lunghe e faticose ch’io ricordi.

Quando don Vicente mi ha interrogata in aula, e io mi sentivo addosso tutti quegli sguardi, tutta quella curiosità, ho avvertito una tensione quasi intollerabile, che per fortuna non è stata quasi percepita all’esterno.

Durante tutto il dibattimento Mariano è rimasto impassibile, a tratti mi domandavo se non stesse pensando a tutt’ altro. Come mi aveva preannunciato, non ha mai guardato dalla mia parte e non ha mai cercato il mio sguardo. Però, quando è stato il mio turno di alzarmi, attraversare l’aula e andarmi a sedere al banco dei testimoni, non ho avuto il coraggio di continuare a guardarlo. Immaginavo i suoi occhi su di me, e mi pesavano più di tutti gli altri. Non lo so nemmeno io, il perché.

L’escussione dei testimoni, nel complesso, non è andata male. Don Vicente si è dimostrato molto abile, specialmente nel contro-interrogatorio di don Venustiano, che ha fatto una ben magra figura. L’averlo citato a sostegno dell’accusa si è dimostrato un boomerang per l’avvocato Cestelàr, perché se la sua intenzione era quella di screditare moralmente Mariano, il risultato è stato esattamente l’opposto. Il pubblico, che all’inizio della seduta era quasi tutto decisamente ostile, poco a poco ha cominciato a manifestare sentimenti più diversificati. Nel complesso. direi che don Vicente è riuscito nel suo intento: far vedere che un uomo onesto e leale, con una brillante carriera di studioso e di giornalista davanti a sé, capace di farsi voler bene dai bambini e, quindi, d’animo gentile, non può essere considerato un assassino privo di qualunque sentimento di umanità. E questo è già qualcosa.

Domani sia l’accusa che la difesa hanno chiesto di interrogare direttamente Mariano. Temo quel momento; non vorrei che lui assumesse un atteggiamento che potrebbe irritare e maldisporre la giuria.

(fine della quarta parte)

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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