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Un manoscritto: pensieri di una notte d’estate

Parecchi anni fa mi trovavo, per ragioni di studio, in una misteriosa e remota regione del Cile meridionale, sulle coste della Penisola di Taitao.

Grandi ghiacciai scendono dalle montagne innevate e spingono le loro fronti frastagliate sino al mare, immergendovisi in una fantasmagoria di riflessi cangianti dal bianco purissimo all’azzurro, al rosa, all’indaco, al violetto. In uno stridente ma affascinante contrasto con tale scenario antartico, le piogge abbondantissime portate dalle correnti del pacifico alimentano lungo le rive una vegetazione lussureggiante, una foresta densa e ombrosa in cui fanno spicco, tra i faggi australi e le felci arborescenti, le gigantesche foglie della Gunnera chilensis, dal diametro che arriva fino a un metro ed oltre.

Laggiù, ai piedi del Cerro San Valentìn che, con i suoi oltre 4.000 metri d’altezza non sfigurerebbe accanto al Monte Bianco o al Cervino, in una capanna di tronchi d’albero viveva come un eremita un vecchio d’origine slava, Federico Kocbeck. Era stato un rivoluzionario e, da giovane, aveva sofferto il carcere e il confino per le sue idee. Ora si era ritirato dal mondo, stanco e deluso, chiedendo alla vita solo di dimenticare ed essere dimenticato. La solitudine non gli pesava: aveva raggiunto uno stato interiore molto simile alla saggezza o, per lo meno, al distacco.

Fu cosa strana e affascinante parlare con lui; mi ricordava il virgiliano vecchio di Corico descritto jel quarto libro delle Georgiche. Nei suoi ricordi campeggiavano due figure singolarmente luminose., che il tempo non aveva potuto scalfire, benché fossero entrambe scomparse da tempo: un uomo e una donna.

L’uomo, Mariano Sarmiento, era stato suo grande amico: intellettuale anarchico, aveva avuto una vita intensa e avventurosa, lasciando, con la sua forte personalità, un’impronta incancellabile nell’animo suo. La donna, Alexandra …, era stata la moglie del direttore del penitenziario ove i due erano stati deportati, su di una lontana isola del Pacifico. Da come la descrisse (e gli occhi gli brillavano ancora per la commozione) mi vidi davanti l’immagine dolcissima di una creatura femminile dalla squisita sensibilità, uno di quegli esseri che raramente ci è dato incontrare nella vita. Tra lei e Mariano era sorto un sentimento delicatissimo e prezioso, che né le circostanze avverse, né il successivo distacco avevano mai potuto soffocare.

Mariano, tra le altre cose, era un filosofo, nel senso originario della parola. Non teneva lezioni né scriveva libri, ma s’interrogava continuamente, con umiltà e stupore, sul mistero del mondo. Di lui Federico conservava alcune carte, vergate in chissà quali circostanze e destinate esclusivamente a un suo processo di chiarificazione personale. Mai avrebbe pensato di pubblicarle: era modesto, schivo fino alla selvatichezza, benché fornito di una cultura vastissima (sapeva citare a memoria lunghi brani dei poemi omerici, ma coltivava anche, nella sua estrema versatilità intellettuale, un’ardente passione per la botanica).

Non ho potuto trattenermi dal ricopiare alcune di quelle pagine, che mi sono parse non prive d’interesse. Dopo qualche incertezza, e col permesso del vecchio, ho pensato di farle conoscere ad altri, rispettando il testo originale e permettendomi solo qualche lievissimo intervento, là dove si parla di voi spaziali e clonazione, cose che certo l’Autore non poteva, allora, conoscere. Ritengo, tuttavia, di essere sempre rimasto fedele al suo spirito, quello di una difesa appassionata dell’essere umano, colto nella sua commovente verità interiore e impegnato, nelle avversità della vita, a non tradire se stesso, a rimanere fedele al proprio scopo esistenziale. Giudichi ora il lettore se quei pensieri, da me "scoperti" in una sussurrante notte di mezza estate (era, credo, il giorno di S. Stefano) (1) possono rivestire un qualche interesse per coloro che amano la speculazione come umile ma tenace ricerca di una verità interiore.

Un’ultima cosa. Poiché ho provato un non so quale imbarazzo nel decidere di pubblicare delle riflessioni personali senza aver potuto ottenere il consenso del loro Autore. Ho pensato a lungo se vi fosse un modo per sdebitarmi. Alla fine sono giunto alla conclusione che egli avrebbe forse apprezzato di veder dedicate queste pagine cui fu legato spiritualmente per tutta la vita: la soave Alexandra.

———————

(1) Nell’emisfero australe le stagioni sono rovesciate.

PENSIERI DI UNA NOTTE D’ESTATE

I.

La vita è frutto del caso e dominata dal disordine.

Nessun disegno la ispira e nessuno scopo la attende.

Si nasce per caso, si vive per abitudine, si muore senza aver capito nulla. Perché non c’è nulla da capire.

Vivere non è solamente assurdo; è grottesco. Si fa finta di credere, mentendo spudoratamente a se stessi, che sia un mestiere come un altro. Ma non lo è. È un gioco sporco e crudele, che si gioca con i dadi truccati.

Lo sappiamo, ma non abbiamo il coraggio di ammetterlo. Potremmo almeno affrontarlo decentemente, con un minimo di dignità e onestà intellettuale. Preferiamo, invece, inventarci dei e demoni, inferni e paradisi; preferiamo accusare noi stessi – per poterci poi assolvere con più giusto. Preferiamo essere laidi dentro, piuttosto che mostrare apertamente la nostra incolpevole miseria.

II.

Sì, la Terra vista dallo spazio deve essere uno stupendo gioiellino. Bianca e azzurra come una pietra preziosa: ospitale, meravigliosamente accogliente.

Ma non è così.

L’Universo è indicibilmente ostile, un luogo di buio e di morte, illuminato qua e là da minuscoli punti lontani.. Pressioni spaventose, venti micidiali, radiazioni implacabili e temperature proibitive sono la regola.

Pure, la vita si abbarbica ovunque: eroica, oscena: perfino alla coda delle comete, perfino sui meteoriti che vagano all’infinito, sfidando il grande nulla. Si abbarbica eroicamente oscena e, contro ogni evidenza, inspiegabilmente, resiste. Per perpetuare senza pace la sua vergognosa miseria.

È bello contemplare un lungo tramonto estivo, le nuvole dorate e i profili azzurri e violetti delle montagne nell’ultima luce del giorno che muore. Si prova un senso di pace, di riconciliazione. Si pensa che la natura sia un luogo armonioso e ci si sente rassicurati, come bambini che stanchi di giocare ai pirati e un po’ spaventati dal proprio stesso ardimento, ritrovano a sera con gioia la strada di casa.

Ma pensare che la bellezza di quel tramonto sia per noi è tanto ingenuo, quanto ritenere che i fiori mandino a noi il loro profumo. Il profumo dei fiori è rivolto agli insetti e ha lo scopo di attirarli per farsi impollinare. Siamo fortunati che i gusti degli insetti impollinatori in materia di olfatto siano vicini a quello dell’uomo. Se coincidessero con quelli delle mosche, per noi sarebbe un bel problema.

La natura non si cura di noi, così come non si cura di alcuna specie vivente in quanto tale. Gli individui, poi, sono per essa meno che niente.

Non sappiamo e non sapremo mai quale sia il suo scopo ed è assurdo che ce ne domandiamo il perché.

Non esistono perché.

Esiste la materia, esiste la vita – questo curioso incidente dell’Universo. Che la vita ci sia o non ci sia, è indifferente.

Solo la materia conta; e, con la materia, l’energia.

Tutto il resto è casuale.

III.

Eppure- questo è un fatto – noi non possiamo fare a meno di chiederci «perché».

La domanda, però, è mal posta: tutti guai cominciano da lì. Non dovremmo chiederci chi siamo, donde veniamo, né dove andiamo. Tutto ciò è molto al di fuori della nostra portata. Dovremmo imparare a essere umili.

Ma siccome soffriamo, vorremmo poter affrontare la morte col consolante pensiero che questa nostra vita tribolata abbia un recondito significato ultimo, addirittura cosmico. Che il mondo intero si chini sul mistero del nostro dolore. Che qualcosa verrà a riscattarlo, a dargli un significato qualsiasi.

È un atteggiamento patetico.

Invece di immaginare fini misteriosi che diano un senso, dall’esterno, al nostro nascere, vivere e morire, dovremmo semplicemente imparare ad accettarci.

Siamo qui, scaraventati a caso in una realtà ostile e incomprensibile.

Il nostro vivere, il nostro sentire e il nostro agire sono tutto quello che abbiamo.

Tanto vale cercar di farne buon uso.

Ma che cosa significa, questo? Poiché avevamo detto che non c’è nulla da capire. E se non c’è nulla da capire, come fare buon uso della vita? Che cosa distingue il buon uso da quello cattivo, stupido, infantile?

IV.

In realtà, non c’è nulla di sbagliato nel posi delle domande, benché sia assurdo. Fa parte della natura umana. Inoltre, dà una tensione etica alle nostre esistenze: le rende quasi degne d’esser vissute.

Il guaio incomincia quando si crede d’aver trovato delle risposte. Figuriamoci.

Anche la ricerca di Dio non ha nulla di sbagliato. Noi sappiamo, naturalmente, che il cielo è vuoto, che nessun dio esiste. Però persone che amiamo, che abbiamo amato ci credono e ci credevano e questo dà un senso di dolcezza all’esistenza.

Abbiamo bisogno di dèi per crederci importanti, per non cedere alla disperazione di sapere che nell’infinito Universo a nessuno importa di noi. Per non inorridire del silenzio smisurato, che ci rimanda le nostre inutili domande come un’eco. Addirittura, per sentirci "vendicati" della spiacevole certezza che dobbiamo morire. Moriremo, ma l’Universo morrà con noi; e noi soltanto risorgeremo. Sarà la nostra rivincita.

Dunque: porsi delle domande va bene, cercare va bene. Credere d’aver trovato è sbagliato. Anche l’ateo coltiva la sua infantile illusione ,è solo un prete alla rovescia. Nessuno può sapere davvero cosa vi sia dietro quella porta.

Dobbiamo avere il coraggio di guardare oltre, ma l’umiltà di riconoscere che non sapremo. Nemmeno se vi fosse una Verità e se questa Verità fosse lì, sotto i nostri occhi. Saremmo come delle rane alle prese con un’antica iscrizione greca, o con una complessa equazione algebrica. Vedremmo e non capiremmo: non dico il problema, ma l’esistenza stessa del problema. Continueremmo a gracidare pigramente lungo le rive dello stagno, scambiandolo per un mare.

E, ogni tanto, farneticheremmo dello Spirito Assoluto, e del fatto che tutto ciò che è reale è razionale e viceversa.

V,

Abbiamo detto: fare buon uso della vita.

Per prima cosa, con la coscienza del limite e un senso reverenziale del mistero.

Anche se un mistero, propriamente parlando, non c’è, ma solo la cieca necessità della materia e l’ironia del caso, che è l’altra faccia della stessa medaglia.

Che quel vecchio tronco di faggio, prima o poi, debba rovinare, è frutto della necessità che domina la natura. Che debba travolgere proprio me, se avrò la sfortuna di passarvi accanto in quel momento, questo è opera del caso. Frutto, anch’esso, di cause necessarie, ma intrecciate in una catena così lunga e contorta, che nemmeno un dio la potrebbe dipanare.

In secondo luogo, fare buon uso della vita vuol dire aver coraggio. Il coraggio di guardarsi entro,ilche è molto più difficile che guardarsi attorno.

Decidere se la natura sia ordine o disordine, se uno scopo ultimo esista o non esista, non richiede poi tanto coraggio. Potremmo sempre sbagliarci, dopotutto; ed essere salvati dall’errore, nostro malgrado.

Ma avere la forza e l’umiltà di guardarci dentro e di accettarci nella nostra finitezza, senza vergognarcene e senza compiacercene: questo sì, che richiede coraggio.

Non ce l’ha quasi nessuno.

E quei pochi che ce l’hanno, devono pagare un conto molto salato. Se non altro, quello che gli presentano gli altri: per fargli scontare la colpa d’essere stati uomini sino in fondo.

In un mondo di vigliacchi, il coraggio dà fastidio. È irritante. Bisogna riportare costoro alla misura del gregge.

VI.

E che vuol dire, poi, guardarsi dentro?

Né più né meno, sapersi riconoscere. Non è poco.

Enormi sedimenti dovuti all’educazione ci gravano con tutto il loro peso; la società ci giudica: vuole schiacciarci coi sensi di colpa.

Un essere umano che si riconosca tale, che sappia leggere i propri sentimenti sino in fondo, non è solo un prodotto raro della fauna terricola; è un essere quasi osceno. Infastidisce il gregge dei conformisti, dà scandalo quanto lo darebbe un nudista che passeggi nella Basilica di san Pietro a Roma. La sua coerenza è pornografica. Perché il gregge mente, sempre, né conosce altro che la menzogna. Mente con i propri pensieri e con i propri sentimenti. Inganna ed è ingannato, quotidianamente; anzi, mille volte al giorno. E, quel ch’è peggio, si autoinganna.

La ragione di tutto ciò è semplice. Per potersi guardare dentro, bisogna avere qualcosa dentro. Essere veramente uomini o donne, non manichini o spaventapasseri. Ora, la paura di essere se stessi è il tratto dominante dell’uomo "civilizzato".

VII.

Per questo l’uomo "civilizzato" stermina i suoi simili e le altre specie viventi, per questo violenta la natura e si erge a dio, lanciando astronavi nello spazio e clonando piante, animali e, forse, esseri umani. Per questo sconvolge il mondo con la sua schizofrenia a base sadico-anale, ere questo impazza nel suo delirio di potenza e poi ricade nella sindrome maniaco-depressiva.

Non sa darsi pace. Scoppia di frustrazione e d’infelicità.

Ogni altro essere vivente sulla faccia della Terra, nei mari e nell’aria lo teme e lo odia. È il pericolo pubblico numero uno. Devasta ogni come un bambino viziato e capriccioso: rompe quello che non sa usare, quello che non può possedere.

Qualunque cosa – la guerra, le radiazioni atomiche, l’olocausto finale: qualunque cosa, piuttosto che fermarsi e trovare il coraggio di guardarsi dentro.

In un certo senso, ha ragione di agire così,

Non è cosa da tutti scoprire che, dietro la maschera di cartapesta, c’è il nulla – e tuttavia continuare a vivere, a coabitare con questo nulla.

Meglio continuare a esercitarsi in uno sport meno faticoso: rendere la vita insopportabile a tutto il resto del mondo.

VIIII.

Perché lottare per essere autentici, dal moneto che nessun dio e nessuna vita futura premieranno o puniranno la nostra condotta?

Semplicemente per poter vivere in modo decente.

Non per "non tradire" la vita: è la vita che ci tradisce, sempre, fin da quando ci getta nel mondo. Poi non fa altro che mentire, suggerendoci la speranza di cose impossibili: della felicità, addirittura. Non abbiamo obblighi verso di essa, in quanto tale.

Ma abbiamo obblighi verso noi stessi e verso gli altri. Verso noi stessi: per una esigenza interiore di armonia, di bellezza e di verità; verso gli altri perché, interagendo con essi, ci assumiamo una precisa responsabilità. Coinvolgendoli, diventiamo corresponsabili del loro destino.

Questo è cercar di fare buon uso della vita. Non strisciare nel fango come vermi. Non (illudersi di) volare in alto come angeli. Accettare la propria umanità: e vedere quanta parte di ordine si può estrarre dal disordine, quanta parte di senso si può liberare dall’assurdo.

Non molta, probabilmente. Ma bisogna tentare.

Per sentirsi bene con se stessi. Per trovare il coraggio di guardarsi allo specchio la mattina, senza aver voglia di vomitare. Per non tradire quelli che hanno fiducia in noi. Per conservare la capacità di stupirsi davanti alle cose, farsi piccoli davanti ad esse – e cercar di imparare.

È il nostro guanto di sfida al non-senso dell’esistenza.

La nostra sola occasione di dominare la realtà, invece di esserne interamente dominati.

IX.

Il guaio è che la "realtà" non esiste. Esiste la mia, esiste la tua: mille e mille realtà soggettive. Può sembrare ovvio, invece continuamente si tende a dimenticarlo.

Le conseguenze sono devastanti.

L’amore, per esempio: il più funesto inganno inventato dall’uomo per farsi ancora più male. Si dice che la sua bellezza sublime consiste nell’«incontro di due anime». Ma quale incontro; due anime non possono ma incontrarsi, perché non esiste una realtà oggettiva che possano, in qualche modo, condividere. L’amore è una contraddizione in termini, un incidente linguistico. Infinite sofferenze si potrebbero evitare tenendo presente questa semplice verità.

Il fatto è che si ha paura della solitudine – anticipazione simbolica della morte. La solitudine, come la morte, ci appare il silenzio irrimediabile dell’anima: qualunque cosa sembra preferibile ad essa, qualunque inganno.

Bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che si cerca l’amore per disperazione, oppure rinunziarvi. Solo così lo si può vivere come un momento prezioso di aiuto reciproco. Due naufraghi che uniscono le forze per tenere insieme la zattera, che non lottano l’uno contro l’altro per strapparsi l’ultimo sorso d’acqua dolce.

Una relazione onesta, sfrondata di assurde romanticherie.

Onestà, merce sempre più rara sul mercato dei sentimenti.

X.

Disonesta è l’alienazione, quando la si insegue consapevolmente.

L’alienazione religiosa, in molti casi, non è disonesta. Essa risponde a un’esigenza profonda della vita ed è portatrice di valori etici.

Molto più pericolosa, oggi, è la doppia alienazione della tecnica e del "benessere" consumistico. Essa riduce l’essere umano a cosa, mercificabile e manipolabile. Nessun valore etico, solo il profitto economico e la ricerca del piacere volgarmente inteso. In nome della tecnologia e del "benessere" abbiamo costruito un lager allucinante: questo nostro mondo senz’anima, popolato da uomini e donne totalmente disumanizzati.

Un tale edonismo da porcile è più che mai ostile all’onestà intellettuale. Essendo basato sulla menzogna assoluta dei falsi bisogni e della falsa felicità, vede nell’onestà intellettuale e nell’umanità autentica i suoi peggiori nemici. La loro semplice esistenza costituisce la sua smentita più impietosa e radicale: deve, quindi, sopprimerle a ogni costo. Non è lontano il giorno in cui gli esseri umani non contraffatti verranno "curati" a forza nelle cliniche psichiatriche: per il loro stesso bene, s’intende.

Poi, finalmente, vivremo tutti in pace e felici. Liberi d’ingannare e d’ingannarci, senza ritegni e senza rimorsi.

Sarà bello.

Udremo soltanto il beato grufolare dei maiali nel brago.

La democrazia avrà raggiunto la sua più antica aspirazione: creare un mondo di uguali."

Quand’ebbi terminato di leggere questi appunti, rimasi a lungo pensieroso. Il vecchio mi guardava e taceva, fumando la pipa.

Infine gli dissi: – Mariano insisteva sull’importanza di essere se stessi, di non tradire la propria verità interiore. C’è una cosa, tuttavia, che non credo di aver ben capito. Sosteneva che ogni essere umano ha il diritto di affermare questa sua verità, indipendentemente dalle leggi morali? Che, in nome della fedeltà e dell’onestà verso se stesso, chiunque può calpestare gli impegni presi con gli altri e quello che, legittimamente, gli altri si aspettano da noi?

– No, signore – fu la risposta, pacata ma ferma – egli non pensava affatto una cosa del genere. Gli impegni contratti col prossimo, e non solo in senso legale, ma morale, erano una cosa sacra, per lui; e lo era, più in generale, il diritto del prossimo alla ricerca della felicità. Lui personalmente non credeva alla felicità, , e non era quella che cercava. Ma riconosceva nel bisogno d’inseguirla una componente essenziale della natura umana, contro la quale non aveva alcuna obiezione da avanzare. I bisogni essenziali della natura non si discutono, diceva. Non pensava, quindi, che sia lecito calpestare i sogni, le speranze di coloro che hanno fiducia in noi, in nome della nostra libertà. Giudicava, però, che noi abbiamo il dovere morale di saper riconoscere la verità dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri. Da questa necessaria presa d’atto, poi, ciascuno deve trarre le conclusioni pratiche che il suo senso etico gli ispira. Una cosa, però non si deve fare, mai: nascondere la testa nella sabbia per la paura di riconoscere quel che c’è in noi, quello che realmente siamo.

Tuttavia – replicai -, questo scavare nei recessi dell’anima può essere pericoloso. Sono convinto che la maggior parte di noi agisce, nelle futili come nelle più delicate circostanze della vita, senza essere veramente consapevole delle ragioni profonde che ci muovono, di quel che sta sotto la superficie del quotidiano.

Il vecchio mi guardò con i suoi penetranti occhi azzurri, prima di tornare a rivolgere la sua attenzione al fornello della pipa. – Può essere – mormorò, quasi parlando a se stesso. Poi, tornando a fissarmi e con voce distinta: – Ma appunto questo è il male. Troppo spesso ci comportiamo come bambini, senza sapere perché. In tal modo facciamo torto a noi stessi e del male agli altri, perfino a coloro che crediamo di amare. Del resto, Mariano criticava la psicanalisi perché era convinto che, il più delle volte, non è nel profondo dell’inconscio che si cela la nostra verità, ma appena sotto la superficie; solo che noi preferiamo distogliere lo sguardo e fare finta di non vederla, di non conoscerne neppure l’esistenza.

– Senta – aggiunse poi -, poniamo che io provi un forte desiderio di ammazzarla. Se avrò il coraggio di riconoscere questo mio sentimento, potrò chiedermi il perché e cercare una via di uscita. Magari lei mi ricorda qualcosa o qualcuno; magari mi ricorda qualcosa di me stesso che odio, che rifiuto. Ma se non avrò il coraggio di guardarmi dentro, finirò per convincermi che lamia violenta antipatia nei suoi confronti è supportata da cento buone ragioni, e che odiarla sia una legittima reazione di difesa. Vede cos’è la falsità con noi stessi, dove ci può portare. Di bugia in bugia, finiamo per costruirci attorno un mondo artificiale del tutto arbitrario, e invano cercheremo, da qualche parte, una boccata d’aria pura, di verità.

– Sì – ammisi -, ora credo di aver capito. Anche la divinità delfica ammoniva. "conosci te stesso". E Mariano, come Socrate, amava gli uomini così tanto da volerne estrarre la verità, loro malgrado, per il loro stesso bene. Pensava, e giustamente, che né l’armonia né la pace si possono costruire sulle fondamenta della menzogna.

– È così – confermò il vecchio. – La vita, diceva, è come affrontare una battaglia. È umano aver paura, in determinate circostanze: è umano provare il desiderio di fuggire. Ma viviamo in mezzo ad altri esseri umani, e la nostra paura potrebbe metterli in difficoltà: come quando si espone al pericolo i propri compagni nel bel mezzo di un’azione rischiosa, in prossimità del nemico. A quel punto, il nostro dovere diventa chiaro: alzarci in piedi e combattere la nostra paura, permettendo alla verità che è in noi di aprirsi la sua strada.

Solo così potremo essere veramente uomini e veramente donne – e trovare un po’ di pace e d’armonia, o qualcosa che vi s’avvicini almeno in parte. –

Qualche mese più tardi, rileggendo le note che avevo trascritto, non potei fare a meno di ripensare a quello strano incontro nella foresta, e soprattutto all’autore di quelle riflessioni. Era una bella notte invernale, limpida e fredda, e il cielo era letteralmente punteggiato d’innumerevoli luci che splendevano e pulsavano, quasi fossero vive.

Mi chiedevo che tipo fosse stato quel Mariano, anche perché avvertivo una sorta di parentela spirituale fra lui e me. Certo doveva avere una vita non facile; dalle sue parole traspariva una sofferenza acuta anche se trattenuta, un pessimismo radicale che tuttavia contrastava con il suo amore per gli uomini. I suoi pensieri erano quelli di un uomo profondamente amareggiato, che però – in qualche parte della sua anima – vuol continuare a credere in qualche cosa di assoluto; anzi, che non può farne a meno. Inoltre, le sue riflessioni sul senso del limite e sul senso del mistero mi dicevano che la sua anima era stata profondamente religiosa, nel senso più ampio della parola; e ciò a dispetto della sua convinzione che il cielo sia vuoto e che ogni cosa sia dominata da un caso beffardo e ingannevole.

Lo confesso: anche se ho sempre detestato quella forma di psicologismo che tende a ridurre le ragioni profonde della speculazione filosofica alle vicende biografiche dei singoli pensatori, mi è stato impossibile scacciare il pensiero che tanta amarezza e tanto pessimismo non avessero in qualche modo a che fare con situazioni personali da lui vissute con dolorosa intensità. L’impegno preso con il vecchio Kocbeck mi vieta di entrare in particolari, ma il legame contrastato e umanamente "impossibile" fra Mariano e Alexandra doveva avervi parte e, secondo me, una parte non piccola. Del resto, si può capire la filosofia di Kierkegaard senza nulla sapere del suo amore grande e infelice per Regina Olsen? Vi sono esperienze affettive così fondamentali, nella vita delle persone portate alla profondità, che nulla di ciò che in seguito accade loro, nemmeno il più piccolo pensiero, si può considerare del tutto immune dal clima spirituale che tali esperienze hanno stabilito una volta per tutte. Se ho ben capito. Mariano era così. Credo che l’intera sua vita sia stata una riflessione e una rielaborazione, in chiave universale, di quanto era accaduto nella sua esperienza personale e che lo aveva segnato nell’intimo, per sempre.

E mi dispiacque non averlo conosciuto, non aver potuto scambiare con lui alcune idee, dato che i sui pensieri ruotavano sugli stessi temi che da sempre hanno affascinato anche me.

Credo che in alcune cose sbagliasse, e da ciò nasce il mio dispiacere. È un peccato che un’anima appassionata e generosa non riceva quel piccolo aiuto che potrebbe spingerla verso la verità, alla quale è giunto a tentoni, inconsapevolmente, tanto vicina. Non voglio fargli il torto di pensare che, se la vita fosse stata più benevola con lui, anche la sua filosofia si sarebbe rischiarata dei dolci colori della speranza; ma chi noi può restare del tutto refrattario, nella sua visione delle cose e degli uomini, all’influenza che ha su di essa quel che la sorte ci riserva?

Per prima cosa, avrei voluto dire a Mariano che non è vero che noi a caso veniamo gettati nel mondo. So che i libri da lui più letti e meditati erano quelli di Lucrezio e di Leopardi, perché il vecchio eremita me li fece vedere, dicendomi che erano tutto quel che del suo amico aveva conservato, oltre al quaderno degli appunti e a poche lettere di carattere privato. Tuttavia, a dispetto di Lucrezio e di Leopardi, è molto più probabile che noi scegliamo di venire al mondo, e che – in un certo senso – scegliamo il nostro destino prima di nascere, come racconta Platone nel mito di Er, al termine de La Repubblica. Non è necessario credere alla metempsicosi, per giungere a queste conclusioni: basta riconoscere che esiste, nella nostra vita, una sorta di coerenza interna, come se stessimo lavorando per realizzare un impegno che noi stessi ci siamo assunti, da qualche parte, con un libero assenso della volontà.

In secondo luogo avrei voluto dirgli che l’universo non è quel luogo ostile e disarmonico che egli pensava; che, probabilmente, esso non è affatto un luogo né un ente, ma soltanto una illusione fenomenica; e che il fatto di conferirgli senso e armonia non dipende solo da un atto, pur apprezzabilissimo, della nostra volizione, quanto piuttosto da una nostra disponibilità ad accogliere quell’Amore che lo ha tratto dal nulla e che è la sola vera realtà, celata dietro le apparenze del mondo e che fa appello alla parte più profonda del nostro essere, che è amore essa pure. L’amore di cui siamo fatti, quindi, anela a ritornare al suo luogo d’origine, alla sua sorgente perenne. Mariano, probabilmente, ha commesso l’errore di misconoscere questa fonte, e il suo bisogno di assoluto si è riversato totalmente in una creatura finita, per giunta in una situazione oggettivamente difficile e sfavorevole. Mi commuove il pensiero che la sua sete bruciante di verità e di bellezza sia rimasta dolorosamente inappagata, quando vi era giunto ormai così vicino: perché la bellezza sensibile è il primo gradino verso la contemplazione del grande mistero della Bellezza eterna; esperienza dopo la quale ogni sete terrena non è che un ricordo o uno stimolo verso le maggiori altezze.

La terza e ultima cosa che avrei voluto dirgli è che, al di là dell’illusione fenomenica, resta la realtà assoluta dell’Assoluto; che passato e futuro non sono reali, ma solo esiste un eterno Presente; che in quel presente ogni lacrima, ogni sospiro, ogni atto di amore non si perdono nel buio nulla, ma vivono eternamente e trovano la loro risposta e la loro realizzazione; ogni equivoco e ogni malinteso vengono dissipati; ogni gesto e ogni pensiero di vero amore trovano la strada per innalzarsi sul piano dell’Essere, che li purifica di ogni piccola scoria e li rende eternamente splendenti e luminosi. Anche se noi non abbiamo fiducia nell’Assoluto, l’Assoluto ha fiducia in noi e ci preserva, nostro malgrado, per il momento in cui saremo in grado di vedere tutto e di capire tutto. Il che non potrà avvenire fino a quando non ci saremo liberati di ogni residuo della illusione fenomenica e non ci saremo trovati faccia a faccia con l’unica vera realtà: Dio, che è tutto in tutti.

Mi piace pensare che, allora, Mariano e Alexandra si sono già riuniti per sempre, come lo saranno tutti coloro che hanno amato con cuore puro, e che si sono preoccupati per il bene dell’altro più che per il proprio stesso bene.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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