La guerra ispano-peruviana del 1865-66
30 Luglio 2007
L’isola, seconda parte
3 Agosto 2007
La guerra ispano-peruviana del 1865-66
30 Luglio 2007
L’isola, seconda parte
3 Agosto 2007
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L’isola, prima parte

PARTE PRIMA

Sabato 13 novembre, alle prime luci dell’alba, giungemmo in vista dell’isola.

Nel chiarore ancora incerto dell’aria, dritta davanti a noi sul mare ormai fattosi calmo, si elevava in tutta la sua vertiginosa altezza, come un frammento delle Ande scagliato miracolosamente in mezzo all’oceano australe. Né un albero né un filo di verde allietava quella grigia parete precipite che nascondeva la sua cima in un denso strato di nubi. La nostra nave dovette fare tutto il giro dell’isola e doppiare la sua estremità settentrionale, per poi dirigersi verso l’unico ancoraggio, che si apre fra le rupi della costa orientale. Qui un paesaggio di boschi, di cascate, di rocce scoscese si apriva improvvisamente alla vista, rallegrandola, pur nella sua selvaggia asprezza, dopo la penosa impressione data dalla costa occidentale.

Lo dissi a Mariano. Lui rimase un pezzo a contemplare quello scenario, in silenzio; poi lo udii declamare a bassa voce, quasi parlando a se stesso.

Est in secessu longo locus: insula portum

Efficit obiectu laterum, quibus omnis ab alto

Frangitur inque sinus scindit sese unda reductos.

Hinc atque hinc vastae rupes geminique minantur

In caelum scopuli, quorum sub vertice late

Aequora tuta silent; tum silvis scaena coruscis

Desuper horrentique atrum nemus imminet umbra;

fronte sub adversa scopulis pendentiibus antrum,

intus aquae dulces vivoque sedilia saxo,

nympharum domus. (1)

———-

1) Ivi c’è un luogo, in un seno profondo; un’isola/ forma una rada coi fianchi protesi che rompono/ e lungi respingono l’onde in curve rientranti./ S’ergono ai lati ripide rupi e gemini scogli/ nel cielo e una calma vasta di acque si estende/ sotto i vertici verdi; vi brillano in alto/ tremule selve, e un bosco di sacra ombra vi domina./ Di fronte a scogli pendenti un antro si apre/ e un suono segreto di acque su sponde di pietra/ dimora di ninfe: VERG., Aen., I, 159-168.

Chi l’avrebbe detto che il nostro sbarco su quest’isola dimenticata da Dio, con le catene ai polsi come delinquenti pericolosi, sarebbe stato ingentilito dalla bellezza dei versi di Virgilio? Mariano è fatto così. So che nella sacca da viaggio, rinunciando a qualche utile effetto personale, ha stipato – oltre Virgilio – Omero, Dante, Platone e una Bibbia (lui che non è credente),nonché un manuale di botanica.

– Sai qual è la cosa buffa? -, mi domandò a un tratto, ammirando la splendida foresta vergine che si avvicinava ai nostri occhi. – Che io, quest’isola, avevo sempre sognati di visitarla, è un vero e proprio paradiso del naturalista, vi crescono piante rare e strane, relitti di antiche ère geologiche preservati intatti dall’isolamento. Ed ecco che lo Stato, gentilmente, realizza il mio desiderio, spedendomici gratis per un certo numero di anni.

Terminate le operazioni di approdo, fummo fatti scendere sul molo ,contati, e poi avviati verso lo stabilimento penale. Esso è stato costruito solo due anni fa e ha dunque, almeno, il pregio di essere in condizioni relativamente buone. Un altro vantaggio della nostra posizione è che, , l’isola essendo disabitata e posta al di fuori di tutte le normali rotte di navigazione, non esiste la possibilità di fuggire, dunque non saremo obbligati ad ammassarci entro un recinto di filo spinato, o roba del genere. Potremo muoverci in relativa libertà, presentandoci solo all’appello del mattino e della sera. Probabilmente il direttore ci manderà a lavorare nella foresta per tagliare alberi, ma senza troppo zelo. Così almeno ho sentito dire da un deportato che si trovava già sull’isola e col quale ho fatto conoscenza, Roberto.

Il direttore è un uomo dall’aspetto dignitoso, ha più l’aria di un avocato o di un dottore, alto, asciutto, vigoroso benché non giovanissimo, con una bella barba bianca e corta. Ci ha accolti con un discorsetto improntato alla severità, tuttavia non privo di un tratto umano, e ha espresso il desiderio di conoscerci personalmente, nei prossimi giorni. Non ha parlato di politica, e questo è già qualcosa; del resto, mi è sembrato troppo intelligente per essere un fanatico o un aguzzino di professione. Probabilmente lo hanno scaraventato quaggiù da qualche ufficio di provincia, forse un po’ anche – si dice – per toglierselo dai piedi. Si chiama don Alvaro e passa per un uomo colto e abbastanza equilibrato. Vive qui con la moglie, che è una delle poche donne presenti sull’isola. Anche le guardie e alcuni confinati hanno con sé la moglie e, qualcuno, persino i figlioli. Vivono in baracche a parte, naturalmente.

Don Alvaro ci ha detto che fra una settimana lui dovrà ripartire, con la nostra stessa nave, per il continente, e che starà via un mese o due. Quindi ci ha presentato il vice-direttore, don Venustiano, un ometto unto e atticciato, con una vocina stridula e due occhi da topo, che dicono sia di tutt’altra pasta: una nullità che vorrebbe essere ossequiata come un piccolo despota. Staremo a vedere.

Poi ci siamo sistemati nelle nostre baracche. Ognuna è fatta per sei persone, ma poiché diversi confinati ripartiranno con la nave, nella mia quattro posti resteranno liberi. Io ci ho preso posto con Mariano e mi ci trovo abbastanza bene. Non c’è acqua né luce elettrica, naturalmente, ma un limpido ruscello scende giù dalla montagna 100 metri dietro il campo, e potremo acquistare candele e del petrolio allo spaccio.

Mentre la guardia mi toglieva le catene per l’ultima volta – qui sull’isola non ve ne sarà bisogno – , Roberto mi ha sussurrato: – Federico, bada alle cattive compagnie -, e alludeva a Mariano, naturalmente. È incredibile che noi, deportati per reati politici in questo lembo di terra in capo al mondo, dobbiamo renderci la vita ancor più dura con queste assurde rivalità, con questi odi ideologici. Ma già mi era reso conto che così fosse durante il periodo di detenzione in patria e, ancora di più, durante il viaggio in nave. Queste divisioni, oltretutto, tornano a vantaggio dei "comuni": ladri, falsari, sfruttatori di donne; che vengono usati come spie ai nostri danni.

– Mariano è una brava persona, un hombre come si deve -, ho risposto, cercando di non far vedere quanto fossi irritato, perfino sorridendo.

– Può darsi – ha risposto – ma è anche un anarchico, e non so dove le sue idee ti potrebbero portare, se te ne lascerai influenzare.

– Eppure qui siamo tutti compagni, tutti nemici del governo: dovremmo sentirci uniti e solidali già solo per questo fatto -, insistei.

Roberto scosse il capo e si allontanò, . Non mi piace. L’ho osservato a lungo, durante il viaggio, e ho notato qualcosa in lui che mi rende istintivamente diffidente. È uno che vuol sempre saper tutto, che trincia giudizi su ogni cosa, che si crede chissà chi per il fatto che svolgeva funzioni di dirigente nel partito e vorrebbe continuare a dirigere anche qui, anche ora, e non solo i "suoi". Mi ha sondato sulla nave, senza averne l’aria. Io ho cercato di restare sul generico, "marxista – gli ho risposto -ma senza tessere, sono allergico a queste cose"; e lui, di rimando: "La disciplina è tutto, senza la disciplina la classe lavoratrice non riuscirà mai a sconfiggere la borghesia". Parlava come un libro stampato, come un manuale di pronto intervento per i rivoluzionari da salotto.

Già da tempo avevo notato un prigioniero che stava quasi sempre per conto suo, che spesso leggeva un libro e che, a differenza di noi tutti, rivolgeva la parola anche ai "comuni". Aveva lo sguardo triste e pensoso e sembrava assorto in un mondo suo. Quando ci fu quel regolamento di conti fra i due "comuni", e Diego, il falsario, si prese una coltellata nel fianco, lui fu il primo a correre in cerca del sergente, mentre tutti gli altri assistevano alla scena paralizzati, o semplicemente decisi a non farsi coinvolgere. Quella prontezza di riflessi fu la salvezza per Diego, che se la cavò con una ferita non gravissima, benché avesse perduto molto sangue.

Udii per caso che Rafael, il compagno inseparabile di Roberto, diceva sottovoce al prigioniero: – Amico, hai corso un bel rischio, ma a che scopo? Qui politici e "comuni" sono abituati a farsi ciascuno gli affari propri, e credo sia una buona norma.

L’altro lo guardò inarcando le sopracciglia e gli chiese: – Perché?

– Perché se José e i suoi amici se la prendessero per essere stati interrotti nel loro lavoretto, anche se guardie non hanno trovato il coltello né sanno chi sia stato il feritore, potrebbero pigliarsela con noi politici. Capisci?

– No, rispose l’altro, calmo -, se la prenderanno con me.

– Ma tu sei un politico, e quindi siamo tutti coinvolti. È così che funziona, da queste parti; non l’avevi ancora capito?

– Quindi, bisogna lasciar accoppare un uomo senza far nulla?

– Ci sono cose più importanti della vita di un piccolo delinquente. Noi rappresentiamo il futuro e la speranza del popolo oppresso. Abbiamo il dovere di conservarci integri, perché non apparteniamo a noi stessi.

Qui il suo interlocutore parve leggermente divertito.

– Io appartengo solo a me stesso. Vuoi parlare anche a nome mio?

– Allora è proprio vero quel che si dice di te, amigo.

– Che cosa si dice di tanto interessante?

– Che se un anarquista.

– Gracia a Diòs -, rispose quello, celiando.- C’è dell’altro che vuoi sapere, amigo? (e disse amigo con un tono di evidente ironia).

Rafael gli lanciò un lungo sguardo velenoso e se ne andò senza aggiungere parola. Mi avvicinai e tesi la mano allo sconosciuto, presentandomi, e aggiunsi: – Non fare troppo caso alle parole di Rafael, io ti ammiro per il tuo coraggio. Piuttosto, guardati dalle coltellate di José. Ma non badare a quei sapientoni, siamo tutti un po’ nervosi.

Lui mi guardò dritto negli occhi e mi strinse forte la mano con un gesto secco, quasi da militare: – Io mi chiamo Mariano.

È un giornalista, ma la sua vera passione sono i libri: leggerli e scriverli. È una delle non molte persone, sull’isola, che conosce il latino e un po’ di greco. Ma nel tratto è semplice e schietto, non mostra traccia di presunzione. Ho notato che alcuni dei "comuni" lo salutano con un misto di rispetto e simpatia, cosa che non fanno con nessun altro dei politici. Parla poco e dopo aver riflettuto a lungo. Ho provato per lui una simpatia istintiva.

Da quel momento, l’atteggiamento degli altri politici verso di me, e specialmente del gruppetto di Roberto e Rafel, è sensibilmente cambiato. Alla cordialità è subentrata una certa diffidenza. Tuttavia con me, a differenza che con Mariano, continuano a parlare. Credo che mi stiano osservando per valutare se considerarmi del tutto perduto, o ancora recuperabile, dal loro punto di vista. Io non voglio rompere i ponti con loro, sarà lungo il soggiorno sull’isola e non vorrei inimicarmeli troppo. Ho un carattere naturalmente socievole, per fortuna, e cerco di non prendermela troppo; frequento soprattutto i politici meno rigidi e con una mentalità più aperta. Sento, però, il fascino della personalità di Mariano. La sua è un’amicizia che mi può dare molto, specie in questa situazione di penoso isolamento; e non intendo rinunciarvi per subire il ricatto di chicchessia.

CAPITOLO SECONDO

Stamattina stavo passeggiando con Mariano sul limitare della foresta, lasciando cadere ogni tanto qualche parola sul nostro futuro immediato. Improvvisamente, come una visione uscita dal Giardino dell’Eden, ci è apparsa la señora Alexandra, la moglie del direttore.

Percorreva il sentiero in direzione opposta alla nostra e ce la trovammo di fronte a una svolta, presso alcuni alti alberi frondosi. Tornava verso lo stabilimento in compagnia di un’altra donna, forse un’amica, e recava in mano un bel mazzo di fiori colorati. Non è di una bellezza vistosa; è piuttosto alta e magra, con lunghissimi capelli biondi minutamente ondulati; ma ha uno sguardo incantevole e, quando ci sorriso, rispondendo al nostro saluto, il suo voltosi accese di una dolcezza angelica: restammo letteralmente senza parole. Ci levammo il cappello e mariano disse: – Buon giorno, señora. Lei deve essere la direttrice -, e ci presentammo.

Dona Alexandra abbassò lo sguardo e arrossì lievemente, dicendo: – Vi prego, non chiamatemi direttrice. – Poi s’informò brevemente della nostra condizione e con tatto, usando una perifrasi, del periodo di confino che ci attendeva sull’isola. Notai che, passato il primo momento di imbarazzo, ci osservava con molta attenzione. Ciò mi fece una strana impressione: voglio dire, ci guardava come si potrebbero guardare due gentiluomini incontrati sul paseo, in una bella domenica dopo la messa; e non come due prigionieri politici.

Poi mi sorprese anche di più, dicendo quasi in un sussurro: – Mi auguro che non vi troverete troppo male, qui, date le circostanze.

E si allontanò con grazia e semplicità, in un’aura di indefinibile splendore.

Mariano non fece commenti – non sarebbe stato nel suo carattere – , ma notai che divenne ancor più pensoso del solito, dopo quell’incontro; quasi distratto. In tutta la mattina, avrà pronunciato venti parole al massimo. Anch’io ero rimasto assai colpito, ma tenni per me le mille domande che avrei voluto fare. Mi sembrava che, se avessimo parlato di quell’incontro stupefacente, avremmo in qualche modo rotto l’incantesimo.

Più tardi, a pranzo, Miguel mi diede la notizia che il direttore era salpato con la nave, e che d’ora in avanti avremmo dovuto vedercela con don Venustiano. Prima che potessi trattenermi, mi scappò istintiva la domanda: – E dona Alexandra?

– Lei è rimasta qui, ben inteso.

– E come mai? -, non potei fare a meno di aggiungere.

– Ufficialmente, per motivi di salute. La señora non sta molto bene, e il viaggio per mare la stancherebbe troppo. Ma in realtà… – e qui abbassò la voce, gettando intorno uno sguardo furtivo- si dice che non vada tanto d’accordo col marito. Che rimangano insieme solo per rispetto della facciata. Voci, del resto; io non lo so con certezza.

Non posso negare che la notizia che la signora rimane sull’isola mi procurò un intenso piacere.

Dopo pranzo, io e Mariano trovammo la nostra baracca sgomberata dagli altri quattro confinati, che, scontata la loro pena, erano ripartiti anch’essi con la nave. Ora sì che staremo comodi. Godendomi questa insperata riservatezza, credo che d’ora in poi potrò tenere un diario. Mi terrà compagnia, tanto più che il mio amico non è un gran parlatore. Anzi, diciamo pure che trascorre delle intere giornate parlando a monosillabi. Spesso è di un umore tetro, e allora è meglio lasciarlo perdere. Ma nei suoi tratti vi è un che di nobile, di dignitoso, unito a una specie di interna sofferenza, come se dentro di lui si combattesse una battaglia silenziosa, che me lo rendono caro. Lui stesso, del resto, quando è di umore sereno – nel qual caso sa essere simpaticissimo – riconosce di avere un carattere complicato, ed è il primo a scherzarci sopra. Ma è soprattutto un hombre indipendente, che se ne infischia di quel che fa la maggioranza e che conserva, in tutte le situazioni, una rara autonomia di giudizio.

26 novembre.

Don Venustiano ha organizzato i turni di lavoro nella foresta. Ogni squadra, formata da sei uomini e due guardie, è impegnata nel taglio degli alberi dalle otto del mattino a mezzogiorno; il pomeriggio è libero. Il lavoro non sembra troppo duro, si tratta di imparare a farsi i calli sulle mani nei primi giorni. Anche i sorveglianti non eccedono in zelo, si siedono all’ombra a fumare e chiacchierare e ci lasciano lavorare con ritmo tranquillo. In pratica, si limitano ad accompagnarci nel bosco e a riportarci, a mezzogiorno, allo stabilimento. Se non fosse per il senso di solitudine e la lontananza al resto del mondo, questa non sembrerebbe quasi una detenzione. Il paesaggio è affascinante; il clima mite, primaverile.

Il decano dei confinati, e loro capo morale riconosciuto, è don Fabrizio, un vecchio professore di settant’anni, che ha passato lunghi periodi di detenzione e di confino ai quattro angoli del Paese. È un vecchio militante socialista con un’aria benevola da patriarca, accentuata dagli occhiali dorati che porta sulla punta del naso.. In lui non vi è il fatalismo settario di quelli come Roberto e Rafael: e perciò essi, in cuor loro, lo disprezzano, anche se – formalmente – sono costretti a rispettarne l’autorità.

Ogni settimana i politici si riuniscono in una specie di assemblea, dopo il pranzo del mezzogiorno. Parlano soprattutto di questioni teoriche, ma anche dei rapporti all’interno del campo; concordano la linea da tenere con le autorità; dirimono eventuali controversie sorte fra compagni. Curano anche la gestione di una piccola biblioteca circolante, messa insieme con la collaborazione di don Alvaro e boicottata, invece, da don Venustiano.

Tutti i politici si fanno vedere a queste riunioni, che costituiscono un momento di unità ideale, di cameratismo e d collaborazione. A Mariano vanno un po’ strette, lui non apre mai bocca e tanto meno per parlare di politica: non solo per il fatto che è l’unico anarchico in tutta l’isola, ma anche, secondo me, per una sorta di sfiducia nei rapporti con gli altri. So che non ha una grande opinione della maggior parte dei compagni, e la scarsa simpatia è ricambiata. Penso che sia troppo orgoglioso per accettare l’atmosfera di piccolo intrigo, di maldicenza, di malevola curiosità che domina i rapporti sociali nella colonia penale. Ostenta, perciò, indifferenza e disprezzo per le manovre di Roberto e Rafael; ma qualcosa mi dice che, in realtà, se ne angustia, come un nobile leone tormentato dalle punture di cento insetti molesti, ma che per nulla al mondo vorrebbe lasciarlo trasparire. In compenso, e questo è un ulteriore motivo di scandalo per certi compagni, ha fatto amicizia con alcuni "comuni", che dai nostri sino considerati meno che spazzatura. Diego, in particolare, viene spesso a cercarlo; certo gli è riconoscente. Questi delinquenti hanno un loro codice d’onore.

Un giorno, parlando del più e del meno, gli dissi che quello del falsario non mi sembrava certo un bel mestiere. Mariano m’interruppe, chiedendomi con tono sprezzante: – Pensi che fondare una banca sia cosa meno ignobile che stampare qualche bigliettone falso? Allora sei proprio un ingenuo, Federico. Quanto a me, preferisco stringere la mano a un falsario che a un direttore di banca, o un agente di borsa. O, se preferisci, a uno sbirro, a un militare, a un capitalista: guarda quanti mestieri più fetenti ci sono al mondo!

Che siano queste le idee "pericolose" che, secondo Roberto, potrebbero darmi alla testa, stando in compagnia di Mariano? Diego, frattanto, se la rideva sotto i baffi.

30 novembre.

Sono due giorni che piove ininterrottamente e il lavoro nella foresta è sospeso. Le ore sono lunghe, pesanti; la nostalgia di casa, della vita di prima, s’insinua sotto la pelle, facendo rabbrividire.

2 dicembre.

Qualche volta, al tramonto specialmente – l’ora più malinconica della giornata -, mi sento crescere entro uno sgomento indicibile, come se fossimo relegati sulla Luna o sul pianeta Marte; come se fossimo tagliarti fuori per sempre dalla vita civile, senza alcuna speranza di rivedere i nostri cari, di riannodare i fili spezzati delle nostre esistenze. Nessuna notizia giunge fin qui dal mondo esterno, e non ne avremo fino al ritorno della nave che porterà il direttore, forse tra un mese o due. Quando non si lavora, ammazzo il tempo giocando delle interminabili partite a carte con alcuni compagni: il Niño, un ragazzo di soli diciotto anni, Miguel il ferroviere e Carlos, il tipografo. Si parla un poco anche di politica, ma senza settarismi e senza illusioni. Soprattutto senza illusioni.

Mariano sparisce nel bosco per delle ore, poi torna con un sacchetto di fiori e pianticelle, tira fuori il suo trattato di botanica, un microscopio, un quaderno, una penna, e si mette silenziosamente al lavoro per classificare e catalogare i campioni. Altre volte legge i suoi classici, immergendovisi come se il mondo esterno cessasse di esistere. Di sé non racconta quasi nulla, in compenso mi chiede spesso di me, della mia famiglia, dei miei figli. A volte discutiamo delle ore sul fenomeno della vita, sull’anima, su Dio; quasi mai di politica. Questi problemi filosofici lo interessano molto; pur essendo ateo e materialista convinto, si direbbe che in lui non abbia posto la parola fine; che sia ancora, quasi suo malgrado, alla ricerca di qualche cosa. Allora una luce si accende nel suo sguardo, e mi fissa con occhi penetranti, quasi come se attendesse da me una parola misteriosa eppure, in qualche modo, attesa, aspettata; e muove il capo come assentendo a un suo interiore ragionamento.

5 dicembre. Oggi, dopo la siesta, don Venustiano ha mandato a chiamare il mio compagno. L’ho visto allontanarsi ed ero un po’ preoccupato, perché don Venustiano , a differenza di don Alvaro, non manda mai a chiamare un confinato – almeno così dicono – se non per qualche ragione spiacevole. Certo non gl’interessa fare conversazione con loro, neanche se sono persone istruite.

Quando è tornato, Mariano aveva l’aria seria e pensierosa. Gliene ho chiesto il motivo e lui, scuotendo il capo: – Ho saputo, don Mariano (e già quel don mi ha messo in allarme), mi ha detto il vicedirettore, che lei è un uomo colto, che conosce il greco e il latino.

Per un attimo, il mio amico ebbe l’orribile sospetto che don Venustiano volesse chiedergli di dargli delle lezioni private, e già cominciava a schermirsi, dicendo che il suo sapere, evidentemente, era stato molto sopravvalutato, quando comprese che le lezioni non sarebbero state per don Venustiano, ma per il figlio del direttore.

– Non sapevo che avesse dei figli, qui sull’isola. Invece ne ha due -mi raccontò – una bambina di otto anni e un ragazzetto di undici. Dona Alexandra cura personalmente l’educazione dei suoi figli: insegna personalmente pianoforte ad entrambi; ma per il maschio, che ha raggiunto l’età in cui dovrebbe frequentare la scuola secondaria, vorrebbe che gli dessi qualche lezione di spagnolo e di latino; più tardi, forse, di greco.

– E tu, hai accettato?

– Sì. -; ma lo disse con quella strana aria pensosa.

– Hai fatto bene: è un modo di passare il tempo anche quello, di rimanere degli esseri civili, frequentando, oltretutto, delle persone molto perbene; e poi don Alvaro te ne sarà grato, al suo ritorno.

– Già – rispose lui, e si capiva che la cosa non lo interessava affatto, anzi la mia ultima considerazione gli aveva provocato pensieri fastidiosi. Equivocando le ragioni di quell’atteggiamento, volli aggiungere: – Stai tranquillo, gli altri politici non vi troveranno nulla da ridire. È noto del resto, e ormai l’hanno capito tutti, che tu non sei uno che va in cerca di favori.

Mariano mi fulminò con lo sguardo: – E chi t’ha detto che mi preoccupo di questo? Io mene frego, di gente come Roberto e come Rafael. Immondizia, nient’altro: possono dire e pensare quel che gli pare!

La reazione mi parve un po’ sproporzionata, pur sapendo quanto fosse suscettibile circa quel che si poteva – o non si poteva – pensare di lui, che cioè fosse una persona interessata, disposta ad ingraziarsi i nostri carcerieri. Glielo dissi.

  • Hai ragione, Federico, ti prego di scusarmi – borbottò, e non aggiunse altro.

Io non lo capisco. Dando lezioni di lingua al figlio del direttore, avrà la possibilità di vedere spesso dona Alexandra, e sono sicuro che non è rimasto indifferente al suo fascino incantevole fin da quel primo, fuggevole incontro. A meno che… un momento: che sia proprio questo il motivo della sua preoccupazione? Che abbia paura di quegli incontri, lui, che dietro le apparenze fredde e distaccate cela un’anima, ne sono sicuro, tempestosa e impulsiva, oltre che sensibile al bello?

CAPITOLO TERZO

9 dicembre.

Oggi, mentre stavamo lavorando nella foresta, per poco un albero abbattuto non è cadiuto addosso a Mariano. Lo strano è che a quell’albero stavano lavorando Roberto e Rafael. Apparentemente è stato un incidente, ed entrambi si sono scusati con Mariano, mostrandosi molto impressionati da quel che avrebbe potuto accadere. Mariano, però, ha rifiutato di stringere la mano che quelli gli porgevano in segno di pace e buona fede, e li ha piantati lì senza aggiungere altro.

Non so che cosa pensare. Che si possa arrivare al punto di volerci uccidere tra di noi, come cani idrofobi, e per motivi così assurdi? No, non posso crederlo. Sarebbe la fine di ogni ideale di solidarietà, di umanità, di semplice convivenza civile. Vorrebbe dire che siamo peggio di loro, dei nostri nemici. Che hanno fatto bene a deportarci su quest’isola selvaggia e inospitale, come delle bestie feroci! Non potersi fidare più di nessuno, neanche dei propri compagni di sventura: questo è certamente il massimo della pena, per una creatura umana.

11 dicembre.

Anche tra imiei compagni di partite a carte sembra essersi insinuata una certa diffidenza, un certo disagio. Discorsi misteriosi s’interrompono improvvisamente, all’avvicinarsi di un altro confinato. Ci si osserva, ci si studia, ci si spia. L’atmosfera è pesante.

Pur senza fare parola dell’incidente, anche don Fabrizio, nell’ultima assemblea dei politici, ha parlato insistentemente di unità, di fratellanza, con tono accorato. Un silenzio di gelo ha accolto le sue parole.

13 dicembre.

Passeggiando presso la riva del mare, a sera, un po’ fuori dalla parte abitata dell’isola, ho incontrato mariano che sedeva su un tronco abbattuto, lo sguardo rivolto all’orizzonte, verso l’ultima luce del giorno morente. Mi sono seduto accanto a lui. Per un po’ siamo rimasti in silenzio, poi il ghiaccio s’è rotto e abbiamo cominciato a parlare di mille cose, come mai prima d’ora. Per la prima volta mi ha aperto uno spiraglio sul suo animo sdegnoso e corrucciato, ma sensibile e generoso.

Gli ho chiesto come andavano le lezioni al ragazzo, e così siamo venuti a parlare di dona Alexandra. Da come ne parlava, pur senza dirmi niente di preciso, ho capito che era profondamente turbato. E i suoi silenzi erano quasi più eloquenti delle sue parole. Ora, mariano è un galantuomo, e io so bene che nessun pensiero volgare gli attraversa la mente; ma ama le cose belle, delicate, fini. Come stupirsi se, frequentando quella donna incantevole, ha preso fuoco? E cosa può fare adesso, legato com’è ai suoi principi di correttezza e di onestà morale? Credo che si senta intrappolato, chiuso in un vicolo cieco; e che non sappia neanche lui come uscirne

Lettera di dona Alexandra a don Mariano, 14 dicembre.

Caro don Mariano,

oggi ho saputo da don Venustiano del pericolosissimo incidente accadutovi nella foresta il9 dicembre scorso. E non mene avevate fatto parola! La cosa è tanto più preoccupante, in quanto corrono strane voci intorno a quel fatto. Da quando l’ho saputo, mi trovo in uno stato di agitazione e di timore. Se almeno don Alvaro fosse qui! Lui saprebbe come regolarsi, saprebbe come andare al fondo della cosa, pur con la necessaria discrezione. Forse la vostra vita è n pericolo. Non potremmo mai perdonarci, se dovesse accadervi qualcosa mentre siete proprio qui nella nostra isola, sotto la nostra responsabilità. Mentre quel borioso buono a nulla di don Venustiano non saprà fare proprio nulla per proteggervi, né per tenersi informato su quel che succede fra certi elementi della colonia penale. Ah, è terribile.

Voi dovete promettermi di essere prudente, amico mio. Non sottovalutate il pericolo, non scrollate le spalle con impazienza. Voi disprezzate i vostri nemici, ma essi non agiranno mai a viso aperto, com’è nel vostro costume, bensì nell’ombra, in silenzio, come i serpenti velenosi. Velo ripeto, dovete stare in guardia. Ebbene, avete compreso che mi state molto a cuore. Tuttavia, non fraintendetemi. So quel che mormorano sul conto mio e di don Alvaro, dicono che non andiamo d’accordo, che per questo lui è partito da solo. Non è così. Siamo una coppia molto unita, ci vogliamo bene, e nulla e nessuno potrebbe allentare il legame che ci ha uniti davanti a Dio, e che è rafforzato dall’amore dei nostri figli. Voi, però, non ve lo nascondo, avete portato una nota nuova nella mia vita, mi avete fatto vedere cose che prima ignoravo, mi avete rivelato i tesori nascosti della vostra sensibilità, e in breve mi siete diventato più caro di un fratello. Vi prego perciò di badare a voi stesso, di ascoltare i consigli di questa vostra preoccupata amica, evitando qualunque imprudenza, come quella di andarvene tutto solo nell’interno dell’isola. Me lo promettete? Infine, fatelo per coloro che vi vogliono bene, che non saprebbero darsi pace se vi accadesse qualcosa di male.

Lettera di don Mariano a dona Alexandra, 16 dicembre.

Eccellentissima dona Alexandra,

sono commosso e felice per la sollecitudine che mostrate nei miei confronti, benché – dovete credermi – i vostri timori siano esagerati. Non so cosa possa avervi detto don Venustiano, ma si è trattato di un banalissimo incidente, del quale non mette conto neppure di parlare. Comunque, non voglio farci inquietare e vi prometto che sarò la prudenza in persona, per amor vostro. La sincerità e la franchezza con la quale mi avete aperto le porte del vostro cuore mi hanno profondamente colpito, e non potrò mai ringraziarvene abbastanza. Vi assicuro che nutro una eguale stima, un eguale (se posso dirlo) affetto nei vostri confronti, e un profondo rispetto perla vostra famiglia e per la posizione in cui vi trovate. Con uguale franchezza, del resto, vi rivelerò che da quando ha avuto la fortuna di conoscervi, il soggiorno in questo remoto luogo di confino mi è divenuto meno penoso, anzi, se devo proprio dire tutta la verità, addirittura gradito, come un prezzo necessario che andava pagato per poter ricevere uno poco della vostra meravigliosa luce. La delicatezza dei nostri rispettivi ruoli non ha bisogno di essere ulteriormente commentata, e siate certa che saprò sempre tenerla presente. Mai ho provato sentimenti meno che rispettosi e di disinteressata ammirazione nei vostri confronti. Apprezzo al massimo grado il coraggio che avete avuto nel comunicarmi i vostri pensieri e i vostri stati d’animo, scegliendo la parola scritta poiché non abbiamo la possibilità, a causa delle circostanze esterne,. di parlare liberamente come sarebbe desiderabile. Accettate i miei omaggi più devoti e sinceri, vostro don Mariano.

18 dicembre.

Ieri, all’assemblea settimanale dei politici, c’è stato un memorabile scontro fra Roberto e Mariano. Non si è parlato di alberi caduti, naturalmente; è stato solamente uno scontro ideologico; ma tutti hanno potuto respirare l’atmosfera di radicale aut-aut, di contrapposizione inconciliabile fra le due visioni del mondo, e del comunismo, che questi due uomini dalla forte personalità rappresentano.

Roberto sosteneva che il proletariato, per raggiungere i suoi obiettivi, deve essere guidato da una minoranza politicamente e moralmente consapevole, disciplinata, organizzata, decisa a tutto, per la quale la morale borghese è nulla, capace di non indietreggiare davanti all’infrazione delle norme etiche comunemente accettate, anzi di calpestarle senza alcun riguardo, se ciò è necessario. Solo l’interesse del proletariato conta, e per farlo trionfare è necessario agire senza badare ai mezzi. Chi vince ha sempre ragione, chi perde è sempre responsabile della propria sconfitta.

Don Fabrizio, che è un vecchio socialista dell’epoca romantica, era visibilmente scosso e forse anche addolorato da questa violenza, da questa ostentazione di machiavellismo; tuttavia taceva, desideroso di evitare lacerazioni traumatiche all’interno del nostro gruppo: perché lui, beata ingenuità, s’illude ancora che siamo un gruppo unito.

Allora, per la prima volta davanti a tutti i compagni, ha preso la parola Mariano: ed è stato un grido di guerra. Con parole formalmente misurate, ma in realtà affilate come lame di coltello, ha attaccato frontalmente le idee espresse da Roberto, pur senza mai nominarlo e senza mai rivolgersi verso di lui: ignorandolo ostentatamente, com’è nel suo carattere fiero e intransigente, mostrando di considerarlo meno di niente. Con tono vibrante ha sostenuto che la libertà è nulla, se non è innanzitutto la libertà del singolo individuo; che il comunismo sarà la peggiore forma di tirannia, se si vorrà costruirlo sotto le forme di un regime autoritario e poliziesco (comunismo da caserma, lo ha definito con il massimo disprezzo); che è facile riempirsi la bocca di paroloni come l’interesse del proletariato, quando ci si è autoproclamati giudici di quale sia tale interesse, di quali siano i mezzi idonei a realizzarlo, di ciò che è rivoluzionario e di ciò che è controrivoluzionario.

Ha aggiunto che nessuno può dare o togliere la patente di rivoluzionario a qualcun altro, poiché il comunismo è in primo luogo l’uguaglianza, dunque non può esservi una minoranza che costituisca una sorta di comitato centrale, dotato di pieni poteri per autorizzare o censurare: tutto ciò sarebbe, ha detto, una penosa e infame caricatura della polizia capitalista.

Quanto, poi, alla morale borghese, Mariano ha affermato di non averne mai sentito parlare, di non sapere neppure cosa sia; che la morale è la morale e basta; che diffamare un galantuomo, derubare un compagno, maltrattare una donna è male per la morale borghese, ed è male anche per noi.; che noi non siamo contro la morale borghese perché afferma queste cose, ma perché le afferma in maniera ipocrita e opportunistica; perché le dice e non le mette in pratica; perché le fa rispettare ai poveri mentre permette ai ricchi di calpestarle.

Mentre parlava, gli occhi gli lampeggiavano e l’uditorio ne sembrava soggiogato: tutti tacevano, colpiti, e anche coloro che non condividevano le sue parole non potevano fare a meno di ammirare il suo coraggio. Egli diceva quel che pensa la maggioranza dei compagni, ma non osa esprimerlo apertamente, per timore dei fanatici come Roberto e Rafael; si esponeva al pericolo, temutissimo, di farsi espellere dall’assemblea, precipitando al rango di paria del gruppo, di rinnegato della rivoluzione, la cui stessa esistenza, il fatto di vivere e respirare, è un affronto per l’ala dura del gruppo dei politici.

Quando ha terminato il suo discorso, Roberto avrebbe voluto replicare, e si capiva che intendeva lanciare un anatema in piena regola contro di lui; ma don Fabrizio, facendo valere la sua autorevolezza e il suo indiscusso prestigio, ha imposto il silenzio. Si è detto colpito e addolorato per i dissensi e lo spirito di contrapposizione emersi nell’assemblea, e ha inviato tutti a cercare, senza stancarsi mai, le strade del dialogo costruttivo e della fraterna collaborazione. Ha detto che la società che noi vogliamo edificare non può e non deve riprodurre i meccanismi di coercizione che sono propri dell’economia capitalista, con tutto il loro deplorevole codazzo di animosità personali, invidie, maldicenze e rancori interessati. Ha invitato tutti a riflettere su queste cose e a non esasperare gli animi con un accanimento che non giova a nessuno, giacché dobbiamo sempre ricordare di essere ostaggi nelle mani del nemico, e che la nostra salvezza dipende dal saper comporre i contrasti e le divergenze e nel far trionfare le ragioni dell’unità contro tutte le forze centrifughe, che tenderebbero a disgregarci.

Roberto non si è dato per vinto e, quando don Fabrizio ha terminato di parlare, ha formalmente chiesto l’espulsione di Mariano dall’assemblea, il che significherebbe la sua messa al bando e, implicitamente, l’autorizzazione a toglierlo di mezzo. Don Fabrizio, stanco e amareggiato, non ha potuto opporsi, secondo la normale procedura. C’è stato un momento di pesante silenzio, poi doin Fabrizio ha domandato a Roberto di precisare le motivazioni della sua richiesta.

Roiberto, con una smorfia, ha detto che le motivazioni erano riassumibili in una sola: che Mariano, con tutto il suo discorso, si era di fatto auto-escluso dall’esercito rivoluzionario, ponendosi su posizioni francamente reazionarie.

A quel puntosi è diffuso un brusio e Mariano, con tono sprezzante, gli ha domandato – fingendo di guardarsi attorno – dove fosse quel tale esercito rivoluzionario, perché lui vedeva solo dei compagni al confino su di un’isola sperduta e disabitata.

Roberto, che ci tiene moltissimo a quel linguaggio roboante e militaresco, si è sentito punto sul vivo nella sua suscettibilità di rivoluzionario professionista, poiché già qualcuno cominciava a ridacchiare; e, perdendo ogni ritegno, si è abbassato alla calunnia personale, affermando che lui non avrebbe raccolto l’ironia di un agente contro-rivoluzionario che frequentava più la casa del direttore che i compagni socialisti di provata fede.

Di nuovo c’è stato un terribile silenzio; per un attimo ho creduto che Mariano gli sarebbe addirittura saltato addosso ed, essendogli vicino, mi tenevo già pronto a rattenerlo; invece è riuscito a mantenere il controllo di sé, non so nemmeno io come – ma ho visto si mordeva le labbra sino a farle sbiancare – e poi, quasi a mezza voce, ha detto calmo a Roberto: – Questa me la pagherai.

Don Fabrizio ha approfittato del tumulto che è seguito per sospendere la seduta. Ha fatto notare che gli animi erano troppo eccitati per poter valutare serenamente la situazione, e che dei veri rivoluzionari non deliberano in balia di uno sconvolgimento emotivo. Che le accuse contro mariano, inoltre, gli sembravano troppo vaghe sul piano politico, e assolutamente non dimostrate sul piano personale. Ha ricordato che, in passato, molti politici hanno accettato di avere contatti di tipo strettamente culturale con le autorità, senza che questo costituisse motivo di biasimo per nessuno. Infine, ha chiesto a tutti di riflettere con più calma e di rimandare ogni decisione alla prossima assemblea.

A quel punto, commentando rumorosamente i fatti, l’assemblea si è sciolta. Roberto e Mariano si sono allontanati in opposte direzioni, senza più rivolgersi la parola.

È una fortuna che sia andata così, suppongo. Anche se la maggioranza era in cuor suo favorevole a Mariano, e non solo per le cose che ha detto ma anche per la sua evidente autorevolezza e integrità morale, temo che il voto dell’assemblea gli sarebbe stato contrario, con conseguenze veramente preoccupanti. Una cosa è quel che si pensa, una cosa quel che si ha, o non si ha, il coraggio di die davanti a tutti. Credo che molti compagni non avrebbero avuto cuore di votare in senso contrario alla proposta di Roberto, temendone l’inimicizia e la vendicatività.

È inutile illudersi, noi ci portiamo dietro il puzzo della borghesia: la viltà, l’invidia e l’amore del quieto vivere sono presenti fra di noi, come lo sono fra i nostri detestati nemici capitalisti.

CAPITOLO QUARTO

Lettera di dona Alexandra a Mariano, 19 dicembre.

Caro amico,

perdonatemi se entro così nella vostra vita e nelle vostre scelte, ma non ho altra strada.

Un amico vostro e mio, non occorre che vi dica chi, mi ha informata a grandi linee dei fatti accaduti ieri durante l’assemblea dei confinati politici. Già mio marito, prima di partire, mi aveva parlato di voi, che pure non conosceva di persona, dicendomi di nutrire stima per un uomo che, nella vostra condizione, si espone a gravi rischi personali per salvare la vita a un detenuto "comune" che neppure conosceva. Il capitano della nave, infatti, gli aveva consegnato un rapporto sull’incidente accaduto a bordo durante la vostra traversata.

Ora vengo a sapere che vi siete fatto dei nemici implacabili anche fra i vostri stessi compagni politici, fra coloro che dicono di professare delle idee simili alle vostre. Se bi avessero espulso, la vostra vita sarebbe stata in pericolo.

Perdonatemi, è così che onorate la promessa di non esporvi, di essere prudente in ogni cosa per amore di coloro che si preoccupano per voi? Non è per un uomo qualsiasi che sto in pena, né per l’insegnante di mio figlio Ricardo; ma per una persona meravigliosa che il caso mi ha fatto conoscere e che mi è divenuta preziosa come l’amico più caro, più fidato. Che gusto ci provate, ad esporvi così ai pericoli? Non v’importa dunque proprio nulla di noi, non v’importa di me?

Lettera di Mariano ad Alexandra, 20 dicembre.

M’importa moltissimo.

20 dicembre.

Oggi Mariano mi ha domandato, senza giri di parole, se ho visto dona Alexandra in questi giorni e se le ho parlato. Ho capito subito cosa intendeva, e gli ho risposto: – Sì, e tu sai di che.

Si è inquietato, ma gli ho spiegato che non potevo agire diversamente: – Qualcosa, non so come, sapeva già. Allora, a una sua precisa domanda e per non tenerla col cuore in sospeso, le ho raccontato brevemente quello che è accaduto l’altro giorno. Se non le avessi detto nulla, si sarebbe preoccupata anche di più. Ho agito male?

Ha riconosciuto che no e si è scusato per quello scatto iniziale. C’è stato un lungo silenzio. Eravamo presso il molo, dagli alberi giungeva il canto d’innumerevoli uccelli, di cui l’isola sembra ospitare una quantità incredibile. Mariano raccolse alcuni ciottoli e li scagliò sulle onde, cercando di farli rimbalzare.

– Mariano -, gli dissi, improvvisamente, – se hai bisogno di parlare con un amico, lo sai che sono qui.

Lui si è voltato di colpo a guardarmi, serio in viso, e ha risposto: – Lo so, ma cosa mai c’è da dire? Io credo che tu abbia compreso già tutto.

– Forse -, risposi, – anche se non mi hai detto nulla. Tuttavia, parlare fa bene, a volte, indipendentemente da quel che si dice.

Egli ebbe un moto di esasperazione, ma non rivolto contro di me. – Eh, sciocchezze! -, esclamò.

– Davvero? Io non credo – risposi, calmo.

– No, naturalmente. Ma quando ci si trova in una situazione senza uscite, che cosa si può fare?

– Nulla, forse -ammisi.- Ma ti ripeto che parlare fa bene; se ne ha voglia, s’intende. Non sarò certo io a volerti forzare.

– Ascolta – mi disse -, io non avrei mai e poi mai immaginato, sbarcando su quest’isola strana e dimenticata, che vi avrei fatto l’incontro più importante… Che vi avrei trovato, insomma, una tale, indescrivibile felicità. Anzi, guarda cosa ti dico: se potessi tornare indietro ed evitare la deportazione quaggiù, per niente al mondo lo farei. Sono troppo felice… Si dà il caso, purtroppo, che questa felicità sia mescolata a un senso di angoscia e di smarrimento…per delle ragioni che tu puoi bene intuire. Insomma, quando una cosa è impossibile…Ma non impossibile perché te la impediscono gli altri, ma impossibile perché te la proibisci da te stesso, liberamente…Tutto qui. Si tratta di questo, in sostanza.

– Permettimi una domanda. È per questa ragione che tu, ultimamente, ti comporti come se… come se… insomma, come se non ti importasse poi tanto di vivere?

– Alludi ancora a quella disgraziata assemblea dell’altro giorno?

– Anche. Ma non solo. C’è una tristezza, in te… Be’, lasciami dire che è strano sentirti parlare di felicità. Hai piuttosto l’aria di uno che sia stanco e stufo di tutto; che non ami molto la vita, a dire il vero.

Queste mie parole parvero colpirlo profondamente: ne era sinceramente sorpreso. Borbottò un: – Ah, è così?, e poi ridivenne silenzioso.

24 dicembre.

Approfittando della confusione per la vigilia di Natale, Diego è passato questa sera dal campo dei comuni al nostro, e dopo aver bussato rapidamente, si è infilato di soppiatto nella nostra baracca.

– Don Mariano, devo parlarvi. Ma in privato – ha detto, guardandomi.

Il mio compagno era semisdraiato sul letto e stava leggendo il suo amato Virgilio. Ha guardato Diego, poi me, poi di nuovo Diego e gli ha detto, con tono che non ammetteva replica:- Federico è persona della massima fiducia. Puoi parlare tranquillamente di qualunque cosa.

E poiché io facevo l’atto di alzarmi per uscire, mi ha trattenuto con lo sguardo.

– Quand’è così, per me va bene- ha detto Diego, parlando sottovoce. È ritornato alla porta, ha spiato fuori, poi s’è avvicinato alla finestra e si è sporto. Io e Mariano ci guardavamo interrogativamente. Infine Diego è ritornato presso il letto di Mariano e gli ha detto, sempre bisbigliando: – Señor, vi interesserebbe prendere il volo?

Il mio amico ha chiuso il libro, che teneva ancora aperto nella mano, si è proteso verso il suo interlocutore e mi ha guardato di nuovo, senza dir nulla. Ma si vedeva che era incredulo.

– Parlo sul serio, don Mariano. Io ho un debituccio con voi; e perciò, appena sono venuto a sapere una certa cosa, ho voluto mettervene a parte. Giudicate voi se può interessarvi oppure no.

Un lampo è passato per gli occhi del mio amico. L’idea della libertà, da tempo quasi dimenticata, deve avergli attraversato la mente fulminea; ma subito dopo le sue sopracciglia si sono aggrottate in un modo caratteristico. Lasciare l’isola… e coloro che vi abitano! Questa seconda idea dev’essere balenata subito dietro alla prima, così istintiva, frenandola e, per così dire, congelandola. Tuttavia, finse di interessarsi al piano: – Ma sei pazzo? Come vuoi che si possa andarsene di qua!

– Forse il modo c’è, amigos – rispose Diego, questa volta guardando anche me, e avvolgendosi nella sua aria complice. – So per certo che una goletta da pesca si avvicinerà all’isola nei prossimi giorni, e getterà l’ancora sulla costa occidentale. Non si farà vedere su questo lato dell’isola, la scoprirebbero subito e sarebbe troppo pericoloso, verrebbe a mancare il fattore sorpresa. Bene, ammettiamo che su questa goletta vi siano certi marinai miei amici; e che siano disposti a prendere a bordo tre o quattro persone, non di più; persone sane e robuste, disposte ad aiutare nei lavori di bordo, e magari a sdebitarsi con una certa sommetta, anche in un secondo momento. Allora, che ne direste? Non ve l’aspettavate, vero?

Mariano volle fare l’incredulo: – Direi che ti sei bevuto il cervello, hombre, a forza di ingollare tequila di pessima qualità. Oppure che sei diventato loco, pazzo. Come vuoi che si possa raggiungere la costa occidentale, anche ammesso che si sappia in anticipo, e con esattezza, il giorno e il luogo dell’appuntamento?

– Avete ragione, don Mariano, la cosa può sembrare pazzesca.

– È pazzesca. Fra noi e la costa occidentale c’è una catena di montagne così aspra e selvaggia che nessuno, ripeto: nessuno ha mai osato valicare. E anche ammesso che si possa arrivare in cima, lo sai anche tu com’è fatta la costa occidentale: un muraglione di basalto che precipita in mare con un solo balzo di oltre mille metri. Nemmeno un camoscio, che dico, nemmeno un coniglio selvatico riuscirebbe a calarsi verso la riva da quella parte. Sarebbe un suicidio, un autentico suicidio.

– Questo è vero -, riprese Diego, con la massima calma. – Ma – e qui sorrise con aria furbesca – non avete considerato un’altra possibilità: che si giunga sulla costa occidentale non via terra, ma via mare.

Qui fui io che non potei trattenermi per lo stupore, e chiesi: – Via mare?

– Sono d’accordo che cercar di scalare le montagne dell’interno sarebbe pura follia – riprese Diego – e che è impossibile costeggiare la riva camminando da qui all’altro versante dell’isola. La costa è quasi ovunque a strapiombo, anche se in modo meno impressionante della costa occidentale. Nessun uomo, per quanto esperto arrampicatore, potrebbe farcela, ma io e un mio amigo abbiamo un piccolo segreto: sappiamo dove si trova nascosta una zattera. L’hanno costruita dei deportati l’anno scorso, in gran segreto. Poi sono stati graziati e sono ripartiti con la nave il mese scorso. Ma prima di imbarcarsi uno di loro, che è mio lontano parente, mi ha spiegato tutto. È lui che farà da tramite con il padrone della goletta, sul continente. Così, la cosa è stata preparata nei suoi due momenti essenziali: come raggiungere la costa occidentale, e come lasciare questa maledettissima isola.

Adesso il piano non pareva più tanto pazzesco. Se ne poteva discutere.

– E sei sicuro che questa zattera esista, e che sia in buone condizioni? -, chiese Mariano.

– Certo, sono anzi già stato a vederla. È nascosta in un luogo sicuro.

– Ma quando scopriranno la nostra scomparsa, – intervenni – e ciò accadrà nel giro di poche ore, poiché non ci saremo presentati a uno dei due appelli quotidiani, ci verranno a cercare. Le guardie hanno due barche con le quali darci la caccia: ci prenderanno!

– Io dico di no, – rispose Diego- le guardie non arriveranno mai ad immaginare che noi si sia fuggiti via mare. Ci cercheranno verso l’interno, organizzeranno delle battute nella foresta con i cani; e così perderanno del tempo prezioso. E noi, intanto, tranquilli e sicuri, ci porteremo sull’altro lato dell’isola, verso la libertà

– Se il mare sarà calmo – osservò Mariano, pensieroso. – Altrimenti, quando saremo giunti con la zattera alla punta settentrionale dell’isola, il vento e la corrente ci spingeranno al largo, e in tal caso… adiòs.

– Ho pensato anche a questo – fece Diego, ammiccando divertito. – Se ci sarà tempo cattivo e mare grosso, cosa che non dovrebbe durare a lungo in questa stagione, la goletta spetterà almeno qualche giorno, in attesa che si rimetta al bello. Insomma, è chiaro che bisognerà correre qualche piccolo rischio. Ma direi che ne valga la pena; o no?

Adesso il progetto non appariva più tanto campato in aria. Andava assumendo l’aspetto di una cosa possibile, realistica. Mariano era evidentemente combattuto fra opposti sentimenti, e io sapevo quali. Disse, ma tanto per guadagnare tempo:- E la goletta, dove ci porterà? Noi non potremo ritornare alle nostre case; saremo dei ricercati, verremmo arrestati subito.

– Certo, non torneremo a Valparaiso, né in alcun altro porto frequentato da navi, dove ci siano sbirri, telegrafo e dogane. Faremo rotta per il Sud, verso l’Arcipelago. Il padrone della goletta è in rapporti d’affari con gli Indiani Chonos, quelli che vivono di pesca nei canali più meridionali. Loro conoscono ogni angolo di quella costa, che è tutta un labirinto di isole e fiordi nascosti dalla nebbia; e, all’interno, foreste vergini dove l’uomo bianco non è mai penetrato.

– E allora tanto vale restare su quest’isola! -, esclamai. Che senso ha fuggire verso la libertà, correre tanti rischi, per andarsi a seppellire in un postaccio maledetto fra selve inesplorate, fiordi nebbiosi e indios miserabili che vivono sempre a bordo delle loro puzzolenti canoe?

– Un momento, – m’interruppe Mariano – questo è un problema che si può risolvere. La frontiera argentina è a pochi chilometri verso l’interno: con una marcia di alcuni giorni, possiamo raggiungerla e metterci in salvo definitivamente. Magari fabbricandoci dei documenti falsi. So che c’è gente che lo fa di professione: sono abituati a vedere ogni sorta di banditi e desperados laggiù nelle fattorie della Patagonia.

– Ben detto, don Mariano! – esclamò Diego, con gli occhi brillanti per l’eccitazione. – E poi, – e qui ridivenne improvvisamente serio e riprese a parlare a parlare con voce molto bassa – so che voi non siete al sicuro, qui. Sono in troppi che vi vedrebbero volentieri morto, sia tra i "comuni" che tra i politici. Non occorre dire di più, vero? -: e lo guardò con intenzione.

Ma il mio amico era ancora pensoso- Non lo so, amigo. Ti ringrazio di cuore per la tua generosa offerta e ti giuro che non ne faremo parola con anima viva. Ma ho ancora bisogno di rifletterci un po’ sopra.

Per un momento Diego parve alquanto meravigliato, poi un lampo di furbizia attraversò i suoi occhi piccoli e mobilissimi. – Forse qualcosa vi trattiene qui, allora? Qualcosa o…qualcuno? Bueno; pensateci pure. Non c’è fretta. Tra due o tre giorni, mi farete sapere. E intanto, naturalmente, acqua in bocca., si capisce. Adiòs, amigos -, e si avviò svelto alla porta, spiando fuori per un attimo prima di uscire.

– Sei un bravo hombre, Diego – gli disse Mariano, con un sorriso. – Stai certo che ti darò al più presto una risposta. Quei due posti a bordo della goletta devono essere muy preziosi.. Hasta luego.

E il piccolo falsario, svelto come un gatto, sparì nella notte.

Agitati da mille pensieri, né io né il mio amico riuscimmo a chiudere occhio., finché la luce del primo mattino giunse a rischiarare i vetri.

CAPITOLO QUINTO

25 dicembre.

Inevitabilmente il Natale è stato alquanto malinconico, nonostante gli sforzi fatti per dargli un’apparenza festosa, o almeno serena. Ciascuno è tornato col pensiero alla famiglia lontana, e la nostalgia ha invaso tutti i cuori.

L’idea della fuga mi tenta: ma i pericoli, ripensandoci con più calma, non mi sembrano pochi né lievi. E poi, anche ammesso che si riesca ad arrivare in Argentina, dovrei richiamare i miei cari ed imporre loro una vita da esuli? Oppure rassegnarmi a non rivederli più per chissà quanto tempo, forse addirittura per sempre?

Dal diario di Alexandra, 27 dicembre.

Oggi, al termine dell’ora di lezione di Ricardo, come di consueto sono passata nello studio, per informarmi dei progressi del bambino e per salutare Mariano. L’ho visto un po’ strano; stringeva nervosamente la penna fra le dita e mi ha chiesto di parlarmi qualche minuto in privato.

Quando siamo rimasti soli, l’ho invitato a sedermi accanto sul divano, ma egli è rimasto in piedi e ha iniziato un discorso piuttosto ingarbugliato, in cui faticavo a seguirlo. La sua fronte era aggrottata, gesticolava, tutte cose insolite in lui. Si è fatto innanzitutto promettere che avrei mantenuto il silenzio più totale su quanto stava per dirmi; l’ho fatto. Quindi mi ha parlato – in via d’ipotesi, ha detto – dell’eventualità che lui lasciasse l’isola, non importa come, questo non dovevo saperlo, ma ovviamente in modo illegale. Capiva la mia posizione e si scusava di mettermi in un tale imbarazzo; ma non avrebbe mai potuto prendere una decisione, ha detto, senza prima avermi parlato. Non avrebbe mai avuto cuore di andarsene senza cercare di spiegarmi, insomma facendo finta di niente, addirittura senza salutarmi.

Non ero preparata a una cosa simile e ne sono rimasta assai turbata, né ho potuto nasconderglielo. Lui se n’è accorto e ha mormorato: – È naturale, dovevo capirlo. –

Ma io gli ho spiegato, sforzandomi di essere calma: – Voi ora pensate che io sia in conflitto con la mia coscienza, coi miei doveri di moglie del direttore, per via di quello che mi avete rivelato. No, questo è secondario. Secondo me, è naturale che un uomo privato della sua libertà personale faccia di tutto per riconquistarla, né sogni altro che di trovare il modo per riuscirvi. E, quanto a voi, so che non potete aver commesso nulla di male, anche se le autorità del Paese, nel condannarvi al confino su quest’isola, non la pensavano evidentemente allo steso modo. Ma ioso che voi siete una persona di nobili sentimenti e incapace di fare il male. No, il mio turbamento nasce innanzitutto da altri motivi. Mi sto chiedendo a quali pericoli voi stiate per andare incontro, se deciderete di evadere, con quali persone vi metterete insieme, immagino ben diverse da voi; infine se ne vale la pena. Voi dovreste scontare un periodo di deportazione di due anni, tuttavia non si può escludere che vi vengano ridotti, magari per buona condotta. Sono certa che mio marito redigerà un rapporto favorevole nei vostri confronti. Questo è ciò che mi preoccupa. Per il resto, voi dovete sentirvi padrone di agire nella maniera più conforme ai vostri interessi. –

Per tutto il tempo del mio discorso, lui mi aveva ascoltato con la massima attenzione, scrutandomi sino in fondo agli occhi, quasi a cercarvi insistentemente la reale natura dei miei pensieri. Alla fine disse: – Le vostre parole sono state, ancora una volta, le parole di un’amica squisita e disinteressata, ed io ve ne sono immensamente grato. Tuttavia, nel momento in cui mi accingo a tentar di lasciare l’isola, con la prospettiva di mai più ritornarvi, lamia onestà interiore mi impone di non tacervi una cosa che, in altre circostanze, la medesima onestà mi ordinerebbe di tenere gelosamente nascosta in fondo al mio cuore.

Credo di essere un poco impallidita; ma lui, come chi vuoti il bicchiere tutto d’un colpo, rapidamente ha aggiunto, senza guardarmi: – Señora. Dal primo momento che vi ho vista, io non ho potuto fare ameno di amarvi.

E senza attendere altro, è uscito con un beve inchino.

Sono rimasta lì, frastornata, incapace di alzarmi per un po’ di tempo. Eppure, se devo essere anch’io onesta, devo confessare almeno a me stessa che, in fondo, lo sapevo. Una sola cosa non mi è del tutto chiara: che cosa provo io per lui? Ma forse, dopotutto, non ho abbastanza coraggio per rispondere francamente a questo domanda.

28 dicembre.

Carlos e Miguel mi hanno informato che Roberto e Rafael tengono strani conciliaboli un po’ con tutti, e che sanno per certo che quei due stanno lavorandosi tutti i compagni, uno ad uno, per convincerli a votare contro Mariano quando, alla prossima assemblea, ripresenteranno la loro proposta di espulsione. Ho chiesto loro se don Fabrizio ne è al corrente, ma mi hanno risposto stringendosi nelle spalle. Mi parlavano sottovoce e in gran segreto, quasi fossero discorsi che scottano; era evidente che anche loro erano parecchio intimoriti.

Ne ho parlato subito con Mariano il quale, in un primo momento, ha avuto un moto di sorpresa, poi subito dopo ha alzato le spalle, borbottando che non glie ne importava nulla. Ho cercato di persuaderlo che anche lui deve parlare con il maggior numero possibile di compagni, spiegare bene le sue ragioni e non lasciare che quelli gli scavino la fossa sotto i piedi, ma non sono riuscito a convincerlo. Mi ha risposto, con tono definitivo: – Non mi abbasserò mai al livello di quei vermi – Per lui, la questione è chiusa.

C’era da aspettarselo. Quando si tratta di affrontare una minaccia a viso aperto, Mariano non è certo il tipo che si tira indietro. Ma davanti agli intrighi, ai complotti, egli praticamente indifeso. Troppo orgoglioso, troppo leale per concepire quel tipo di lotta. Intanto ho cominciato io a parlare con i compagni di cui mi fido, in modo che non giungano all’assemblea del tutto sprovveduti. Ma sono fortemente pessimista. Come già immaginavo, pochi avranno il coraggio di negare il loro voto a Roberto e Rafael. L’intero gruppo dei politici subisce una specie di dittatura per opera di quei due. Disobbedire alle loro indicazioni, a molti sembrerebbe un tradimento della causa. Uno, con impressionante candore, mi ha detto: – A me quel mariano sembra un hombre come si deve, ma io non ne so molto, per le decisioni politiche mi rimetto all’esperienza di chi ne sa più di me. Se Roberto dice che è un traditore e un elemento pericoloso, io gli credo. Questo è tutto.

Dal diario di Alexandra, 29 dicembre.

Quante emozioni, quanta responsabilità, quanto turbamento; e tutto nell’arco di così breve tempo!

Anche questa notte non sono riuscita a riposare: ogni tanto cadevo in un sonno breve agitato, e subito mille sogni confusi e angoscianti venivano a visitarmi.

In breve, la questione è la seguente. Mariano mi ha chiesto di dargli un segnale, un cenno di assenso o di diniego rispetto al suo progetto di evasione; no, mi correggo, rispetto a quel che proverei se lui se ne andasse per sempre dall’isola. E mi ha fatto capire che, in base a quel cenno, prenderà la sua decisione. Ma io sono combattuta fra spinte opposte. Innanzitutto, per il suo bene e la sua sicurezza: è meglio che rimanga, o che tenti la fuga? Quest’ultimo progetto è certamente pericoloso; ma anche rimanere, per lui, è divenuto assai rischioso. È in pericolo, sia che rimanga sia che fugga. Quale può essere il rischio minore?

Poi, per me. Cosa dice il mio cuore? Lo conosco da così poco tempo, e già mi sono affezionata a lui, ai suoi modi, alla sua presenza. Non riesco neanche a concepire la vita sull’isola sapendo che non ci rivedremo mai più: sensazione che, normalmente, si prova solo nei confronti degli amici di vecchissima data. O di coloro che, per noi, sono qualcosa di più che amici. Già, ma che cosa? Io amo mio marito. Si possono dunque amare due uomini nello stesso tempo? Pensiero del tutto nuovo e inquietante.

È proprio vero che non si finisce mai di scoprire se stessi, che dentro di noi vi sono delle terre e dei mari completamente inesplorati, dei quali anzi non sospettiamo neppure l’esistenza. A volte è difficile, vivere. Si devono fare delle scelte crudeli, che ci lasciano comunque insoddisfatti, incompleti.

30 dicembre.

L’assemblea dei compagni si terrà domani. Mariano non ne vuol neanche parlare, si secca e cambia discorso. O torna al suo Omero e al suo Virgilio. Certo, pecca di presunzione: disprezza così tanto i suoi avversari, da crederli incapaci di agire. Oppure è vittima di una sorta di strano fatalismo. La sua natura è energica, ma – l’ho notato ancora – improvvisamente rivela delle falle, delle debolezze inaspettate; sembra quasi che pensi: "Ma sì, vada come vada, io mi sono stufato".

Ho chiesto a Carlos, che è uno dei più vecchi confinati dell’isola, che cosa può succedere quando un compagno viene espulso dall’assemblea. Mi ha risposto che ricorda un solo caso, accaduto quattro anni fa in un altro bagno penale – ma, in quel caso, si trattava veramente di una spia, un informatore della polizia carceraria. Fu trovato qualche giorno dopo con la testa fracassata da una pietra. L’inchiesta, brevissima, si concluse con un’ipotesi di "morte accidentale dovuta a una caduta".

Nel pomeriggio sono riuscito ad avvicinare Diego senza farmi notare, cosa non facile perché i due campi sono nettamente separati, non dal filo spinato, ma da una legge non scritta e scrupolosamente osservata da entrambe le parti. Gli ho chiesto di avere pazienza ancora un giorno perché, se l’assemblea deciderà l’espulsione di Mariano, lo convincerò ad ogni costo a tentare la fuga. Quanto a me, ho deciso di rimanere. Non me la sento di mettere ulteriormente nei guai la mia famiglia.

Diego mi ha risposto che non c’è fretta, che la goletta non arriverà prima della metà di gennaio, secondo gli accordi presi tramite quel suo parente. E con queste parole ci siamo lasciati. Ma io so bene che, se Mariano ha deciso di restare, niente e nessuno potrebbe convincerlo a cambiare idea.

Tranne una persona, forse.

Una poesia di mariano per Alexandra, 29 dicembre.

Io vagavo come una nuvola

Nel soffio dorato di mezza estate

Insetti innumerevoli ronzavano

Danzando. Quand’ecco, tra i fiori

Una visione mi apparve celestiale:

occhi vivissimi, splendenti

un sorriso d’ineffabile dolcezza

una cascata di capelli d’oro

lungo le spalle svelte ed eleganti:

non se donna mortale oppure dea.

31 dicembre.

L’assemblea ha votato a larghissima maggioranza, quasi all’unanimità, l’espulsione di Mariano. Solo io e quattro altri abbiamo votato contro; tre gli astenuti, tra i quali don Fabrizio. Ma Roberto non ha avuto la soddisfazione di vedere mariano annaspare e tentare di difendersi, né di scacciarlo pubblicamente, perché lui non si era neanche presentato. – tanto, è inutile – mi aveva risposto, mentre lo invitavo a venirci con me – quelli hanno già deciso.

Io, che mi ero già reso conto di quanto una folla sia impressionabile, e che ricordavo l’effetto delle sue parole nell’ultima assemblea, ritenevo che non tutto fosse perduto e, per punzecchiarlo, gli avevo detto: – Penseranno che hai avuto paura. – Mi aspettavo una reazione forte; invece aveva mormorato stancamente: – Pensino pure quel che vogliono.

Roberto, questa volta, ha voluto andare sul sicuro e, per non farsi smontare da don Fabrizio, ha formulato dei capi d’accusa molto più circostanziati dell’altra volta. Ha avuto buon gioco per l’assenza di Mariano, così ha potuto affermare le menzogne più spudorate senza timore di essere smentito.

Fra l’altro, ha sostenuto che Mariano intrattiene ambigui rapporti con delinquenti comuni della peggiore specie, cosa contraria al codice e all’etica dei politicos; che diffonde il dubbio, il disorientamento, la confusione tra i compagni più giovani e inesperti; che non riconosce il principio di autorità, unica salvaguardia perché il nostro gruppo rimanga compatto, disciplinato e pronto alla lotta; che sostiene di aver subito un attentato intenzionale da parte sua, calunniandolo indegnamente; che ha deciso d’intrattenere rapporti privati con le autorità e con la famiglia del direttore, senza prima essersi consultato con l’assemblea dei compagni e senza richiederne la necessaria autorizzazione; che esistono fondati motivi, alla luce di tutto questo, per considerarlo un agente provocatore del governo, se non addirittura una spia stipendiata.

Tali parole sono state accolte da un silenzio carico di condanna. Io, allora, ho fatto notare che mancavano le prove di quanto era stato detto, ma Roberto ha affermato con foga che erano più che sufficienti, in un simile caso, le prove morali, l’evidenza implicita dei fatti, nonché l’assenza stessa di Mariano.

Quando l’assemblea si è sciolta, Rafael mi ha avvicinato e mi ha detto: – Ora ci aspettiamo che tu agisca da compañero disciplinato e leale.

– Che intendi dire? -, gli ho domandato, anche se capivo benissimo.

– Che nella baracca di Carlos c’è un posto libero, se vuoi. Non sta bene dividere lo stesso tetto con un individuo che è stato espulso per indegnità dal gruppo dei compagni. Sappiamo che l’anarchico è tuo amico, ma a questo punto devi scegliere: o con noi, o con lui. Arrivederci.

E, con queste parole, mi ha lasciato. Più tardi, quando ho riferito tutto a Mariano, si è limitato a dire: – Non mi aspettavo altro.

Allora gli ho detto dei miei ultimi accordi con Diego, e della necessità di prendere al più presto una decisione.

Mi ha risposto che tutto dipende da una certa cosa che deve fare domani. Io credo di sapere di cosa si tratti: deve avere un colloquio con dona Alexandra. Infatti, domani è giorno di lezione per il piccolo Ricardo.

Mariano mi è sembrato stranamente calmo; anzi, non calmo: non saprei come definire il suo atteggiamento. Distratto, questa è la parola giusta. Come se un pensiero molto, ma molto più importante occupasse in questo momento tutta la sua mente. Al punto che, mentre gli parlavo con calore, talvolta avevo la netta sensazione che non mi stesse quasi ascoltando.

CAPITOLO SESTO

Dal diario di Alexandra, 1° gennaio.

– Mio caro amico -, gli dissi, dopo che Ricardo, terminata la lezione di latino, ci ebbe lasciati soli – una persona che vi vuol bene ha trovato il modo di farmi sapere quel che è accaduto ieri nell’assemblea dei politici.

Io non conosco bene questo genere di cose, ma immagino che la faccenda sia grave e che non sia assolutamente il caso di sottovalutarla. Perché voi, mio buon amico – perché tu, Mariano, non ho parole per dirti quale emozione mi abbia provocato la poesia che m’hai dedicato… perché tu, purtroppo, hai la tendenza a sottovalutare i pericoli. Alla luce degli ultimi avvenimenti, pertanto, ti chiedo di badare esclusivamente ai tuoi interessi e di non preoccuparti di null’altro. L’assenza di mio marito mi rende più facile custodire il segreto del vostro progetto di fuga, ma, anche se lui fosse qui, non potrei mai e poi mai tradire la fiducia che tu hai riposto in me…

Lui mi guardava come se non capisse, mi fissava intensamente e, intanto, pareva letteralmente colpito da un fulmine.

Sentivo che ancora qualcosa doveva essere detto; e così, arrossendo, ripresi: – Quanto all’altra questione… Che tu, con l’abituale discrezione, mi hai lasciato solo intravedere… ma che capisco quanto sia importante, e lo vedo anche ora dai tuoi occhi… Quanto alla questione, cioè, di che cosa io ne pensi della tua partenza, ti dirò solo questo: se la nostra situazione fosse diversa da quella che è… sei o non fossi sposata con un uomo che rispetto e che amo profondamente… allora, non esiterei a dirti che l’idea della tua partenza mi rattrista profondamente… No, essa mi rattrista comunque… Dirò allora così: che essa mi sarebbe intollerabile… ma a che serve parlare di quello che avrebbe potuto essere, e non è? A che scopo tormentarsi con sogni impossibili? Noi dobbiamo essere realistici. Se deciderai di andartene, voglio tu sappia che io ne sarò desolata ma, al tempo stesso, felice, perché ti saprò al sicuro, o almeno in un pericolo meno grave… ed è quel che desidero tu faccia. Ma che, se fossi stata libera – non libera da un impegno formale, ripeto, ma libera nel profondo del mio cuore, e non lo sono… io sarei venuta via con te, a costo di qualunque rischio… perché avrei preferito andare con te incontro al pericolo, alla solitudine, al disonore, piuttosto che rimanere qui, stimata e rispettata, ma senza di te. –

Difficile dire cosa gli passasse nell’animo in quei momenti. Continuava a stare curvo sulla sedia, guardando fisso innanzi a sé, e tormentando il cappello fra le mani.

Seguì un lunghissimo silenzio.

Poi, improvvisamente, si alzò, mi prese la mano, la baciò rispettosamente, ed ergendosi risoluto, ma pallidissimo, disse soltanto: – Vorrei dirti mille cose, ma riesco a dirtene una soltanto: grazie, Alexandra. Grazie di tutto, della felicità inesprimibile che m’ha dato l’averti conosciuta, l’aver goduto della visione della tua bellezza, specialmente interiore. Non la dimenticherò mai.

Ed è uscito rapidamente, senza dire altro, visibilmente commosso.

2 gennaio.

Questa sera Diego è tornato nella nostra baracca, di nascosto, e ha preso con Mariano gli ultimi accordi.

All’ultimo momento, vedendo Mariano deciso a tentare l’evasione, la febbre della libertà mi è salita alla testa come un vino generoso, e ho deciso d’imbarcarmi anch’io in questa avventura. Del resto la mia permanenza fra i compagni, dopo le ultime vicende, mi sarebbe estremamente penosa; non potrei fare finta che non sia successo nulla.

Abbiamo deciso di abbreviare i tempi. Ci eclisseremo dopodomani, di notte, dopo l’ultimo appello. È possibile che ci vogliano due giorni, anzi due notti, per doppiare l’estremità settentrionale dell’isola e raggiungere la costa occidentale. Di giorno, infatti, dovremmo tirare la zattera a riva e nasconderci nel fitto del bosco, per evitare di essere scoperti dalle scialuppe delle guardie che certamente pattuglieranno la riva. Anche se non è molto probabile che ci cerchino sul mare, è molto più verosimile che ci cercheranno verso l’interno, ancora in buona parte inesplorato: tutto un succedersi di crinali a fil di rasoio separati da valli sprofondate nella foresta vergine.

Una volta raggiunta la costa occidentale, dovremo cercare un luogo ove approdare, cosa non facile; e poi tenerci buoni, nascosto, ma sempre in vedetta, per scorgere a tempo l’avvicinarsi della goletta. È meglio arrivare una settimana prima, che rischiare di giungere troppo tardi all’appuntamento. Per il cibo non dovrebbero esserci problemi. Diego e Garcia, l’altro "comune" che fuggirà con noi, hanno costituito da tempo un piccolo deposito segreto, grazie all’amicizia col cuoco. E nell’isola non mancano i frutti commestibili, per non è parlare del pesce e delle aragoste, enormi e gustosissime, che la risacca spinge a riva ogni giorno. La cosa più importante, tuttavia, sarà la scorta di acqua dolce. Siamo quasi certi, però, che girando attorno alla costa alla costa potremo attingere l’acqua delle numerose cascatelle che abbiamo visto arrivando qui con la nave, in novembre.

3 gennaio.

La mattina, quando ci rechiamo a lavorare nella foresta, apparentemente tutto si svolge come prima, affinché le guardie non sospettino nulla. Ma a pranzo, nella grande baracca che funge da mensa, appare l’isolamento di mariano. nessuno gli rivolge la parola, nessuno gli siede accanto – tranne me, ovviamente. È certo che, alla prossima assemblea, Roberto penserà di far votare anche la mia espulsione. Motivo: non aver ottemperato alle deliberazioni dell’assemblea, continuando a intrattenere rapporti con mariano in spregio alle decisioni del gruppo. La situazione non tarderebbe a farsi insostenibile, se domani non prendessimo il volo.

Nel pomeriggio, Mariano e io abbiamo fatto la cernita delle cose che dovremo portarci nelle sacche da viaggio. Ho visto che il mio amico guardava con tristezza i suoi preziosi libri, poi li ha presi, li ha avvolti in una carta e vi ha scritto sopra: «Per il señorito Ricardo». Ma il suo Virgilio, quello no; quello, reduce da mille battaglie e con gli angoli delle pagine ormai logori a forza di sfogliarli (non mi stupirei se lo conoscesse tutto a memoria), lo ha ficcato nella sacca insieme a qualche indumento, rasoio, lamette e altre cose indispensabili. Peccato non essere attrezzati, non avere scarponi adatti, teli cerati e, magari, una tenda da campo. Perfino i fiammiferi sono contati, e non abbiamo nemmeno un coltello. Ma infine, si tratta di tener duro per una decina di giorni; poi la goletta ci dovrebbe trarre d’impaccio. Se giungerà puntuale all’appuntamento, beninteso. Possiamo solo sperarlo.

– E che ne farai delle tue collezioni di fiori e piante? -, ho chiesto a Mariano. Lui le ha riposte in una scatola di cartone, insieme al quaderno su cui li aveva classificati, e mi ha risposto: – Questi, li regalerò alla sorellina di Ricardo: una cosa per ciascuno.

Dal diario di Alexandra, 4 gennaio.

Terminata la lezione di spagnolo, Ricardo ha salutato il suo professore e noi siamo restati soli, come altre volte; ma si capiva che quella era una volta diversa. Ho subito intuito che doveva essere l’ultima.

– Domattina – mi ha detto Mariano, emozionato ma padrone di sé – quando ispezioneranno la mia baracca, troveranno due pacchi: i miei libri per Ricardo, la collezione botanica per la piccola Isabela. Di’ loro, specialmente a Ricardo… mi sono affezionato a quel bambino… digli che… se sono andato via senza salutarlo, avrò avuto i miei motivi… ma, naturalmente, senza bisogno di far capire a nessuno che tu lo sapevi in anticipo… a nessuno, capito? Specialmente a don Alvaro, che dovrebbe tornare fra poco… Non cercare di giustificarmi, non dire che ero in pericolo: nessuno deve poter pensare che tu eri a parte dei miei piani, assolutamente… te ne prego,. Ecco; e ora, comunque vada, voglio dirti che questi giorni sono stati tra i più belli della mia vita… che ritengo di essere stato trattato con benevolenza dal destino per averti conosciuta e aver gettato uno sguardo sui tesori della tua anima…

Improvvisamente si è interrotto, si è alzato, mi ha abbracciato forte forte. Ci siamo abbracciati, anzi. E poi se n’è andato, consegnandomi una lettera.

lettera di Mariano ad Alexandra, 4 gennaio.

Come Nausicaa apparve ad Odisseo nell’isola dei Feaci, splendente di grazia incomparabile: così mi sei apparsa tu, quel giorno, mentre tornavi dal bosco con un mazzo di fiori appena colti, a una svolta del sentiero: prodigio di bellezza, di armonia, di soavità.

Poi, conoscendoti, ho scoperto che la tua bellezza interiore è ancora più fulgida, ancora più meravigliosa, tanto che non saprei come descriverla; le parole non mi soccorrono, sono ridotto al silenzio.

Ma è un silenzio che grida.

4 gennaio.

Il gran giorno è arrivato: tutto è pronto per questa sera.

Senza averne l’aria, nei giorni scorsi ho parlato con Carlos della topografia dell’isola, e lui mi aveva fatto vedere una carta che aveva disegnato, copiandola, di nascosto, dall’ufficio del direttore. Glie la chiesi in prestito e la ricopiai a mia volta, poi gli restituii la sua. Credo che ci sarà molto utile, ora che stiamo per accingerci alla nostra impresa.

È un fatto che, mentre la linea costiera è tracciata con un notevole grado di precisione, l’interno presenta per la maggior parte uno spazio bianco, regiones inexploradas, o anche terra nondum cognita, come direbbe mariano col suo Cicerone: "non ancora conosciuta".

L’isola ha forma ellittica e copre una superficie di circa 85 chilometri quadrati; ma è come se fosse molto più vasta, perché l’attraversano una serie di catene montuose parallele che la separano in tante valli o quebradas, quasi inaccessibili l’una all’altra, con andamento est-ovest. Ad occidente un altopiano ripidissimo, che precipita bruscamente al mare da un’altezza di oltre 1.500 piedi; ma nessuno lo sa con precisione, per il semplice fatto che nessuno si è mai spinto fino alla cima. Ad oriente le valli di cui s’è detto scendono verso la costa, solcate da torrenti e interrotte da cascate, per poi raggiungerla in una successione di piccole spiagge sassose. Sono, da nord a sud, le quebradas de Sànchez, del Sandalito, del Sàndalo, del Pasto, del Òvalo, del Mono, de las Casas, de las Vacas e del Varadero. Lo stabilimento penale, unico luogo abitato dell’isola, si trova presso la spiaggia della quebrada de las Casas, leggermente più ampia e sicuramente più accogliente delle altre. Qui le navi possono avvicinarsi, sia pure con un certo rischio, perché la costa orientale è aperta a tutti i venti e, in caso di mare agitato, è impossibile calare in mare le scialuppe per sbarcare.

D’altra parte la costa occidentale è totalmente inaccessibile, dominata com’è da un unico, immane blocco di roccia nuda e grigia che precipita in mare, formando un fondale assai profondo già a pochi metri della riva. Vi è una piccola rientranza a nord-est, denominata Baia Toltén, ma non offre riparo adeguato alle navi ed è percorsa da rapide correnti marine.

Nell’insieme, si tratta di una delle isole più inaccessibili al mondo e, fatta la proporzione fra l’altezza e la superficie, una delle più impressionanti montagne vulcaniche che mai siano emerse dalle spume del mare, nelle lontane epoche geologiche in cui la Terra era giovane.

CAPITOLO SETTIMO

5 gennaio.

Dopo l’appello serale, io e Mariano siamo rientrati, come al solito, nella nostra baracca, abbiamo tirato fuori le sacche già pronte, poi siamo sgusciati fuori, dirigendoci al luogo dell’appuntamento con Diego e Garcia, presso il limitare del bosco. È stato facile eludere la sorveglianza delle sentinelle. La sera era limpida e calma, nel cielo si accendevano innumerevoli stelle.

Gli altri due ci stavano già aspettando. Ci siamo avviati verso la spiaggia a nord dello stabilimento penale, attraversando il torrente Casas, quasi completamente asciutto. Poi abbiamo deviato a sinistra, dove, nascosta sotto rami e fronde, ma a pochi metri dalla riva, avrebbe dovuto trovarsi la zattera.

Ma non c’era. Bestemmie soffocate di Diego, ricerche affannose in lungo e in largo, con il sudore che scendeva giù per la schiena e che si gelava nella nebbiolina del bosco notturno. Diego e Garcia giuravano di averla controllata solo due giorni prima e che tutto era a posto, anzi vi avevano già deposto sopra una parte delle provviste. Ma la zattera non si trovava, e intanto il tempo passava. Era già quasi la mezzanotte.

– Qualcuno deve averci giocato un brutto scherzo – ha sibilato Diego. – Por la santa Virgen del Pilar, giuro che se lo trovo gli voglio magiare il cuore.

Improvvisamente, e la sua voce suonò come irreale, Garcia disse: – Sono stato io.

Lo abbiamo guardato increduli. Garcia è un "comune" dei meno raccomandabili, si dice che abbia un paio di omicidi da scontare, oltre a una carriera di delinquente incallito. Mi aveva stupito che fosse lui l’altro uomo coinvolto nel piano di fuga.

Finalmente Diego ha rotto il silenzio carico di stupore e ha scandito: – Ma sei impazzito?

Garcia ha tirato fuori un revolver da sotto la camicia, poi ha detto: – la zattera non ci serve più, perché il programma è cambiato. Non andremmo alla costa occidentale bordeggiando con la zattera lungo la riva, ma a piedi, attraversando l’isola.

– E perché? -, lo ha investito il suo compagno. – Tu devi essere ammattito. Non lo sai che nessuno l’ha mai fatto prima? E non l’ha mai fatto nessuno perché è un’impresa impossibile. Solo un uccello potrebbe superare quelle montagne ripidissime; e poi, da lassù, come faremmo per scendere alla costa sull’altro versante?

Garcia sogghignava nel buio, facendo risplendere i suoi denti dorati: – Storie, so bene quel che faccio. Non è vero che nessuno si è mai spinto fin lassù: ci sono stato io, una volta, l’anno scorso, mentre la mia squadra lavorava a tagliare alberi nella parte più interna della foresta. E ho scoperto una cosa che, da allora, mi si è fissata nel cervello, giorno e notte. Non volete neanche provare a immaginare che cosa? Ve lo dirò io, allora: oro. C’è un torrente che scende dalla vetta più alta dell’isola e nel cui greto ho visto brillare più oro di quanto ne abbia mai visto nel deserto di Atacama, quando facevo il miserabile cercatore. Be’, che ve ne sembra?

– Io dico che sei proprio matto, amigo – gli disse Mariano, scuotendo la testa.- Anche ammesso che questa storia sia vera, e che tu non abbia preso un abbaglio, come puoi esser certo di ritrovare la strada, senza carta e senza bussola? E se pure riusciremo a trovare il luogo, e anche l’oro, come faremo a portarlo via? E dove lo porteremo? La goletta ci starà aspettando sulla costa occidentale; ma noi, come ci arriveremo? Nessuna creatura che non possieda un robusto paio di ali potrebbe calarsi giù verso la costa occidentale, a meno che sia stanca di vivere!

– Siete degli stupidi, – rispose Garcia, calmo.- Credete che non abbia pensato a tutto? Io so dov’è la zattera. Torneremo indietro, caricheremo l’oro sulla zattera e remeremo fino all’altro versante dell’isola, presentandoci puntuali all’appuntamento. Abbiamo almeno dieci giorni a disposi<ione, forse dodici o magari quindici: saranno più che sufficienti.

– E le guardie che, intanto, ci cercheranno ovunque? – domandai.

– Chi, quelli? Non oseranno spingersi sulle montagne. Li conosco bene: soldatini da operetta, capaci solo di ubriacarsi e andare a donne. Ci cercheranno pro forma, per un giorno o due; poi, convinti che non vi sia modo di lasciare quest’isola, stenderanno un bel rapporto per il direttore, o per il suo vice, e diranno che la fame e la disperazione, presto o tardi, ci spingeranno a riconsegnarci nelle loro mani, con la coda tra le gambe. È già successo, amigos, e state sicuri che succederà ancora, più di una volta.

Aveva risposto alle nostre obiezioni con apparente ragionevolezza, e stava lì a godersi le nostre facce disorientate.

– Ma come farai a ritrovare la strada per quel torrente aurifero? -, insistette Mariano.

Garcia lo squadrò con sufficienza e disse: – Mi meraviglio di te, professore, o quel che diavolo sei. Tu studi la botanica, vero? Come lo so? Io so tutto quello che succede sull’isola, amigo. Allora, come fate voi botanici per ritrovare la strada giusta, quando volete ritornare sul luogo dove avete scoperto qualche specie di pianta rara e interessante? Segnate il tronco degli alberi, non è vero?, in modo da non sbagliarvi e trovare le indicazioni esatte, non es verdad? Bueno, io ho fatto la stessa cosa. Ho inciso delle tacche sulle cortecce di certi alberi nei punti cruciali, così non potrò sbagliare. E adesso, farò io una domanda a voi. Preferite venire con me di buon grado, aiutandomi a trasportare l’oro e imbarcandovi ricchi sulla goletta; oppure rimanere a marcire su quest’isola, in attesa che qualcuno vi pianti un coltello nella schiena? Perché so anche questo: tu, Diego, per poco non ci lasciavi la pelle; e anche te, professore, non navighi in buone acque.

– E tu – gli ha risposto Mariano – come farai a trasportare l’oro e manovrare la zattera, se noi decidiamo di tornare indietro?

– Non potrete tornare indietro – ha sghignazzato Garcia – con un buco di questa in mezzo alla schiena -, e agitava significativamente la pistola.

– Tu puoi ucciderci , ma non puoi proseguire da solo – ha insistito Mariano – e inoltre le detonazioni attirerebbero qui tutte le guardie. La tua libertà finirebbe prima dell’alba, e questa volta t’impiccherebbero, puoi starne certo. Non te la caveresti con meno.

Garcia ha abbassato la pistola e ha cambiato improvvisamente atteggiamento, dando in una gran risata: – Ma perché dobbiamo dirci queste cose tanto poco carine, dico io, invece di passarcela da buoni amigos? Eh, che gusto c’è, sapete dirmelo? Via, perché dobbiamo litigare? In fondo vogliamo tutti la stessa cosa: andarcene da questa dannata isola, tornare liberi. In più, io voglio andarmene con un risarcimento per questi anni sprecati; e offro anche a voi l’opportunità di diventare ricchi. Non ve ne importa? Va bene, non fa niente, vorrà dire che mi terrò tutto io. Riflettete: non vi capiterà mai più un’occasione come questa per lasciare l’isola.

– Dimentichi che sono stato io a organizzare la faccenda della goletta e che sono stato io a offrirti l’occasione di evadere -, ha detto Diego.

– Già, ma se adesso decide di tornare indietro, quell’occasione passerà, e dovremo restare a marcire ancora per degli anni.

– Amigo, dicci dove hai nascosto la zattera, e dimenticheremo questo incidente. Seguiremo il piano originario, come si era stabilito.

– No – e qui lo sguardo di Garcia si è fatto duro, spietato. – Io non rinuncio a tutto quell’oro. La zattera è ben nascosta, non la troveranno; Pablo, il mulatto, m’ha aiutato a spostarla in un altro luogo.

– Hai messo a parte Pablo del nostro piano? E gli hai mostrato la zattera? Diablo! E lui non ha preteso di unirsi a noi? -, ha chiesto Diego.

– Certo che l’ho preteso, amigos. Volevate lasciar fuori il vecchio Pablo, eh? Vergogna! -. E, così dicendo, è uscita dagli alberi l’alta figura del mulatto, un confinato cui un’orribile cicatrice, che gli attraversa la faccia dalla fronte al meno, conferisce un aspetto particolarmente sinistro. Anche lui era armato di un revolver, anche se lo teneva infilato nella cintura, quasi con noncuranza. – ma io vi darò modo di rimediare a questa spiacevole dimenticanza – ha ridacchiato, avvicinandosi con aria indifferente.

– Diego -, ha detto mariano – sei stato un dannato ingenuo a sceglierti Garcia come compare di evasione.

Comunque, a quel punto non avevamo più tanta scelta. Era evidente che non ci restava che assecondare quei due tipacci, cercando solo di non sprecare l’unica possibilità che avevamo di abbandonare l’isola.- Direi che abbiamo già sprecato anche troppo tempo – ha concluso Garcia -, andiamo. Io aprirò la strada, Pablo chiuderà la fila. Toglietevi dalla testa qualunque idea strana, e vi tratteremo da amici. Tanto, se anche vi liberaste di noi, che cosa fareste? Non vi resterebbe altro che consegnarvi alle guardie. Ma per coloro che hanno tentato la fuga e sono stati ripresi, il trattamento è sempre lo stesso: reimbarco sulla prima nave diretta al continente, nuovo processo e condanna ai lavori forzati nella provincia di Magallanes; dove, se non vi uccide la fatica, vi uccidono il freddo e le malattie. –

E così ci siamo avviati, silenziosi, attraverso la buia foresta.

Garcia reggeva un lume a petrolio e si muoveva con una certa sicurezza attraverso il labirinto degli alberi che, nella notte, parevano assumere forme insolite e paurose. Per fortuna la foresta dell’isola non assomiglia a quella delle lontane isole del Pacifico; il sottobosco non è eccessivamente folto, consiste soprattutto di erbe e felci; sono poco frequenti anche le liane e i tronchi marciti. Raramente gli arbusti sono così intrecciati da sbarrare il cammino e il terreno, quasi ovunque, è sufficientemente consistente, tranne nei luoghi più umidi e bui. Ad eccezione che in alcune parti, perciò, la foresta conserva un carattere aperto, che ricorda più un giardino che una giungla: così mi piace immaginare il Giardino Terrestre descritto nel libro della Genesi. E, vantaggio non indifferente, mancano del tutto serpenti e scorpioni. Infine sono assenti quegli insetti molesti e pericolosi, che pullulano a sciami nelle foreste tropicali del continente.

Dopo esserci spinti per un buon tratto verso l’interno, ci siamo fermati e abbiamo consultato una rozza carta che Garcia aveva con sé, quindi abbiamo scelto una piccola radura per dormire qualche ora. La stanchezza era tale che il sonno mi ha vinto quasi subito, e sono stato destato dai compagni solo allo spuntar del giorno. Abbiamo fatto il caffè e l’abbiamo bevuto con qualche galletta, quindi abbiamo ripreso la marcia, con ritmo assai più spedito.

La foresta si andava destando. Mano a mano che la nebbia notturna si andava disperdendo e i raggi del Sole penetravano fra i tronchi centenari, migliaia di uccelli variopinti hanno cominciato a salutare, con un fantastico concerto, il levarsi del nuovo giorno. Non mi ero mai reso conto, prima, di quanto fosse affascinante la selvaggia bellezza dell’isola: ero sempre stato assorbito da altri pensieri. Anche adesso i motivi di preoccupazione erano forti; tuttavia subivo in pieno il fascino misterioso di quel bosco primordiale, che forse già esisteva quando l’uomo non aveva ancora neppure scoperto quest’isola, né le sue vele avevano solcato le acque di questo oceano.

Adesso stavamo risalendo rapidamente il crinale montuoso che separa le valli Casas e Vacas e l’erta salita ci faceva sudare abbondantemente. Ma eravamo consci della necessità di allontanarci il più in fetta possibile dallo stabilimento, prima che avesse inizio la caccia in grande stile. Tra poco, all’appello del mattino, sarebbe stata scoperta la nostra fuga, e noi sapevamo che, se fossimo riusciti a sfuggire alla cattura nelle prime ore delle ricerche, avremmo avuto molte probabilità di non essere più ripresi. Anche secondo me le guardie non si sarebbero spinte molto oltre la zona conosciuta dell’isola, e meno che meno si sarebbero presa la briga di inerpicarsi sulle montagne della zona più interna.

Verso le nove del mattino abbiamo fatto una breve sosta all’ombra di una piccola cascata, seminascosta dalle enormi foglie di Gunnera, una pianta dal gambo commestibile e che cresce nei luoghi umidi; simile, ma molto più grande, alla comune bardana.

– Che alberi sono questi? -, ho domandato a Mariano, dopo essermi abbondantemente dissetato all’acqua limpidissima del torrente. – Mi ricordano un po’ i nostri mirti. – Sapevo che lui conosce bene la flora dell’isola.

-Infatti, sono delle stessa famiglia: si chiamano Myrceugenia fernandeziana, ma crescono solo qui. Sono elegantissimi.

– E le palme? -, interloquì Garcia. – Ricordo che ce n’è una meravigliosa foresta, ai piedi della vetta più alta dell’isola, non lontano dal torrente che stiamo cercando.

– Quelle non sono palme. Questa è una palma., e indicò una chonta che si drizzava proprio lì vicino. Quelle sono felci arborescenti.

– Felci? Quelle sono felci?

– Già. Felci delle dimensioni di un albero, del genere Dicksonia, per la precisione. Milioni di anni fa, erano le forme arboree più diffuse sulla faccia del pianeta.

Ho guardato il boschetto di Dicksonia che ombreggiava la vetta del crinale davanti a noi. Aveva davvero un aspetto insolito: ricordo di aver visto delle piante simili nelle illustrazioni di un libro sulle antiche forme di vita sulla Terra. Mi pareva che quella arrampicata verso le parti più elevate dell’isola, mai visitate prima dall’uomo, si stesse insensibilmente trasformando in un viaggio a ritroso nel tempo.

Ci siamo rimessi in cammino di buona lena, guadagnando quota velocemente. Diego, il più debole fisicamente, cominciava a risentire di quel ritmo forsennato e, sempre più spesso, era costretto a fare delle piccole soste. Adesso avevamo raggiunto l’altipiano centrale e, piegando verso sinistra, ci stavamo avvicinando alla vetta più alta dell’isola, mai raggiunta da anima vivente: un monte scosceso e vertiginoso che porta il nome, assai poco appropriato, di Los Inocentes. Attraversavamo un bosco di alberi nani che Mariano mi ha detto appartenere al genere Robinsonia, e poi un pendio erboso in fondo al quale mormorava un rivo d’acqua cristallina. Finalmente, a mezzogiorno, col Sole che batteva a perpendicolo, ci siamo fermati all’ingresso della foresta di felci Dicksonia di cui Garcia ci aveva parlato, dominata dalla maestosa vetta dell’isola.

Era veramente un luogo affascinante e bellissimo, con le sagome leggiadre delle felci arborescenti le cui fronde ondeggiavano lievemente, cullate dal vento, creando una mobile volta di ombre e luci cangiante al di sopra delle nostre teste. Non credo di aver mai visto prima un luogo di tale intatta bellezza, di tale intatto mistero.

Abbiamo mangiato qualcosa e poi bevuto all’acqua del ruscello, riempiendo le nostre borracce. Quindi ci siamo stesi sull’erba per riposare un poco. Diego si è avvicinato per mormorarci: – Sono spiacente, amigos.

De nada –gli ha risposto Mariano.- Non è colpa tua. Non pensarci.

Poi Diego si è sdraiato per recuperare le forze, e si è appisolato quasi subito.

Garcia e Pedro, dopo aver confabulato un po’ e consultato la loro carta, si sono seduti in a fumare in silenzio.

Mi sono volto a guardare Mariano e ho visto che quella ruga, caratteristica di quando è corrucciato, gli attraversava nel mezzo tutta la fronte.

– Sei preoccupato? -, gli ho chiesto.

Mi ha guardato serio, ma senza vedermi; e: – No -, ha risposto, ripiombando nel suo mutismo. Credevo che non avrebbe aggiunto altro: invece, improvvisamente, ha detto a bassa voce:- Sono semplicemente triste. –

– Triste? Pensavo che la nostra situazione ammettesse due soli possibili stati d’animo: o la gioia per la riacquistata libertà, o il timore per il disastro cui rischiamo di andare incontro. Ma perché triste?

– Federico, io no sto affatto pensando alla nostra situazione, in questo momento. C’è qualcosa di molto più importante, per me, che mi tormenta.

Ho creduto di capire e per la prima volta, sussurrando, ho osato entrare nella stanza più segreta della sua anima:- Qualcuno che hai dovuto salutare?

Si è voltato a guardarmi brevemente e poi è tornato a fissare un punto innanzi a sé. – Già -, ha mormorato.

Che cosa potevo dirgli? Era tutto chiuso in se stesso. Incredibile amico! Ci trovavamo in una situazione delicatissima, sospesi sull’abisso fra salvezza e catastrofe, e lui non riusciva a pensare che a dona Alexandra. Dovevamo preoccuparci di questioni di vita o di morte, e lui metteva Virgilio dentro lo zaino. Eppure, anche se era diverso da me, in qualche modo riuscivo a capirlo. L’uomo non può vivere solo di interessi immediati, quotidiani: né a pensare solo alla disciplina proletaria, come Roberto, o all’oro, come Garcia, o alle banconote false, come Diego; e nemmeno solo alla legge, come don Alvaro, o a far valere la propria autorità, come don Venustiano. Deve esserci qualche cosa d’altro, nella vita, per cui valga la pena di osare, di rischiare, di buttarsi. Qualche cosa che dia un senso a tutto il resto, ma che a sua volta non tragga la propria ragion d’essere da qualche bene materiale, o da una qualsiasi vanità effimera. Idealismo? Certo: ma non è per idealismo che ci troviamo sull’isola, deportati come criminali? E per che altro, se no? La stessa rivoluzione, non è forse un ideale? Un ideale per il quale già molti hanno messo in gioco la propria vita.

Ho guardato Mariano con simpatia e ho ripreso, convinto: – Dona Alexandra è una persona straordinaria. Non credo ce ne siano molte, come lei.

Il mio amico ha taciuto a lungo, mordicchiando un filo d’erba e guardando l’orizzonte marino che si intravedeva lontano, negli squarci fra i tronchi degli alberi, brillante sotto i raggi del Sole.

Poi di nuovo, quando credevo che non avrebbe detto altro, ha aggiunto: – Sì, straordinaria. Parlando con lei, ho potuto scoprire l’incredibile ricchezza, la delicatezza, la generosità del suo animo. Se lei… se lei non fosse la moglie del direttore, tornerei indietro immediatamente, succeda quel che succeda. Anzi, non sarei nemmeno partito. Ed ora, eccomi qua. Non so che cosa aspettarmi da questa impresa: non so se devo temere di più il successo o il fallimento. Perché il successo, l’imbarco sulla goletta, la fuga, mi allontanerebbero per sempre da lei. Mi pare già che sia stato tutto un sogno, che non l’abbia incontrata se non nella mia immaginazione.

Era la prima volta che mi faceva un discorso così franco su tale argomento e, per le sue abitudini, così lungo. Poi tirò fuori Virgilio, come a dire che il discorso, per lui, era chiuso

– Dimmi – gli chiesi – c’è un passo che questo luogo incantevole ti suggerisce?

Mariano sfogliò il volume e poi recitò lentamente, pensoso:

Variae circumque supraque

Adsuetae ripis volucres et fluminis alveo

Aethera mulcebant cantu lucoque volabant. (1)

Uccelli sconosciuti e pappagallini variopinti, infatti, riempivano l’aria dei loro richiami, ma con voce smorzata rispetto al mattino, come se anch’essi avvertissero il calore del mezzogiorno.

Era tempo di rimettersi in cammino. Abbiamo svegliato Diego, abbiamo rimesso le sacche in spalla e ricominciato la salita. Nessun suono giungeva dal bosco, nessun abbaiare di cani, nessuna voce. Probabilmente i nostri inseguitori non si erano spinti molto avanti nella ricerca. Non si udiva nessun suono tranne quelli della natura: potevamo quasi illuderci di essere dei pacifici escursionisti, dei viaggiatori alla scoperta dei segreti dell’isola.

Ben presto siamo usciti dal margine superiore del bosco e abbiamo iniziato la salita della zona prativa. L’altipiano aveva l’aspetto di una tundra: muschi e licheni crescevano sulle rive di alcuni minuscoli laghi; cespugli bassi e contorti, ma radi, protendevano i loro rami verso l’acqua. Dopo circa tre ore ci siamo fermati, proprio alla base della vetta, e di nuovo è stata tirata fuori la carta.

Garcia ha detto a Pablo: – Tra poco dovremmo trovare un canalone che scende verso destra e, di là, dobbiamo rientrare nella zona boscosa. Lì ho fatto dei segni sui tronchi, per ritrovare la strada.

Ho chiesto di poter consultare la carta e, quando l’ho avuta tra le mani, ho cercato d’imprimerla bene in mente. Più tardi tenterò di tracciarne uno schizzo a memoria.

La discesa oltre la cresta non è stata priva di difficoltà. Il terreno sassoso, in forte pendenza, presentava pochi appigli malsicuri; il pericolo di scivolare e precipitare in basso era sempre in agguato. Le nostre calzature, poco adatte a una simile escursione, offrivano una presa imperfetta e davano già segni di cedimento. Inoltre il Sole picchiava inesorabile e, quando abbiamo riguadagnato l’ombra di un canalone, abbiamo accoltolo stormire delle fronde con un vero sollievo.

Nel tardo pomeriggio Garcia, finalmente, ha trovato uno dei segni che aveva inciso sulla corteccia di un albero, e questo ci ha dato la certezza di essere sulla buona strada. Ma io mi andavo convincendo sempre più che tutta l’impresa era una pazzia e che non avremmo mai dovuto lasciare la costa orientale.

Abbiamo poi trovato altri due segni lasciati da Garcia e a sera, finalmente, ci siamo accampati in riva a un ruscello mormorante, presso un boschetto di Myrceugenia dalle sagome inquiete. Quel luogo mi faceva venire alla mente, non so perché, il mirto insanguinato del celebre episodio virgiliano di Polidoro, nel terzo canto dell’Eneide; lo avevo letto da poco, nel libro che Mariano mi aveva prestato.

——————

(1) Variegati, intorno ed in alto/ uccelli avvezzi alle rive e all’alveo del fiume/ carezzavano l’aria con il canto, e volavano per il bosco": Verg., Aen., VII, 32-34.

Mentre consumavamo un pasto frugale, noi due ci siamo scambiati a bassa voce le nostre impressioni. Anche il mio amico pensava che proseguire la marcia verso l’interno fosse una pazzia; inoltre, ha detto, non ha senso essere fuggiti dal bagno penale per finire prigionieri di due delinquenti senza scrupoli. Ci eravamo trovati d’accordo, quindi, sulla necessità di lasciare quella sgradita compagnia appena possibile, magari quella notte stessa. Avremmo chiesto anche a Diego se voleva venire con noi, poi ci saremmo allontanati col favore del buio, anche se una marcia notturna presentava non pochi rischi.

Sorgeva però un grave problema: che fare, dopo esserci liberati di Garcia e di Pablo? Tornare sulla costa orientale, per cercare da soli la zattera? Assurdo; senza contare che, da quella parte, saremmo andati a cadere direttamente nelle braccia dei nostri inseguitori. Avanzare verso la costa occidentale? Ancora più impensabile. Quand’anche fossimo riusciti a raggiungere la cresta estrema del massiccio montuoso, mai raggiunta da essere umano, non vi era alcuna speranza di scendere giù alla costa, da quella parte. E allora? Inoltre, se anche avessimo trovato il modo di raggiungere la costa occidentale in tempo per l’appuntamento con la goletta, non avremmo dovuto vedercela nuovamente con Garcia e il mulatto, armati e furibondi contro di noi?

Da qualunque lato si considerasse la nostra situazione, essa non presentava che ombre e pericoli. A essere ragionevoli, l’unica strada ancora praticabile avrebbe dovuto essere quella di riconoscere la sconfitta e ritornare indietro, consegnandoci alle autorità. Ma né io né Mariano eravamo disposti a prenderla in considerazione.

CAPITOLO OTTAVO

6 gennaio.

Ieri notte, mentre gli altri dormivano, abbiamo lasciato l’accampamento in punta di piedi, insieme a Diego, che aveva deciso di seguirci. È debole fisicamente e ritarderà la nostra marcia, ma non sarebbe stato giusto negargli una possibilità. Gli altri due erano così sicuri di averci in loro potere, che non hanno pensato di fare dei turni di sorveglianza. Noi, comunque, abbiamo rinunciato all’idea di tentar di disarmarli nel sonno, perché la cosa sarebbe stata troppo rischiosa. Inoltre, se vi fose stata una colluttazione fossero partiti dei colpi di pistola, questi ultimi, nel silenzio della notte, avrebbero potuto segnalare la nostra posizione, anche se è poco probabile che i nostri inseguitori si siano spinti fin quassù.

Abbiamo cercato di coprire più strada possibile, nonostante che il buio rendesse malagevole avanzare Ma, verso le undici di sera, è spuntata la Luna, e ci ha offerto un chiarore sufficiente per proseguire senza correre il pericolo di storcerci una caviglia, il che avrebbe conseguenze drammatiche.

Ci siamo diretti verso nord-est, nella vaga speranza di ritornare in direzione del crinale che sovrasta la valle Casas, ma senza un piano ben preciso. L’idea, vagamente, è quella di tornare verso la costa orientale, ma più a nord del campo dei confinati, e cercar di arrampicarci sulle rocce che dominano la riva, puntando sempre in direzione dell’estremità settentrionale dell’isola. Arrivati lì, dovremmo studiare il terreno per vedere se non esista qualche possibilità di raggiungere la Baia Toltén, l’unica rientranza che assomigli vagamente a un porto naturale, benché sia aperta ai venti dominanti occidentali. Se così fosse, potremmo anche trovarci in una posizione tale da scorgere l’avvicinarci della goletta, e magari segnalare la nostra presenza per mezzo di una fumata. Certo, dall’altro lato dell’isola non potrebbero scorgerla; né vi è motivo di pensare che le guardie abbiano voglia di spingersi, con le loro scialuppe, fin laggiù. Nessuno potrebbe pensare che noi attendiamo la salvezza dal mare, e per di più dalla costa occidentale. Nessuna nave arriva mai da quella parte, a meno che vi si diriga apposta, come quella che ci ha portato qui due mesi fa,; ma solo perché il mare agitato ci aveva portato fuori rotta durante la notte. Da quando le grandi colonie di foca da pelliccia sono state sterminate dai cacciatori, alcuni anni fa, più nessuno si spinge sulla costa occidentale, totalmente priva di approdi e dominata da montagne così impressionanti e inospitali, da incutere nell’animo una sorta di timore reverenziale.

La marcia notturna è stata faticosa e, a tratti, penosa. Era facile scivolare sui muschi e sugli sfagni o sprofondare improvvisamente sul terreno cedevole. Diego è scivolato almeno tre volte e alla fine, stremato, ha detto di non poter più andare avanti. Allora abbiamo deciso di fermarci e di riposare, mentre uno di noi avrebbe fatto la guardia, a turno. Ma ormai eravamo abbastanza lontani dall’accampamento di Garcia ed era estremamente improbabile che lui e il mulatto ci venissero a cercare; senza contare che, per loro, sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio. Non esistono sentieri, ovviamente, in questa parte inesplorata dell’isola; e, per quel che ne sanno loro, avremmo potuto allontanarci in qualunque direzione. Probabilmente continueranno a cercare il loro torrente aurifero, senza più preoccuparsi di noi. Almeno, questo è quanto speriamo, dato che siamo disarmati.

All’alba, quando ci siamo rimessi in cammino, inaspettata si è levata la nebbia. Il bosco aveva assunto un aspetto fantastico, pareva di muoversi in un regno incantato e misterioso, dove tutto era possibile. L’impressione di irrealtà era rafforzata dal pensiero che nessuno, probabilmente, aveva mai messo piede in questa parte dell’isola. Nessuno! Da quando un’antichissima eruzione vulcanica la portò ad emergere dal fondo del mare, a raffreddarsi lentamente, a coprirsi di muschi, poi di erbe, infine di boschi rigogliosi, ove nessun insetto, nessun uccello rompevano, con le loro voci, il silenzio tangibile di quel mondo appartato…

Verso le otto del mattino la nebbia era divenuta così fitta che abbiamo dovuto fermarci, approfittando di quella sosta forzata per ricuperare le forze. Sono trentasei ore che ci arrampichiamo come capre su e giù per e montagne dell’isola, con brevi pause, e cominciamo a risentire di questa marcia forzata. Il sudore scorre a. rivoli; i muscoli delle gambe, da tempo non più abituati a un esercizio così intenso, sono tutti indolenziti. Era strana una nebbia così densa, in questa stagione; è vero che non sappiamo molto del clima dell’isola nelle zone più elevate, perché né noi né altri si erano mai spinti così in alto. La foresta si andava risvegliando, ma solo pochi uccelli lanciavano il loro richiamo in quella atmosfera spettrale, ed esso si perdeva in una lontananza senza tempo.

Di colpo, poco più di un’ora dopo, nel giro di pochi minuti la nebbia si disperse e il sole penetrò vittoriosamente tra le fronde. Solo allora potemmo renderci conto, con enorme stupore, che ci eravamo fermati giusto in tempo per evitare un disastro. Soltanto pochi metri più avanti, di colpo, il bosco terminava sull’orlo di un precipizio profondo alcune centinaia di metri. Guardammo con un brivido di raccapriccio il fondo di quel burrone dantesco, disseminato di rocce e pinnacoli, e ci rendemmo conto che non si può prendere alla leggera la natura selvaggia di quest’isola. Benché sia abbastanza piccola, essa contiene tutte le insidie e le sorprese di un mondo primitivo ed inesplorato. Bisognerà essere più prudenti, d’ora in avanti. Ci siamo rimessi in marcia, cercando una via per aggirare il precipizio. Le capre selvatiche hanno tracciato una specie di sentiero, quasi indistinto, in direzione ovest, e abbiamo provato a seguirlo, benché in questo modo ci allontanassimo dalla direzione giusta. Dopo aver costeggiato l’abisso per quasi due ore, finalmente raggiungemmo un punto dominante dal quale si poteva scorgere un pianoro erboso che scendeva in direzione della costa orientale, disseminato di massi erratici, alcuni dei quali di dimensioni veramente ragguardevoli. Lo abbiamo attraversato, con le gambe intorpidite da quella successione impietosa di salite e di ripide discese. Così, a metà mattina, siamo giunti in un boschetto misto di felci arboree e di mirtacee, attraversato dalie acque di un limpido torrente, e abbiamo deciso di fermarci qualche ora per mangiare e riposare.

Diego, rotto dalla fatica, si è addormentato ben presto. Io e Mariano siamo rimasti un po’ a fumare e chiacchierare, seduti sull’erba nella brezza fresca che spirava presso la sponda del ruscello. Consultammo lo schizzo dell’isola che avevo a suo tempo ricopiato da quello di Carlos, ma non riuscimmo a stabilire con sufficiente precisione né il luogo, né l’altitudine nel nostro bivacco. Era quasi impossibile, data la natura estremamente tormentata di queste montagne, tutta un succedersi di crinali aguzzi e di valli profondamente incassate. Le nostre prospettive erano quanto mai incerte, e anche le nostre condizioni fisiche cominciavano a lasciar a desiderare. Ma mancanza di cibo caldo, dato l’alto consumo calorico, si fa sentire, come pure quella di abiti e calzature adatti. Insomma, a giudicare con realismo la nostra situazione, c’è poco da stare allegri. Abbiamo poche probabilità di raggiungere la costa orientale, e ancor meno di arrivare fino a quella occidentale. Questa è la verità. Ma nessuno dei due ha preso in considerazione l’idea di rinunciare e consegnarci alle guardie. Sappiamo che questa è un’occasione unica di fuggire, e che non si ripeterà. Sappiamo anche che la nostra situazione, se tornassimo allo stabilimento penale, diverrebbe insostenibile. Dunque, non resta che andare avanti. Improvvisamente, mentre mi disponevo a distendermi sull’erba per riposare una mezz’ora, ho avuto una sensazione stranissima. Il terreno sotto di me si scuoteva, e un rumore sordo, come di tuono lontano, si levava da dietro il bosco. Subito dopo vidi rotolare dei sassi giù dal pendio, e i rami degli alberi stormire furiosamente. Adesso l’erba del prato era percorsa da onde possenti, che l’attraversavano tutta, come quando si alza un vento di temporale: ma non c’era vento, solo una lieve brezza. Guardai Mariano: cercava di alzarsi in piedi, ma continuava a scivolare sulle gambe e a ricadere in terra. Diego s’era svegliato, terrorizzato, e borbottava qualche confusa preghiera.

Mi resi finalmente conto che quello doveva essere un terremoto, e di una discreta intensità. Dalle rocce sovrastanti continuavano a staccarsi sassi di varie dimensioni, che rotolavano disordinatamente verso il bosco. L’acqua del ruscello, che un momento prima scorreva limpida e calma, adesso ribolliva come sotto l’azione di numerosi geysers, i sassi del greto si staccavano e cadevano nelle onde, intorbidandole. Il rumore sordo di tuono cresceva sempre più, sembrava vicinissimo; e ad esso si aggiungeva lo stormire rabbioso, innaturale, di milioni e milioni di foglie della foresta.

Tutto ciò sembrò durare un’eternità. Rivedo ancora la scena: Diego che pregava e bestemmiava, incapace di alzarsi; Mariano che si tirava su e ogni volta tornava a cadere, come un ubriaco; il bosco che si scuoteva come un essere vivente, come una bestia selvaggia improvvisamente impazzita; i sassi che rotolavano e il torrente che ribolliva… Finalmente le scosse cessarono e tutto ritornò calmo, quasi con la stessa repentina imprevedibilità con cui erano incominciate. Ci guardammo in silenzio, pallidi, ancora increduli di quanto era avvenuto.

– Non è la prima volta che assisto a un terremoto, ricordo bene quello di Santiago, cinque anni fa. Fece molti danni. Ma qui… non me lo sarei aspettato. Non sapevo che l’isolavi fosse soggetta… Inoltre, doveva essere molto forte, considerato che eravamo all’aperto. Se fossimo stati in un edificio in muratura… Credi che abbia provocato danni, giù allo stabilimento? – chiesi a Mariano, cercando di raccogliere le idee.

Lo vidi improvvisamente impallidire. Compresi: se il terremoto aveva danneggiato o magari distrutto le costruzioni, forse c’erano stati danni alle persone. Alle persone: cioè, all’unica persona di cui gl’importava. Lessi chiaramente questo pensiero nei suoi occhi, nel preciso momento in cui li attraversò come una folgore.

– Ci potete scommettere – disse Diego, che non aveva colto quel pensiero del mio amico. – Secondo me, laggiù è crollata tutta la baracca… Avranno ben altro da fare, adesso, che venire in questi boschi alla nostra ricerca. Mariano continuava a non dire niente, era rimasto come impietrito, tenendo a mezz’aria la sacca che aveva sollevato da terra, lo sguardo perso in un punto inesistente. Diego se ne accorse, e gli chiese:

– Che avete, don Mariano? Vi sentite male, per caso? Vi ha colpito un sasso? –

Lentamente, con una calma improvvisa e quasi innaturale, Mariano si voltò verso di me, dicendo a voce bassa, ma ferma: – Mi spiace, amigos, ma credo che sia giunto il momento di separarci. Non vogliatemene per questo.

– Eh? Ma che dite, don Mariano? Separarci: e per andare dove?

– Io… Io devo ritornare verso lo stabilimento penale.

Intervenni: – Vuoi sapere se vi sono stati danni a causa del terremoto, vero?

– Sì, è così. Non intendo costituirmi; voglio solo sapere che è accaduto.

– Ma vi farete prendere! -, esclamò Diego, che non poteva capacitarsi.

– No, se starò attento. Mi avvicinerò di notte. E poi, in questo momento, avranno ben altro a cui pensare, che alla nostra fuga. E’ evidente. Riflette! un poco, poi dissi: – Ti accompagno.

Diego sbottò: – Eh, ma siete tutti pazzi, señores! Che vi prende?

– Tu puoi proseguire da solo, oppure possiamo darci un appuntamento, ci aspetterai in un luogo convenuto, al riparo da rischi e sorprese. –

Vedendoci irremovibili, dovette capitolare. Cambiammo direzione di marcia e scendemmo direttamente verso la costa per la via più breve. La marcia, su un terreno in forte pendenza, fu lunga e faticosa e non parlammo più fino al pomeriggio inoltrato, quando facemmo sosta all’ombra di una grande roccia da cui scaturiva una suggestiva cascatella. Consumammo un pasto frugale; le nostre provviste si andavano rapidamente assottigliando e presto ci saremmo trovati in difficoltà. Infatti la metà dei viveri avrebbe dovuto trovarsi presso la famosa zattera ed era andata perduta.

– Non mi hai mai detto che cosa ti abbia spinto a diventare un rivoluzionario -, dissi a Mariano, per distrarre i suoi pensieri dal terremoto.

– Il senso della giustizia. Da piccolo, a scuola, una volta presi le difese di un compagno mingherlina che era oggetto dei dileggi dei compagni, e così, e mia volta, dovetti subire, per anni, la persecuzione dell’intera classe. Tutti contro di me! Certo, cose da poco, giudicate col metro degli adulti. Ma a quell’età si forma il carattere, e quell’esperienza mi è entrata nel sangue. Da allora, non posso assistere a un’ingiustizia senza provare l’impulso irresistibile di intervenire.

– Mi chiedo se tutto questo servirà a qualcosa, se vedremo mai il sorgere di una società più giusta, a misura d’uomo. Tu che ne pensi?

– Penso di no. Che non serva a nulla, che l’uomo non vorrà mai una società giusta, senza privilegi e senza privilegiati; troppo grande è il suo egoismo.

– Sei molto pessimista. Ma allora…? – Sì, è vero. Non credo nella bontà dell’uomo, credo anzi che l’uomo sia la belva più infelice e disgraziata che sia mai comparsa sulla Terra. Questo mi impedisce di farmi illusioni. Gli anarchici credono nella fondamentale bontà della natura umana, pensano che essa sia stata corrotta dalle ingiustizie sociali, ma che possa tornare in superficie e consentire di creare un mondo migliore. Un mondo dove non ci siano più né padroni né servi, dove tutti siano liberi e uguali. Io, nel profondo, non ci credo più. Penso che gli uomini desiderino volontariamente la servitù, perché è più comoda; che amino naturalmente la menzogna, perché è più facile da digerire; e che odino la verità e la giustizia, perché esse impongono dei sacrifici. Certo, la società non aiuta a educare in questi valori; ma nella natura umana c’è comunque qualche cosa di storto… Perché mi batto, allora, se ho queste idee? Te lo dirò.

Ricordo una carica dei carabineros a cavallo contro la povera gente della mia città, che manifestava pacificamente per chiedere pane. Le urla, i corpi calpestati dagli zoccoli, i morti. Da quel giorno ho giurato guerra a questo governo, a qualunque governo della borghesia… il cui unico scopo, la cui ragion d’essere è difendere l’ingiustizia e il privilegio. Ma farsi illusioni, è un’altra cosa. Credi davvero che, se vincessimo, le cose cambierebbero? Non ti hanno insegnato proprio niente le vicende del nostro gruppo sull’isola, nei giro di neanche due mesi? Non vedi che gli ambiziosi, i mediocri, i fanatici come Roberto prevalgono sempre? Te lo immagini un governo diretto da gente così? Pensi che sarebbe meglio di quello attuale? –

Rimasi a lungo in silenzio, pensieroso. Poi dissi, scuotendo il capo: – Ma allora, tu vivi in un completo stato di contraddizione. Lotti per una cosa in cui non credi. Non è così? –

– Non esattamente. Io ci credo, eccome. Solo che non credo negli uomini. L’idea del comunismo, l’idea dell’anarchia è bella, bellissima: quanto di più civile possa immaginare l’uomo. Ma l’uomo, appunto, è uno strumento troppo imperfetto per realizzare delle idee simili. Qualunque cosa faccia, la sporca e la tradisce. Pensa quante atrocità si sono commesse nella storia, in nome degli ideali più nobili e sublimi! E poi, uno può essere pessimista con la ragione, ma ottimista con la volontà. Cioè, pur non facendosi illusioni, aver voglia di credere e di lottare. E1 sempre meglio che chiudersi in un orgoglioso isolamento e lasciare che tutto vada in malora, per aver l’amara soddisfazione di poter dire, poi: Io l’avevo detto! Così, invece, almeno uno può dire: Non è servito, ma ci ho provato. Giusto? –

Su questo punto dovetti dargli ragione.

Poi ci disponemmo a riposare. Disteso ad occhi aperti, vedevo i rami verdi oscillare nella brezza sopra di me e udivo gli uccelli cantare. Mi chiedevo se quell’ordine, quell’armonia che la natura sembra mostrare non possano essere imitati e riprodotti dall’uomo. Tuttavia Mariano, probabilmente, mi obietterebbe: "Quale ordine? Quale armonia? È tutta apparenza. Non vi è ordine nella natura, tutto è frutto del caso. Il cielo azzurro ci sembra bello, semplicemente perché l’assorbimento della luce solare nell’atmosfera produce un tale effetto. Ma se fosse verde, o viola, e gli uomini l’avessero sempre veduto così, lo troverebbero di sicuro stupendo. E il profumo dei fiori, non è certo fatto per noi, ma per gli insetti che li devono impollinare. Per nostra fortuna, i loro gusti in fatto di odori sono simili ai nostri. Tutto qui. E non parlarmi di armonia. Gli esseri viventi non fanno altro che divorarsi a vicenda, non è un bello spettacolo vedere il ragno che si mangia poco a poco la mosca imprigionata nella sua tela. Necessario? D’accordo, è necessario per la conservazione delle specie. Ma per carità, non parliamo di armonia; e, soprattutto, non parliamo di provvidenza e di dei. Il cielo è vuoto".

Rivolgendo fra me questi pensieri ed altri simili, mi appisolai, inquieto.

Ci svegliammo a sera e riprendemmo il cammino. Quando il buio scese completamente, ci separammo da Diego, che rimase ad aspettarci all’imbocco di un canalone. Noi due proseguimmo con maggiore cautela, ormai non dovevamo essere molto lontani dallo stabilimento. Infatti, un’ora dopo trovammo il noto sentiero che scendeva fino al molo.

CAPITOLO NONO

7 gennaio.

Ci siamo avvicinati al campo con prudenza, ma in giro non c’era nessuno. Bel buio, gli edifici sembravano intatti. Solo quando fummo a pochi metri potemmo vedere alcuni cornicioni rovinati, alcune tegole infrante. Ma nessuna costruzione è alta più di due piani, e nessuna era crollata. Le baracche di legno sembravano non aver subito alcun danno. Nei loro pressi ci dividemmo: io avrei cercato di flettermi in contatto con qualche amico per avere notizie, Mariano avrebbe proseguito verso gli edifici delle autorità, che erano per lo più in mattoni e che, di lì, non si vedevano bene. Potevamo solo sperare che le guardie avessero un po’ allentato la sorveglianza. Tutto era buio e silenzio; era circa la mezzanotte.

Strisciando lungo le pareti, raggiunsi la baracca di Carlos e degli altri vecchi amici. Dalla finestra vidi che dormivano tutti, tranne il Niño. Allora battei leggerissimamente sul vetro e, dopo un poco, riuscii a farmi notare da lui, senza svegliare gli altri. Gli feci cenno di raggiungermi, e poco dopo egli fu vicino alla finestra e la dischiuse senza far rumore.

Era estremamente stupito che io fossi tornato lì. Mi disse che don Venustiano era andato su tutte le furie per la scomparsa di ben cinque prigionieri, ma che le guardie, dopo la scossa di terremoto, avevano praticamente smesso di cercarci. Adesso erano tutti, occupati a riparare il molo e due edifici delle autorità. Non gli risultava che ci fossero danni gravi alle persone, solo due confinati avevano riportato delle ferite lievi, per il crollo di una catasta di legname presso cui stavano lavorando. Gli chiesi cosa si diceva, fra i politici, di me e di Mariano. Lui apparve molto imbarazzato, e dovetti sollecitarlo a rispondere, facendogli capire che anche i secondi erano preziosi. Allora mi rivelò che Roberto aveva stigmatizzato la nostra fuga come un danno per l’intero gruppo, che ormai dovevamo essere considerati chiaramente come degli elementi irresponsabili e pericolosi. Qualcuno aveva obiettato che proprio la nostra fuga dimostrava che non eravamo né spie, né agenti provocatori. Ma Roberto aveva replicato che la nostra alleanza con tre deportati comuni, noti per essere fra i peggiori elementi di quella teppaglia, era un atto d’accusa che parlava da solo.

– E’ meglio che tu te ne vada, ora, e in fretta: se qualcuno dei compagni ti vede, è capacissimo di dare l’allarme o di correre ad avvertire le guardie. Devi renderti conto che questa è ormai la situazione: siete al bando. –

Lo ringraziai e mi allontanai silenziosamente, recandomi al luogo dell’appuntamento convenuto con Mariano, ai limiti del bosco. I minuti passavano lenti, lentissimi. Solo l’abbaiare dei cani, ogni tanto, rompeva il silenzio. Alzai gli occhi al cielo: era un magnifica notte stellata. Alta e misteriosa brillava la Croce del Sud.

Finalmente, dopo un1 attesa così lunga Sa far nascere in me la più viva preoccupazione, Mariano mi raggiunse. Era oltremodo turbato, parlava a stento e notai che gli tremavano le mani. Al tempo stesso pareva distratto, come se stentasse a concentrarsi su quel che gli dicevo e perfino sulla nostra presente situazione, che avrebbe richiesto invece la massima presenza di spirito. Gli chiesi se dona Alexandra stesse bene, e lui, dopo una lunga pausa durante la quale, visibilmente, aveva continuato a dialogare con sé stesso, si riscosse e rispose precipitosamente di sì. Mi parve, o forse fu solo una mia impressione, sul punto di scoppiare in singhiozzi: certo non l’avevo mai visto così. Comunque, ci allontanammo senza perdere altro tempo e riprendemmo la strada del bosco.

Durante il cammino, non fu quasi scambiata tra noi una parola. Poco più ai un’ora dopo raggiungemmo Diego, che ci attendeva in preda all’ansietà. Dopo una sosta di alcuni minuti, riprendemmo la via della montagna, con l’intenzione di accamparci entro un paio d’ore e di riprendere, al mattino, la direzione della costa, ma più verso nord. E così facemmo.

Dal diario di Alexandra, 7 gennaio.

Ho rivisto Mariano e ho avuto un ultimo colloquio con lui. Benché breve, esso ha lasciato in me tracce così profonde, che nulla potrà mai cancellarlo dalia mia memoria. Ed è stato faticoso: così faticoso che ne sono uscita letteralmente esausta. Ma perché la verità deve essere tanto difficile, tanto pesante da sopportare?

– Ero in pena per te, dopo quella scossa di terremoto… – incominciò, impacciato a causa del mio stupore.

In realtà, stavo pensando al rischio pazzesco cui si stava inutilmente esponendo. – Ma no – riprese, alzando improvvisamente lo sguardo e fissandomi dritto negli occhi – non è solo questo, devo ammetterlo. E’ che ti volevo rivedere. Sì, lo so che è stupido. –

Anch’io lo guardai a lungo, poi dissi piano, credo, quasi parlando a me stessa:- No, non è stupido. Non è stupido, questo non lo penso. –

Mi prese la mano, ma non la strinse; la guardò come soprappensiero. – Volevo dirti… Insomma, volevo che tu sapessi che non mi è mai stato tanto difficile prendere una decisione come quella di allontanarmi… Volevo dirtelo. Parlava come a fatica, si vedeva che lottava contro una forte emozione.

– Sì – gli risposi, carezzando quella mano: – Lo so, lo so.

Di colpo cambiò tono, sembrò riprendersi: – I bambini stanno bene?

– Sì, tutti bene. Solo un po’ di paura, ma null’altro, per fortuna.

– Bene – commentò, guardando altrove; ma il suo pensiero era già lontano,

– molto bene. Salutameli… Anzi no, assolutamente. Dimenticavo che nessuno deve sapere che sono venuto qui a parlarti. Anzi, ora me ne vado. Ti ho fatto correre abbastanza rischi, scusami. Non ci avevo pensato. –

Ci siamo abbracciati; gli ho sussurrato: – Buona fortuna -; ed è sparito.

8 gennaio.

Abbiamo marciato tutto il giorno, facendo solo brevi pause, arrampicandoci con fatica su e giù per i costoni rocciosi che orlano le costa in direzione nord. Quest’isola è di una bellezza selvaggia, incredibile, ma si capisce facilmente perché siano così rari i tentativi di evasione: basta allontanarsi di poco dallo stabilimento, e la natura mostra ovunque il suo volto ostile. Nessuna selvaggina in queste foreste antichissime, tranne pochi uccelli; nessun frutto commestibile su questi alberi straordinariamente eleganti; e tutt’intorno solo mare a perdita d’occhio.

Dove si potrebbe sperar di fuggire, come ci si potrebbe nutrire? Anche questa famosa goletta, che dovrebbe apparire all’orizzonte come un miraggio e sulla quale riposano tutte le nostre speranze, comincia a farmi l’impressione di un qualcosa di irreale, frutto dei nostri ardenti desideri. Al mattino le creste dell’isola erano ricamate da leggeri filamenti nuvolosi, o forse da densi strati di nebbia, che davano perfettamente l’illusione di una soffice e candida coltre di neve. Era uno spettacolo singolare, soprattutto riflettendo che siamo vicini alla linea del Tropico e che la neve è del tutto sconosciuta su quest’isola.

E’ strano, in una situazione come la nostra, fermarsi a contemplare la bellezza incontaminata e misteriosa di questi luoghi; ma è quasi impossibile farne a meno. Ho notato che la stessa cosa è per Mariano; ogni tanto si ferma ad osservare un albero, o un insetto, o a cogliere un fiore.

Del resto, non possiamo procedere molto velocemente. Diego avanza sempre più a fatica; risente della ferita ricevuta a bordo della nave. Siamo quasi certi di non essere inseguiti e abbiamo davanti circa una settimana di tempo per giungere sull’altro versante. Le difficoltà più gravi sono due: arrivare sulla costa occidentale senza l’aiuto della zattera, cioè via terra; ed evitare un incontro con Pablo e Garcia. Tuttavia, cerchiamo di tarare avanti giorno per giorno, senza pensarci troppo.

Provo una strana sensazione di distacco, quasi di estraneità, come se tutto questo, in fondo, non mi riguardasse veramente. Che mi sia lasciato contagiare dal fatalismo di Mariano? Certo che quassù è difficile sfuggire a un senso di irrealtà: siamo in un’isola fuori del mondo, abbiamo voltato le spalle per sempre all’unica sicurezza e marciamo verso l’ignoto; solo dio sa come andrà a finire tutto ciò. Un confine sottilissimo divide la vittoria dal disastro, la libertà dalla fine: ma tanto la libertà che la nostra fine hanno dei contorni così vaghi, così improbabili, che quasi non saprei io stesso quale sorte augurarmi. Del resto, mi osservo quasi dal di fuori, come se quanto sta accadendo non mi riguardasse veramente. A sera siamo scesi sulla riva del mare. Dovevamo essere nella quebrada del Pasto, secondo la mappa. Abbiamo raccolto sui sassi della spiaggia

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due grosse aragoste e, dopo essere rientrati nel bosco, ci siamo azzardati ad accendere un fuocherello per cucinarle. Erano semplicemente deliziose. Poi abbiamo fumato, osservando gli ultimi raggi di luce scomparire tra i rami degli alberi e le prime stelle accendersi in cielo, verso oriente.

Mariano era ancor più silenzioso del solito. Aveva uno sguardo strano, come se con gli occhi della mente si fosse trovato in tutt1 altro luogo. A tratti sembrava quasi sorridere a sé stesso, ma era un sorriso strano, che mi rendeva inquieto. Improvvisamente, mi rivolse la parola:

– Hai pensato a quel che farai, se davvero riusciremo ad andarcene da qui? Dovetti confessare che non avevo affatto dei piani; precisi. Per un poco discutemmo di quel che si sarebbe potuto fare una volta raggiunto il continente. – E tu, Diego – gli chiesi – riprenderai a stampare bigliettoni falsi?

Era un tentativo per sdrammatizzare l’atmosfera. Parlammo in tono frivolo, quasi allegro, facendo progetti e scherzando, poi ci coricammo per dormire. Ma il sonno stentava ad arrivare. Forse, ero troppo stanco. Mi accorsi che anche Mariano era sveglio, mentre Diego dormiva già profondamente.

– Credi che ce la faremo? -, chiesi, tanto per dire qualcosa.

– E chi lo sa? -,rispose, fi poi, dopo una pausa: – Tanto, per me è la stessa cosa. Francamente, non ho opinioni perché non ho preferenze.

– Credo di capire perché. Non tormentarti, amico.

– La cosa è semplice – replicò con la massima calma. – Comunque vfttta a finire quest’avventura, ogni passo che faccio mi allontana dall’unica cosa di cui m’importi veramente. Dunque, a che scopo prendersela calda?

– Ma nessuno può conoscere il futuro. Forse, esiste una soluzione…

– No, non esiste! – disse in un soffio, con rabbia. Poi, di nuovo calmo:

– Credi che, se esistesse, non l’avrei già trovata? Vi sono dei problemi privi di soluzione, come trovare il punto in cui due rette parallele finiscono per incontrarsi… No, non c’è alcuna soluzione. Buonanotte. – E si girò su un fianco, come a chiudere la conversazione.

Più tardi mi addormentai, con fatica. Ma all’alba ero già sveglio. Gli altri dormivano ancora. Tanto per fare qualcosa, presi il volume di Virgilio che Mariano aveva posato vicino a sé. Sfogliandolo, si apre a una pagina ove era stata infilata una fotografia. Er» un ritratto di dona Alexandra e doveva essere molto recente, poiché mi parve di averla di fronte a me in persona, coi suoi meravigliosi capelli dorati e lo sguardo profondo, vagamente scherzoso. Turbato, mi affrettai a richiudere il libro e a riporlo dove l’avevo preso. Quindi accesi il fuoco per preparare il caffè e andai a prendere l’acqua al vicino torrette. Oggi ci aspetta una giornata di marcia assai faticosa. Dobbiamo raggiungere la punta settentrionale dell’isola, e di lì studiare se vi sia un modo di portarci sul versante occidentale, e se esista un sentiero naturale che scenda alla riva, cosa estremamente improbabile.

Da un appunto di Mariano, 8 gennaio.

Questa notte ho fatto un sogno che mi ha destato un’emozione fortissima al momento del risveglio, perciò lo voglio scrivere subito, prima che qualche particolare svanisca dalla mia mente.

Ho sognato di lei, e per la prima volta.

Mi pareva d’essere in un giardino fiorito, sotto un bellissimo cielo azzurro, quando la incontravo a una svolta del sentiero: proprio come accadde la prima volta che la vidi. Il venticello muoveva lievemente i suoi lunghi capelli biondi e sul suo viso aleggiava un sorriso dolcissimo, indescrivibilmente limpido e rasserenante.

"Perché sei così scuro in volto e preoccupato?", mi chiedeva; e la sua voce profonda, armoniosa aveva la sonorità precisa di una situazione reale, non di un sogno. Poi mi prendeva per mano e mi accompagnava verso la sponda di un laghetto, o forse di un fiumicello, tutto ricinto di tenere canne che il vento faceva ondeggiare.

Udivo il trillar degli uccelli e il chioccolio di una cascata, o di una fontana, e ogni cosa pareva vera. Cioè, non come accade di solito nei sogni, anche i più intensi, quando – in fondo alla nostra mente – permane la consapevolezza che si tratta solo di una illusione. In quel momento, invece, l’illusione era perfetta; non avevo affatto coscienza di sognare: ero lì e la tenevo per mano e guardavo i fiori e, senza bisogno di parole, un fiume inesprimibile di emozioni passava dall’uno all’altra. Ero semplicemente felice, come credo di non esserlo mai stato in vita mia.

Perché? Me lo sono chiesto dopo, al risveglio. Credo dipendesse dal fatto che, in quei momenti, esisteva solo il presente, ero anzi immerso in una felice realtà senza tempo: né il ricordo di ciò che rende impossibile una tale felicità, né l’angoscia per ciò che il futuro – un futuro senza di lei – può riservarmi.

A un certo punto ci volgevamo a guardarci negli occhi e, in quel momento, ebbi la certezza che tutto era chiaro e semplice, che tutto andava bene, che davvero non c’era ragione di essere preoccupato. Nel suo sguardo non vedevo altro che fiducia e un gran senso di pace.

E a questo punto mi sono destato.

CAPITOLO DECIMO

9 gennaio.

È stata una giornata faticosissima, e sembra proprio che siamo arrivati ad un vicolo cieco. Andare avanti pare impossibile. Che fare?

Dal nostro bivacco presso la quebrada del Pasto abbiamo ripreso la via alta che fiancheggia la costa, in direzione nord-ovest. Siamo discesi e risaliti parecchie volte, scavalcando altrettante valli scavate nella roccia da torrenti che scendono dalle alte vette della regione più interna. Verso mezzogiorno abbiamo fatto una sosta, proprio sul crinale fra le quebradas del Sandalito e di Sànchez, ed è stato allora che abbiamo visto la nave da trasporto del governo che stava doppiando le punta settentrionale dell’isola, diretta a sud. C’era un forte vento e il mare appariva agitato, almeno a giudicare dagli alti spruzzi bianchi che orlavano le scogliere, trecento metri sotto di noi.

Questo, forse, spiega come mai la nave si diriga allo stabilimento penale da una direzione così insolita: durante la notte essa deve aver oltrepassato, senza avvedersene o senza poterlo evitare, il Rodado del Sàndalo, l’alto muragliene meridionale dell’isola (che un tempo era ricca di foreste di sandalo, poi abbattute per esportare il legno profumato), e deve aver impiegato la mattina a risalire la costa occidentale per accostare la valle Casas da settentrione. Dall’alto fumaiolo della nave usciva una lunga nuvola di vapore che il vento disperdeva velocemente verso est. Appena sbarcato, don Alvaro verrà informato della nostra fuga, oltre che dell’inaspettata scossa di terremoto; ma ormai è poco probabile che possano riprendere le ricerche su vasta scala. È più verosimile che il direttore voglia concentrarsi nella riparazione dei danni subiti dagli edifici l’altro giorno. Questo ci da una curiosa sensazione: di essere abbandonati dai nostri stessi carcerieri, di essere considerati annullati da quelli stessi che in teoria ci dovrebbero riprendere: come se fossimo già in una terra di nessuno, dove non vale più la fatica di venirci a cercare.

Nel primo pomeriggio abbiamo tentato di risalire il versante settentrionale della quebrada di Sànchez, ma abbiamo dovuto ben presto rinunciare. Non un luogo ove posare il piede nella scarpata ripidissima che sbarra la via verso nord e che si getta in mare, verticalmente, con un unico salto di almeno centocinquanta metri.

Allora, di comune accordo, abbiamo ripreso la marcia verso l’interno, risalendo il torrente quasi asciutto che scava il fondo della valle. La salita era difficile, la vegetazione sempre più aspra e intricata, il terreno sempre più scivoloso e malagevole. Infine, quando già le prime ombre del tramonto calavano entro la valle, un burrone da cui precipita una cascata di oltre venti metri ci ha completamente sbarrato il cammino. Il paesaggio era di una bellezza primordiale, con la scura foresta morente negli ultimi raggi di sole e la poderosa cascata che cadeva scrosciando e sollevando un pulviscolo di goccioline iridescenti sulle rocce coperte di muschio e circondate di piccole felci.

Ma per noi, in quel momento, quel luogo significava una grave sconfitta. Ci siamo dovuti accampare nei pressi della cascata, dove se non altro abbiamo acqua freschissima a volontà e dove abbiamo raccolto dei funghi che, secondo Mariano, che s’intende di botanica più di noi, sono commestibili. Domani, con la luce del giorno, tenteremo di risalire il crinale meridionale della valle per cercare, partendo dalla valle più a mezzogiorno (la quebrada del Sàndalo), una via di più facile accesso verso l’altopiano interno. Ma anche se riuscissimo a trovarla, è quasi certo che finiremmo per giungere sulla vetta che domina perpendicolarmente la costa occidentale, il che sarebbe perfettamente inutile. Sappiamo che da lì non è neanche pensabile una discesa verso la riva; l’unica speranza era quella di costeggiare la costa nord, speranza che è caduta poco dopo l’avvistamento della nave, nel pomeriggio.

Sicché, il morale è piuttosto basso e sappiamo che, al termine di un’arrampicata pericolosa e faticosissima, a meno di un miracolo non potremo far altro che scorgere dall’alto la goletta, senza alcuna speranza di raggiungerla.

Già, un miracolo. Non resta che attaccarsi a una tale speranza, se di speranza si può ancora parlare.

Dal diario di Alexandra, 9 gennaio.

Sono terribilmente in pena. Più ripenso al progetto di fuga di M ari ano, di cui peraltro ignoro ogni particolare, più mi sembra azzardato, pericoloso e incerto. Sono inoltre turbata per essermi resa conto di quanto poco, in questo momento, egli si preoccupi della propria situazione. Lo prova il fatto che è tornato fin qui, a rischio di essere ripreso o di farsi sparare dalle sentinelle. Questa incoscienza può rivelarsi estremamente pericolosa.

Nel pomeriggio è tornato mio marito. Appena sbarcato, don Venustiano gli è corso incontro per fare rapporto. Alvaro lo ha ascoltato con serietà, poi ha fatto un gesto stanco, come per dire: – Va bene, più tardi -, e si è diretto verso casa.

Da me ha voluto sapere tutta la storia, e non è stato per niente facile parlarne fingendo estraneità. Se sapesse tutto, cosa penserebbe? Il suo sguardo sembrava affaticato, ma ho capito che la sua era soprattutto stanchezza interiore. Mi ha confessato di essere rimasto disgustato dai colloqui avuti con il capo della polizia, con il direttore generale degli istituti di pena e con il ministro della Giustizia. – Gentaglia – ha mormorato, tenendosi la testa fra le mani.

Poi, improvvisamente, ha alzato il viso e mi ha guardato intensamente: – Alexandra, avevo già pensato di scrivere una lettera di dimissioni, e la fuga di quei cinque prigionieri mi fornisce il pretesto adatto. Credo sia ora di pensare al nostro ritorno alla vita civile, dove i bambini potranno andare regolarmente a scuola e dove tu… Insomma, qui sull’isola sei stata privata abbastanza di tutte le comodità, di tutte le distrazioni più naturali. È un sacrificio che aveva un senso finché io credevo nel mio lavoro; ma ormai non ci credo più. Il nostro paese, bisogna dirlo, è attualmente governato da una banda di ladroni senza scrupoli, e continuare a servirlo in queste condizioni significa venir meno ai doveri della coscienza e della morale. –

Gli chiesi se avesse riflettuto bene, se la sua fosse una decisione irrevocabile. Mi rispose con voce ferma: – Irrevocabile. Domattina scriverò la lettera di dimissioni e la consegnerò al capitano della nave, che ripartirà nel pomeriggio. Se tutto va bene, manderanno un sostituto entro un mese o due, al massimo. Può anche darsi che comunichino di passare le consegne a don Venustiano, e che buon pro gli faccia. E’ quello che ha sempre sognato, dirigere una stazione penale tutta sua. Entro marzo potremmo essere di nuovo a casa nostra, a Valparaìso._Se non ci saranno difficoltà per la pensione, anche dal lato economico dovremmo stare tranquilli. Al nemico che fugge, ponti d’oro; e quei signori, in fondo, lo hanno sempre saputo quel che pensavo di loro. Saranno ben lieti di sostituirmi e di mettermi in pensione anticipata; vogliono solo gente fedele attorno a sé. Vogliono dei vermi disposti a strisciare.

Qui ha fatto una lunga pausa, si è guardato le mani che tremavano un poco, e ha mormorato, quasi parlando a sé stesso: – Mio dio, Alexandra. Sto parlando quasi come quel Mariano, che avevo scelto quale insegnante di nostro figlio. Un rivoluzionario!..{Improvvisamente un’idea deve averlo attraversato, perché ha cercato il mio sguardo e mi ha chiesto: -E così, poche ore prima di fuggire, quell’uomo studiava tranquillamente il latino e lo spagnolo con Roberto? Ti pare una cosa possibile? -, e continuava a guardarmi. – Tu che ne pensi?

– Niente. Penso che sia un gentiluomo. I bambini gli si erano affezionati, e lui ha lasciato loro i suoi libri e la sua raccolta botanica.

– Sì, me l’hanno detto… Ma tu, che idea ti sei fatta di lui?

Cercando di non arrossire, ho risposto: – In che senso? –

D’improvviso ha scosso il capo, dicendo: – Ti domando scusa, non so nemmeno io… Sono un po’ stanco. Vorrei cenare e poi andare subito a letto. – Ed è andato nel suo studio, pensieroso.

Anch’io avevo bisogno di star sola, di raccogliere le idee. Lo sforzo fatto per sembrare naturale era stato estremamente faticoso; il cuore mi batteva forte. Avevo quasi voglia di piangere. E il pensiero di Mariano, dei pericoli che corre, dell’ignoto che lo attende, su tutto il resto. No, mi correggo: su tutto il resto, l’angoscia al pensiero che quasi certamente non lo vedrò mai più, non saprò mai più niente di lui. Neppure se è vivo o morto.

E che dovrò portarmi dentro questa pena segreta, all’insaputa di tutti.

(Fine della prima parte)

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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