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I poli nella letteratura: Coleridge, Poe, Lovecraft

Iniziamo una panoramica sulla percezione che generazioni di scrittori hanno avuto, all’interno della cultura occidentale, della realtà dei Poli e delle problematiche ad essi relative, come riflesso dei viaggi di esplorazione e di commercio a partire dal XVIII secolo. In questo articolo ci occuperemo di tre eminenti scrittori dell’area di lingua inglese e di altrettanti capolavori dedicati al mistero delle regioni antartiche: Samuel Taylor Coleridge con "La ballata del vecchio marinaio"; Edgar Allan Poe con "Le avventure di Arthur Gordon Pym"; e Howard Phillips Lovecraft con "Le montagne della follia". Seguiranno altri articoli dedicati ad altri autori tra cui Jules Verne per la letteratura francese, Emilio Salgari per quella italiana, Miguel Serrano per quella cilena (di lingua spagnola); ed altri ancora.

I grandi viaggi di scoperta a carattere scientifico del XVIII secolo, culminati nella triplice navigazione antartica di James Cook che sfatò per sempre il mito della "Terra Australis Incognita", preludono all’ingresso dei Poli nell’immaginario collettivo del pubblico occidentale. Mediatrice di tale irruzione, carica di echi suggestivi e fantastici, è stata la letteratura che, appunto in area romantica, ne ha definito le caratteristiche alla luce della poetica del "sublime". Il sublime, categoria fondamentale della sensibilità estetica del primo ‘800, confina – come già notava acutamente il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer – con l’altra grande categoria dell’immaginario romantico, quella dell’orrido, con la quale si trova in un rapporto di attrazione e repulsione. I paesaggi polari fatti di ciclopiche barriere di ghiaccio, di mari eternamente corrucciati e tempestosi, di cieli coperti color cenere, di lunghissime notti rischiarate dal fenomeno spettacolare dell’aurora polare, sono sospesi fra l’orrido e il sublime e generano nella cultura europea un fascino assolutamente particolare, evocando immagini e simboli che giacciono, forse (come avrebbe detto Jung) nelle profondità misteriose e inafferrabili dell’inconscio collettivo. Si tratta di un fascino esotico, ma completamente diverso, ad esempio, da quello evocato dai paesaggi tropicali, specialmente polinesiani, fatti di cieli azzurri, di spiagge dalla sabbia finissima, di barriere coralline popolate da pesci multicolori, e di palme che stormiscono alla brezza sullo sfondo di un cielo quasi sempre sgombro e inondato di luce. Eppure quei mari artici e antartici, ove solo le pinne di creature gigantesche e minacciose come l’orca o il capodoglio (si pensi alla vera e propria epopea di Moby Dick o la "balena bianca", creata da Herman Melville); quelle pianure ghiacciate che si perdono all’infinito, su cui si muovono solo orsi bianchi, foche o frotte di impettiti pinguini; quel senso d’immensa solitudine, non rotta ma anzi acuita dal pericolo sempre incombente dei ghiacci galleggianti, capaci di stritolare come una noce la nave più robusta: tutto questo ha sempre evocato nel pubblico europeo un senso sottile di deliziosa inquietudine. Forse semplicemente perché, come osservava già nel I secolo il poeta latino Lucrezio,

Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,

e terra magnum alterius spectare laborem (1);

e il pubblico "borghese" che, nel corso del XIX secolo, viene via via sostituendo il pubblico aristocratico, ama sognare tremendi pericoli e climi inclementi mentre se ne sta seduto, accanto al caminetto, con un buon libro aperto sulle ginocchia.

a) SAMUEL TAYLOR COLERIDGE E "LA BALLATA DEL VECCHIO MARINAIO".

Non è certo questa la sede per dilungarci sulla biografia di Coleridge, sul suo percorso letterario, o per addentrarci in una valutazione complessiva della sua opera poetica; pertanto non ci limiteremo che a qualche cenno essenziale. Nato a Ottery Saint Mary (Devonshire) nel 1772, ultimo di una numerosa figliolanza di un pio pastore anglicano, muore a Londra nel 1834, dopo una vita sregolata e geniale, devastata dall’abuso della droga e percorsa da fondamentali intuizioni estetiche, che saranno alla base di tutto il futuro Romanticismo inglese. Spirito disordinato e profondo, spazia con eguale disinvoltura dalla filosofia alla poesia, dal giornalismo alle conferenze; cerca di conciliare Platone con Berkeley, sensibilità romantica e spirito scientifico. Mario Praz, uno dei nostri maggiori anglisti, ha scritto che "la tragedia della vita del Coleridge, carattere dispersivo e passivo, è una tragedia della volontà. Di qui tutte le sue travagliose vicende: i rapidi entusiasmi, altrettanto veementi quanto caduchi, il suo umiliarsi dinanzi al Wordsworth, la sua dedizione all’altrui volere, dal matrimonio dietro consiglio del Sothey fino alla sottomissione al regime del dott. Gillman per guarirsi dall’abuso dell’oppio, – quest’abuso stesso (episodio che accelerò, ma non determinò la dissoluzione della personalità) che importa un’evasione dal proprio "io", – il non sentir bisogno d’indipendenza economica, vivendo del soccorso altrui (dei Wedgwood prima, dello Stato poi) e permettendo che la famiglia fosse mantenuta dal Southey; – infine l’elasticità stessa di questo carattere che, dopo aver toccato il fondo dell’abiezione, riesce a riabilitarsi grazie soprattutto alla propria passività, che gl’impedisce di esser decisamente cattivo. Nella sua vita mentale si nota la stessa assenza del senso di proprietà, che si manifesta nel trascrivere come propri passi d’altri autori, e nell’attribuire ad altri, passi di propria invenzione; – la dispersione in mille tramiti secondari dell’attenzione, incapace di seguire a lungo un solo pensiero: ciò che si traduceva, nella conversazione in soliloqui continui, nella lettura in minute annotazioni su singole frasi; – lo sbrigliarsi della fantasia dietro a progetti monumentali di un magnum opus; – la ripugnanza ogni qualvolta si trattava di mettersi a scrivere e le accorate confessioni d’impotenza, come quando, in quello zibaldone misto d’autobiografia, di filosofia, e di critica che è la Biographia Literaria (pubb. 1817), tenta di velare, con l’introduzione ex abrupto della finta lettera d’un amico, l’incapacità a concludere sistematicamente. Tragedia della volontà, ma tragedia di un tipo quale solo più tardi riceverà un nome nella cultura europea, dal russo Cechov. Perché Coleridge non aveva solo due personalità, ma cinque, ciascuna con la propria calligrafia. Una di queste personalità avrebbe potuto innalzare col canto un palazzo eccelso, sì da stupire gli uomini, come si legge nella chiusa di Kubla Khan." (2)

La ballata del vecchio marinaio (The Rime of the Ancient Mariner), un’opera capitale della letteratura non solo inglese, ma europea, apparve nel 1798 all’interno delle Lyrical Ballads, pubblicate insieme a William Wordsworth (1770-1850). Più tardi l’edizione francese, abbellita dalle stupende incisioni di Gustave Doré, avrebbe amplificato enormemente l’impatto emozionale di quest’opera suggestiva, densa di significati allegorici e morali, imprimendola per sempre nella "geografia interiore" della moderna cultura occidentale. Si tratta di un poemetto di 625 versi, suddivso in sette parti e preceduto da un breve sommario: "How a Ship having passed the Line [ossia l’Equatore] was driven by storms to the cold Country towards the South Pole, and how from thence she made her course to the tropical Latitude of the Great Pacific Ocean; and of the strange things that befell; and in what manner the Ancient Mariner came back to his own Country".

Nella prima parte un vecchio marinaio dall’aria alquanto strana, quasi minacciosa, incontra tre giovanotti invitati a una festa di nozze, e ne trattiene uno che, dopo un momento di impazienza e quasi di repulsione, rimane affascinato ad ascoltarne il racconto, docile come un bambino. Il vecchio marinaio gli narra come la sua nave, tanti anni prima, era salpata verso sud con venti favorevoli e, oltrepassata la linea dell’Equatore, era stata afferrata da una tempesta e trascinata vorticosamente in direzione del Polo Sud. La descrizione del desolato continente antartico è tratteggiata con grandiosa, ossessionante drammaticità:

And through the drifts the snowy clifts

did send a dismal sheen:

nor shapes of men nor beasts we ken –

the ice was all between.

The ice was here, the ice was there,

the ice was all around:

it cracked and growled, and roared and howled,

like noises in a swound!

Ghiaccio dappertutto, dunque, e solitudine e desolazione (e si noti la straordinaria efficacia delle onomatopee); allorché un grande albatro giunge attraverso la nebbia e, accolto dai marinai come un segno propizio, accompagna la nave sulla rotta che la riporta lentamente verso nord, in mezzo agli icebergs vaganti alla deriva, in un magico paesaggio notturno illuminato dalla luna. Il giovane convitato, pur avendo sentito iniziare la musica del pranzo nuziale, è ormai come ipnotizzato dal racconto, e chiede al vecchio – che si è interrotto per un momento – il motivo del suo sguardo sconvolto, la natura dei fantasmi che lo perseguitano. Allora questi gli rivela che, con la balestra, egli compì un’azione sacrilega: colpì a morte l’albatro.

Nella seconda parte riprende il racconto. I venti favorevoli continuano a soffiare da sud, ma l’equipaggio è inquieto e rimprovera aspramente al marinaio il misfatto commesso. Il meraviglioso uccello bianco, che veniva perfino a mangiare dalle mani degli uomini, non segue più la nave, ed essi temono che la brezza abbia a cessare. A questo punto accade un fatto imprevisto: la nebbia si dirada; e i marinai, mutata bruscamente opinione, lodano il marinaio per l’azione compiuta, poiché pensano che fosse l’albatro a portare con sé la nebbia gravida di pericoli. In tal modo divengono solidali col crimine commesso, e si attirano inconsapevolmente il castigo divino. Questo, però, non arriva subito; venti favorevoli spingono la nave, attraverso l’Oceano Pacifico, sino all’Equatore (così scrive Coleridge, ma con qualche incongruenza, poiché essa raggiungerà l’Equatore solo nella quinta parte) o, più probabilmente, ai Tropici; quivi giunta, però, il vento cade e le vele pendono inerti. È la bonaccia, più tremenda ancora della tempesta: mentre un sole rosso come sangue pare librarsi immobile nel cielo, esseri viscidi strisciano sul mare sulle loro zampe immonde, mentre fuochi fatui si accendono misteriosamente e l’abisso medesimo del mare sembra sul punto d’imputridire.

Water, water, every where,

and all the boards did shrink;

water, water, every where,

nor any drop to drink.

The very deep did rot: O Christ!

That ever this should be!

Yea, slimy things did crawl with legs

upon the slimy sea.

Assetati, spaventati, disperati, i marinai sono certi che uno Spirito li sta tormentando, mentre segue la nave immerso sotto la superficie; perciò appendono al collo del loro compagno, a mo’ di crocifisso, il corpo dell’albatro ucciso, in un estremo gesto di espiazione.

Nella terza parte, il vecchio marinaio racconta di come vide avvicinarsi qualcosa sullo sconfinato orizzonte marino; e, pur con la gola riarsa dalla sete, gridò che una vela era in vista. Ma, mentre l’oggetto misterioso continuava ad avvicinarsi, un tremendo presentimento s’impadronì dell’equipaggio: com’era possibile che si trattasse di una nave, se non soffiava un alito di vento ed il mare era piatto come una tavola? Infatti non è che lo scheletro di una nave, orribile, sospinto da correnti innaturali. Quando giunge vicino, gli uomini possono vedere due figure spaventose che si profilano sul ponte: due donne scheletriche, che sono Morte e Vita-in-Morte. Le due megere si son giocate ai dadi l’equipaggio, e il vecchio marinaio è vinto dalla seconda; tutti gli altri, dalla prima. Dopo il tramonto, quando la luna si leva in cielo, uno dopo l’altro tutti i compagni del vecchio marinaio stramazzano privi di vita.

One after one, by the star-dogged Moon,

too quick for groan or sigh,

each turned his face with a ghastly pang,

and cursed me with his eye.

Four times fifty living men,

(and I heard nor sigh nor groan)

with heavy thump, a lifeless lump,

they dropped down one by one.

Nella quarta parte il giovane convitato esprime il timore di aver a che fare con uno spettro; ma il vecchio marinaio lo rassicura: non lo colse la morte sul mare in bonaccia. Stremato, angosciato dallo spettacolo tremendo dei compagni morti, egli aveva cercato di levare al Cielo una preghiera, ma non v’era riuscito. E negli occhi dei morti gli sembra di leggere una implacabile maledizione. Sotto il cielo stellato le creature del mare vagano intorno allo scafo della nave, meravigliose nelle loro forme eleganti, nella scia luminosa che si lasciano dietro. Lo spettacolo da esse offerto è così suggestivo che egli si sente invaso l’animo da un impeto di amore verso esse, e le benedice inconsapevolmente. È questo l’evento che mette in movimento l’inizio del suo riscatto e che avvia la rottura del cattivo sortilegio. Grandiosa e affascinante è la descrizione dei serpenti marini che, da creature spaventose e malefiche (quali erano nei racconti dei marinai dell’epoca) la fantasia del Coleridge trasforma in esseri di luce, evanescenti come un sogno e tuttavia bellissimi come esseri di un mondo beatifico); forse, in questo passaggio, ha avuto in mente il celebre Notturno del poeta greco Alcmane: Dormono dei monti le vette e le convalli/ e le balze e le forre/ e le specie animali quante nutre la terra nera/ e le fiere montane e la stirpe delle api/ e i mostri negli abissi del mare cangiante;/ domono/ le specie degli uccelli dalle ampie ali. (3)

Beyond the shadow of the ship,

I watched the water-snakes:

they moved in tracks of shining white,

and when they reared, the elfish light

fell offin hoary flakes.

Within the shadow of the ship

I watched their rich attire:

blue, glossy green, and velvet black,

they coiled and swam; and every track

was a flash of golden fire.

Nella quinta parte la Vergine Maria manda al marinaio il dolce sonno che gli concede una pausa di ristoro. Una pioggia provvidenziale lo risveglia, rinfrescandolo e rianimandolo. Per un attimo, egli crede d’essere divenuto uno spirito senza più corpo. Mentre fra cielo e mare si levano suoni misteriosi e appaiono enigmatiche visioni, si scatena il temporale e l’acqua scorre in abbondanza sul ponte della nave morente, spazzato da un vento gagliardo. Allora si verifica qualcosa d’inconcepibile. I morti si ridestano e ciascuno di essi riprende il suo posto sulla nave, dal nocchiero all’ultimo marinaio; ma si muovono in silenzio, come un equipaggio di fantasmi. Intanto la nave, pur nell’assenza di vento, comincia a muoversi: ad animare i corpi dei marinai è una schiera di spiriti beati, inviata dal santo protettore; che all’alba, esaurito il loro compito pietoso, abbandonano dolcemente le loro dimore provvisorie. Intanto il cielo è tutto un canto di allodole e di ogni altro uccello conosciuto, che si propaga come da abissali distanze e che sembra accompagnare la partenza degli spiriti buoni.

Around, around, flew each sweet sound,

then darted to the Sun;

slowly the sounds came back again,

now mixed, now one by one.

Sometimes a-dropping from the sky

I heard the sky-lark sing;

sometimes all little birds that are,

how they seemed to fill the sea and air

with their sweet jargoning!

Intanto lo Spirito del Polo Sud, che accompagna la nave fin dalla regione dei ghiacci e delle brume, si ferma e con esso anche la nave, giunta ormai all’Equatore. Pur avendo obbedito alla volontà delle schiere celesti, lo Spirito vuole ancora vendetta: la nave è scossa da un fremito e il vecchio marinaio cade sul ponte, svenuto. Prima di perdere i sensi, egli ode le voci di due spiriti dell’aria che lo indicano e ricordano il suo misfatto: l’uccisione dell’albatro, caro allo Spirito del Polo Sud. Quest’ultimo ritorna verso la sua dimora solo dopo che uno dei due esseri riconosce che l’uomo ha già pagato con una dura penitenza, ma che ancora dovrà espiare prima di estinguere il suo debito.

Nella sesta parte vediamo la nave filare verso il nord a velocità folle, mentre il marinaio continua a giacere svenuto. Infine, di notte, si risveglia: la nave ora avanza a una velocità più moderata, e i morti, di nuovo, si rialzano, fissandolo con occhi spaventevoli, scintillanti nella luce lunare. Ed ecco, l’incantesimo è finalmente rotto: un docile vento gli scompiglia i capelli e sospinge ancora la nave, sempre più sicura, verso il paese natìo del vecchio marinaio. Bellissima la descrizione del vento propizio che riporta vita e speranza nel cuore dell’uomo, finalmente purificato dal dolore:

It raised my air, it fanned my cheeck

like a meadow-gale of spring-

It mingled strangely with my fears

yet it felt like a welcoming.

Swiftly, swiftly flew the ship,

yet she sailed softly too:

sweetly, sweetly blewthe breeze-

on me alone it blew.

Allora, mentre appaiono la baia e la chiesa della sua infanzia, il vecchio marinaio vede gli spiriti angelici abbandonare, questa volta per sempre, i corpi dei compagni morti; ma da ogni corpo emerge un corpo di luce, un serafino splendente. Ciascuno saluta con la mano, mentre un senso di pace ineffabile scende nell’animo del marinaio. Ormai si ode un tonfo di remi, perché una scialuppa si sta avvicinando; e si ode la voce del vecchio eremita che da tempo immemorabile viveva nel bosco presso il villaggio.

Nella settima parte l’eremita, stupito, si avvicina alla nave con la sua barca; quando a un tratto, senza alcun preavviso, la nave si capovolge e affonda. Il vecchio marinaio si ritrova a bordo della scialuppa che, poco dopo, tocca terra, mentre il pio eremita continua a pregare, intuendo che quel sopravvissuto reca con sé una storia dolorosa e terribile. Non appena sbarcato, infatti, il marinaio gli chiede di confessarlo e gli racconta tutta la sua storia, dopo di che si sente sollevato. La sua penitenza sarà continuare a vivere, e, di tempo in tempo, essere riafferrato dai fantasmi del passato, che lo sospingono a riprendere il mare, spostandosi da un paese all’altro. Un istinto infallibile gli suggerisce ogni volta di raccontare la sua vicenda a un uomo del posto, e così ha fatto anche stavolta con il giovane convitato. Prima di andarsene, egli confida al suo interlocutore il segreto che ha imparato in tanti anni di penitenza: la vera preghiera è l’amore, l’amore universale; perché Dio, che ha creato ogni cosa – l’uomo e l’animale – tutto ama di eguale amore.

Farewell, farewell! But this I tell

To thee, thou Wedding-Guest!

He prayeth well, who loveth well

both man and bird and beast.

He prayeth best, who loveth best

all things both great and small;

for the dear God who loveth us,

he made and loveth all.

L’opera si chiude con l’immagine del giovane convitato che si allontana, pensoso e quasi stranito, dalla casa del banchetto cui non ha partecipato; si risveglierà il giorno dopo, fatto più triste, ma anche più saggio.

Numerosissime sarebbero le cose da dire a proposito delle interpretazioni simboliche della ballata nel suo complesso e delle sue singole parti; anzi, si può dire che quasi ogni verso sia intessuto di richiami filosofici, religiosi e mistici, oltre che letterari. Ciò richiederebbe uno studio apposito, e non è questo lo scopo che ci eravamo prefissi; bensì quello di delineare, velocemente, la risonanza letteraria delle navigazioni e scoperte nei mari polari. Basterà pertanto, in questa sede, accennare che il vecchio marinaio, probabilmente, simboleggia colui che si è spinto lontano alla ricerca della verità, ed è tornato (a differenza dell’Ulisse dantesco) per farne partecipi i suoi simili. L’avventura antartica da cui torna profondamente trasformato è frutto dell’ansia metafisica che, secondo la concezione romantica, urge in fondo all’animo umano; ma non si tratta (come per l’Ulisse dantesco) di uno slancio puramente intellettuale, a divenir del mondo esperto, / e delli vizi umani e del valore (4); bensì di tipo spirituale: che nasce dal cuore e non dalla mente. Si è detto che Coleridge è il poeta del soprannaturale (mentre Wordsworth, sempre nelle Lyrical Ballads, è il poeta della realtà naturale); e questo, se si pensa alla gran quantità di esseri angelici e demoniaci, di fantastiche creature marine, di morti che tornano a vivere d’un vita effimera e di navi che avanzano sul mare senza un alito di vento, certamente appare giustificato. Tuttavia non si dovrebbe dimenticare che, per un seguace di Platone e, più ancora, di Berkeley (il Berkeley della Siris piuttosto che dei Dialoghi tra Hylas e Philonous, ossia più mistico e platonizzante che razionalista ed empirista), la realtà fisica ed esteriore non è che pura apparenza, ombra di cose vane; e che la realtà vera è quella che sta al di là dei sensi. In questa notevole intuizione filosofica ed estetica (che fa di Coleridge non solo l’annunciatore del Romanticismo, ma anche il precursore delle poetiche simboliste di fine Ottocento e del primo Novecento) risiede il fascino arcano che emana dalla Rime of the Ancient Mariner, che si sottrae tenacemente a ogni tentativo d’interpretazione esaustiva. Nella particolare prospettiva di Coleridge, infatti, il soprannaturale non risiede in una dimensione straordinaria dell’esistenza, ma tutta la realtà e tutto il mondo sono profondamente, intimamente intessuti di soprannaturale. Di più: il mondo naturale non è che apparenza; e quello che chiamiamo soprannaturale è, semplicemente, la realtà vera: chi comprende questo, non potrà mai più essere quello che era prima. In questo senso, La ballata del vecchio marinaio è anche una storia di formazione: ma in un senso ben diverso da quello – tutto esteriore e materiale – del Robinson Crusoe di Daniel Defoe, tipico prodotto del "secolo dei lumi". Il vecchio marinaio, al termine del suo viaggio nelle regioni antartiche e nelle vastità del Pacifico australe, è divenuto un uomo completamente diverso da quello che era partito; ma non perché abbia imparato nuove cose sulla propria natura o sulla natura del mondo, bensì perché è rimasto folgorato dalla profondità abissale del mistero che si cela dietro l’apparenza rassicurante delle cose e di noi stessi. Ha gettato uno sguardo sull’abisso; e, come osserva acutamente Friedrich Nietzsche, "chi lotta con i mostri deve guardarsi dal non diventare con ciò un mostro. E se guarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso guarderà in te." (5)

b) EDGAR ALLAN POE E "LE AVVENTURE DI ARTHUR GORDON PYM".

Edgar Allan Poe nasce a Boston nel 1809 e muore a Baltimora nel 1849. La sua breve e infelice esistenza è stata caratterizzata da tre successivi, laceranti distacchi da altrettante figure femminili per lui altamente significative: la madre, morta quand’egli aveva appena tre anni (il padre li aveva entrambi abbandonati), per cui fu accolto in casa dai coniugi Allan; la signora Frances Allan, quand’egli ne aveva venti, e che non poté neanche giungere in tempo per salutare l’ultima volta prima delle esequie; e la moglie-bambina, quella Virginia Clemm (sposata appena tredicenne), che era sua cugina prima – in quanto figlia della zia paterna Maria Clemm – e che morirà, dopo una lunga agonia, consumata dalla tubercolosi. Come scrittore si è cimentato in molti ambiti della letteratura. In quello della teoria e della critica letteraria ha scritto Fondamento del verso, 1843; La filosofia della composizione, 1846; Marginalia ed Eureka, 1849; Il principio poetico, pubblicato postumo, nel 1850. Tutte queste opere sono state studiate e tradotte in Europa, specialmente da Charles Baudelaire; in esse Poe prende posizione contro la concezione romantica della spontaneità dell’arte (sintetizzata dal pittore tedesco Caspar David Friedrich nella formula: "L’unica vera sporgente dell’arte è il nostro cuore") e a favore di una concezione secondo la quale l’opera letteraria può essere creata come un sapiente meccanismo, montata e smontata pezzo a pezzo. Pertanto se egli si situa, per motivi cronologici, nel contesto del romanticismo, la sua poetica nondimeno si colloca piuttosto alle sorgenti del simbolismo e precorre la grande stagione decandetistica, su su fino a Borgés e a quegli scrittori che tendono a vedere nella scrittura un ambito totalmente autonomo, che vive di leggi proprie, separate dalla vita quotidiana. Nella poesia si è cimentato con la raccolta giovanile Tamerlano e altre poesie, del 1827; poi con Al Aaraaf, del 1829; con Poesie del 1831; e infine con Il corvo e altre poesie, del 1845: quest’ultima è stata la sua definitiva rivelazione e gli ha procurato (a soli quattro anni dalla morte) una certa, tardiva celebrità.

Ne il Corvo (The Raven) il poeta, immerso nello studio ove cerca di soffocare il dolore per la perdita della donna amata, ode un fruscìo a tarda notte: apre la porta, ma non c’è nessuno; poi sente ripetersi il rumore alla finestra: la apre, e un corvo entra e si posa su un busto di Minerva, fissandolo con occhi scintillanti e quasi demoniaci. Il poeta lo interroga per dare sollievo alla propria pena, e gli chiede se riuscirà mai ad attenuare il dolore che lo trafigge, ma sempre l’uccello risponde: "Mai più" ("Nevermore"). "’O profeta, figlio del maligno – dissi – uccello

o demone,

che ti mandi il Tentatore o ti porti la tempesta,

solitario eppure indomito sopra questa desolata

incantata terra, in questa casa orrida,

ti supplico,

di’: c’è un balsamo in Galaad? Dillo, avanti, te ne supplico!’

Ed il Corvo qui: ‘Mai più!’

O profeta – dissi – figlio del maligno, uccello

o demone,

per il Cielo sopra noi, per il Dio di tutti e due,

di’ a quest’anima angosciata se nel Paradiso mai

rivedrà quella fanciulla che Lenore chiamano

gli angeli,

la fanciulla pura e splendida che Lenore

chiamano gli angeli!’

Ed il Corvo qui: ‘Mai più!’.

‘E sia questa tua sentenza un addio fra noi’ alzandomi

gridai ‘torna alle plutonie rive oscure e alle tempeste!

Non lasciar neanche una piuma a ricordo de tuo inganno!

Voglio stare in solitudine, lascia il busto

sulla porta!’

Disse il Corvo qui: ‘Mai più!’

Ma quel corvo non volò, ed ancora, ancora posa

sopra il busto di Minerva, sulla porta

della stanza,

ed ha gli occhi come quelli di un diavolo

che sogna,

e la luce ne proietta l’ombra sopra il pavimento.

la mia anima dall’ombra mossa sopra il

pavimento

Non si leverà – mai più! [Trad. di A. Quattrone]. (6)

Anche per la "scoperta" della poesia di Poe è stata determinante la mediazione della cultura europea, e di quella francese in modo particolare: tradotto da Mallarmé, egli è giunto nel "salotto buono" della cultura americana solo molto più tardi, dopo la prematura scomparsa. Per quasi tutta la sua vita egli era stato uno spostato, un emarginato, un giullare, ignorato dai critici letterari imbevuti di puritanesimo e di "sano" pragmatismo; eppure aveva saputo interpretare più di chiunque altro gli incubi e le nevrosi dei suoi compatrioti, proprio in quanto essi li avevano negati o rimossi. La "scoperta" di Poe da parte degli Europei, d’altronde, non significa affatto – come pure è stato detto – che Poe sia il più "europeo" degli scrittori americani: anzi, è americanissimo (e in Europa, in Scozia per la precisione, non visse che pochi anni, da bambino, al seguito degli Allan, però in collegio); ma, per una serie di ragioni storico-culturali, la letteratura europea era più matura per riceverne e comAnche per la "scoperta" della poesia di Poe è stata determinante la mediazione della cultura europea, e di quella francese in modo particolare: tradotto da Mallarmé, egli è giunto nel "salotto buono" della cultura americana solo molto più tardi, dopo la prematura scomparsa. Per quasi tutta la sua vita egli era stato uno spostato, un emarginato, un giullare, ignorato dai critici letterari imbevuti di puritanesimo e di "sano" pragmatismo; eppure aveva saputo interpretare più di chiunque altro gli incubi e le nevrosi dei suoi compatrioti, proprio in quanto essi li avevano negati o rimossi. La "scoperta" di Poe da parte degli Europei, d’altronde, non significa affatto – come pure è stato detto – che Poe sia il più "europeo" degli scrittori americani: anzi, è americanissimo (e in Europa, in Scozia per la precisione, non visse che pochi anni, da bambino, al seguito degli Allan, però in collegio); ma, per una serie di ragioni storico-culturali, la letteratura europea era più matura per riceverne e comprenderne il messaggio. Poe, inoltre, è stato un giornalista molto dotato; ha collaborato con giornali e riviste quali il Courier, il Sothern Literary Messanger di Richmond, il Gift ed il Graham’s Magazine: portando quest’ultimo, tanto per fare un esempio delle sue eccezionali capacità, da una tiratura di 5.000 copie ad una di 40.000, dunque otto volte superiore.

Si è poi cimentato nel romanzo e nel racconto, ed è questo l’ambito dove ha lasciato l’orma più durevole, tanto che nessuno scrittore del terrore, dopo di lui – né americano, né europeo – ha potuto evitare di fare i conti con lui, di prendere posizione rispetto alla sua figura gigantesca. Come romanziere ha scritto Le avventure di Arthur Gordon Pym, pubblicato nel 1838: resoconto di una navigazione antartica permeato d’inquietudine, di orrore e di mistero, che risente del clima di entuasiamo per le prime scoperte antartiche da parte di Russi, Britannici, Francesi e Statunitensi. Il romanzo rimane volutamente interrotto e ha stuzzicato a tal punto la fantasia delle generazioni successive, che Jules Verne volle scriverne il seguito con La sfinge dei ghiacci. Verso la fine dell’opera, infatti, il protagonista e un suo compagno d’avventura, che una inspiegabile corrente marina calda ha portato oltre la barriera dei ghiacci galleggianti, verso le acque libere del Polo Sud, intravvedono, in mezzo al volo d’innumerevoli uccelli bianchi, una gigantesca figura umana che si leva all’orizzonte, d’un candore innaturale, e si staglia torreggiante su di loro.

"5 marzo. – Il vento era completamente cessato, ma noi continuavamo a correre lo stesso verso il sud, trascinati da una corrente irresistibile. Sarebbe stato naturale che provassimo dell’apprensione per la piega che prendevano le cose, invece niente. […]

"6 mazo.- Il vapore si era alzato di parecchi gradi e andava a poco a poco perdendo la sua tinta grigiastra. L’acqua era calda più che mai, e ancora più lattiginosa di prima. Ci fu una violenta agitazione del mare proprio vicinissimo a noi, accompagnata, come al solito, da uno strano balenio del vapore e da una momentanea frattura lungo la base di esso. […]

"9 marzo. – La strana sostanza come di cenere continuava a pioverci attorno. La barriera di vapore era salita sull’orizzonte sud a un’altezza prodigiosa, e cominciava ad assumere una forma distinta. Io non sapevo paragonarla altro che a una immane cateratta la quale precipitasse silenziosamente in mare dall’alto di qualche favolosa montagna perduta nel cielo. La gigantesca cortina occupava l’orizzonte in tutta la sua estensione. Da essa non veniva alcun rumore.

"21 marzo. – Una funebre oscurità aleggiava su di noi ma dai lattiginosi recessi dell’oceano scaturiva un fulgore che si riverberava sui fianchi del battello. Eravamo quasi soffocati dal tempestare della cenere bianca che si accumulava su di noi e riempiva l’imbarcazione, mentre nell’acqua si scioglieva. La sommità della cateratta si perdeva nella oscurità della distanza. Nel frattempo risultava evidente che correvamo diritto su di essa ad una impressionante velocità. A tratti, su quella cortina sterminata, si aprivano larghe fenditure, che però subito si richiudevano, attraverso le quali, dal caos di indistinte forme vaganti che si agitavano al d ilà, scaturivano possenti ma silenziose correnti d’aria che sconvolgevano, nel loro turbine, l’oceano infiammato.

"22 marzo. – L’oscurità si era fatta più intensa e solo il luminoso riflettersi delle acque della bianca cortina tesa dinanzi a noi la rischiarava ormai. Una moltitudine di uccelli giganteschi, di un livido color bianco, si alzava a volo incessantemente dietro a noi per battere, appena ci vedevano, in ritirata gridando il sempiterno Tekeli-li. Nu-Nu [un indigeno della misteriosa isola di Tsalal che i due avevano fatto prigioniero] ebbe, a quelle grida un movimento sul fondo del battello, e, come noi lo toccammo, scoprimmo che aveva reso l’ultimo respiro. Fu allora che la nostra imbarcazione si precipitò nella morsa della cateratta dove si era spalancato un abisso per riceverci. Ma ecco sorgere sul nostro cammino una figura umana dal volto velato, di proporzioni assai più grandi che ogni altro abitatore della terra. E il colore della sua pelle era il bianco perfetto della neve." [trad. di Elio Vittorini]. (7)

Dicevamo della lucidità, della "scientificità"della poetica del Nostro: ebbene, coloro che si son presi la briga di riportare sulla carta geografica la rotta della nave di Gordon Pym attraverso gli oceani, hanno avuto una sorpresa: congiungendone i punti, appariva nettamente la sagoma di un grande uccello con le ali spiegate – come i misteriosi uccelli bianchi che gridano il loro incessante Tekeli-li. Un caso, una semplice coincidenza? Ma Poe amava moltissimo i giochi di decrittazione, gli enigmi logici e linguistici: sempre nel Gordon Pym, il protagonista scopre, incisi sulla roccia dell’isola sconosciuta, dei caratteri apparentemente senza significato, ma che si riveleranno poi parole di antico egiziano, di etiopico, di arabo le quali accennano al segreto inaudito che si annida nella regione del Polo antartico. E tale passione per le sciarade, per i rompicapi, per l’applicazione pratica di una logica rigorosa di tipo matematico si rivela pienamente nel filone dei racconti polizieschi, particolarmente ne I delitti della rue Morgue, ne Lo scarabeo d’oro, ne La lettera rubata. Ricordi, forse, degli studi fatti a West Point, all’epoca del breve e fallimentare tentativo di farsi una carriera nell’esercito.

Ha scritto uno studioso italiano di letteratura anglo-americana, il Somma, che "non potendo appagarsi di verità sensibili, Poe evade mano a mano nell’ultrasensibile, adotta i metodi oscuri del formulario allegorico e canta in chiave, scopribile solo agli iniziati. L’evasione nel mito non si attua d’un colpo, ma quando vi arriva, lo spirito è completamente distaccato da ogni realtà terrena e abbraccia la metafisica del bello in senso puro. Pochi cervelli possono, nella storia del pensiero, reggere a questo sforzo, e se Dante supera la prova, la ragione risiede nella bruciante ondata delle passioni che sempre lo sostennero, per ogni eventualità. Al nostro venne a mancare questa pedana salvatrice e la sua mente vacillò nel vuoto, nell’immensità spaziale dell’intuizione del veggente che non ha il conforto del binario logico, caro ai filosofi, per resistere allo sforzo. […]

"Come dopo tanto soffrire, il moribondo s’acqueta ormai baciato dal soffio estremo, così Poe, nella prescienza della morte, nel suo ultimo anno di vita, il 1849, rasserena il suo tormento in una estrema ricerca dell’ideale, perduto nelle brume dell’impossibile. Al rancore succede la rassegnazione. Quel che i lettori del finale del Gordon Pym intravedono in un fulgido barlume di chiarezza profetica, ora possono ritrovarlo nell’Eldorado che non esitiamo a giudicare il suo testamento poetico e che è ricco, nonostante la superficiale musicalità del ritmo, di una melanconia già distaccata e solenne, filtrata al crogiolo di un estremo raffinamento d’arte. […]

"Oltre l’orizzonte, l’anima si appaga dell’ultima Tule d’ogni estrema esperienza e, forse, si concilia in quel diuturno riposo che le fu negato sulla terra. I ribelli piegano il capo dinanzi al miraggio della fine e sono davvero gli ospiti più graditi nei sentieri dell’immortale." (8)

c) HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT E "LE MONTAGNE DELLA FOLLIA".

Esistenza strana, crepuscolare, anzi notturna quella dello scrittore Howard Phillips Lovecraft, nato a Providence, nel Rhode Island, nel 1890 e morto presso il Jane Brown Memorial Hospital della sua città natale nel marzo del 1937, per un tumore all’intestino in fase avanzata, pochi giorn dopo il ricovero d’urgenza. Due genitori non precisamente equilibrati, visto che il padre, Winfield Scott (rappresentante di commercio), dopo una serie di gravi disturbi psichici, viene definitivamente interdetto e ricoverato in manicomio quando il bimbo ha soli tre anni (morirà poi nel 1898, senza mai più riacquistare la ragione); e che la madre, Sarah Susan Phillips, lo soffoca con le sue cure ansiose ed eccessive. Trasferitosi nella casa dei nonni, il bambino vi frequenta la ricca biblioteca e si forma, da autodidatta, una profonda ed eclettica cultura che spazia dalla letteratura e dalla filosofia alle scienze, specialmente chimica ed astronomia, tanto da allestire un proprio laboratorio chimico e da redigere dei bollettini scientifici, nel tempo stesso in cui si cimenta con i primi racconti e con le prime composizioni poetiche. Ancora più infelice di Leopardi, forse anche a causa dello studio matto e disperatissimo comincia a soffrire di esaurimenti nervosi dall’età di soli dieci anni; a quindici anni batte la testa in seguito a una caduta e, da quel momento, comincia a soffirire di terribili mal di testa, che lo perseguiteranno tutta la vita. Come aspirante scrittore, il suo modello è (come per l’altro grande scrittore americano dell’inquietudine, Ambrose Bierce) il Settecento inglese: di quel periodo sono gli autori preferiti che, sotto la guida del nonno, "scopre" nella biblioteca di casa Phillips; e da essi acquisirà quel caratteristico stile arcaicizzante (più marcato nell’epistolario, ma rintracciabile anche nei racconti e nei romanzi della maturità) sul quale egli stesso, talvolta, scherzava (possediamo, ad es., un ironico autoritratto che lo raffigura immerso nelle carte, in costume settecentesco e con tanto di parrucca incipriata). Dall’età di sedici anni collabora regolarmente con importanti riviste di astronomia, facendosi notare per la sua preparazione e per la sua acutezza di studioso (sostiene, ad es., l’esistenza del pianeta Plutone, intuito da alcuni astronomi e in particolare da Percival Lowell, ma non osservato direttamente fino al 1930); scrive anche un manuale di chimica inorganica, che andrà perduto; e sembra collocarsi sul versante rigidamente empirista e positivista della ricerca scientifica, prendendo più volte a bersaglio la "ciarlataneria" delle previsioni astrologiche. Dai diciotto anni cessa di frequentare il liceo, più che mai imprigionato dalla madre (per influsso della quale brucia tutti i suoi racconti giovanili) sotto una campana di vetro. In compenso, incomincia a effettuare gite ed escursioni in luoghi remoti e isolati della Nuova Inghilterra, alla ricerca di antichi insediamenti e di "tracce" di perdute, misteriose civiltà che faranno da sfondo a molte sue opere successive. La sua formazione culturale, pertanto, risente di un duplice e contrastante influsso: quello scientista e materialista, che lo porta a concepire l’idea di un universo meccanicistico, dominato da leggi matematiche e totalmente chiuso all’idea del trascendente; e una vena sognatrice, fantastica, "romantica", che lo spinge a scrivere versi (per qualche anno riterrà quella la sua vera vocazione di scrittore) e a vivere di sogni e fantasie circa un mondo lontano nel tempo (a cominciare dall’amato Settecento inglese) e nello spazio (immaginando una realtà di universi paralleli che talvolta entrano casualmente in contatto con il nostro, e popolati da un vero e proprio Pantheon di divinità mostruose e minacciose, sempre pronte ad invadere la nostra dimensione. Queste divinità, anzi, avevano dominato la Terra in tempi immemorabili (in illo tempore, direbbe lo storico delle religioni Mircea Eliade, ossia in un tempo mitico, preistorico nel senso di anteriore alla storia a noi nota) ed ora sono sul punto di ritornarvi, evocati mediante sacrileghi riti da una parte dell’umanità, quella formata dai discendenti di innominabili incroci che avvennero fra umani ed extraterrestri. E qui il pensiero non può non tornare a quel misterioso e inquietante passo dell’Antico Testamento (Genesi, VI, 1-4): "Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla Terra e nacquero loro figli, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero… C’erano i giganti sulla terra a quel tempo – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi."

Nel 1913 viene notato dal direttore di una rivista amatoriale di narrativa ed entra così nel circiuito letterario, anche se ci vorranno ancora dieci anni perché incominci veramente a "sfondare". Nel 1923, infatti, pubblica il racconto Dagon sul mensile dell’orrido Weird Tales, che poco dopo gli offrirà addirittura la direzione; ma Lovecraft rifiuterà, non volendo trasferirsi a Chicago, ove ha sede la rivista. Molti suoi racconti vengono pubblicati a nome di facoltosi e ambiziosi dilettanti (tra i quali il famoso prestigiatore e illusionista Harry Houdini): infatti dal 1911, a causa di un tracollo finanziario, la famiglia di Lovecraft è ridotta in povertà, e lo scrittore non uscirà mai più dalle strettezze economiche. Scrivere racconti che altri firmeranno è un modo di sopravvivere; questo, però, dopo la sua morte darà luogo a una grave difficoltà filologica: quella di identificare i racconti da lui interamente scritti, ma non firmati; quelli scritti a quattro mani con altri autori; quelli, infine, ai quali egli ha fornito lo spunto, la trama, alcuni elementi narrativi; e di separarli da un gran numero di racconti spuri che, come è accaduto anche ad autori altrettanto schivi ma assai più grandi di lui (si pensi a Virgilio, ad es., e alla questione dell’Appendix vergiliana) subito incominciarono a girare con la sua firma, ma che in realtà nulla hanno a che fare con il "solitario di Providence").

Intanto, Lovecraft fa il suo primo e unico tentativo di crearsi un’esistenza indipendente. Mortagli la madre nel 1921, era rimasto a vivere con le zie materne. Nel corso di una riunione di scrittori, aveva conosciuto una giovane ebrea di origine russa, vedova e di sette anni più grande di lui; e, nel 1924, l’aveva sposata, trasferendosi nell’appartamento di lei a New York, nel quartiere di Brooklyn. Tentativo piuttosto goffo e di breve durata, reso ancor più difficile dal trasferimento nella megalopoli caotica e tentacolare (che tanto colpirà il Garcìa Lorca di Poeta en Nueva York) e dal distacco dalla sua amatissima Providence e dal "profumo" arcaico del New England. In capo a due anni, Lovecraft lascia New York e la moglie e se ne torna a Providence, trasferendosi in un piccolo appartamento ove vivrà ritiratissimo – uscendo, pare, quasi solo nelle ore notturne – e accudito dalla zia Lilian che, per amor suo, si è trasferita al piano di sopra. Tormentato da angosce, nevrosi, insicurezze patologiche, vive più che mai una vita da dostoevskiano sottosuolo, creatura allucinata e lunare, immerso in un clima da incubo da lui stesso evocato nei suoi terrificanti racconti..

Nel 1927 ha già scritto due romanzi brevi, che però non verranno pubblicati se non dopo la sua morte: La ricerca dello sconosciuto Kadath e Il caso di Charles Dexter Ward, cui seguirà, nel 1930, Colui che sussurrava nelle tenebre e, nel 1931, Le montagne della follia (che viene rifiutato dal nuovo direttore di Weird Tales, Farnsworth Wright), e via via una serie di racconti in cui sviluppa il cosiddetto ciclo di Chtulhu, ossia la saga degli dèi mostruosi cacciati nello spazio, e che dallo spazio cercano di tornare sulla Terra, restaurando fra gli umani la loro abominevole religione – fatta anche, inutile dirlo, di sacrifici umani e di magia nera.

La sua vita, intanto, è sempre più solitaria e infelice. Dopo la morte della zia Lilian, nel 1932, non gli resta che la zia Annie; cerca, in compenso, di coltivare le relazioni umane attraverso un ricchissimo epistolario, in cui spende le sue magre risorse economiche. Si concede pure qualche viaggio (mai in Europa, però, anzi mai fuori del Nord America), tra l’altro alla vecchia città francese di Québec, nel Canada, da cui tornerà con una relazione di quasi 150 pagine; e, più tardi, in Florida, ove soggiorna per circa due mesi, ospite di un amico. Nel 1933 si trasferisce, con la zia Annie, in un mini-appartamento da cui non si muoverà più; come scrittore si sente inaridito, non scrive quasi più nulla, prostrato anche dai giudizi negativi e dalle incomprensioni che accentuano la sua morbosa insicurezza e che lo fanno dubitare di sé. Nel 1935 un suo nuovo romanzo breve, L’ombra venuta dal tempo, è ancora rifiutato dal direttore di Weird Tales; l’amico e corrispondente Robert Erwin Howard (autore, fra l’altro, del ciclo di Conan il barbaro) si suicida nel 1936, in un momento di scoraggiamento: Lovecraft è sempre più solo e sempre più allucinato. Simile al protagonista di uno dei suoi migliori racconti, I sogni nella casa stregata, vive da tempo in una realtà altra, popolata di immagini oniriche estremamente vivide, come se fosse scivolato in un’altra dimensione popolata di oscure presenze, di malefici incantesimi, di innominabili entità, di ciclopiche architetture dalle geometrie non euclidee, di infausti presentimenti. Vive nell’incubo del ritorno imminente degli déi mostruosi provenienti dallo spazio, interpretando – forse – come altrettanti, sinistri indizi una serie di coincidenze, di oscuri fatti di cronaca, di inspiegabili fenomeni fisici che proprio in quegli anni un oscuro studioso dell’insolito suo connazionale, Charles Fort, raccoglie pazientemente in migliaia e migliaia di schede corredate da articoli di giornale, ipotizzando che noi viviamo come trote in un vasca da cui, di tanto in tanto, esseri giganteschi e spaventosi prelevano qualche campione per i loro incomprensibili scopi. La morte lo coglie, dopo una malattia fulminante, il 15 marzo 1937, mentre il mondo si avvia verso l’apocalisse della seconda guerra mondiale e dell’olocausto nucleare.

Dopo la morte di Lovecraft vi è stata, graduale ma sicura, una vera e propria renaissance della sua opera, sino a giungere, negli ultimi anni, a forme di vero e proprio "culto" da parte di un pubblico sempre più attratto dalle tematiche dell’inquietudine e del terrore. Lovecraf, in verità, non è uno scrittore del terrore nel senso tradizionale della parola: è uno scrittore originalissimo, che ha praticamente creato un nuovo genere letterario: lil "gotico fantastico", utilizzando la fantascienza, la fantasy e il gotico vero e proprio. La sua opera, che utilizza le vaste conoscenze scientifiche dell’auore non solo in fatto di astronomia e scienze naturali, ma anche di mitologia, letteratura, storia delle civiltà antiche, forma un corpus unitario in cui ricorrono temi e situazioni correlati e, spesso, personaggi e perfino libri "maledetti".

Tra questi ultimi, il più celebre è senza dubbio il Necronomicon, un misterioso grimorio (o libro di evocazioni demoniache), scritto nel VII secolo da un poeta arabo pazzo dello Yemen, Abdul Alhazred, e tradotto più tardi in Europa, ma del quale esisterebbero pochissime copie gelosamente custodite; una delle quali presso la Biblioteca dell’Università Miskatonic Arkham, l’una e l’altra – la città e l’ateneo: come il libro, del resto – create dalla fervida fantasia dell’autore. Si tratta di uno dei più celebri pseudobiblia di tutti i tempi, come è provato dalle innumerevoli richieste che biblioteche e librerie si son viste arrivare, negli ultimi decenni, da parte di cultori di occultismo e lettori di Lovecraft, convinti della sua reale esistenza. Lo stesso scrittore di Providence, in una lettera a un amico, aveva ammesso di esserselo completamente inventato, così come tutti gli altri elementi del "ciclo di Ctulhu" (che prende il nome da una delle orripilanti divinità del Pantheon blasfemo e gorgogliante; accanto a Yog-Sothot, Shub-Nigurrat, Nyarlathotep e numerose altre). Egli, infatti, affermava di credere in un rigoroso materialismo e in una sorta di determinismo a base scientifica, e di essersi dedicato all’evocazione dell’orrore soprannaturale solo per evasione: ma evasione da cosa, visto che non faceva che dare corpo e consistenza ai fantasmi che lo perseguitavano nella sua vita interiore fin da bambino? Casomai, si direbbe, per truffarsi in quegli orrori e raddoppiare, masochisticamente, le sue sofferenze e le sue angosce esistenziali.

Ma è proprio vero che il Necronomicon è frutto dell’inventiva di Lovecraft? C’è chi ne dubita; tra gli altri, due studiosi del mistero del calibro di Luois Sprague de Camp e Colin Wilson. Il primo ha condotto delle ricerche lo hanno portato a entrare in possesso, in Irak, di un antico manoscritto che porebbe anche essere la versione originale del Necronomicon; il secondo, dopo approfonditi studi, è giunto all’ipotesi che il padre di Lovecraft fosse un adepto della Massoneria egizia (quella fondata da Cagliostro e interamente basata sull’occultismo) e che, nella biblioteca di lui, il libro maledetto esistesse realmente, ossessionando la mente del figlio. Infine si può ricordare che, secondo lo studioso americano L. Bryant, il Necronomicon altro non sarebbe che una deformazione del Picatrix, un testo realmente esistente di alchimia e medicina (e non di necromanzia), che fu tradotto in latino da Pico della Mirandola. (9)

Le montagne della follia (At the Mountains of Madness) è un romanzo breve di Lovecraft, scritto nel 1931 ma pubblicato solo nel 1936 (un anno prima della morte), in tre puntate, sulla rivista Astounding e da molti critici letterari è considerato una delle cose migliori del nostro autore. La forma narrativa è quella del resoconto documentaristico: un geologo, organizzatore di un viaggio d’esplorazione nel cuore dell’Antartide per conto della Miskatonic University di Arkham, racconta le drammatiche e sventurate vicende che la contrassegnarono. Nel corso delle trivellazioni nel ghiaccio di una regione di altissime montagne, ma stranamente libera dai ghiacci, gli scienziati scoprono in una caverna un deposito di ossa d’animali del Cretaceo, dell’Eocene e di altre epoche, specialmente di dinosauri di vari generi e specie. Ed ecco, improvvisamente, la scoperta sconvolgente.

"22,15. Scoperta importante. Orrenford e Watkins, lavorando sottoterra alle 21,45 con le lampade, hanno trovato un fossile mostruoso dalla forma cilindrica, di natura del tutto sconosciuta, probabilmente un vegetale o un esemplare marino ignoto, di forma radiale, e sviluppatosi in modo abnorme. Il tessuto evidentemente ha resistito per la presenza di sali minerali.

" È resistente come il cuoio, ma conserva un’elasticità sorprendente in certi punti. Appaiono segni di lacerazioni alle estremità e ai lati. Da un capo all’altro è lungo più di un metro e ottanta, e misura circa un metro di diametro al centro, diminuendo poi gradatamente fino a trentacinque centimetri per ciascuna punta. Sembra una botte con cinque spigoli sporgenti al posto delle doghe. Al centro di questi spigoli, compaiono delle appendici laterali simili a degli steli piuttosto sottili. Nelle scanalature tra gli spigoli vi sono delle strane escrescenze: creste oppure ali che si ripiegano e si estendono a ventaglio. Sono tutte molto danneggiate all’infuori di una che mostra un’ala larga circa due metri. L’esemplare ricorda uno di quei mostri dei miti primitivi, soprattutto i fantastici Esseri Antichi del Necronomicon. (10)

Poco dopo, altri esseri vengono rinvenuti, esseri dai corpi radiali e tentacolari, non classificabili in alcuna branca del regno animale o vegetale ma simili, piuttosto, ai deliranti racconti di miti antichissimi, incentrati sulle blasfeme divinità venute dallo spazio quando la Terra era ancor giovane. Il gruppo di biologi che ha fatto il rinvenimento si trova in una piccola base provvisoria e il suo capo, dottor Lake, comunica la straordinaria scoperta al capo della spedizione (che è anche l’io narrante del romanzo), il quale si trova nella base principale, presso lo Stretto di McMurdo. Riferisce che i cani da slitta mostrano una grandissima ripugnanza verso quei corpi misteriosi e vorrebbero sbranarli; che, dalle prime autopsie eseguite su di essi, non è possibile dedurre nulla di certo, se non che possiedono qualcosa di simile a un vero e proprio sistema nervoso; infine che si è levato un vento tremendo, che costringe tutti a rifugiarsi al coperto. Poi il collegamento s’interrompe e non si riesce più a ristabilirlo. Allora il protagonista decide di recarsi personalmente sul posto, in aereo, con una seconda squadra. Una delle pagine più affascinanti del romanzo è quella in cui Lovecraft descrive l’arrivo degli uomini nella regione dei misteriosi ritrovamenti.

"Il marinaio Larsen fu il primo a scorgere la linea frastagliata delle cime dei monti antartici, simili ai cappelli a cono degli stregoni, e le sue grida fecero accorrere ognuno di noi presso i finestrini del grande aeroplano. Malgrado l’alta velocità, le vette si avvicinavano lentamente, per cui ci rendemmo conto che dovevano essere infnitamente lontane, e visibili solo a causa della loro altezza oltre la norma.

"A poco a poco, comunque, si elevarono minacciose nel cielo a occidente, permettendoci di distinguere le diverse vette nude, brulle e nerastre, e di cogliere la strana sensazione fantastica che quei monti suscitavano nella luce rossastra del sole antartico contro lo sfondo delle nuvole iridescenti di ghiaccio e polvere. Nell’intero scenario si avvertiva un’impronta persistente di mistero soprannaturale e di cose nascoste.

"Sembrava che quelle imponenti vette da incubo fossero i piloni di una porta spaventosa che conducesse nella sfera proibita del sogno e nel vortice del tempo, dello spazio e delle altre dimensioni. Non potevo fare a meno di pensare che quelle cime fossero perverse, vere montagne della follia, il cui opposto versante si affacciava di fronte all’ultimo abisso maledetto. Lo sfondo nuvoloso in fermento e quasi luminoso, insinuava l’ineffabile immagine di un altrove incerto ed etereo molto più vicino al vuoto cosmico che alla terra, e forniva un ammonimento spaventoso della distanza assoluta, dell’isolamento, della desolazione e della morte eterna di quel mondo australe smisurato e solitario.

"Fu il giovane Danforth ad attirare la nostra attenzione su alcune formazioni regolari e curiose delle montagne più alte che svettavano all’orizzonte, regolarità come i frammenti dalla perfetta forma cubica che Lake aveva menzionato nei suoi messaggi, e che davvero giustificavano il paragone con le suggestioni da sogno delle rovine di templi primordiali, situati sulla cima delle montagne asiatiche coperte di nuvole, disegnati così sottilmente e stranamente da Roerich.

"C’era davvero qualcosa delle idee ossessionanti di Roerich in quel continente ultraterreno delimitato da quelle montagne misteriose. Avevo provato quella sensazione in ottobre, quando avevamo intravisto per la prima volta la Terra Victoria, ed ora avertivo ancora la stessa sensazione. Mi sentivo anche assalire dalla preoccupante consapevolezza di una mitica rassomiglianza con i miti ancestrali, e di come quel regno letale corrispondesse all’altopiano malvagiamente famoso di Leng citato in manoscritti dalla sconvolgente antichità.

"I mitologi hanno collocato l’Altipiano di Leng nell’Asia Centrale, ma la memoria razziale dell’uomo, o dei suoi predecessori, è lunga, ed è realmente possibile che certe storie ci siano giunte da terre, montagne e templi dell’orrore, situati al di là dell’Asia e di qualsiasi altro mondo umano che noi conosciamo. Alcuni mitologi e occultisti hanno temerariamente ipotizzato un’origine pleistocenica per i Manoscritti Pnakotici, ed hanno affermato che i devoti di Tsathoggua erano degli alieni rispetto al genere umano, come lo stesso Tsathoggua. Leng, dovunque lo si potesse situare nel tempo e nello spazio, non era una regione di cui mi volevo occupare, né riuscivo ad apprezzare la vicinanza di un mondo che aveva generato tali mostruosità ambigue, come quelle menzionate da Lake. In quel momento mi rammaricai di aver letto il detestato Necronomicon, e di averne discusso a lungo con Wilmarth, l’esperto di folklore della nostra Università, la cui erudizione era così inquietantemente vasta.

"Quello stato d’animo servì indubbiamente ad esasperare la mia reazione allo strano miraggio che irruppe su di noi dalla volta sempre più opalescente del cielo, mentre ci avvicinavamo alle montagne e cominciavamo a scorgere le ondulazioni delle basse colline. Avevo visto decine e decine di miraggi polari durante le settimane precedenti, alcuni dei quali irreali e fantasticamente vividi come quello presente, ma quello scenario aveva una qualità del tutto insolita ed oscura, carica di un simbolismo minaccioso, ed io rabbrividii nello scorgere il labirinto in fermento delle pareti, delle torri e dei minareti leggendari, che prendeva vita fra i vapori inquieti del ghiaccio, al di sopra delle nostre teste.

"L’effetto era quello di una città ciclopica la cui architettura appariva sconosciuta all’uomo ed all’immaginazione umana, con enormi aggregazioni di costruzioni nere come la notte che davano corpo a perversioni mostruose delle leggi geometriche." (11)

Quel che trovano i nuovi venuti è raccapricciante e inspiegabile: gli uomini sono tutti morti (tranne uno, che è scomparso) per gli effetti devastanti della bufera, e così pure i cani (tranne due); alcuni degli "esseri" sono stati sepolti sotto la neve; gli altri sono spariti anch’essi insieme alle slitte. I quattro aerei che appartenevano al primo gruppo sono inutilizzabili, e tutto il materiale è in un grande disordine; non resta che ripartire e lasciare per sempre il continente maledetto. Questo è quanto figurerà nei bollettini ufficiali della spedizione; ma la verità, che solo il protagonista e un suo compagno hanno conosciuto sino in fondo, non viene divulgata. In effetti, i corpi degli scienziati presentano orribili lacerazioni, che fanno pensare a delle vere e proprie asportazioni chirurgiche; anche il materiale per il sezionamento anatomico è irreperibile: in breve, pare che qualcuno abbia ucciso quegli uomini per poi sezionarli, qualcuno che ha anche dato sepoltura alle creature misteriose. Sulla neve appaiono strane impronte che fanno pensare all’andirivieni di creature ignote al nostro mondo. Il capo decide pertanto di effettuare un volo di ricognizione per tentar di chiarire il mistero, ciò che conduce alla scoperta di alcune caverne percorse da misteriose gallerie; e infine a superare la cresta montuosa, per spingersi lungo il versante opposto. Qui gli scienziati si trovano di fronte a uno spettacolo terrificante, che sembra uscito dalle allucinazioni di una mente malata.

"Qui, su un tavolato diabolicamente antico, ad un’altezza superiore ai settemila metri, e in condizioni climatiche mortali per chiunque, fino a un’età preumana non inferiore ai cinquecentomila anni, si estendeva, fin quasi ai limiti del campo visivo, un groviglio di pietre regolari che solo la disperata ricerca di un’autodifesa mentale poteva attribuire a qualcos’altro che non fosse un’azione consapevole e artificiale. In funzione di un ragionamento logico, avevamo già abbandonato in precedenza qualsiasi teoria secondo la quale i cubi ed i bastioni posti sui fianchi delle montagne avessero origini non naturali. E come poteva essere altrimenti, se l’uomo stesso era riuscito a malapena a differenziarsi dagli scimpanzé al tempo in cui quella regione soccombeva all’attuale regno inviolato di morte glaciale?

"In quel momento, il dominio della ragione sembrava irrefutabilmente scosso, perché quei labirinti ciclopici di blocchi squadrati, curvati e angolati, avevano delle configurazioni che escludevano ogni tipo di rifugio confortevole nel razionale. Si trattava, molto chiaramente, della città blasfema già apparsaci come un miraggio, vista ora nella sua vera realtà, oggettiva ed ineluttabile. […]

"Solo l’incredibile, inumana compattezza di quelle enormi torri e bastioni di pietra, aveva preservato la materia dall’annientamento durante le centinaia di migliaia, forse milioni d’anni in cui aveva proiettato le sue ombre fra i venti gelidi di quell’altipiano desolato.

"Corona mundi… Il tetto del mondo.

"Ogni sorta di frasi fantastiche scaturivano alle nostre labbra mentre fissavamo stupefatti quello spettacolo incredibile." (12)

Inizia l’esplorazione della città mostruosa e antichissima, dalle geometrie impressionistiche e dalle sculture blasfeme e allucinanti (un tipo di architettura fuori del tempo e di iconografia surrealista che ricordano certe inquadrature del film di Robert Wiene Il gabinetto del dottor Caligari), in un dedalo di pareti, edifici e guglie chiaramente non fatte per la misura umana. Dopo aver sorvolato la ciclopica città che sembra stendersi attraverso una distanza infinita, l’aereo atterra per consentire una rapida ricognizione. Il protagonista ed un solo compagno, Danforth, dopo una rapida marcia penetrano nella città senza nome e rimangono sgomenti di fronte alle titaniche costruzioni innalzate secondo una logica assolutamente incomprensibile, mentre un solo elemento appare costante nelle architetture così come nelle strutture urbanistiche: la forma ricorrente a cinque punte (che richiama, anche se gli uomini non osano dirlo, alcune delle indescrivibili creature scoperte da Lake prima della sua tragica fine). Penetrati in una delle costruzioni attraverso un’apertura, gli esploratori si trovano in un vero e proprio labirinto dalle dimensioni smisurate.

"Dopo aver esaminato accuratamente le zone superiori ed il livello ghiacciato, discendemmo, un piano dopo l’altro, nella parte sommersa, dove ci accorgemmo immediatamente di trovarci in un labirinto continuo di camere collegate e di passaggi che conducevano probabilmente all’area situata all’esterno di quell’edificio particolare. La solidità ciclopica e le dimensioni gigantesche di ogni cosa attorno a noi stavano diventando curiosamente oppressive, e si avvertiva un qualcosa di vago ma profondamente inumano in tutti i profili, nelle dimensioni, nelle proporzioni, nelle decorazioni e nelle sfumature della costruzione, e nell’insieme di sculture empiamente arcaico. Realizzammo immediatamente, da quanto rivelavano le sculture, che quella città mostruosa doveva avere un’età di molti milioni di anni." (13)

Lo studio delle numerose sculture in bassorilievo di cui le pareti sono istoriate rivela la lunghissima storia della misteriosa civiltà che aveva creato, in tempi immemorabili, la città senza nome; così come l’identità dei suoi abitanti, che non erano certamente umani.

"Gli esseri che avevano una volta eretto ed abitato quelle costruzioni spaventose non erano affatto affini ai dinosauri, ma creature molto peggiori. Al loro confronto i dinosauri erano in realtà animali recenti e senza cervello, mentre i costruttori della città erano antichi e sapienti, ed avevano lasciato le loro tracce nelle rocce formatesi mille milioni di anni prima, cioè rocce precedenti in cui la vita sulla Terra era costituita da gruppi di cellule, e formatesi prima della benché minima forma di organismo organizzato.

"Perché proprio loro avevano creato le forme di vita terrestri, e le avevano fatte schiave; ed indubbiamente dovevano aver dato origine agli antichi miti diabolici a cui accennano i terribili Manoscritti Pnakotici ed il Necronomicon. Erano i Grandi Antichi discesi giù dalle stelle quando il mondo era giovane, esseri la cui sostanza era stata foggiata da un’evoluzione estranea a quella terrestre, e i cui poteri non hanno mai trovato eguali sul nostro pianeta." (14)

Simili a deliranti stregoni della magia nera, i Grandi Antichi crearono, attraverso esperimenti di ingegneria genetica, le varie forme di vita terrestri, sia allo scopo di nutrirsene che per utilizzarli come animali da lavoro. Crearono, fra l’altro, delle masse mucillaginose adatte ai lavori pesanti, gli Shoggot, per mezzo dei quali costruirono delle basi sottomarine oltre che terrestri. Erano in grado, come i vegetali, di trarre il nutrimento dalle sostanze inorganiche, tuttavia amavano procurarsi il cibo da altri esseri viventi, anche per mezzo della caccia. Erano robustissimi e si riproducevano mediante spore; raramente morivano e, quando ciò accadeva, i loro corpi venivano tumulati sotto pietre ed obelischi coperti di iscrizioni nella loro incomprensibile scrittura. Le grandi glaciazioni li avevano lentamente respinti nel mare, al cui ambiente erano altrettanto adattati che a quello terrestre; la città antartica in rovina risaliva evidentemente a un’epoca in cui il continente australe godeva ancora di un clima tropicale o, almeno, temperato.

A un certo punto avevano dovuto affrontare una pericolosissima invasione di altre creature filtrate dalle profondità dello spazio: la progenie di Chtulhu, che fece loro una guerra mortale. Per un po’ giunsero a un compromesso, ritirandosi nei mari e lasciando la maggoir parte delle terre emerse ai nuovi venuti; poi il continente del Pacifico (la favolsa Mu? Loveacraft non lo dice, ma par di intuirlo) fu nuovamente sprofondato nel fondo del mare, trascinando con sé la spaventosa città di pietra di R’lyeh; e i Grandi Antichi tornarono padroni del pianeta. Era quindi iniziata una lunga decadenza della loro civiltà, caratterizzata dalla perdita di conoscenze circa la facoltà di modellare nuove forme viventi a partire dalla materia inorganica. Gli Antichi si erano così ridotti a rimodellare le forme già create, in particolare i mostruosi Shoggot, le cui rappresentazioni costituivano la parte più orribile delle sculture rinvenute dagli scienziati dell’Università di Arkham. Poi, però, gli Shoggot si erano ribellati e i loro padroni avevano dovuto sottometterli mediante una guerra nucleare; ad essa era però seguita una nuova invasione dallo spazio dei Mi-Go, creature metà funghi e metà crostacei, che poco a poco avevano respinto gli Antichi sul fondo dei mari e nella loro cittadella di terraferma, il continente antartico. Loro ultimo rifugio era stata la megalopoli nel cuore delle Montagne della Follia, più alte dell’Everest e di ogni altra cima conosciuta, di dove l’avanzare inesorabile della glaciazione li aveva definitivamente scacciati. Tuttavia alcuni indizi, nelle sculture, lasciano immaginare che gli Antichi si siano rifugiati sul fondo del mare. E in quale altro luogo avrebbero potuto ritirarsi, dal momento che (a differenza della stirpe di Cthulhu e di quella dei Mi-Go) essi erano ormai totalmente adattati alla vita terrestre ed avevano perduto l’arte di navigare nello spazio? Alcune gallerie sotterranee, che s’inabissano fra i ruderi della città colossale, fanno pensare che di lì gli Antichi siano migrati definitivamente, in tempi immemorabili; e che lì, forse, stiano acquattati tuttora, nutrendosi di foche e di altre creature del mare, spiando forse l’occasione di uscire dai loro rifugi e di riprendere la signoria della Terra. Scoperta l’imboccatura di uno di quei tunnel, descritta peraltro e già osservata nelle sculture sulle pareti del grande edificio, i due scienziati decidono di tentarne una breve esplorazione.

"In base alla scala dei bassorilievi, deducemmo che una rapida discesa di circa un miglio attraverso i tunnel vicini ci avrebbe portato ai margini della vertiginosa scogliera mai illuminata dal sole che si elevava intorno al grande abisso. I sentieri laterali, resi praticabili dagli Antichi, ci avrebbero condotto alla spiaggia rocciosa dell’oceano nascosto e oscuro. […]

"Cominciammo quindi il nostro incerto viaggio attraverso il labirinto con l’ausilio della pianta e della bussola, traversando le strade e i corridoi in vari stadi di rovina o di conservazione, poi ci arrampicammo sulle rampe, attraversammo ponti e pavimenti per scendere ancora imbattendoci in accessi ostruiti e cumuli di macerie, ed affrettandoci di qui e di là lungo tratti in ottimo stato e misteriosamente puliti. […]

"In un primo momento non fummo in grado di dire con esattezza cosa avesse di diverso l’aria che fino ad allora era stata pura e cristallina ma, dopo pochi secondi, la nostra memoria ritornò perfettamente. Consentitemi di dirvi le cose senza indugi. C’era un odore, e quell’odore era vagamente, sottilmente ma inequivocabilmente simile a quello che ci aveva nauseato quando avevamo aperto l’assurda tomba di quell’essere mostruoso che il povero Lake aveva sezionato." (15)

Simili a Dante e Virgilio che si addentrano nei labirinti paurosi ed impervi dell’Inferno, i due uomini trovano, a un certo punto, gli oggetti dei quali avevano notato la scomparsa dalla base del gruppo di Lake, e si rendono conto di essere gravemente in pericolo. E tuttavia, un po’ perché ipnotizzati dal mistero e un po’ per un senso di responsabilità nei confronti del compagno scomparso, che forse è stato condotto prigioniero in quelle gallerie, decidono di proseguire. Giungono così a un gigantesco spazio circolare, la parte interna di un grandioso edificio crollato da tempi immemorabili e poi ricoperto da uno spesso strato di ghiaccio; e scorgono, in un angolo, le tre slitte scomparse dal campo di Lake. Subito dopo, scoprono i resti sezionati di Gedney, il compagno scomparso, e di uno dei cani da slitta.

Neppure quella scoperta raccapricciante riesce a far desistere i due temerari, più che mai decisi a scoprire l’ubicazione del grande abisso che "deve" trovarsi là sotto, da qualche parte, secondo quanto indicato dai bassorilievi prima esaminati. Le voci roche di alcuni pinguini risuonano sotto le cupe volte delle gallerie: si tratta però di pinguini molto più grossi di quelli noti alla scienza, completamente albini e quasi privi di occhi. Evidentemente, l’adattamento all’ambiente ipogeo ne ha alterato in tal modo l’evoluzione; comunque, i due uomini deducono che il loro habitat naturale, il grande abisso o mare sotterraneo, deve essere ormai vicinissimo. Una serie di cunicoli conducono i due esploratori sempre più in basso, mentre la temperatura aumenta (una reminiscenza delle pagine finali del Gordon Pym di Poe?) e cresce il numero dei pinguini spaventati, che si affrettano verso le profondità della terra. Infine, ecco un altro vastissimo locale sotterraneo, le cui pareti sono istoriate da bassorilievi simili a quelli della città in superficie, ma molto più rozzi e primitivi, come se fossero opera di una razza ormai in piena decadenza tecnica e intellettuale. Da ultimo, sul terreno appaiono i resti di alcune delle creature a forma di stella (le stesse sepolte da esseri ignoti al campo di Lake) e tracce di una lotta inimmaginabile fra loro e altri esseri, che li hanno fatti a pezzi con staordinaria ferocia. Tutti gli indizi fanno pensare che quello sia il rifugio degli ultimi Antichi, e che essi siano ora minacciati da altre creature ancor più spaventevoli e totalmente aliene, come potrebbero essere gli abominevoli Shoggot..

"Qualunque fosse stato il conflitto, doveva essere stato sicuramente quello a spaventare i pinguini spingendoli ad un insolito errare. Per cui la lotta doveva essere scoppiata vicino a quella colonia di cui sentivamo le deboli grida nel precipizio infinitamente lontano, perché non sembrava che gli uccelli vivessero normalmente lì. Forse, riflettemmo, doveva esserci stato un terribile inseguimento, ed i più deboli, che cercavano di tornare alle slitte, erano stati raggiunti e finiti dagli inseguitori. Riuscimmo anche ad immaginarci la lotta tremenda che doveva essersi verificata tra quegli esseri incredibilmente mostruosi scaturiti dai neri abissi, preceduti da grandi torme di pinguini frenetici ed urlanti" (16) A ciascuna delle creature a forma di stella marina è stata staccata la testa: tutte presentano questa macabra mutilazione.

La pagina forse più conturbante del romanzo è quella in cui Lovecraft, di fronte ai corpi decapitati degli Antichi, prova un fremito di orrore e quasi di pietà per quegli esseri che, in circostanze avverse, avevano lottato lungamente per sopravvivere, ed erano poi stati sopraffatti da creature indicibilmente più mostruose e più malvage di loro, ma che loro stessi avevano creato e che erano poi sfuggiti al loro controllo (forse una reminiscenza dell’uso perverso della magia nera da parte degli abitanti di Atlantide nel Timeo e nel Crizia di Platone, che li aveva condotti – secondo il filosofo greco – alla fatale distruzione del loro continente?). La natura, d’altra parte, assume qui il suo vero volto di divinità malvagia, in una concezione pessimistica di stampo quasi leopardiano; nelle sue mani, ogni singola specie non è che un tragico trastullo.

"[…] finalmente capimmo che cos’è il terrore cosmico, al suo culmine più insostenibile!

"Non era timore degli altri quattro [Antichi, n.f.t.] che erano scomparsi, perché ormai non avrebbero potuto più fare del male. Poveri diavoli! Dopotutto, nel loro genere non erano cattivi. Erano individui di un’altra epoca e di un altro ordine di esseri viventi. La natura aveva giocato loro uno scherzo infernale, che giocherà a qualsiasi altro essere che la follia, l’insensibilità o la crudeltà umana, potranno spingere d’ora in poi in quello spaventoso deserto polare morto o dormiente. E quello era stato il loro tragico ritorno a casa!

"Non erano stati nemmeno dei selvaggi perché, cosa avevano fatto in realtà? Immaginate il loro terribile risveglio nel freddo di un’epoca ignota [cioè la nostra, n.f.t.], forse l’attacco dei cani che latravano, e quindi un tentativo di stupita difesa contro di loro e contro quegli esseri bianchi simili a scimmie [cioè gli uomini] coperte di pellicce e fornite di strumenti… Povero Lake, povero Gedney… e poveri Antichi! Scienziati fino all’ultimo, che cosa avevano fatto che noi non avremmo fatto al posto loro? Mio Dio, che intelligenza e che tenacia! Affrontare l’incredibile proprio come i loro progenitori ed antenati raffigurati nelle sculture si erano trovati ad affrontare cose solo poco meno incredibili! Radiati, mostruosità, vegetali, uova stellari, qualunque cosa fossero stati, si erano comunque comportati da uomini!" (17)

A questo punto un limo mostruoso, una sorta di pallida nebbia odiosa che avvolge i corpi decapitati degli Antichi comincia ad agitarsi e a muoversi verso i due esseri umani, spezzando il sinistro incantesimo che li teneva avvinti e spingendoli a una pazza fuga attraverso le interminabili gallerie sotterranee. Inseguiti dall’innominabile montagna di protoplasma fetido e limaccioso, con gli orecchi lacerati dalle grida di Tekeli-li! (un’altra citazione dal Gordon Pym di Poe, esplicita questa volta), i due uomini riescono miracolosamente a sbucare all’esterno, a raggiungere il loro aeroplano e a ripartire precipitosamente. L’ultima visione dei loro inseguitori, ossia degli Shoggot mucillaginosi (che porterà Danforth a smarrire per sempre la ragione) è talmente spaventevole, che non esistono espressioni capaci di descriverla.

Concludiamo con questo sintetico ma efficace giudizio che, del mondo poetico di Lovecraft, ha dato uno dei maggiori studiosi contemporanei della letteratura del terrore: "In un certo senso, non sussitono dubbi nell’opera di Lovrecraft: il mondo è una forza di persecuzione, le facce che appaiono sotto il pavimento vi si trovano realmente, anzi con un grado di realtà superiore alla nostra comprensione." (18)

NOTE

1) LUCREZIO, De Rerum Natura, II, 1-2. "È bello seguire da terra quando il vento solleva/ grandi ondate sul mare la lotta di chi le contrasta" (tr. di F. Vizioli, Roma, Newton & Compton, 2000, pp. 94-95.

2) PRAZ, Mario, Storia della letteratura inglese, Firenze, Sansoni, 1982, pp. 435-436.

3) CANTARELLA, R.-COPPOLA, C.-SESTILI, A., Armonia. Antologia della letteratura greca, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 1991, vol. 1, p. 385.

4) DANTE, Inferno, XXVI, 98-99.

5) NIETZSCHE, Friedrich, Al di là del bene e del male, IV, 146.

6) POE, Edgar Allan, Il corvo e altre poesie, Colognola ai Colli (VR), Demetra ed., 1997, pp. 94-107.

7) POE, Edgar Allan, Gordon Pym, Firenze, Giunti Marzocco, 1980, pp. 206-208.

8) SOMMA, Luigi, Storia della letteratura americana, Roma, Corso ed., 1946, pp.101-102.

9) Su tutta la questione del Necronomicon, cfr. Necronomicon. Il libro segreto di H. P. Lovecraft (a cura di George Hay), Roma, Fanucci, 1979; e Necronomicon. Storia di un libro che non c’è (a cura di Sergio Basile), Roma, Fanucci, 2002.

10) LOVECRAFT, H. P., Le montagne della follia (trad. di Gianni Pilo), Roma, Gruppo ed. Newton, 2004, p.28. Le citazioni seguenti sono tratte da questa edizione.

11) LOVECRAFT, Ibidem, pp. 40-42.

12) LOVECRAFT, Ibidem, pp. 59-60.

13) LOVECRAFT, Ibidem, p. 73.

14) LOVECRAFT, Ibidem, p. 78.

15) LOVECRAFT, Ibidem, pp. 99, 101, 101-102.

16) LOVECRAFT, Ibidem, p. 119.

17) LOVECRAFT, Ibidem, p. 121.

18) PUNTER, David, Storia della letteratura del terrore, Roma, Editori Riuniti, 2006, p. 256.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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