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La scelta: una prospettiva filosofica

Perché si dia la possibilità della scelta, sono necessari i seguenti elementi:

1) un soggetto che, in quanto tale, sia attoa scegliere;

2) una pluralità di oggetti eleggibili;

3) delle condizioni di libertà per il soggetto.

1.

Il soggetto è, in quanto soggetto, atto a compiere una scelta; altrimenti sarebbe un oggetto.

"Atto a compiere una scelta" significa che è in grado di raccogliere tutte le informazioni e di mettere in opera tutte le capacità logiche, etiche, estetiche, ecc., nonché un adeguato senso critico (indipendenza di giudizio) tali da consentirgli una scelta motivata, coerente, autentica.

Scegliere in maniera immotivata, incoerente, inautentica sarebbe una contraddizione in termini; una incongruenza concettuale; un non-sensolinguistico.

Sis sceglie veramente solo quando si sceglie a ragion veduta, cioè quando si accorda la preferenza a un determinato oggetto rispetto a tutti gli altri oggetti possibili. Non si può scegliere a caso: questa è un’espressione priva di significato.

Nel linguaggio comune si dice, ad es., "scegliere una carta dal mazzo,senza vederla". Bisognerebbe dire invece, parlando propriamente, "estrarre una carta a caso", perché tale azione non richiede al soggetto che la compie la benché minima azione di discernimento e la benché minima attitudine alla scelta (raccolta di informazioni appropriate, capacità logiche, ecc.).

Naturalmente, nella vita di ogni giorno esistono numerosissime situazioni intermedie tra la scelta autentica e la scelta inautentica o, per meglio dire, la non-scelta.

Un soggetto atto a scegliere è un soggetto capace di discernere e di programmare un’azione conseguente. Infatti, nel concetto di scelta sono impliciti due momenti: quello del riconoscimento e quello dell’azione: un momento teorico ed uno pratico. Alcuni individui possiedono in grado eminente la facoltà del discernimento, ma sono pressoché sprovvisti del vigore necessario a tradurre il momento riflessivo in azione pratica. Tali individui sono pertanto incapaci di scelte concrete: ora, la scelta è sempre un’azione concreta. Essa presuppone una capacità di elezione fra soggetti diversi, ma non si limita certo a una elezione puramente interiore. Colui che sceglie, sceglie in concreto. altrimenti non sceglie. Scegliere solo interiormente e poi non agire, o agire in maniera difforme dalla valutazione interiore, è un’altra espressione priva di significato. Il concetto di scelta implica coerenza fra ciò che si elegge e ciò che effettivamente si opera; implica, cioè, l’unità coscienziale del soggetto. Un soggetto schizofrenico o un soggetto affetto dalla sindrome della personalità multipla non è in grado di scegliere nel vero significato della parola.

Certo, così come esistono infinite situazioni intermedie tra la scelta pienamente autentica e la scelta pienamente inautentica, esistono pure infinite situazioni intermedie tra la scelta coerente e la scelta incoerente. In una certa misura, coerenza e incoerenza (come pure autenticità e inautenticità) sono concetti puramente astratti e non realistici, come non sono realistiche la salute (assoluta) e la malattia (assoluta). Ogni organismo reale è semi-sano e semi-malato; del pari, ogni soggetto reale è semi-coerente e compie scelte semi-coerenti; laddove coerenza assoluta sarebbe l’identificazione totale fra la scelta interiore e l’azione conseguente, che la traduce in pratica.

Il soggetto atto a compiere scelte è, pertanto, una sintesi aristotelica di materia e forma, potenza e atto. In esso coesistono: 1) la potenzialità dello scegliere; 2) l’attualità della scelta; 3) l’unità coscienziale e la coerenza interna, che costituiscono il terzo "momento" , quello del passaggio dal primo al secondo. Il soggetto, infatti, vive se stesso come un continuum, psicologico e anche temporale, fra elezione e azione. Diciamo che, da questo punto di vista, il soggetto non è un dato ma un atto; non è una realtà statica ma piuttosto un processo, un divenire. Il soggetto si trasforma nell’atto di compiere la scelta e non solo nel senso, ovvio, che le conseguenze della scelta compiuta agiscono su di lui (d’altronde, agirebbero anche quelle della non-scelta), ma anche in quello che proprio il processo della scelta è un elemento costitutivo della sua formazione e, quindi, della sua incessante trasformazione.

Ora, il soggetto non può evitare di scegliere sempre, continuamente; sceglie anche quando non sceglie, cioè quando sceglie di non scegliere. (Altra cosa, ovviamente, è decidere se esso scelga davvero , cioè autenticamente, coerentemente, e soprattutto liberamente: ne riparleremo). Il soggetto, per poter essere tale, vive scegliendo: a cominciare dalla scelta di vivere – o di non vivere. Se non scegliesse, decadrebbe al ruolo di oggetto. L’oggetto è tale perché subisce la scelta; il soggetto, perchè la compie. Il soggetto è, per così dire, preso nella trappola di dover scegliere: sempre e comunque. Ogni soggetto, per il solo fatto di essere tale, compie delle scelte: l’unica differenza fra i soggetti non è che alcuni scelgono e altri no, ma soltanto una differenza di grado fra soggetti autentici e inautentici, coerenti e incoerenti. L’autenticità e la coerenza del soggetto dipendono dall’autenticità e coerenza delle scelte che esso compie. È l’azione concreta della scelta che decide dell’autenticità e della coerenza del soggetto. Il solo parametro per misurare coerenza e autenticità del soggetto è misurare coerenza e autenticità delle scelte.

Importante conseguenza di questo fatto è che non esistono soggetti autenticamente dati o coerentemente dati, cioè non esistono soggetti autentici e coerenti (o inautentici e incoerenti) che siano tali una volta per tutte. Se scegliere è un processo; se il soggetto che sceglie è, a sua volta, un processo: allora anche coerenza e autenticità sono processi e non situazioni di fatto. Il singolo fotogramma è irreale, reale è solo il filmato nella sua interezza. La singola scelta non decide dell’autenticità e della coerenza di chi la compie, se non nell’ambito limitato del proprio orizzonte etico, psicologico e temporale. Poiché si sceglie sempre e continuamente, la retta del soggetto risulta dall’insieme degli infiniti punti di ciascuna singola scelta. Ogni scelta, un punto; ma la realtà del soggetto è l’insieme della retta, non la frammentarietà dei punti.

Con ciò non s’intende dire che la singola scelta sia "irreale" in se stessa, ma solo che essa è irreale se considerata quale unità di misura della totalità del soggetto. Non esistono soggetti totalmente autentici (o inautentici) e totalmente coerenti (o incoerenti), non solo perché le singole scelte non lo sono mai, per per le ragioni già viste; ma anche perché a decidere della coerenza e autenticità del soggetto è l’insieme delle scelte: la linea e non i punti.

Riassumendo:

1) il soggetto sceglie sempre e comunque;

2) il soggetto sceglie davvero solo se sceglie autenticamente e coerentemente;

3) il soggetto è un divenire originato dalle infinite scelte possibili: infinite non in senso matematico (la vita materiale è un segmento e non una retta, propriamente parlando: quindi composta da punti finiti), ma in senso etico: perché infinite sono le possibilità di scelta.

Ora, se le possibilità di scelta sono veramente infinite (ma questo è un punto che approfondiremo in seguito), in ciò e soltanto in ciò risiede la dignità trascendente del soggetto, la sua dimensione metafisica (o, eventualmente, "religiosa"). Il soggetto è finito (altrimenti coinciderebbe con l’oggetto: tertium non datur) quanto alla quantità di scelte che opera e che, realizzandosi, lo costituiscono; ma è potenzialmente infinito quanto alle possibilità che formano il suo orizzonte esistenziale.

Ma parlare di ciò, significa spostare il contenuto della proposizione dal soggetto all’oggetto, da colui che sceglie a colui che viene scelto.

2.

Il secondo punto parrebbe scontato: che vi sia, cioè, una pluralità di oggetti eleggibili da parte del soggetto. In realtà, nulla possiamo dare per dimostrato, basandoci su una ingannevole "evidenza" intuitiva. Che vi sia un oggetto di fronte al soggetto: ciò discende dalla constatazione che, diversamente, oggetto e soggetto coinciderebbero. Ma sia il solipsismo che il panteismo, le due posizioni filosofiche più conseguenti rispetto a una tale, supposta identità, si trovano poi costretti ad arrampicarsi sugli specchi per giustificare, non diremo il fatto dell’intenzionalità della coscienza, ma anche semplicemente il fatto che esistono dei movimenti, delle azioni, dei fenomeni. Che gli oggetti siano più di uno, del resto, se è un requisito irrinunciabile alla esplicazione della scelta (non si sceglie quando non vi siano alternative!), non può essere dato per acquisito solo perché, diversamente, la possibilità della scelta verrebbe a cadere. Ontologicamente, l’oggetto portrebbe anche essere uno solo; manifestantesi, magari, attraverso una illusoria pluralità fenomenica. Un ingannevole velo di Maya potrebbe indurre il soggetto a credere che vi siano differenti oggetti, là dove non ve ne sarebbe che uno; e allora la scelta sarebbe una mera ilusione, un inganno dei sensi e, in ultima analisi, una suprema alienazione.

Per dimostrare la pluralità degli oggetti esistenti, occorre procedere secondo le linee di un ragionamento per absurdum. Immaginiamo, pertanto, che non vi siano molteplici oggetti, ma che ve ne sia uno solo. In tal caso, il soggetto avrebbe l’illusione di operare delle scelte, ma in realtà non sceglierebbe affatto: non si sceglie quando si è in rapporto con un unico oggetto. Ma abbiamo visto che il soggetto, per essere tale, deve poter compiere delle scelte: è il fatto di poter scegliere che lo caratterizza in quanto soggetto. In altre parole, se non vi fossero oggetti (al plurale) non vi sarebbero neppure soggetti (al plurale). Se non vi fosse che un unico soggetto, allora esso coinciderebbe con l’oggetto (perché non potrebbe "scegliere" eternamente che se stesso): e ricadremmo nelle aporie del solipsismo o in quelle del panteismo. Se oggetto e soggetto coincidono, tutto è immobile, bloccato in una relazione incestuosa – per così dire – con sé stesso: una sorta di perenne autofecondazione. Come scrive Dante (in altro contesto): "Lo sommo ben, che solo esso a sé piace" (Purg., XXVIII, 91) o con Parmenide: "tutto permane". Non pretendiamo qui di dirimere, una volta per tutte, l’intricata questione se la realtà fenomenica basata sul movimento e sul mutamento di stato non possa essere che mera irrealtà e illusione. Per adesso, ci limitiamo a esplorare se la scelta sia possibile e, quindi, accettiamo per ipotesi che esistano un soggetto e degli oggetti distinti, senza di che la scelta sarebbe impossibile a priori. Ci limitiamo quindi a osservare, per adesso, che se esistono movimento e azione, esiste pure una identità distinta di soggetto e oggetto; e che,se esiste un soggetto distinto dall’oggetto, esistono certamente numerosi oggetti. Diversamente, non essendovi scelta, non vi sarebbe soggetto.

Più sopra, d’altra parte, abbiamo accennato al fatto che il soggetto si rapporta a una infinita possibilità di scelta, e che da questa infinità procede il suo divenire nonché la sua dignità trascendente. Vogliamo ora riprendere la questione e cercar di dimostrare perché le possibili scelte del soggetto sono infinite e perché, dunque, infiniti sono gli oggetti eleggibili.

La prima obiezione a una tale ipotesi è che il soggetto essendo finito (ed è finito, se non altro, perché non coincide con l’oggetto, dunque vi è un-altro-che-non-è-il-soggetto) ed essendo finiti anche gli oggetti (per la ragione uguale e contraria, ossia perché, diversamente, gli oggetti coinciderebbero col soggetto), finite dovrebbero essere anche le scelte. A tale obiezione rispondiamo operando una distinzione concettuale fra "scelte" e "scelte possibili". Certamente le azioni possibili sono finite e, quindi, sono finite anche le scelte; ma la scelta si realizza nell’azione, passando – per così dire – da potenza ad atto. Prima di tradursi in azione, la scelta è possibilità; e, partendo da un numero finito di oggetti, è possibile disegnare una quantità infinita di possibilità. Questo perché gli oggetti possibili sono infiniti, mentre diventano finiti allorché passano dal poter-essere della possibilità all’essere reale della effettualità.

Cerchiamo di chiarire il concetto spostando il ragionamento sul piano della matematica e della logica. Le cifre sono finite: sono appena dieci, compreso lo zero: ma generano infiniti numeri; anche le lettere dell’alfabeto sono finite (poco più di venti), ma generano infinite parole. Combinando solo ventun lettere si ottengono la Divina Commedia, l’Orlando Furioso, i Promessi Sposi e così via. I testi possibili sono infiniti, eppure risultano formati da una combinazione di lettere finite (e poche). Dunque, anche le azioni possibi sono infinite e infinite le scelte: eppure gli oggetti esistenti sono finiti. Gli elementi chimici, per esempio, sono 106 (dei quali 83 presenti in natura in quantità apprezzabile): da essi, però, si originano tutte le cose fisiche. Innumerevoli o infinite? Infinite, tenendo anche conto della dimensione temporale, che le vede indefinitamente trasformate le une nelle altre; e, soprattutto, tenendo conto dell’infinità degli universi possibili (questi due fattori si richiamano, rispettivamente, al concetto dell’eterno ritorno dell’uguale e a quello degli universi paralleli: l’infinità nel tempo e quella nello spazio multidimensionale).

Sorge però un problema. I numeri sono infiniti, ma anche i numeri pari (o i numeri dispari) lo sono. Ciò significa che un insieme finito è, al tempo stesso, infinito: i numeri pari dovrebbero essere finiti, perché contenuti entro un limite invalicabile (quello creato dall’esistenza dei numeri dispari); eppure sono infiniti, perché la loro numerazione potrebbe procedere senza fermarsi mai. Inoltre, parrebbe che un insieme minore (quello dei numeri pari) sia infinito come lo è l’intero (l’insieme dei pari e dei dispari): ma è strano che la metà di una cosa sia grande – anzi, infinita – come lo è la cosa intera. Forse si potrebbe uscire da tale incongruenza introducendo, come per la fisica, una distinzione tra il concetto di infinito e il concetto di illimitato. La superficie di una sfera è illimitata, non infinita: sembra infinita alla formichina che procede su di essa in linea retta, indefinitamente. Così, forse l’insieme dei numeri pari (o dispari) è semplicemente illimitato; forse anche l’insieme di tutti i numeri lo è. Forse la curvatura dello spazio agisce sul tempo anche nella serie dei numeri: è difficile dirlo, perché i numeri non sono oggetti reali (o almeno, lo supponiamo) e gli oggetti reali che noi possiamo enumerare non sono infiniti – almeno in una sezione ben definita dello spazio-tempo, per esempio nel qui-adesso.

Analogamente, potremmo dire che gli oggetti possibili (non gli oggetti reali) essendo infiniti, dovremmo avere la strana conseguenza che gli oggetti possibili del passato (o del fututo) sono egualmente infiniti. Di nuovo, la parte ne risulterebbe infinita quanto il tutto. Oppure gli oggetti possibili del passato, essendo limitati dal confine del presente, non sono infiniti, ma finiti? No, sono infiniti: una semplice regressio ad infinitum lo può dimostrare facilmente. Cosa c’era prima dell’oggetto A? E prima dell’oggetto B? E prima dell’oggetto C? E così via. Non si finirebbe mai: dunque gli oggetti possibili del passato (attenzione: possibili) non hanno fine: sono infiniti. Si direbbe che siano infiniti in un senso unidirezionale, perché rispetto alla frontiera del presente le cose vanno diversamente; qui si può scorgere chiaramente (e se pure in modo perennemente provvisorio) il limite preciso della catena: il futuro. Oppure, anche in questo caso, dobbiamo pensare al concetto di illimitato piuttosto che al concetto di infinito? Forse la catena regressiva degli oggetti possibili, nel suo retrocedere verso un passato sempre più remoto, finisce per saldarsi alla catena del futuro (come nell’eterno ritorno dell’uguale), complice la curvatura dello spazio-tempo, dandoci solo l’illusione dell’infinità?

Comunque, dobbiamo ammettere che il problema è insolubile, perché gli oggetti possibili, proprio come i numeri (o come i concetti della logica) non sono qualcosa di reale, ma di puramente ipotetico. Per ciascun oggetto reale esistono infiniti oggetti possibili; per ciascuna scelta esistono infinite scelte possibili. Le scelte sono infinite finchè sono possibili; dopo (non solo in senso cronologico, ma anche in senso concettuale), entrando nel passato e cioè nell’ordine delle cose realizzate, divengono per forza finite. Sfuggono a questa legge, come si è visto, gli oggetti possibili e le scelte possibili del passato: il fatto di appartenere al passato non ne ha cancellato il carattere di infinità perché, in quanto possibili, sono sfuggiti al destino della determinazione, che è il destino dell’essere-nel-finito.

Dunque, gli oggetti possibili della scelta sono infiniti; e le scelte possibili sono infinite. Il soggetto, però, è finito, altrimenti coinciderebbe con l’oggetto e non vi sarebbe più scelta. Ma come può un soggetto finito rapportarsi all’infinita possibilità della scelta? In senso psicologico, questo rapporto pone una condizione di vertigine, di paura, di smarrimento. In senso etico, questa impossibilità-necessità di un rapporto tra il finito del soggetto e l’infinito delle possibili scelte è l’elemento fondante della moralità coscenziale. Se il soggetto, che è finito, potesse scegliere solo nell’ambito del finito, non vi sarebbe salto qualitativo nella scelta, ma solo calcolo materiale delle probabilità e azione utilitaristica volta al raggiungimento di un determinato scopo. Il soggetto sceglierebbe l’oggetto puramente e semplicemente; non sceglierebbe la scelta, non sceglierebbe di scegliere, non si modificherebbe rispetto a se stesso. Resterebbe un piccolo, limitato, opportunistico soggetto che valuta ragionieristicamente i pro e i contro, per poi inglobare volta a volta questo o quell’oggetto nella sua meschina facoltà calcolatrice. Qualunque computer potrebbe fare lo stesso, e farlo assai meglio.

Ora, il computer – e, in generale, la tecnologia – sceglie sempre ciò che è finalizzato al massimo rendimento con il minor dispendio d’energia, in base alla ottimizzazione del rapporto costi-benefici: tale è il logos strumentale e calcolante, che nulla sa circa il senso dei fini, ma solo di mezzi più o meno adeguati al conseguimento di quei determinati fini. Ciò significa che non si tratta di una vera scelta. Se la scelta è decisa a priori dall’ottimizzazione del rapporto mezzi-fini (come farebbe, appunto, un qualunque computer), vuol dire che non si tratta più di una scelta, in quanto le manca il carattere essenziale della libertà.

La scelta è scelta libera, oppure non è scelta. Eccoci dunque a dover fare i conti con il terzo elemento costitutivo della scelta: la libertà.

3.

Abbiamo detto che non si può parlare di scelta, se non in condizioni di libertà per il soggetto chiamato a scegliere.Abbiamo anche detto, però, che il soggetto deve continuamente scegliere, perché è solo l’esercizio della facoltà di scelta che lo costituisce come soggetto e lo distingue dall’oggetto. Inoltre, abbiamo detto che sceglie fra un’infinità di soggetti possibili, ossia che si misura costantemente con l’infinita possibilità della scelta infinita. Se la scelta fosse limitata, infatti, il sogetto non sarebbe infinitamente libero di scegliere; e non fosse infinitamente libero di scegliere, la scelta non sarebbe tale ma sarebbe una semi-scelta. In quanto semi-scelta, presupporrebbe un semi-soggetto (essendo la scelta elemento fondante del sogetto); un semi-soggeto però, non godrebbe evidentemente delle medesime condizioni di libertà per compiere la scelta. Godrebbe di una semi-libertà: ma una semi-libertà equivale a una non-libertà. La libertà o è intera, o non è (cercheremo di chiarirlo fra poco), ergo il soggetto è un soggetto intero, oppure non è; ergo anche la scelta o è integra, o non è. Altro è affermare che il soggetto, scegliendo in maniera inautentica, manifesta solo una parte – una piccola parte – della sua natura di soggetto, e quindi sceglie di essere semi-coerente e semi-autentico (come dicemmo al punto 1); ma è pur sempre un soggetto intero, intero sia come poter-essere che come dover-essere. La semi-coerenza, va chiarito con estrema decisione, non implica un semi-soggetto, o una semi-scelta, o una semi-libertà. La semi-coerenza è la parziale realizzazione del processo formativo del soggetto; è, se si vuole, una realtà effettuale, non una dimensione ontologica. Ontologicamente, il soggetto è; dunque il soggetto è intero e la possibilità della scelta è intera, perché la scelta è intera.

Certo, dobbiamo prendere in seria considerazione l’eventualità che la libertà effettiva di cui dispone il soggetto non sia intera: perché altro è il concetto di libertà, altro la sua pratica realizzazione. Dobbiamo avere l’umiltà e il coraggio di riconoscere che la libertà, come presupposto irrinunciabile della facoltà di scegliere, è null’altro che un’ipotesi matematica: libertà intera, più soggetto intero, uguale scelta intera (magari incoerente o inautentica, ma intera nel senso di piena, pienamente-se-stessa e assolutamente-se-stessa). Chi ci garantisce, però, che nel mondo reale le cose vadano proprio a questo modo?

Si tratta della questione, assai spinosa e controversa, riguardante l’intenzionalità della coscienza. Che vi sia un soggetto, lo abbiamo posto; che vi siano infiniti oggetti, abbiamo cercato di dimostrarlo. Ma che vi siano effettivamente le condizioni per una libera scelta da parte del soggetto verso l’oggetto, questo – per ora – non è che un pio desiderio.

Perché il soggetto sia realmente libero di scegliere, è necessario che:

a) disponga di un sistema coerente di rappresentazione degli oggetti;

b) disponga di una scala di valori su cui fondare la scelta;

c) disponga di una capacità di analisi e di confronto degli oggetti, ossia di una metodologia della scelta;

d) Sia in grado di effettuare una sintesi a posteriori degli oggetti in predicato, eleggendone uno;

e) Sia in grado di tradurre l’opzione in un movimento concreto, passando dall’interiorità della coscienza all’azione pratica nel mondo fenomenico.

Il punto e) è già stato discusso, laddove abbiamo dimostrato che il soggetto non sarebbe tale se non fosse in grado di scegliere, e che scegliere è sempre agire concretamente. Dobbiamo pertanto esaminare i punti da a) a d).

a)

È chiaro che, se esistono molteplici oggetti (e infinite possibilità), ma il soggetto non possiede gli strumenti per riconoscerli come tali, viene a mancare il presupposto stesso della libera scelta. Per il cieco dalla nascita, il mondo è privo di colori; per il sordo, è privo di suoni; per il soggetto incapace di rappresentazione, il mondo è popolato di falsi oggetti, ombre di cose irreali, delirio più o meno lucido. La realtà è stravolta, deformata, alienante. La coscienza ne registra i contorni arbitrariamente, la destruttura e la ricostruisce a piacimento, secondo le linee di un disegno capricciosamente solipsistico.

È facile riconoscere che tale condizione di inaffidabilità della coscienza rappresentante non costituisce un caso limite, facilmente separabile e isolabile dalle condizioni "normali" del soggetto. Per il fatto stesso di percepire la realtà attraverso un codice o sistema di rappresentazione, la lettura che ne risulta è sempre – in grado maggiore o minore – irreale, deformante, alienante. Né si pensi che tale punto di vista costituisca una arbitraria accentuazione di aspetti marginali del problema.

L’occhio, ad esempio, non vede la stella, bensì l’immagine della stella: una minuscola chiazza di luce sulla retina, prodotta da quel sottilissimo fascio luminoso che è riuscito a penetrare nella pupilla. Tutte le cose che l’occhio vede, credendole fuori di sé, (ossia, dando al cervello l’impressione che siano fuori di sé), in realtà sono dentro la retina: sono immagini formate da macchioline luminose, proprio come gli oggetti che vediamo alla televisione sembrano appartenere a una realtà esterna, mentre sono materialmente dentro l’apparecchio televisivo (ove sono giunte mediante impulsi elettrici). Se l’apparecchio si guasta, non le vediamo più. L’organo dela vista, dunque, è un semplice mediatore della realtà visiva tra noi e il supposto mondo esterno (si sa, poi, con quali limiti e con quante imperfezioni); e la stessa cosa vale per gli altri quattro sensi. Noi non conosciamo le cose in sé, il noumeno, ma le cose come ci appaiono, il fenomeno; e il fenomeno, come afferma Berkeley ("esse est percipi") è sempre dentro gli organi di senso, dunque dentro la mente che percepisce. Ora, se ciò è vero per la realtà materiale,a maggior ragione lo sarà per la vita interiore della coscienza. Si tratta di un punto di importanza fondamentale. Così come noi non sappiamo nulla, propriamente parlando, della supposta "realtà" esterna materiale (perché l’unica realtà che sperimentiamo è quella interna al soggetto), ugualmente non sappiamo nulla della supposta "realtà" esterna spirituale. Gli enti, convenzionalmente, possono essere di due specie: materiali e spirituali. I primi sono caratterizzati da qualità primarie (numero,estensione, moto), che Cartesio – e, dopo di lui Locke – ritenevano oggettive; e da qualità secondarie (colori, odori, suoni), da essi ritenute soggettive. Ma Berkeley ha brillantemente dimostrato che tutte le qualità sono soggettive, e dunque nulla è nell’oggetto, di quel che percepisce il soggetto. Su questo punto, del resto, giustamente la sua critica colpisce al cuore la dottrina di Locke, il quale aveva accettato la distinzione cartesiana fra qualità primarie e secondarie, pur avendo affermato – più in generale – che noi conosciamo solamente le nostre idee. Gli enti spirituali sono, ovviamente, privi di qualità fisiche: non sono corpi ma concetti puri, forme a priori dell’intelletto. Kant ne distingueva, più o meno arbitrariamente, dodici (forse per amore di simmetria, dato che li raggruppava a tre a tre): unità, molteplicità, totalità; realtà, negazione, limitazione; sostanza, causa, reciprocità; possibilità, esistenza, necessità. Possiamo discutere sulla artificiosità di alcune di esse, tuttavia riteniamo che definiscano con sufficiente precisione l’area degli enti spirituali. La bontà, la bellezza, la verità, ossia tutti i concetti cari all’idealismo, da Platone in poi, sono riconducibili alle tre idee fondamentali della ragione individuate da Kant: l’idea psicologica, l’idea cosmologica e l’idea teologica. Esse cercano di fondare l’io come sostanza (idea psicologica), il mondo come totalità (idea cosmologica), Dio come causa ultima dell’io e del mondo (idea teologica). Ma se i concetti puri trovano riscontro nel mondo dell’esperienza fenomenica (un oggetto, per esempio, o è possibile o è esistente o è necessario), le idee alludono a qualcosa che è fuori dell’esperienza, dunque indimostrabile. Quindi, tornando alll’armamentario ideologico dell’idealismo, bellezza, bontà e verità lungi dall’essere enti con la "e" maiuscola, sono o un riflesso di oggetti materiali che la coscienza trasfigura e ipostatizza (per cui un oggetto bello diventa una "cosa" bella e poi, magari, l’idea di Bellezza in sé: il che è, ovviamente, arbitrario, perché la considera fuori delle relazioni di giudizio che l’hanno originata), o un’ipotesi metafisica che nasce dall’insoddisfazione per i limiti dell’esperienza e della ragione e dal desiderio di porre un fondamento ontologico che sia causa finale della "realtà" percepita dalla coscienza. Dunque il nimero, per esempio, è un ente spirituale, perché sviluppa i concetti puri di unità, molteplicità e totalità; la giustizia, invece, non è un ente, ma un fantasma creato dai nostri desideri e costruito con i brandelli di cose fenomeniche e mediante la sintesi finale dell’ipotesi metafisica.

Il soggetto, in definitiva, percepisce: 1) idee o riflessi di enti materiali; 2) concetti puri o forme a priori dell’intelletto. Entrambi gli oggetti sono percepiti dalla coscienza, all’interno della coscienza: non le "cose" esterne, ma le loro ombre (ombre di un’ipotesi: ombre di ombre), secondo le proprie categorie logiche, mediante le quali interpreta, coordina e razionalizza il mondo dell’esperienza.

Sembrerebbe, a questo punto, che siamo stati rispospinti in quelle secche del solipsismo (o del suo fratello siamese, il panteismo) che avevamo creduto di evitare, postulando la necessaria distinzione tra soggetto e oggetto. Se però il soggetto non conosce altro che ombre di cose o forme a priori dell’intelletto, che cosa rimane di tale distinzione? Il fatto è che altro è dichiarare l’irriducibilità del noumeno alla nostra esperienza coscienziale, altro è negare la distinzione di soggetto e oggetto. In questo secondo caso, si giunge come logica conseguenza al solipsismo o al panteismo; nel primo caso, si ipotizza la percezione dell’oggetto come processo distinto dalla coscienza del soggetto e, in ultima analisi, come causa efficiente delle sue rappresentazioni. Noi non possiamo, in questa sede, tentar di spiegare come l’oggetto si manifesti al soggetto; dobbiamo, però, presupporne l’esistenza, non solo per rendere ragione dell’evidenza del movimento e dell’azione (se vi è un unico soggeto senza alcun oggetto, il movimento diviene impossibile: cfr. il punto 2), ma anche per giustificare l’esistenza della rappresentazione coscienziale. La coscienza, infatti, è sempre coscienza di qualcosa; gli oggetti che si rappresenta, sono qualcosa (non sono il nulla). Fantasmi, forse; ma fantasmi di qualcosa. Il dato dell’esperienza è tale da imporsi di per sé: attende di essere spiegato, ma non può essere revocato in dubbio. Parafrasando Cartesio e Berkeley: percepisco, dunque apprendo l’esistenza di un percepito che è altro dal percipiente, altro da me.

Resta il fatto che la percezione è una trasmissione indiretta di dati alla coscienza, la quale li organizza come meglio può e come meglio sa. Ogni sostanza, affermava Hume – sia materiale che spirituale – non è altro che un insieme di determinate impressioni, che la cosciena organizza secondo le leggi dell’associazione. È così che le impressioni particolari di forma, colore, suono, sapore, ecc., ci portano a credere nell’esistenza di una sostanza materiale, che faccia loro da substrato; ed è così che le impressioni di gioia, dolore, speranza, paura, ecc., ci portano a credere nell’esistenza di una sostanza spirituale sempre identica a se stessa. Noi, però, effettivamente non conosciamo altro che i nostri cangianti e fuggevoli stati psichici. Analogamente, la constatazione che il fenomeno B succede regolarmente al fenomeno A, ci induce a credere, per abitudine, che A sia la causa di B: ma di causee di effetti, in verità, nulla sappiamo; dovremmo limitarci a dire: post hoc e non già propter hoc. Insomma, tutta la nostra conoscenza degli enti, tanto esterni quanto interni alla coscienza, si riduce – a ben guardarte – a pura e semplice credenza: è un atto di fede, e nulla più.

A questa fede, per ragioni puramente pratiche, noi non possiamo e non vogliamo rinunciare; così come non vogliamo né possiamo rinunciare alla metafisica: cioè ad una fondazione della realtà in termini di totalità e assolutezza; pur sapendo che ogni metafisica è, di fatto, impossibile. D’altra parte, il riconoscimento che il soggetto non conosce l’oggetto se non attraverso il filtro della propria coscienza (e dei propri sensi) dovrebbe ispirare una estrema cautela e una doverosa umiltà nei confronti di ogni ontologia. Che cosa sa il soggetto, in ultima analisi, degli oggetti fra i quali è chiamato a scegliere? Ben poco, dobbiamo ammetterlo. Pure, esso cerca di rappresentarseli entro l’orizzonte gnoseologico di un sistema coerente, per il semplice fatto che non può agire diversamente. È nella sua natura definire incessantemente sé medesimo mediante un confronto con l’oggetto: il soggetto è l’essere-per-l’altro in grado eminente. Che l’altro sia un "oggetto" esistente in sé e per sé, o che – addirittura – sia un altro soggetto, che provvisoriamente fa le veci del puro e semplice oggetto: tutto questo è materia di fede ma non è, praticamente, rilevante. Il soggetto non può fare a meno di porre l’oggetto di sé, come altro a sé, mediante il quale si confronta e diviene; poiché il soggetto (come anche l’oggetto) non è un ente ma un divenire, un continuo poter-essere. Se cessasse di essere una possibilità dinamica, precipiterebbe nel nulla: sarebbe oggetto non percepito, oggetto totale, cioè non-essere; perché, in senso assoluto, solo il soggetto propriamente è. L’oggetto, invece, è solo relativamente: relativamente al soggetto.

b)

per poter eseguire il movimento della scelta, è necessario che il soggetto possegga una scala di valori, a partire dai quali valutare gli oggetti. Questo è il regno dell’estetica, dell’etica e della religione. Se la "tecnica" della scelta presuppone la logica, la "qualità" della scelta presuppone valori estetici, etici e religiosi. Diciamo "valori" perché scegliere è accordare la preferenza a un determinato oggetto rispetto ad altri, quindi istituire una gerarchia di oggetti più o meno desiderabili. Ciò che è desiderabile non riguarda soltanto la "tecnica", cioè la valutazione razionale e distaccata delle cose (come fanno la logica e la matematica: almeno fino ad un certo punto), ma una partecipazione emozionale e affettiva che investe la totalità della coscienza. Istituire valori significa porre degli oggetti nei quali credere e dei quali, pertanto, fidarsi. Il matematico, normalmente, non crede che la somma dei quadrati costruiti sui cateti di un triangolo rettangolo sia equivalente al quadrato costruito sull’ipotenusa: lo sa perché l’ha dimostrato, quindi lo accetta puramente e e semplicemente. Lo considera una verità-per-sé. (Non vogliamo, in questa sede, riaprirela vexata quaestio se le verità matematiche esistano indipendentemente dalla coscienza che le riconosce). Credere, invece, è una verità-pe-me: non solo opinabile da parte di altri soggetti, ma opinabile anche da parte del medesimo soggetto, in differenti circostanze, o a distanza di tempo e perfino nel medesimo tempo (e lasciamo da parte, inoltre, i problemi posti dal soggetto schizoide e, caso-limite, affetto dalla cosiddetta sindrome della personalità multipla: problemi che ci obbligherebbero a lunghi ragionamenti, qui non necessari, sull’unità della coscienza). I valori, infatti, hanno questa caratteristica saliente: che nella relazione col soggetto che li pone, devono essre incessantemente rifondati e verificati: anch’essi sono, a ben guardare, movimento, divenire, poter-essere. Non esistono valori istituiti per sempre, bensì simulacri di valori, fantocci disanimati posti da coscienze pigre e abitudinarie (abitudinarie nel senso "humiano" della parola: laddove l’abitudine finisce per essere una necessità ineludibile della vita pratica).

Certo, è decisivo cercar di comprendere come il singolo soggetto giunga a elaborare il proprio codice personale dei valori. In un certo senso, si può dire che è questo l’atto decisionale più importante nell’intera vicenda esistenziale del soggetto, poiché è l’atto che lo caratterizza come destino e come relazione verso l’altro. Per elaborare un codice di valori, il soggetto deve poter disporre di un criterio di scelta, criterio che nasce dall’accostamento e dal confronto di oggetti. In una fase successiva, però (successiva in senso psicologico e non cronologico), la coscienza giudicante perde l’aggancio con la realtà concreta degli oggetti e, inconsapevolmente, elabora dei fini assoluti, estrapolando brandelli di esperienze reali e completandoli con speranze, desideri, proiezioni compensative delle insufficienze dell’io: i valori, appunto. Come la sostanza materiale nasce da un’esigenza psicologica che collega le sparse impressioni sensoriali, e la sostanza spirituale da un’esigenza logica di collegare i mutevoli stati psichici (ma vi sono filosofie che ne fanno a meno: il buddhismo theravada, per esempio, nega che esista un io e si accontenta di postulare un gruppo di stati psichici sempre cangianti), così i valori nascono dall’esigenza di porre un obiettivo finale alle disordinate appetizioni della coscienza. È un’esigenza naturale e pertanto legittima, ma nasce da una deduzione che, sul piano rigorosamente logico, appare inconsistente.

La coscienza può decidere che l’oggetto B è più bello dell’oggetto A (o più buono, o più giusto, o più vero); e che l’oggetto C lo è ancor più dell’oggetto B; e così via. La coscienza, però, non si limita a questo: dal fatto che esistono oggetti più buoni e meno buoni (o più giusti, più veri, ecc.) inferisce che deve esistere, da qualche parte, un valore chiamato bontà; così come dall’esperienza di (supposte) sostanze materiali più grandi o più piccole inferisce l’esistenza del concetto di grandezza; e dall’esistenza di (supposte) sostanze spirituali, l’esistenza di sentimenti quali gioia, paura, tristezza. In realtà, essa può dire soltanto che l’oggetto A è più grande (o più piccolo) dell’oggetto B; e che essa esperimenta stati psichici gioiosi, paurosi, tristi. In realtà la gioia, come la grandezza, è una mera supposizione: un’ipotes non verificabile. Per poter esistere, la gioia dovrebbe essere qualcosa fuori della coscienza¸ dovrebbe essere un soggetto e non un semplice oggetto. Ma la coscienza è il solo "luogo" che possa farne esperienza: dunque non "fuori", ma "dentro". Infatti, la coscienza dovrebbe limitarsi a dire (ma abitualmente se ne dimentica): grande o piccolo, per me; gioioso o triste, per me; ecc. Analogamente, la coscienza può solo sperimentare oggetti buoni o non buoni, giusti o non giusti, per sé stessa; di qui a parlare di bontà e giustizia come di soggetti esistenti indipendentemente dalla coscienza, ce ne corre.

Si dirà: l’evidenza etica, estetica, ecc. fa giustizia di simili sofismi: chi oserebbe affermare, ad esempio, che un campo di battaglia coperto di cadaveri martoriati e sanguinanti non è manifestazione di una realtà angosciante e crudele, esistente in sé e per sé? Rispondiamo: i vermi, gli insetti e i micro-organismi decompositori (nonché i poeti futuristi). Per essi, quel mucchio di corpi massacrati è il massimo del bene e del bello. La cosiddetta "evidenza" non significa nulla: è sempre e soltanto evidenza per un determinato soggetto; e, come tale, rigorosamente soggettiva. Mors tua, vita mea. La verità è che non esiste un soggetto super partes (o, se esiste, è fuori del nostro piano di realtà): il soggetto non può far altro che vedere e giudicare le cose dal suo proprio, ristretto e angusto punto di vista (e capriccioso, perché continuamente mutevole).

Comunque, il fatto che il soggetto inferisca dal confronto con le qualità degli oggetti l’esistenza di valori permanenti e assoluti, non è di per sé né un male, né un bene. È un’esigenza della natura, e come tale non abbisogna di giustificazioni: si giustifica da sé. Tende a divenire un male quando il soggetto va troppo lontano nella sua ipostatizzazione dei valori e li trasforma da concetti aventi uno scopo pratico (semplificare la metodologia della scelta, così come la tavola pitagorica semplifica i calcoli matematici), in realtà separate e indipendenti: il Bene, il Buono, il Bello, il Vero. Così facendo, scambia le ombre delle cose per delle cose, anzi per delle super-cose,. Anziché utilizzarle per meglio orientarsi nel proprio orizzonte esistenziale, si subordina ad esse e si fa oggetto e strumento di soggetti inesistenti.

Un cenno a parte merita la più funesta di tutte le immaginazioni create dalla coscienza: l’idea di felicità. Anch’essa, come gli altri concetti estetici e morali, nasce da una legittima aspirazione istintuale; anzi, la più legittima di tutte, poiché definisce l’orizzonte globale di tutto ciò che nella vita si piuò giudicare desiderabile, attraente, vivificante. Non è, però, come gli altri valori etici – bontà, giustizia, amore, ecc. – un obiettivo che il soggetto costruisce a partire da un criterio di giudizio e di confronto fra diversi oggetti, ma una vera e propria ipòstasi: sostanza assoluta e per sé sussistente. Non un dover-essere, ma uno stato, una condizione (illusoriamente) a-temporale; il fantasma di tutti i fantasmi; il premio dato che annulla lo sforzo del divenire, il rischio della caduta, l’angoscia della precarietà. Sforzo, rischio, angoscia: tutti elementi caratteristici della vita, inseparabili dalla vita, inconcepibili al di fuori di essa. L’idea di felicità è un’idea-rifugio che diviene idea-prigione; è una nostalgia del nulla, un essere-per-la-morte, una volontà pudica (e ipocrita) di suicidio. Essa, infatti, ponendo davanti alla cocienza l’immagine evanescente di un bene che non può essere raggiunto, di un’idea che non si può conquistare perchè non esiste, ha fatto più vittime di tutti i nichilismi, i pessimismi e i negativismi espliciti. Non si può pretendere la corsa da coloro che, già camminando, zoppicano: il risultato è inevitabilmente un misto di amarezza, fallimento, frustrazione. Obiettivi più modesti, ma possibili, sono stati incessantemente sacrificati sull’altare di questo Moloch insaziabile, di questa divinità sanguinaria e antropofaga; e la coscienza, che avrebbe potuto essere infelice ma leale, troppe volte ha preferito essere sventurata e feroce, incrudelendo senza tregua contro se stessa, torturandosi deliberatamente con masochistico furore.

Concludendo. Alla domanda: "Dispone il soggetto di una scala di valori su cui fondare ragionevolmente la propria scelta?", la risposta sarà che ogni soggetto elabora, in maniera più o meno consapevole, una propria scala di valori. Che poi essa divenga strumento efficace per gestire le continue, inevitabili scelte di cui è fatto il cammino della coscienza, oppure strumento di alienazione e perdita di contatto con la realtà, ciò dipende dalla storia di ciascun soggetto, dalle sue motivazioni profonde, dalle circostanze esterne e dall’allenamento a un rapporto leale con se stessa e con il mondo circostante. Quindi, il possesso di una scala di valori (e di un criterio di selezione) che abiliti il soggetto a scegliere non è mai un dato certo e definitivo, quanto piuttosto una semplice possibilità.

c)

Il soggetto, per poter scegliere, deve poter disporre anche di una capacità di analisi e di confronto fra gli oggetti, ossia di una metodologia della scelta. La scelta, cioè, per essere tale, non può essere estemporanea e capricciosa: ciò equivarrebbe ad affidarsi al caso, dunque alla non-scelta. D’altra parte, il soggetto potrebbe disporre di una tavola di valori, ma non avere gli strumenti per analizzare e confrontare adeguatamente gli oggetti con i quali interagisce. Non si può dare per scontato che tali facoltà siano costitutive del soggetto; al contrario, l’esperienza mostra che la coscienza le viene elaborando poco a poco, in un processo di affinamento e perfezionamento che non ha mai fine, e che è – esso – uno degli elementi costitutivi del soggetto come io, cioè come autocoscienza.

Qui sorge immediatamente una difficoltà, che ci fa avvertiti di come stiamo procedendo su un terreno estremamente insidioso e ingannevole. Analizzare un oggetto vuol dire riconoscerne le parti costitutive; confrontare due o più oggetti fra loro, significa coglierne la relazione in quanto essi hanno di unico e irripetibile ma anche in quanto hanno di simile o di comune. La difficoltà che ci si presenta preliminarmente a una tale indagine è la seguente: chi o che cosa garantisce l’efficacia dell’analisi o la pertinenza del confronto fra i diversi oggetti, da parte del soggetto? Facciamo un esempio, estremamente banale: una ferita (fisica o metaforica) che stia rimarginando e un impulso a grattarsi che, se assecondato, produrrebbe inevitabilmente il riaprirsi della ferita stessa. Il soggetto ha di fronte, quindi, due possibili oggetti: grattarsi o non grattarsi. Se si gratta, sceglie un bene immediato (il piacere di alleviare il prurito), se non si gratta sceglie un bene mediato (ottenere il rimarginarsi della ferita). Deve, cioè, confrontare due beni (o, in altra circostanza, due mali) ciascuno dei quali è di per sé desiderabile, ma che sono collocati in una diversa prospettiva temporale; e inoltre deve valutare le prevedibili conseguenze di ciascuna opzione (il riaprisi della ferita se si gratta, il persistere del prurito se non lo fa). Perfino in un caso così semplice ed estremamente banale, il soggetto deve constatare che l’analisi e il confronto dei possibili oggetti della scelta implica una visione dinamica e, per così dire, tridimensionale delle cose. Non si tratta di scomporre semplicemente (nell’analisi degli oggetti) qualche cosa di statico e, poi (nel confronto tra di essi) mettere l’uno accanto all’altro i diversi oggetti statici: occorre prevedere i loro possibili effetti vicini e lontani, diretti e indiretti, in un complesso gioco di interrelazione. L’evidenza, infatti, spesso inganna: è facile scegliere un oggetto che al presente ci appare desiderabile, ma le cui conseguenze sono negative; eppure ciascun soggetto, allorché si trova chiamato a scegliere, sceglie sempre secondo il criterio del proprio bene (sia pure indiretto), secondo un criterio eudemonistico. Dunque il soggetto, oltre ad essere un giudice estremamente opinabile – e fallibile – dell’oggetto (perché è vero che sceglie per sé e non per altri, almeno in circostanze normali; ma è anche vero che crede di farlo in base a parametri oggettivi, cioè derivanti da valori assoluti), è anche un giudice inadeguato, perché sovente non è in grado di stabilire cosa sia giusto, buono, vero e bello neanche per sé, se non – forse – nella dimensione più immediata e superficiale.

Analizzare un oggetto e confrontarlo con altri oggetti è un’operazione che richiede tali e tanti pre-requisiti, una così vasta conoscenza del mondo, una così grande umilità e, al tempo stesso, una tale audacia (nel saper vedere oltre le apparenze e oltre la contingenza) che sembrerebbe più il compito di un dio che di un essere limitato, qual è l’uomo. In realtà, la ragione per cui, generalmente, si dà per scontato – ma a torto – che il soggetto sappia analizzare e adeguatamente confrontare gli oggetti della sua esperienza, è che ciò lusinga il suo amor proprio (intellettuale), nel tempo stesso che convalida la tendenza istintiva al giudizio, ad approvare e a disapprovare (moralmente) gli altri soggetti. Se riconoscessimo francamente che è cosa estremamente ardua e rara la capacità di analisi e di confronto necessaria alla scelta, dovremmo anche essere meno frettolosi nel gloriarci delle nostre scelte felici e nel censurare le altrui scelte infelici. In una parola, ridimensionare tanto la nostra arroganza quanto i nostri sensi di colpa. Ma l’uomo occidentale moderno (che da Copernico, Darwin e Freud ha dovuto abbandonare una trincea dopo l’altra della sua visione antrpocentrica dell’universo) sembra restìo ad evacuare anche quest’ultimo ridotto: la convinzione della piena e assoluta intenzionalità della coscienza.

d)

Il soggetto, infine, per poter veramente scegliere, deve essere in grado di effettuare una sintesi a posteriori degli oggetti in predicato, che lo metta in grado di eleggerne uno a preferenza di tutti gli altri. Il momento della sintesi finale, cioè del giudizio, è importante quanto quello dell’analisi e corona il momento del confronto tra i diversi oggetti: esso consiste nel ricapitolare tutti i dati in possesso del soggetto, nonché le previsioni e le congetture necessarie a delineare i possibili scenari futuri determinati dalla scelta. Agire d’impulso, fare "colpi di testa", lasciarsi guidare dall’istinto non è scegliere. Afferrare al volo la prima possibilità favorevole che si presenta, non è scegliere. "Saltare" il momento analitico e quello sintetico, decontestualizzare gli oggetti, assolutizzare i criteri del giudizio, non è scegliere.

Si obietterà che stiamo dando un peso eccessivo alla dimensione puramente razionale della scelta, mentre essa è anche frutto di passione, ardore, "salto" e, perciò stesso, rottura di un ordine, di un equilibrio, piuttosto che movimento graduale e regolare. A ciò rispondiamo che tale visione "romantica" della scelta si basa su un grosso equivoco: perchè è ben vero che la dimensione del rischio resta pur sempre ineliminabile dal momento decisionale e che da essa derivano l’esperienza della "vertigine" da parte del soggetto e la realtà ineludibile del "salto", della rottura; ma anche la vertigine più angosciante e il salto più rischioso (come, ad es., il salto nella fede, cioè nell’assurdo, di cui parla Kierkegaard) sono fattori che caratterizzano la decisone che fa seguito alla scelta, ossia quella particolarissima "terra di nessuno" fra l’intima scelta della coscienza e la sua traduzione in atto. Il processo della decisione, però, è tutt’altra cosa: esso abbraccia la rappresentazione degli oggetti, la scala dei valori, l’analisi e il confronto e la sintesi finale ed è, quindi, un atto eminentemente e sommamente razionale. Certo, ardore e passione (gli "heroici furori" di bruniana memoria) vi hanno pure la loro parte: chi potrebbe negarlo? ; e ciò specialmente quando la scelta investe la sfera estetica, etica e religiosa. Timore e tremore, diceva Kierkegaard. Ma, lo ripetiamo, non è tanto nell’elaborazione della scelta, quanto nella valutazione del suo carattere d’irreversibilità al momento d’esplicitarla, che la dimensione emozionale assume un ruolo importante. Anche qui, però, bisogna fare attenzione a non scambiare la causa con gli effetti. Il turbamento, la vertigine, insomma la passione sono normalmente la conseguenza della scelta, e non la causa; la causa è un atto della ragione, un assenso di tutta la coscienza, ma specialmente delle facoltà logiche, a un determinato oggetto rispetto a tutti gli oggetti possibili. Certo, la conoscenza degli oggetti risiede – lo abbiamo visto – in un mero atto di fede della coscienza. Sicché la ragione esercita i suoi diritti in un terreno che è stato comunque preparato dalla semplice credenza. Sicché la razionalità della coscienza è come sospesa nel vuoto fra due momenti sostanzialmente irrazionali: da un lato la credenza negli oggetti e, dall’altro lato, la vertigine per l’irreversibilità di ciò che si è scelto.

Questo significa che la condizione del soggetto intenzionale è intimamente contraddittoria. Deve dispiegare tutte le proprie facoltà razionali in un movimento di cui gli sfuggono i presupposti ultimi (l’essere-in-sé dell’oggetto, il noumeno) e le conseguenze ultime (il risultato effettivo della scelta compiuta). Inoltre, se il movimento della scelta è, in se stesso, in primis un atto della ragione, sotteso ad esso ed intrecciato ad esso vi è un atto del sentimento. Perché la volontà è fatta di ragione, ma anche di sentimento. Le due dimensioni della realtà sono pressoché inseparabili. Si sceglie perché si appetisce un bene positivo o perché si desidera schivare un male o perché si punta al male minore (causa finale), ma si sceglie anche perché una forza incoercibile chiede incessantemente di passare dal soggetto all’oggetto, di estrinsecarsi nel mondo e di dare sfogo a un impulso creativo (causa efficiente). La scelta esclusivamente razionale è mero tecnicismo, la scelta puramente passionale è spericolato salto nel buio. La vera scelta è un assenso della coscienza, dell’intera coscienza, accordato a un determinato oggetto sulla base di un processo razionale e di istanze pulsionali profonde.

II. Fisiologia della scelta.

Fin qui abbiamo delineato l’orizzonte teorico della scelta nella sua dinamica interna, nei suoi fondamenti logici, nella sua struttura morfologica. Abbiamo però sottolineato il carattere ipotetico del quadro così delineato e, in particolare, del presupposto della libertà o intenzionalità della coscienza. Dobbiamo pertanto considerare, dopo aver visto come la scelta si articola nel passaggio dalla potenza all’atto, se e fino a che punto un tale modello teorico trovi effettivamente riscontro nella dinamica esistenziale della coscienza. È un problema analogo a quello che si pone per la verifica dei modelli matematici: è possibile, ad es., costruire dei modelli teorici, a partire da ben precise leggi della fisica e dell’astronomia, di svariati universi possibili, tutti perfettamente logici e coerenti, ma senza che da ciò ne consegua alcuna certezza circa la loro esistenza reale. Tutto quel che un matematico può dire è se un dato modello sia intrinsecamente coerente, se non presenti – cioè – alcuna contraddizione con le leggi matematiche a noi note; se, in una parola, funzioni sul piano d’esistenza che gli è proprio, quello della logica. La sua eventuale esistenza, però, è tutta un’altra faccenda. A stento ci è possibile affermare, sulla base della matematica a noi nota, che un determinato modello di universo non può esistere perché, se esistesse, implicherebbe la violazione di una serie di leggi conosciute. Ma cosa sono le leggi, se non insiemi di modelli teorici sottoposti a continua revisione, i quali devono inchinarsi alla realtà effettuale e non viceversa? La legge della gravitazione universale è stata formulata da Newton sulla base della constatazione che i gravi tendono verso il basso, ossia – teoricamente – verso il centro della Terra. Sono le leggi a doversi inchinare ai fatti, non questi ultimi alle leggi. Pertanto, se in futuro scoprissimo dei fenomeni fisici che sono in contraddizione con le leggi ora ammesse dalla comunità scientifica, dovremmo evidentemente rivedere le leggi e non negare i fenomeni; cosa, questa, che la scienza "ufficiale" ha sempre trovato più comoda: da quando Pitagora – dicono – tentò di nascondere la scoperta dei numeri irrazionali, a quando gli astronomi che Galileo invitava a osservare i satelliti di Giove nel cannocchiale si rifiutarono di farlo, perché la loro esistenza avrebbe contraddetto il modello aristotelico dell’Universo. (1) A maggior ragione dobbiamo ammettere che l’efficacia (cioè la non

1) Il medico L. Dossey (Alla ricerca dell’anima, Milano, 1997, pp.17-18) riferisce che una donna, cieca dalla nascita e in stato di anestesia totale, vide e descrisse esattamente (al risveglio) tutti i particolari di quanto si era svolto intorno a lei, e perfino di quanto accadeva in una stanza attigua. Questo e molti altri fatti analoghi, rigorosamente documentati, suggeriscono l’esistenza di una mente non localizzata che sa molte più cose di quante non ne sappiano le singole menti: con buona pace di quella scienza materialista che si rifiuta di confrontarsi con la realtà dei fatti.

contraddittorietà) di un determinato modello matematico non implica l’esistenza, nel mondo materiale, di sistemi reali organizzati secondo tale modello. L’essenza non implica l’esistenza, anche se il nome stesso (essenza traduce il greco ousia: "ciò che è", oppure "sostanza"), usato da Aristotele per designare ciò che, dando forma a una certa quantità di materia, costituisce un individuo, suggerisce in qualche modo il passaggio dal piano teorico a quello effettuale. Se l’essenza è ciò che è, tutte le essenze esistono automaticamente; mentre sarebbe più giusto dire che se l’essenza è la sostanza, allora essa – per esistere – deve essere presente in una certa quantità di materia, alla quale dà forma. Nel primo modello teorico l’essenza coinciderebbe sempre con l’esistenza; nel secondo, esisterebbe alla condizione di esser forma di una data materia, elemento costituitivo di un dato ente materiale. Per fare un semplice e noto esempio tratto dalla fisica, diciamo che un mondo fatto di antimateria è possibile, perché la sua eventuale esistenza non violerebbe alcuna legge scientifica a noi nota; ma non abbiamo alcuna certezza che esistano degli universi (o delle regioni del nostro Universo) fatti di antimateria, né l’avremo sino a quando non ne avremo fatto osservazione diretta o fino a quando non ne avremo dedotto la raltà da indizi concreti significativi e coerenti. Inutile dire, poi, che tutto questo ragionamento lascia impregiudicata la possibilità dell’esistenza di enti non materiali, per i quali non valgono, evidentemente, le leggi del mondo fisico, né la logica su di esso costruita..

Tornando al nostro problema. Abbiamo visto a quali condizioni la scelta sia un evento possibile; ma non abbiamo raggiunto alcuna certezza riguardo al fatto che la scelta esista realmente. Dobbiamo quindi tentar di procedere in questa direzione di ricerca.

1) LA SCELTA COME SPECIFICITA’ UMANA.

L’essere umano è il soggetto specifico della scelta. Anche se l’unicità dell’essere umano fra i viventi non deve essere enfatizzata – tanto più che conosciamo ancora troppo poco dell’esistenza degli animali superiori, in particolare dei delfini, e meno ancora di altri eventuali esseri intelligenti di natura non materiale – resta il fatto che, allo stato attuale delle conoscenze, l’essere umano sembra l’unico essere capace di scelta nel senso specifico dell’espressione; e, pertanto, l’unico soggetto in senso proprio. L’animale, da questo punto di vista, resta oggetto: e ciò senza cadere nell’assurda concezione cartesiana che lo riduce a "cosa" priva di qualunque barlume d’intelligenza, mera res extensa. L’animale può essere soggetto, per esempio, dal punto di vista affettivo: chiunque abbia avuto per compagno un piccolo cane bastardo lo sa bene (e anche chi abbia letto Omero e l’episodio del vecchio cane Argo nell’Odissea). Ma il soggetto è, nel pieno senso della parola, colui che realizza il proprio essere nella scelta: e in questo senso pieno e completo, solo l’essere umano lo è. All’altro estremo della scala gerarchica degli esseri, Dio – se esiste – è certamente il Soggetto Assoluto; ma, a parte il fatto che la libertà di Dio sembrerebbe coincidere con la necessità (perché nemmeno Dio può sottrarsi alle leggi dell’essere, cioè alle sue stesse leggi, pena non essere più Dio), resta il fatto che Dio è una semplice ipotesi mentre noi, adesso, stiamo tentando di verificare le condizioni dell’esistente e non della mera possibilità teorica. Come ipotesi logico-matematica, Dio è certamente possibile: duemilacinquecento anni di storia della filosofia, però, hanno mostrato a sufficienza che ogni tentativo di una sua "dimostrazione" razionale è vano, perché ad ogni "prova" logica della sua necessità si può contrapporre una "prova" della sua non-necessità; e Kant, nella Critica della ragion pura, crediamo abbia detto una parola definitiva al riguardo. Con ciò non pensiamo affatto di aver chiuso la porta all’ipotesi Dio, ma semplicemente di averne escluso la pertinenza nell’ambito della nostra area di indagine. Se, poi, qualcuno ci obiettasse che di Dio è possibile fare l’esperienza, ma non darne la dimostrazione razionale, noi ci limiteremo a riconoscere che altre forme di conoscenza, diverse da quella logico-matematica, sono certamente possibili; ma che, essendo limitate alla sfera della conoscenza individuale, non hanno valore di universalità e, quindi, non servono ai fini del nostro ragionamento. È possibile – lo riconosciamo in tutta umiltà – che limitando la nostra ricerca all’ambito logico-razionale, alla fine ci sfugga il più e il meglio del suo oggetto; perché; forse, le cose più importanti della vita possono essere bensì sperimentate soggettivamente, ma non descritte a parole e tantomeno dimostrate mediante concetti. Pertanto la limitazione che ci siamo imposta è un prezzo doloroso da pagare, ma necessario: a questo prezzo e solo a questo prezzo è possibile fare filosofia. Diversamente non si farebbe filosofia, ma qualcos’altro; qualcosa di più profondo, forse, della filosofia: certamente qualcosa di più audace. Ma fare filosofia è procedere per dimostrazioni concettuali, mediante ciò che può essere espresso con parole; del resto, dice giustamente Wittgenstein, occorre tacere quello che non si può dire – oppure fare qualcosa di diverso dalla filosofia. (2)

Ma c’è di più. Noi, ai fini della nostra ricerca, non possiamo limitarci ad accantonare l’ipotesi di Dio come Soggetto ultimo della scelta: dobbiamo addirittura negarla. Se, infatti, ammettessimo l’esistenza di Dio, ne conseguirebbe che l’uomo non sarebbe più l’autentico e vero soggetto delle proprie scelte. L’uomo sarebbe un soggetto derivato e secondario, che riceverebbe il senso e le condizioni stesse della sua esistenza da qualcosa che è fuori di lui e che viene prima di lui, ontologicamente oltre che cronologicamente. Ma abbiamo visto in precedenza che il soggetto è tale a condizione di scegliere pienamente e autenticamente (sia pure in gradi diversi e mai in senso assoluto). Ora, l’uomo che riceve da Dio il suo essere sceglie solo indirettamente e parzialmente, sceglie, per così dire, in seconda battuta. In altri termini, l’uomo sceglie ciò che rientra nell’orizzonte del voler divino; l’uomo, infatti, per definizione non potrebbe scegliere al di fuori dell’ordine divino, quand’anche volesse opporvisi con ogni suo sforzo. "Tutto è Grazia", diceva giustamente, dal punto di vista del credente, il curato di campagna del romanzo di Georges Bernanos. Se tutto è Grazia, nulla di ciò che l’uomo può sentire o esprimere uscirà mai dall’orizzonte di essa: e la libertà umana sarà solo apparente. Il malvagio don Rodrigo potrà calpestare ogni legge umana e divina, ma – in effetti – non farà altro che alimentare il circuito virtuoso della Provvidenza. Dalle sue cattive azioni scaturirà (mediante, ad es., il rapimento di Lucia) un effetto positivo (come la conversione dell’Innominato). Ma, a quel punto, si potrà ancora sostenere che Don Rodrigo ha esercitato una sua libera scelta?

Non vogliamo certo cadere nella rozzezza speculativa del bakuniano "Se Dio esiste, l’uomo è schiavo; dunque, Dio non esiste", che è al tempo stesso ingenuo e semplicistico. Diciamo piuttosto: "Se vogliamo considerare l’ipotesi che l’uomo sia il soggetto delle proprie scelte, dobbiamo per prima cosa escludere l’azione (e, quindi, l’esistenza) di un Soggetto che agirebbe per mezzo di lui, nullificandone lo status, appunto, di soggetto." Si badi che un analogo rigore intellettuale deve vietarci di assolutizzare cioè, in qualche modo, di deificare) la Natura, la Materia o il Popolo (cioè il Partito), come vorrebbero le varie forme di meccanicismo, materialismo e totalitarismo; per non parlare dello Spirito Assoluto di hegeliana memoria. Se assumiamo, infatti, l’ipotesi che l’essere umano sia un semplice momento dialettico dell’Idea, ne consegue necessariamente che le sue capacità di scelta sono annullate, poiché in lui si esplicherebbe una logica superiore, di cui egli non sarebbe che l’inconsapevole strumento.

Certo, potremmo fingere di salvar capra e cavoli con una piccola astuzia come quella che permise a Epicuro di ammettere l’esistenza degli dèi beati e immortali, ma escludendo ogni e qualsiasi influenza loro nell’ambito del mondo terreno. Oppure potremmo sostenere, come Dante (Par., XVII, 37-42), che le cose contingenti sono presenti ab aeterno davanti a Dio, ma che da lui non prendono carattere di necessità, più di quanta ne prende una nave che avanzi lungo il fiume, per il fatto di essere contemplata da un osservatore esterno (e, su ciò, cfr. anche Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, XIV, 13; e Boezio, De Consolatione Philosophiae, V, 4: "Sicut scientia praesentium rerum nihil his, quae fiunt, ita praescientia futurorum nihil his quae ventura sunt, necessitatis importat": "Come la conoscenza del presente non imprime alcun carattere di necessità

2)Certo, la nostra definizione della filosofia può apparire limitata ed eccessivamente rigida. Nietzsche, ad es., si beffava della pretesa dei filosofi di vedere "chiaro e distinto" nella realtà. Come scrive Alfredo Fallica, "la sua è una superfilosofia. È la filosofia che supera se stessa, che si nega per affermarsi nella sua autenticità. È Nietzsche contro se stesso. Nietzsche senza Nietzsche" (dalla commemorazione al 17° Convegno dell’Ass. Intern. Studi e Ricerche F. N., Palermo, 2000). Ma, appunto, Nietzsche è un unicum: il suo approccio alla filosofia è talmente irripetibile che non può estendersi a una misura universale; anzi, in effetti, nemmeno allo studio di lui, se non si vuol tradirne lo spirito.

alle cose che avvengono, così la prescienza del furturo [da parte di Dio] non rende necessari gli eventi futuri"). Rimane il fatto che l’ipotesi di Dio postula un senso della scelta che è anteriore alle scelte dei singoli soggetti e che, quindi, le esproprierebbe di ciò che esse hanno di più specifico: la decisione del senso. Non si fa questione, infatti, se la prescienza di Dio sopprima oppure no il libero arbitrio, dando al futuro carattere di necessità; ma piuttosto del fatto che qualunque scelta umana, nella prospettiva teista, finisce per diventare strumento di un disegno trascendente la volontà dei singoli soggetti, e ciò di fatto annullerebbe l’intenzionalità della coscienza.

Apriamo una piccola parentesi. Passato e futuro, evidentemente, esistono per gli esseri finiti ma non per Dio, Essere Infinito, che essendo l’autore del tempo, è al di fuori di esso. In genere, coloro i quali sostengono che Dio non influenza il destino umano, pur conoscendo il futuro, arretrano poi davanti all’idea che Dio possa agire sul passato, modificandolo. Se infatti Pier Damiani aveva sostenuto che Dio, essendo a-temporale e onnipotente, può modificare il passato (così almeno ritengono i suoi studiosi, ad eccezione di L. Moonan), Guglielmo di Ockham, al contrario, pur distinguendo in Dio la potentia absoluta dalla potentia ordinata (in sostanza, la potenza soprannaturale da quella naturale), sostiene che vi sono dei limiti anche alla potenza assoluta. Dio, ad esempio, non può far sì che non siano accadute le cose accadute: e ciò non perché Dio non possa "interrompere" a suo arbitrio la potentia ordinata, ossia le leggi di natura (ad es., per mezzo di miracoli), ma perché – come già aveva visto Aristotele, a dire di Ockham – non può Egli contraddire le leggi da Lui stesso istituite. Una cosa è sospenderle, un’altra cosa negarle e distruggerle; ciò sarebbe contraddittorio, cosa inconciliabile con la perfezione divina.

Veramente, a questo proposito esistono da sempre due scuole di pensiero. Secondo Galilei, per esempio, Dio è "tenuto" a rispettare le leggi naturali, tanto è vero che la differenza di sapere fra Dio e l’essere umano è – secondo lui – quantitativa e non qualitativa. Infatti, dal momento che "il gran libro dell’universo" è scritto in caratteri matematici, l’uomo (che è fatto a immagine di Dio) il quale le sappia interpretare, perviene a un grado di certezza che è lo stesso di Dio: non extensive, ma intensive. Detto in parole povere, la somma di due angoli retti è un angolo piatto sia per l’uomo, che per Dio: anch’egli deve rispettare la logica con cui ha costruito l’Universo. Ma c’è un’altra scuola di pensiero, alla quale appartiene Pier Damiani, la quale ragiona in tutt’altro modo. Se noi dicessimo che Dio non può modificare il passato, imprigioneremmo l’infinità di Dio nei nostri angusti schemi logici. Neppure il principio di non-contraddizione si può applicare sul piano divino: Dio creatore non può trovare alcun ostacolo alla propria onnipotenza. Fra queste due scuole di pensiero, la scienza odierna (che è cartesiana e galileiana) tende, ovviamente, a identificarsi con la prima: sono oggi molti i fisici i quali, speculando al limite fra astronomia e filosofia, si chiedono se – dopotutto – sia proprio casuale il fatto che le leggi dell’Universo siano intellegibili alla mente umana; e, in genere, rispondono che le probabilità che lo sia appaiono piuttosto esigue. Di qui, la nascita del cosiddetto principio antropico: se l’Universo risulta comprensibile entro i paramentri della logica umana, non potrebbe darsi che l’uomo sia quello che è, precisamente perché la mente umana possa formarsi, evolversi e, alla fine, arrivare a comprenderlo? Di qui a ipotizzare che la coscienza umana sia la causa finale e il senso stesso dell’evoluzione dell’uUiverso, il passo è breve,

Ma è tempo di tornare al nostro assunto Abbiamo detto, con una certa doverosa cautela, che l’uomo sembra essere l’unico soggetto capace di scelta: perché l’animale è determinato dalla mancanza di libertà, Dio (se esiste) da una libertà assoluta che coincide con la necessità assoluta (l’una essendo il rovescio dell’altra). Questa affermazione attende ulteriori verifiche sperimentali. Verrà forse il giorno in cui si potrà dimostrare che nel movimento del girasole verso la luce o nell’accrescimento dei cristalli vi è un elemento di volizione non dissimile, nella sostanza, da quello proprio della mente umana. Quel giorno, forse, comprenderemo che tutte le pretese "leggi" della natura sottintendono una intenzionalità, dunque una scelta. Tuttavia, allo stato attuale delle nostre conoscenze, le cose stanno altrimenti. L’essere umano è solo davanti alle proprie scelte: da tale solitudine gli deriva il posto che egli pensa di occupare nella natura; da essa gli deriva il grado di consapevolezza che lo caratterizza, nel rapporto con sé e col mondo.

2) IRREVOCABILITA’ DELLA SCELTA.

Abbiamo visto che il soggetto non può non scegliere continuamente; che anche il non scegliere è una forma di scelta (non opporsi ad un certo sistema ideologico, ad es., significa de facto avallarlo); che solo scegliendo esso determina sé stesso e si definisce in quanto soggetto.

Tuttavia il carattere necessitato e necessitante della scelta non significa affatto che il soggetto vi faccia, per così dire, l’abitudine. Ogni volta è un rischio e una vertigine, ogni volta è come se fosse la prima volta. Questo vale, naturalmente, per la scelta consapevole, che definisce il soggetto in quanto autenticità e autoreferenzialità; ma che lo definise anche come relazionalità e socialità. Non esistono scelte "neutre", non esistono scelte ininfluenti: ogni scelta è drammaticamente unica e irrevocabile. In particolare, il carattere d’irrevocabilità della scelta ne definisce e circoscrive l’orizzonte etico-esistenziale. La scelta è la linea d’intersezione fra la possibilità del passato e la possibilità del futuro. Ha ragione Kiekegaard, infatti, quando sostiene che il passato non perde il suo carattere di possibilità per il fatto d’essere passato; ma a patto di precisare che la possibilità del passato è tale solamente all’interno del continuum temporale globalmente considerato. Dal punto di vidta del presente, invece (che è il nostro abituale punto di osservazione della realtà) il passato, in quanto tale, appartiene alle possibilità trascorse e non più attuali. In altre parole: l’infinita possibilità dell’ieri permane in senso assoluto, cioè giudicando l’insieme dello spazi-tempo i cui orizzonti ci sono di fatto preclusi (tranne che nell’estasi mistica e in altri stati coscienziali non abituali), ma decade in senso relativo. Infatti in senso relativo, che è il nostro abituale orizzonte di senso, ciò che è accaduto è accaduto per sempre, irrevocabilmente: mai più potrà ritornare (come affermava anche Eraclito), né potrà essere azzerato, forse neanche da Dio stesso (come voleva Pier Damiani); certamente non dall’uomo. (3)

Cerchiamo di esemplificare meglio questo importante passaggio. Immaginiamo che il tempo sia un sentiero nel bosco e che la scelta sia rappresentata da un bivio. Immaginiamo che il soggetto X, nell’anno 2000, giunto a tale bivio, abbia imboccato il sentiero alla sua destra, trascurando quello a sinistra. Nel 2010 il soggetto Y, giunto allo stesso bivio, riconosce le tracce lasciate dal passaggio di X dieci anni prima: sulla corteccia degli alberi, infatti, la "firma" di X e la data appaiono incisi chiaramente. Ora, nel 2010, Y riflette che X, a suo tempo, aveva due possibilità avanti a sé; ma che, dopo aver fatto la sua scelta, l’orizzonte di essa si è spostato nel passato e non potrà essere riportato allo stato iniziale. Il futuro del passato è divenuto, a un dato momento, passato esso pure; resta solo il futuro del futuro; ma, dal punto di vista del presente, ciò che poteva essere è diventato passato e, quindi, non ha pià carattere di possibilità, ma di necessità irrevocabile. Certo che si può ritornare a quel bivio e scegliere, stavolta, il sentiero di sinistra; ma non sarà la stessa scelta di quella prima; sarà un’altra scelta; la scelta di allora rimane, è consegnata al passato e non potrà più uscirne. (4)

3) Prescindiamo, in questa sede, dall’ipotesi della curvatura del tempo (peraltro non certo peregrina, come gli sviluppi della fisica, da Einstein in poi, lasciano supporre), che ci riporterebbe alla teoria dell’eterno ritorno, intravista dagli antichi e teorizzata compiutamente da Nietzsche. Non perché si tratti di un’ipotesi gratuita, ma perché se è vero che il tempo è nulla dal punto di vista dell’eterno, è altrettanto vero che la nostra attuale condizione è quella di esseri-nel-tempo e dunque – come la formichina che avanza sul pallone credendolo una superficie infinita, mentre è solo illimitata – l’attimo della scelta è, per noi, unico e irripetibile, quindi anche irrevocabile.

4) Tralasciamo di considerare – perchè non è questa la sede idonea – che cosa accadrebbe se fosse X a tornare presso il bivio di dieci anni prima – ammesso che ciò sia possibile, dal momento che ogni scelta corrisponde a un bivio, e ciò modifica continuamente la fisionomia del bosco: sicché tornare al bivio affrontato da X dieci anni prima potrebbe essere una impossibilità logica (quel bivio non esistendo più o, comunque, essendo divenuto irriconoscibile). Come abbiamo già accennato, ogni soggetto è una realtà dinamica e continuamente mutevole, quindi è cosa ardua sostenere l’identità fra il soggetto X di oggi e il soggetto X di un tempo passato (cfr. sull’argomento anche Ragioni e persone di Derek Parfit). Resta il fatto che, per ragioni puramente pratiche, noi tendiamo a ignorare la distinzione; non si tratta, però, di un dettaglio puramente intellettualistico: perfino i sistemi giuridici tendono a distinguere, in sede penale – a determinate condizioni – fra l’io "abituale", del presente, e l’io caratterizzato da particolari stati di coscienza, che ha compiuto certe azioni nel passato.

Vi è qualcosa di terribile, in questo. Scegliere è anche un poco morire, anticipare la propria morte nella scomparsa successiva delle varie possibilità; è passare dal regno del divenire, della speranza, dell’essere-per-la-vita, al regno oscuro dell’immobilità, della disillusione, dell’essere-per-la-morte. Ogni mattino il sole ci porta un numero potenzialmente infinito di possibilità e ogni notte, coricandoci, siamo consapevoli d’averne ucciso un numero infinito. E ciò a prescindere dalla qualità

e quantità (magari notevole) delle cose che riusciamo effettivamente a pensare, dire e realizzare concretamente. Scegliere vuol dire, ogni volta, imboccare un solo sentiero nel bosco (anche se siamo giunti non a un bivio, ma a un trivio o un quadrivio e così via); scegliere una ed una sola delle varie possibilità a noi concesse, facendo scivolare nel non-essere tutte le altre, seppellendole in un passato irrevocabile. Mai più risorgeranno dalla loro tomba; se ne presenteranno delle altre, magari apparentemente simili; ma quelle scartate a suo tempo non ritorneranno mai più. È un paradosso matematico anche questo: la somma delle possibilità future continua ad essere infinita, anche nell’ultimo giorno della nostra vita (diminuiscono gli oggetti della scelta, non le possibilità di scelta); ma le infinite possibilità passate sono scomparse per sempre.

Oppure i sentieri non percorsi continuano ad esistere? Le possibilità a suo tempo non esperite si perdono davvero nel nulla, oppure (come possibilità teoriche, si capisce) continuano ad esistere? Il fiore che nessuno ha colto, scompare nel non-essere o continua ad esistere, su un altro piano di realtà? Se paragoniamo a un labirinto il flusso temporale della vita umana, possiamo chiederci: che ne è dei sentieri non percorsi? Rientrano nel nulla quando i nostri piedi si dirigono altrove, o esistono (come possibilità non esperite) tanto quanto prima? Che ne è dei bambini non nati, delle poesie non scritte, dei delitti non perpetrati (ma forse accarezzati), degli amori sfumati (e magari sperati, desiderati, sognati)? Che grado di esistenza hanno gli enti virtuali, che a suo tempo erano possibilità reali, ma che non vennero "scelti"? Una musica pensata ma non scritta; un seme caduto nella terra, ma non germogliato; una pioggia ristoratrice a lungo attesa, ma non mai caduta? Una battaglia che poteva essere vinta, ma fu perduta; una rondine che poteva ritornare, ma non tornò; un errore che poteva essere compiuto, ma che fu evitato?

Certo, le cose che non furono (anche se avrebbero potuto essere) non possono avere lo stesso grado di esistenza di quelle che avrebbero potuto non accadere, ma accaddero. Oppure lo possono avere? Che differenza ontologica c’è fra ciò che non è più e ciò che non è mai stato? Non sono entrambi non essere? Lo sono, dal punto di vista (parziale) del presente; non lo sono dal punto di vista dell’assoluto (che all’essere umano è precluso; o, almeno, è precluso all’uomo ordinario, in condizioni ordinarie: il bastone di Mosè era un serpente o era un bastone?). Dal punto di vista dell’assoluto, esistono diversi livelli di entità delle cose: 1) le cose che non furono mai, ma che avrebbero potuto essere (le possibilità non esperite, i sentieri non percorsi); 2) le cose che furono, ma che poi cessarono di essere (perché "trascorse" dal presente al passato) e quelle che sono, ma che non saranno più; 3) le cose che saranno, ma che (al presente) non sono ancora. Per fare degli esempi concreti: il bambino che poteva nascere, prima che sua madre abortisse; il bambino che diventò uomo e poi morì; il bambino che nascerà fra qualche settimana (ma questo potremo dirlo con certezza solo allora). Tutti, a un certo punto, diventano non-essere oppure sono non-essere prima di diventare reali: ma tutti, a un dato momento, hanno avuto un qualche grado di essere (o almeno, come nel primo e nell’ultimo caso, di poter-essere).

L’essere umano, però, non si muove nella dimensione dell’assoluto, ma in quella del relativo. Per lui, ciò che poteva essere e non fu è solo un’ipotesi; ciò che era (o che è) ma che non è più (o non sarà più) è solo un’ombra; ciò che sarà (ma che non è ancora) nient’altro che attesa.

A noi, in questa sede, importa la relazione del soggetto con ciò che avrebbe potuto essere ma che, in conseguenza di una determinata scelta, non è stato e non lo sarà mai più. Questa tipologia di oggetti è in relazione con la tipologia degli eventi che accadranno: a tutta prima, anzi, nel concreto livello esperienziale, si presentano pressoché identici. È solo il fluire del presente nel passato, lo scorrere in avanti della freccia del tempo che opera, a posteriori, una distinzione fra le cose che potevano accadere e che sono accadute, e quelle che potevano accadere e non sono accadute. Ora, nel mondo concreto dell’esperienza, tutti i soggetti e tutti gli oggetti sono strettamente correlati: non c’è nulla che, accadendo, non eserciti una ripercussione su tutti gli altri eventi presenti e futuri: e, come vedremo, perfino su quelli passati. Tutta la realtà è una rete fittissima di relazioni reciproche fra gli enti e gli eventi., d’influenze e di effetti a catena: nulla è ininfluente, nulla è trascurabile. Cosa può esservi di più comune di un uomo e una donna che fanno l’amore? Ma se il frutto della loro unione è un bambino di nome Adolf Hitler, l’intera storia del mondo cambia, e cambia drammaticamente. Cambia, in verità, anche se quel bambino è e rimane, crescendo, un perfetto sconosciuto; cambia se il giorno tale egli coglie (o non coglie) un fiore nel prato pieno di fiori; cambia se marina la scuola, se riceve un giocattolo piuttosto che un altro (o se non ne riceve alcuno); le conseguenze – dirette o indirette – di tali eventi, apparentemente insignificanti, arriveranno agli estremi confini del mondo e del tempo. L’intera realtà fenomenica è un complicatissimo gioco incrociato di eventi e di possibilità: ad ogni istante, innumerevoli possibilità si traducono in decisioni, e queste in selte, vanificando infinite altre possibilità e aprendo la via ad infinite altre per il futuro, che si presenteranno poi all’appuntamento con il destino dei vari soggetti; e così via, all’infinito.

Ora, abbiamo sostenuto che la scelta è irrevocabile. Significa, questo, che non solo ciò che accade, ma anche ciò che non accade modifica il presente (e il futuro e lo stesso passato), rimettendo in gioco infinite possibilità che – altrimenti – non sarebbero mai divenute tali? (5) Prima di rispondere – o tentar di rispondere – a questa domanda, dobbiamo precisare in che senso il presente possa modificare il futuro o il passato. Il futuro, rimodellando il quadro delle possibilità (che potrebbero tradursi in eventi reali); il passato, rivestendolo di una luce nuova, che può modificarne totalmente il significato. Certo, il passato è passato: è dato e, perciò, non modificabile. Tuttavia è modificabile il nostro modo di viverlo, di percepirlo: e non abbiamo detto che noi nulla sappiamo delle cose in sé, bensì conosciamo soltanto le cose all’interno del nostro orizzonte percettivo? Una scoperta inattesa, una rivelazione del presente può cambiare di segno la realtà del passato: un caro ricordo può diventare odioso, e viceversa. È la chiave del presente che determina la nostra lettura del passato. (6)

Che, tuttavia, il passato abbia carattere d’irrevocabilità, questo è compreso intuitivamente dalla coscienza: non vi è bisogno di ragionamenti e dimostrazioni. Proprio perché tutto è correlato, l’evento compiuto non può essere richiamato indietro e annullato; può essere cambiato di segno, non scomparire (tranne nel caso dell’oblìo: ma le cose dimenticate, come insegna la psicanalisi, non si perdono nel "nulla"; scivolano invece sotto il livello della coscienza, donde continuano ad agire sui nostri comportamenti e contribuiscono a determinare la tonalità, per così dire, del nostro orizzonte psichico). Al tempo stesso, gli eventi non accaduti quando accadde quel tale evento, che li

5) Dobbiamo accennare, arrivati a questo punto, che esistono diversi gradi di possibilità così come esistono diversi gradi o livelli di realtà. Così come vi è una fase intermedia tra il sonno e la veglia (il dormiveglia) o tra il seme e la pianta (il germoglio), vi è del pari una fase intermedia tra la possibilità immediata e la possibilità remota. Tale fase intermedia non è semplicemente cronologica, ma ontologica: i possibili immediati non sono solo quelli più vicini nel tempo futuro, ma anche – per così dire – quelli più a portata di mano, ossia più possibili di altri. Si ricordi quel che abbiamo detto sulla natura dinamica e profondamente interconnessa del reale: ciò significa che ogni scelta determina uno spostamento dei possibili, e così via all’infinito, sicché ciò che è più possibile ora, lo diventa meno poi, e viceversa. Si badi che "più (o meno) possibile" non significa "più (o meno) probabile": il probabile indica una prevalenza quantitativa di possibilità in una direzione determinata, il più (o meno) possibile indica, invece, uno status intrinseco alla medesima possibilità rispetto a una serie di soggetti dati.

6) Si dirà che tale modificazione del passato a partire dal presente è di tipo esclusivamente emozionale e psicologico, non ontologica,m essendo il passato in sé steso immodificabile. A questa obiezione rispondiamo che qualunque lettura della realtà da parte del soggetto, dunque anche quella del presente, è di tipo emozionale e psicologico: non esistono altri modi, per esso, di mettersi in relazione col mondo esterno. La coscienza fa da filtro tra il soggetto e l’oggetto, sempre, per la buona ragione che l’oggetto della cosa in sé, il noumeno – come già osservato- ci è fatalmente precluso. Parafrasando Leibniz, noi siamo monadi senza porte e senza finestre; per aprirle verso il mondo esterno dobbiamo, in qualche misura, ricreare il mondo entro di noi, e ciò facciamo a partire dalle noste ategorie emozionali e psicologiche. La lettura del mondo da parte del soggetto non è mai un’operazione neutra e obiettiva, e ciò spiega come l’oggetto non sia mai percepito allo stesso modo da due soggetti, pur in identiche condizioni; anzi, come nemmeno lo stesso soggetto lo percepisca come identico, in due momenti diversi.

vanificò (i sentieri non scelti, le possibilità non realizzate) si eclissarono come meteore nel cielo del mondo fenomenico, oppure esercitarono ach’essi, indirettamente – come le cose obliate – una sorta d’influenza sulla realtà effettuale? Anche qui, forse, un esempio concreto potrà aiutarci ad illumimare questo complesso e delicato passaggio.

Il signor X, poniamo, ha un appuntamento con il signor Y a una ceta ora di un certo giorno. Ma poi, mentre si sta recando all’appuntamento, incontra casualmente (e cos’è mai il caso, se non la combinazione risultante da infinite possibilità?) il signor Z. Questo incontro imprevisto gli fa perdere un buon quarto d’ora: intervallo di tempo che si rivelerà decisivo per i due protagonisti della storia e, indirettamente, per innumerevoli altri. Il predetto incontro, infatti, avrebbe dovuto preludere a una importante cena d’affari; ma il signor Y, spazientito, decide di non potersi fidare di un futuro socio d’affari che non rispetta la puntualità, e si allontana senza aspettarlo oltre. Niente cena, niente affare, niente seguito della storia. Ma non è finita. Quella sera, rientrando a casa, il signor Y viene assassinato. La polizia scopre, leggendo la sua agenda, che per l’ora del delitto aveva appuntamento col signor X (cosa confermata dal signor Z, che lo aveva saputo appunto da Y); quanto a X, ovviamente, niente alibi. Questi, allora, viene processato, condannato e (poniamo) giustiziato. Domanda: le cose che avrebbero potuto accadere (la cena d’affari di X e Y) esercitano, non accadendo, una qualche forma d’influenza sulle cose realmente accadute (l’omicidio di Y e la tragedia giudiziaria di X)? Parrebbe di sì. Se l’incontro ci fosse stato, probabilmente Y non sarebbe morto quella sera (sarebbe rientrato molto più tardi) e certamente X non sarebbe stato sospettato (niente delitto, niente condanna). Ma c’è di più. L’incontro che non c’è stato, la cena d’affari che non c’è stata, pur non essendoci stati, hanno contribuito a modificare la realtà. Ma ogni giorno, ogni istante e dovunque, innumerevoli cose accadono e innumerevli cose non accadono. Le cose che non accadono, non accadono perché ne accadono, invece, altre al loro posto; oppure queste altre accadono, perché non sono accadute quelle? Qual è la causa e quale l’effetto? Entrambe le classi di eventi, quelli che accadono e quelli che non accadono, esercitano un’influenza reciproca fra di loro? Ma se è così, gli eventi non accaduti sono, per sempre, cose e non puramente non-cose. Dunque parrebbe che due classi di cose configurino la realtà effettuale: le cose che sono e le cose che non sono(non ancora, non più, mai). È questo un mondo di specchi beffardi e ingannnevoli, come quello di Alice nel Paese delle meraviglie? Per ogni oggetto c’è un non-oggetto, per ogni tempo c’è un non-tempo (per ogni compleanno, ad es., un non compleanno)? Lewis Carroll, non dimentichiamolo, era un valente matematico. Le sue bizzarre (ed intriganti) elucubrazioni su non-orologi e non-compleanni sono frutto di profonde intuizioni logiche, piuttosto che capricci fantastici senza capo né coda.

Ma attenzione. Quando parliamo delle cose che non sono accadute, non alludiamo a delle cose contrarie alle cose accadute, come l’immagine speculare di esse: non pensiamo, per intenderci, a cose come l’anti-materia e (posto che vi sia) l’anti-tempo. Noi possiamo, entro certi limiti, concepire un mondo fatto di antimateria, oppure un mondo in cui la freccia del tempo viaggi all’incontrario (dal presente verso il passato anziché verso il fututo, e producendo così futuro anziché passato). Ma non possiamo concepire un mondo inesistente: sarebbe una contraddizione in termini. Se un tale modo non esiste, niente può essere detto al riguardo. Lo si può definire solo in negativo, per il suo non-essere. (7)

Un’altra domanda. Dove vanno a finire le cose che non sono più? Dove "attendono" quelle che non sono ancora? E quelle che avrebbero potuto essere ma, poi, non furono, esistono da qualche parte, in una dimensione diversa da quella di questo spazio-tempo? Esistono forse infiniti mondi, anzi infinite serie di mondi, corrispondenti alle infinite serie di possibilità di tutto il passato, il presente e il fututo? In particolare: le cose non accadute, perché non potrebbero accadere su un diverso piano della realtà? Il fatto che nessuno abbia percorso i loro sentieri, vuol forse dire che quei sentieri non esistono affatto? Oppure sono ancora e sempre lì, presenti, come possibilità eternamente possibili?

7) Osserva Antonio Rosmini che il nulla, come nulla, non si pensa né si può pensare. Quando l’uomo pensa il nulla,egli pensa una relazione dell’ente contingente, una relazone che l’ente ha col pensiero e con se stesso, per la quale si pensa che l’ente o è, nel qual caso è pensabile, o non è, nel qual caso non è pensabile.

3) PROBLEMATA: I DIVERSI GRADI DI ESISTENZA DELL’ENTE.

Vi è una sorpresa in serbo per chi, spintosi in esplorazione fino agli estremi confini della realtà, credendo di afferrare l’essenza dell’essere si trova, invece, tra le mani enti sempre più impalpabili e inconsistenti: semi-cose e ombre di cose. È venuto il momento, per chiarire in tutti i suoi aspetti la natura e la fisiologia della scelta, di guardare un po’ più da vicino gli oggetti relativi alla scelta, cioè il mondo delle cose.

Abbiamo visto che una prima, grande distinzione va fatta tra le cose che sono e le cose che non sono. Tra quelle che non sono, abbiamo distinto quelle che non sono più (ma che furono), quelle che non sono ancora (ma che saranno), e quelle che non sono affatto (ma che avrebbero potuto essere). Quest’ultima classe è la più vasta e la più elusiva: c’è una differenza di grado, per esempio, tra la scelta di un oggetto accarezzata pigramente e mai portata a termine ed un’altra, fortemente voluta ed attuata interamente, ma risoltasi nella perdita e nel mancato conseguimento dell’oggetto desiderato. Nel primo caso, l’ente non realizzato è appena una vaga parvenza di cosa possibile, nel secondo è invece un ente cui mancava poco per tradursi in oggetto vero e proprio, e che tuttavia ha mancato il momento finale della propria realizzazione. Il caso-limite è costituito da quella volontà che, tesa fino allo spasimo (come nei riti sciamanici e, in genere, nelle arti magiche) arriva a materializzarsi in ente tangibile e ad esercitare un influsso diretto sulla realtà circostante. (8) Quello è precisamente il punto d’incontro fra non-essere ed essere, a conferma del fatto che essere e non essere non sono due realtà rigidamente contrapposte, ma piuttosto i due punti terminali di una scala gradualmente sfumata che porta dall’uno all’altro, e viceversa. (9)

Tutto questo diventerà più chiaro se spostiamo l’attenzione dalle cose che non sono (che non sono più, che non sono ancora, che non furono e non saranno mai) a quelle che, invece, sono. E per essere sicuri d’intenderci, faremo un esempio concreto e semplicissimo, addirittura banale: quello di

un corpo materiale; per esempio, di una mela. Una mela è una mela, ossia una cosa che è. Ora, però,

8) La viaggiatrice e studiosa Alexandra David-Neel riferiva, nell’Ottocento, che i monaci tibetani erano in grado di materializzare i propri pensieri in creature reali, i cosiddeti tullpa, capaci – a un dato momento – di separarsi dalla mente di colui che li ha evocati e di vivere di vita autonoma. Tematiche analoghe sono state trattate, su un altro versante, da scrittori come Pirandello, Unamuno, Borgés. Tale convinzione è sostenuta anche dall’americano Walter M. Germain, I segreti poteri del superconscio. Perfino scienziati dei nostri giorni, psichiatri e centri di potere militare si sono interessati al principio dei tullpa; Lynn Picknett e Clive Prince, nel libro-inchiesta Il complotto Stargate, descrivono il tentativo di oscuri centri di potere politico-militare di evocare i nove dèi di Eliopoli, ossia di resuscitare l’antica religione egiziana, per i loro fini di dominio mondiale. Lo scrittore H. P. Lovecraft, da parte sua (secondo lo studioso inglese Colin Wilson) tentò – forse inconsapevolmente – di richiamare sulla Terra i Grandi Antichi, divinità primordiali capaci di scendere dalle stelle mediante una "porta" magica. Secondo questa interpretazione, gli dèi sono letteralmente creazioni della psiche umana, portati all’esistenza dalle invocazioni, dalle preghiere e da appositi cerimoniali magici. Esperimenti condotti in moderni laboratori tenderebbero a dimostrare che, se un gruppo di persone si concentra col pensiero su un personaggio immaginario avente determinate caratteristiche stabilite in precedenza, questo tende effettivamente a manifestarsi mediante fenomeni paranormali (a meno che questi ultimi siano un prodotto dell’inconscio degli sperimentatori).

9) È noto che per il filosofo neopositivista Karl Popper la realtà è composta dall’inteazione di tre mondi: quello degli oggetti fisici, quello del pensiero e quello della comunicazione (che possiamo esemplificare rispettivamente con un libro come semplice oggetto; con il contenuto di pensiero del libro stesso; con le idee da esso evocate in diversi soggetti, magari tradotto in varie lingue, in tempi e luoghi diversi. Popper dubitava dell’esistenza reale del mondo due e del mondo tre, ne constatava però gli effetti reali. Ebbene al mondo tre noi saremmo propensi ad aggiungere un mondo quattro, costituito dalle diverse forme mentali che il mondo tre evoca nei diversi soggetti: un libro, un quadro, una musica trasmettono indubbiamente dei contenuti universali (qualunque lettore deve ammettere che il quinto canto dell’Inferno dantesco parla di Paolo e Francesca, ma non si troveranno due soli lettori nei quali esso abbia evocato identici sentimenti ed impressioni. Volendo, si potrebbe postulare anche un mondo cinque, costituito da simboli universali attinenti all’Inconscio Collettivo (Jung dimostrò che alcuni suoi pazienti, del tutto ignoranti dell’antica mitologia greca, sognavano tuttavia simboli mitologici). Il mondo sei sarebbe allora quello degli enti che hanno cessato di esistere nel tempo (non solo quelli materiali, ma anche psichici); il mondo sette, quello degli enti che esisteranno in futuro; l’otto, quello degli enti che avrebbero potuto giungere all’esistenza, ma che non si realizzarono.

noi prendiamo quella mela e ne tagliamo via mezza, per mangiarla. La mela è ancora una mela? Sì, ma una mezza mela. Tagliamo via un’altra metà della metà: ci rimane ancora una mela? In effetti, un quarto di mela. Un quarto di mela; un ottavo; un sedicesimo, un trentaduesimo di mela è ancora e sempre una mela?Una briciola infinitesima di mela, è ancora una mela? In altri termini: qual è il confine che separa le cose dal non essere più se stesse? Un corpo decapitato, è ancora un corpo umano? E se tagliamo via braccia e gambe, come il feroce Agamennone, sotto le mura di Troia (Iliade, XI, 143-47), fece col povero Ippoloco, allorchè "lo spinse come una macina a rotolar tra la folla"? È ancora un corpo umano, ridotto in simili condizioni? E un fiore privato dei petali, privato della corolla, privato del calice: è ancora un fiore? E il giorno, quando sia arrivato all’ultima sua ora, all’ultimo suo minuto: è ancora quel giorno? Secondo il calendario, sì; ma secondo la sua logica intrinseca? Un giorno è formato da ventiquattro ore, non da pochi istanti. Una casa è formata dalle fondamenta, dalle pareti e dal tetto: se mancano tetto e pareti, la casa è ancora una casa?

Non sappiamo dire esattamente quando, ma è certo che le cose, allorché siano private di una serie di parti e di caratteri loro propri, cessano di essere se stesse; tendono a divenire cose sempre più incomplete, poi frammenti di cose, infine vestigia e, da ultimo, non-cose, ricordi più o meno vaghi di cose che furono. (10) il Monte Bianco, fra dieci milioni di anni, sarà ridotto – poniamo – dall’erosione (e nonostante il sollevamento tettonico) a un’altezza di soli 2.000 metri sul livello del mare: sarà amcora il Monte Bianco? E fra cento milioni di anni, quando sarà una collinetta di soli 200 metri, assolutamente irriconoscibile anche per la forma? Oppure pensiamo al Bollettino della Vittoria del generale Armando Diaz, e alla frase: "I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza". Ma l’esercito austro-ungarico in dissoluzione, alla data del 4 novembre 1918, era ancora l’esercito austro-ungarico? Quelle divisioni decimate, affamate, lacere e demoralizzate, quasi senza più capi né disciplina, irrimediabilmente sbandate, erano ancora un esercito? Quei soldati che, ormai, non riconoscevano altra autorità che quella dei rispettivi Consigli nazionali, erano ancora dei soldati? Quelle uniformi sbrindellate, brulicanti di parassiti, erano ancora uniformi?

Le cose materiali passano gradualmente dall’essere al non-essere. I viventi, i minerali, i pianeti e le galassie invecchiano, muoiono e si dissolvono, disperdendosi nei loro elementi più semplici. Un cadavere è ancora un corpo; ma un cadavere, dopo qualche decina d’anni (nel migliore dei casi), non è che polvere; e anche la polvere, dopo qualche migliaio d’anni, scompare. Dove c’era l’essere, ora c’è il non-essere. Dove c’erano città fiorenti, ora non vi sono che ruderi coperti di erbacce (Dante, Paradiso, XVI, 73 sgg.). Fra le pieghe delle Prealpi Carniche c’è, seminascosto dalla vegetazione selvatica, quel che resta di un grosso centro abitato: Palcoda, abitato fino alla metà del XX secolo e poi del tutto abbandonato dai suoi abitanti, che avevano vissuto in condizioni d’isolamento pressoché inverosimili. Nemmeno una strada asfaltata lo raggiungeva, attraversando il torrente Chiarzò e collegandolo alla Val Tramontina. (A proposito. Ecco un altro esempio di come il non-essere influenza l’essere. Quella strada che non fu mai costruita, quel ponte che non venne mai gettato, decisero il destino di Palcoda. Cfr. il romanzo di Alcide Paolini, Il paese abbandonato, anche se il nome del paese non viene mai pronunziato). Ora non ci sono che brandelli di muro infestati da ortiche e farfaracci: è ancora Palcoda, quella? Quando la vita lascia un luogo o una persona, dobbiamo dire è oppure era?

10) Lo studioso Mirko Grzimek, autore di fondamentali studi sulla malattia e sulla morte in Occidente, fa presente che la morte stessa non è un evento, ma un processo, poiché non è possibile stabilirne il momento esatto né sotto il profilo medico, né sotto quello giuridico. Sono note le perplessità etiche legate alla difficoltà di stabilire, in certi casi, il momento reale della morte di un essere umano. Se tale margine di indeterminatezza esiste per la realtà che i viventi giudicano certa e definitiva sopra ogni altra, si pensi a come devono essere incerti e sfumati i confini che separano l’essere dal non-essere di cose molto più quotidiane e meno drammatiche. I fisici delle particelle sub-atomiche hanno una chiara percezione di questo fatto, quando parlano di "onde di probabilità" per localizzare, ad esempio, un determinato elettrone; per non parlare del ruolo svolto, in tale indeterminatezza, dall’atto medesimo dell’osservare. È noto, ad es., il paradosso del "gatto di Schrödinger", che risulta essere contemporaneamente vivo e morto a seconda della posizione occupata dall’osservatore rispetto al sistema in cui il gatto è collocato.

Dunque, le cose materiali sono caratterizzate da un diverso grado di entità: dal totale non essere di quelle scomparse (11), all’essere parziale di quelle presenti solo in un dato momento – ovviamente, considerato rispetto al nostro punto di vista spazio-temporale: che crea un effetto illusionistico simile a quello per cui le stelle più luminose sembrano anche più vicine e sembrano formare costellazioni; mentre, in realtà, quelle distanze e quelle proporzioni reciproche dipendono unicamente dal punto di osservazione del nostro pianeta. Nessuna cosa, probabilmente, è se stessa al cento per cento. (12) Ogni oggetto materiale perde milioni di atomi ogni giorno, ogni minuto. In condizioni normali, un essere umano perde qualche centinaio di capelli a settimana (in genere, compensati alla ricrescita). Certo, di una persona anziana che vedemmo bambina si può dire: "È proprio lui, quello?", ma di una persona scomparsa da molti anni, che cosa si può dire?

Resta da vedere se gli enti immateriali si comportino diversamente. Abbiamo già fatto l’esempio del giorno che volge al termine. Giudicando a prima vista, si sarebbe portati a dire che la bellezza, la verità, la forza, il coraggio (e tutti i loro contrari) sono o non sono, semplicemente e senza alcuna via di mezzo. Una persona, ad esempio, è nota per la sua pazienza o per la sua tenacia. Ma le circostanze avverse logorano lentamente la sua forte fibra moale, riducono progressivamente la sua capacità di esercitare la pazienza e la tenacia. Una tenacia dimezzata, è ancora tenacia? La pazienza ridotta, poniamo (se fosse possibile misurarla), di tre quarti, sarebbe ancora la pazienza? O non scomparirebbe gradualmente, finendo per trasformarsi nel suo contrario? Se la paura cede il posto al coraggio, nell’esaltazione della battaglia (come nel magistrale The Red Badget of Courage di Stephen Crane), che ne è della paura? Non c’è più. È diventata non-essere. Al suo posto c’è il coraggio, come nel luogo in cui vi era un’antica casa pericolante sorge ora una moderna costruzione a più piani, dotata di ogni comodità. In effetti, nel movimento del mondo fenomenico le cose vanno e vengono: si alternano, s’intrecciano e si confondono. Ora è paura, poi coraggio; poi di nuovo paura; infine l’una e l’altro mescolati insieme, inestricabili, inestinguibili. Se la paura è un ente (immateriale), che ne è a questo punto di esso? Esiste ancora? E se non esiste più, come si può definirlo ancora un ente? L’ente è ciò che esiste, il resto è non essere.

Si dà, quindi tutta una varia e ricchissima gerarchia di entità degli enti: da quelli che godono di un grado di entità (quasi) piena e perfetta, a quelli che sono diventati non-essere, lasciando dietro a sé tracce sempre più deboli della loro esistenza. Al livello più basso di tutti, le cose che non solamente non sono, pur avendo avuto la possibilità di essere, ma che non sono mai state e mai avrebbero potuto essere. Un libro mai scritto, e tuttavia pensato, è un esempio del primo genere; un libro mai scritto e mai pensato è un esempio del secondo. Non è un gioco di parole: nella pratica, un libro mai pensato è impensabile perché, se lo penso, vuol dire (ovviamente) che è stato pensato. Ma infinite cose non sono mai state pensate, né sognate, né cercate, né ipotizzate. Quando Cristoforo Colombo, avvicinandosi alle coste americane, vide uccelli e fronde galleggianti, seppe che la terra era vicina, pur non conoscendola: l’ente per lui esisteva, pur essendo manifesto solo attraverso indizi. Ma l’Eldorado, che i conquistadores cercarono per secoli, esisteva nelle loro menti e non nella realtà; e così la Città dei Cesari, nelle lande estreme della Patagonia andina. Era un ente: l’idea di un Paese meraviglioso, fatto così e così. Ma che dire degli infiniti mondi e galassie e universi che nessuno ha mai pensato, sognato o invocato? Delle melodie che nessun musicista ha mai composto né concepito? Mentre ne stiamo parlando, già stiamo conferendo loro un qualche sia pur debole grado

11) Ma scompaiono veramente, le cose, quando cessano il loro ciclo di esistenza? Secondo Emanuele Severino, no: l’albero esisteva già prima di esserci, come seme, e continuerà ad esistere anche dopo, ad es. come cenere, come tavolo, ecc. A suo parere le cose non cessano di esistere, bensì scompaiono dal nostro orizzonte sensibile, cosa assai diversa: siamo noi che non le vediamo più, non esse che non ci sono.

12) Questo concetto è sempre stato ben presente nelle filosofie orientali e specialmente nel Taoismo, ove è esemplificato chiaramente dal simbolo yin-yang: nel nero vi è un puntino bianco e viceversa, così come nel secco vi è un elemento umido, nella luce un elemento di buio, nel maschile un elemento femminile: e viceversa. La realtà è dunque il frutto dell’armonia degli opposti (si badi, l’armonia e non la confusione: cioè il bianco e il nero non si mescolano né si confondono; restano ben distinti, e tuttavia si abbracciano e si completano a vicenda.

di entità: inevitabilmente. Lo sperimentatore influenza il risultato, come recentissimi esperimenti nel campo della meccanica quantistica (dei fotoni, ad es.) tendono a dimostrare.

Il caso veramente estemo è quello del noto paradosso, noto come "il gatto di Schrödinger". Si immagini un apparecchio formato da una camera d’acciaio, all’interno della quale c’è un gatto; e un contatore Geiger contenente una piccola quantità di sostanza radioattiva, uno dei cui atomi forse decadrà entro pochi minuti; o forse no. Se un atomo radioattivo decade, dal contatore parte una scarica che, attraverso un relay, libera un martello il quale frantuma un recipiente di vetro contenente acido prussico. Se dopo un’ora, ad es., nessun atomo è decaduto, si potrà affermare che il gatto è ancora vivo, diversamente sarà morto, avvelenato all’istante. Il sistema completo si può esprimere in termini di funzione d’onda (come per la fisica sub-atomica), ma con questa particolarità: che se vogliamo sapere se il gatto è effettivamente vivo o morto, proprio l’apertura del coperchio provocherà un salto quantico e, quindi, il collasso di una funzione d’onda che, a sua volta, provocherà, o non provocherà, la morte del gatto. Finché la camera d’acciaio rimane chiusa, il gatto è contemporaneamente vivo e morto. Certo, secondo il calcolo probabilistico vi saranno cinquanta probabilità su cento che il gatto sia vivo e cinquanta che sia morto; ma le onde di probabilità esistenti implicano che il gatto è sia vivo che morto. Esiste, forse, da qualche parte una variabile nascosta che consente di superare questa situazione assurda: ma i fisici, pur irritandosi e affaticandosi, non sono riusciti finora a trovarla. L’ipotesi del gatto vivo e contemporaneamente morto non piaceva neanche allo stesso Schrödinger, figuriamoci ai suoi colleghi (l’astrofisico Stephen Hawkiing era solito dire che, quando lo sentiva nominare, gli veniva voglia di mettere mano alla pistola): però, concettualmente, non fa una grinza.

Per la fisica quantistica, dunque, basata sui concetti di funzione d’onda e di onda di probabilità, le cose contemporaneamente possono essere e non-essere. La filosofia vorrà essere meno coraggiosa della fisica? Tutto quanto abbiamo fin qui detto implica un’unica conseguenza: le cose sono e non sono nello stesso tempo. La mezza mela è una mela e non è una mela; e così il corpo umano, il Monte Bianco, il giorno, la forza, la verità… La realtà è polivalente e non bivalente (come ci porterebbe a credere l’informatica): non zero o uno, sì o no, vero o falso; bensì zero o due, in parte sì e in parte no, parzialmente vero e parzialmente falso. Questa è la realtà, la realtà vera del divenire e del mondo dell’esperienza. Le cose sono sfumate: il crepuscolo non è più giorno e non è ancora notte; il gran dio Pan è morto (Plutarco, De defectu oraculorum, XVII), ma forse non del tutto, visto che ne stiamo parlando come di qualcosa che è, e sia pure nella memoria d’un tempo trascorso; visto che ne hanno parlato poeti moderni, come Lucian Blaga.

Concludendo. Tra le cose che sono e quelle che non sono si estende una vastissima terra di nessuno, strana e surreale: quella dove le cose sono e, insieme, non sono. Il sogno, per esempio, è o non è? È, perché si tratta di qualcosa che possiamo sperimentare; non è, in quanto costituito da immagini illusorie, larve di realtà. (13) Eppure, noi passiamo almeno un terzo della nostra vita dormendo e sognando; solo che gran parte dei nostri sogni vengono dimenticati al momento del risveglio; altri, poi, non giungono nemmeno al livello della coscienza desta. E che ne è di questi sogni dimenticati? Di queste ore, giorni, settimane, mesi e anni di sogni dimenticati, di vita dimenticata? Se l’ente è ciò che esiste, e se solo ciò che percepiamo esiste per noi, i nostri sogni dimenticati sono enti o non enti? Sono enti, perché funzioni della nostra vita psichica; ma anche non enti, perché mai la nostra coscienza desta li ha registrati, mai ne trovò le tracce o gl’indizi (non parliamo, in questo caso, dei sogni dimenticati al risveglio, ma di quelli dimenticati prima del risveglio).

13) A proposito di larve di realtà, gli esperti di occultismo sostengono che sui piani sottili dell’esistenza vagano innumnerevoli larve psichiche ed esseri elementali, che costituiscono – lem prime specialmente – un grave pericolo per lo sciamano o l’iniziato che si avventuri nei viaggi del corpo astrale. Tali larve sono cariche di energia, spesso negativa, e si comportano come dei vampiri psichici: ossia cercano di impossessarsi di altre forme-pensiero ed, eventualmente, del corpo fisico del viaggiatore astrale, avendo smarrito – o non avendo realizzato – il proprio. Aggiungiamo che noi, in questa sede, abbiamo parlato del sogno come di una creazione illusoria della mente addormentata. Tuttavia esistono altre interpretazioni del sogno: da quella teoista di Chuang-Tzu, secondo il quale il sogno potrebbe essere un’alltra forma di realtà, non meno reale di quella della coscienza desta, a quella del mondo classico, secondo la quale il sogno è – come per i popoli "primitivi" – manifestazione di una realtà altra, divina o spiritica.

E le parole, i numeri sono enti oppure no? Sono cose le parole? E sono cose le parole non mai pronunziate? Sono cose le parole né pronunziate né pensate? E i numeri che nessuno mai ha contato, quelli con quindici zeri, per esempio; i numeri che nessuno ha mai concepito, quelli infinitamente piccoli, che mai nessuna radice quadrata ha potuto estrarre: esistono? Se è vero – come voleva Berkeley – che esse est percipi – parrebbe di no. Eppure io li posso evocare, li posso trovare, li posso perfino utilizzare all’interno di una funzione matematica. Non potrei farlo, se non esistessero affatto. Invece esistono, da qualche parte, non si sa dove; esistono un poco e un poco non esistono.

4) RESPONSABILITA’ DELLA COCIENZA NEI DIVERSI GRADI DELL’ENTE.

Cos’ha a che fare tutto questo ragionamento con l’intenzionalità della coscienza e, in particolare, con l’irrevocabilità della scelta? Non sembrerebbe la varia consistenza ed entità dell’ente, in contrasto con l’asserito carattere d’irrevocabilità della scelta? Se, infatti, le cose sono e non sono al tempo stesso, qualunque scelta parrebbe incidere molto relativamente sulla trama dell’esistente.

In effetti, arrivati a questo punto è necessario sottolineare con chiarezza due cose. La prima è che gli stessi fisici non sono affatto così sicuri che le scoperte di Bohr e dei suoi seguaci nel campo della meccanica quantistica portino a negare, in linea di massima, la realtà materiale del mondo sub-atomico. Jordan, in particolare, è stato severamente criticato per aver assunto che nulla è reale o determinato a livello quantistico, prima che avvenga il processo di osservazione. Il dibattito è aperto: e la risposta di Bohr all’argomento di Einstein, Podolski e Raen (noto come EPR) secondo il quale la meccanica quantistica è una teoria completa, in realtà – benché sia stata considerata, sul momento – esauriente e definitiva – non si può considerare tale. Questioni fondamentali, come la possibilità d’influenza istantanea fra due sistemi separati di realtà fisica e, conseguentemente, come la possibilità di superare il limite della velocità della luce, restano tuttora aperte. In definitiva, allo stato attuale delle conoscenze non si può dire che possediamo, oggi, certezze molto maggiori, sulle condizioni ultime della materia, di quelle che si avevano ai tempi di Democrito, Epicuro e Lucrezio.

La seconda cosa che dobbiamo sottolineare è che, in campo più propriamente filosofico, il disvelamento di una gerarchia di entità degli enti ha a che fare col mondo del fenomeno, del relativo, non con l’essere e con l’ontologia. Ed essendo l’essere umano profondamente – anche se non totalmente – immerso nel mondo fenomenico, nella "vita di tutti i giorni" è abbastanza corretto dire che le cose sono o non sono, che sono vere oppure false. Certo, si tratta pur sempre di una approssimazione: ma di una approssimazione, tutto sommato, ragionevole. Anche da un punto di vista fisico, l’essere umano risulta pertanto essere una grandezza media fra il microcosmo della fisica quantistica e il macrocosmo della relatività e della fisica classica; per la sua "misura", descrivere la realtà in termini di irrevocabilità degli eventi (e quindi delle scelte) è certo una semplificazione, ma una semplificazione ragionevole. Ogni sistema di descrizione della natura è, oltre che un’interpretazione, una semplificazione: bisogna dunque accettare il dato di fatto, resi consapevoli delle sue implicazioni; oppure rinunciare alla descrizione del mondo fisico. Analogamente, o accettiamo un certo (ragionevole) grado di approssimazione nella descrizione della filosofia morale, o vi rinunciamo del tutto: la problematica relativa alla scelta rientra in tale prospettiva.

Nel mondo sfumato ed elusivo della realtà fenomenica, scegliere è scegliere una volta per tutte, per sempre. Quando il soggetto opera una scelta, esso modifica irrevocabilmente: a) l’oggetto della scelta; b) il soggetto che la compie, cioè se stesso; 3) l’orizzonte esistenziale di cui a e b sono parte.Tutto questo significa che la scelta è, per molti aspetti, un fatto traumatico, sia per la coscienza quanto per il cosiddetto "mondo esterno"; introduce un elemento di discontinuità, di lacerazione, di rottura. Se tutti i soggetti e tutti gli oggetti sono profondamente interrelati, nel tempo e nello spazio, ogni singola scelta modifica quella rete di relazioni e rimette in causa la coerenza dell’intero sistema: è una vera e propria ri-creazione del mondo. Dopo ciascuna selta, il mondo non è e non sarà mai più quello che era prima; mai più potranno essere ristabilite le condizioni iniziali. Mai più le cose "torneranno a casa", il loro desrtino è mutato; il loro essere-per-qualcosa ha subito una modificazione di senso. (14)

La prima modificazione di senso, non cronologica ma esistenziale, è quella del soggetto che ha operato la propria scelta. Quest’ultima lo ha coinvolto nella sua essenza di soggetto, lo ha, per così dire, fatto morire al mondo del prima, e fatto rinascere alla realtà presente. Noi moriamo e torniamo a nascere ogni qualvolta compiamoo una scelta, consapevoli o meno; certo, moriamo tanto più e rinasciamo tanto più (perché non siamo mai totalmente vivi o totalmente morti) quanto più la scelta è stata intensa, sofferta, consapevole, coerente, autentica. Quell’io che ha scelto ha rotto i ponti dietro a sé, non è più (né sarà mai più) quell’io che scelse; la scelta lo ha trasformato, dissolvendolo e ricostruendolo.

La gerarchia di entità degli enti, ad ogni modo, non è del tutto ininfluente rispetto all’irrevocabilità della scelta, come potrebbe esserlo (l’eventuale) inconsistenza del mondo sub-atomico per l’uomo della strada che, senza farsi troppi problemi, respira, pensa, agisce e vive come se tale problema non lo riguardasse affatto. Il fatto che le conseguenze pratiche della diversa entità degli enti non si facciano sentire nella vita di ogni giorno, non significa che non esistano. L’allontanamento reciproco di due zolle continentali (o il loro avvicinamento) si misura in qualche centimetro l’anno; ma, sulla scala delle ére geologiche, "produce" oceani come l’Atlantico, o gigantesche catene montuose come il sistema alpino-himalaiano. Gutta cavat lapidem, una semplice goccia d’acqua scava, col tempo, la roccia più resistente; anche forze modeste (molto più modeste di quelle implicate nella teoria della tettonica a zolle) possono avere effetti macroscopici nel lungo periodo.

Nel mondo della coscienza, la realtà della scelta implica che il soggetto opera su se stesso una trasformazione radicale che, sul momento, può anche non essere evidente, ma che emerge, prima o poi, in tutta la sua portata dirompente, con tutte le sue irrevocabili conseguenze. Scegliere, lo ripetiamo, è morire: morire per dare frutto. Ora, noi scegliamo continuamente e non potremmo fare altrimenti: ogni istante della nostra vita è una possibilità infinita, ogni istante è – quindi – una scelta; e ad ogni istante moriamo e portiamo frutto (non necessariamente, però, in senso positivo). È questa la legge del divenire, alla quale nessun fenomeno sfugge; tanto meno il fenomeno per eccellenza che si chiama Soggetto.

14) Dal punto di vista della irrevocabilità della scelta (e del passato) non diverge, sostanzialmente, neanche la teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche. "Vedi – afferma nello Zarathstra, parte III – noi sappiamo ciò che tu insegni: insegni che tutte le cose ritornano eternamente, e noi con esse, e che noi siamo già stati qui diverse volte, e tutte le cose con noi. Insegni che c’è un Grande Anno del divenire, un Grande Anno che è un enorme mostro: il quale deve sempre di nuovo capovolgersi come una clessidra, per poter ogni volta scorrere e vuotarsi, in modo che tutti questi anni siano uguali l’uno all’altro, nelle cose più grandi e nelle più piccole; sì che anche noi in quel Grande Anno siamo uguali a noi stessi, nelle cose più grandi e anche nelle più piccole. E vedi, se tu adesso volessi morire, o Zarathustra (…) ‘Io muoio e scompaio’, diresti ‘e in un attimo non sono più nulla. Le anime sono mortali come i corpi. Ma il nodo delle cause in cui sono impigliato, quel nodo ritorna! Io stesso appartengo alle cause dell’Eterno Ritorno.Io ritornerò, con questo sole, con quest’aquila, con questo serpente; ma non verso una nuova vita, o una vita migliore, o una vita analoga; no: io ritorno eternamente a questa vita medesima, nelle cose più grandi e nelle più piccole, per insegnare di nuovo l’Eterno Ritorno di tutte le cose." Si noti che l’"eterno ritorno dell’uguale" non modifica in alcun modo il carattere di unicità e d’irrevocabilità dei singoli atti della vita. Più interessante, comunque, a nostro avviso, la dottrina della redenzione del passato, esposta sempre nella III parte dello Zarathustra: "(…) insegni loro ad imparareil futuro e a liberare creando tutto ciò che fu; a liberare il passato nell’uomo e a ri-creare ogni "fu" finché la volontà dica: "Ma era così che lo volevo! è così che lo vorrò". Questo, dissi loro, è redenzione. E insegnai loro che la redenzione è questo, e non un’altra cosa." Anche in questo caso, peraltro, la redenzione del passato avviene nel presente, dunque non modifica il passato in quanto passato, ma l’interpretazione del passato che dà il presente. A nostro avviso, qui risiede il punto debole della teoria nietzschiana: perché se "il nodo delle cause" in cui gli enti sono impigliati ne provoca l’eterna ripetizione, e se il presente ha la funzione di redimere il passato, allora parrebbe che ci troviamo di fronte a una sorta di dottrina della reincarnazione, senza però avanzamento progressivo della coscienza e senza che la "liberazione" dai nodi delle cause porti ad alcuna modificazione positiva della condizione esistenziale. Appare pertanto contraddittorio sostenere che, libeandosi dai nodi delle cause, si può redimere il passato, e poi affermare che, comunque, le cose ritornano eternamente identiche a se stesse, in tutto e per tutto. Difficile, insomma, capire che senso avrebbe questa eterna ripetizione dell’identico.

La stessa trasformazione radicale, la stessa morte e rinascita irrevocabili opera la scelta riguardo all’oggetto. Per dirla con Dante (limitandoci a un caso specifico, ma efficace come esempio di una realtà universale): "Amor che a nullo amato amar perdona": l’oggetto non potrebbe rimanere indifferente rispetto alla scelta operata dal soggetto, qualunque essa sia, neppure se lo volesse. L’azione del soggetto sull’oggetto derivante dalla scelta è, sempre, un’azione che produce una modificazione non solo nel primo, ma anche nel secondo; anche la mancata azione derivante dalla decisione di non scegliere (il che, come vedemmo, è una scelta anch’essa; e non meno gravida di conseguenze). Non si tratta di un mero gioco di parole, come ben sanno coloro che hanno fatto l’esperienza di dover dipendere da una decisione altrui, e che hanno atteso invano l’altrui (liberatoria, in ogni caso) decisione circa il proprio destino. Nessuno può sottrarsi a una tale – invero tremenda – responsabilità: a ciascuno è legato il destino di tutti, ogni soggetto è responsabile dell’intero mondo fenomenico.

Il concetto di responsabilità ci introduce al terzo livello della modificazione irrevocabile: quello dell’orizzonte esistenziale degli enti nel loro insieme. Per meglio illustrare quest’ultimo aspetto del problema, desideriamo servirci di un altro esempio tratto dalla realtà quotidiana più (apparentemente) banale. C’era, proprio di fronte alla mia finestra, un magnifico ciliegio, che tornava a fiorire ad ogni primavera; e, pochi metri discosto, un acero ed una catalpa. Qust’ultima è stata la prima a venire abbattuta, circa dieci anni fa; poi è toccato al ciliegio, cinque anni dopo. Ora l’acero è rimasto solo (e, per fortuna, ci sono parecchi altri alberi nei dintorni, però meno vicini; quei tre, pareva di toccarli solo allungando un braccio). Né la catalpa né il ciliegio, però, sono scomparsi interamente: sono rimasti nella mia memoria, esistono ancora e sempre, nella mia mente. Rivedo nitidamente, con gli occhi del ricordo, le ombre misteriose che i rami e le foglie della catalpa, ma soprattutto i lunghi filamenti penduli dei fiori, proiettavano sul muro della casa di fronte, nelle chiare notti d’estate. Così come rivedo il bianco splendore di soffice nuvola del ciliegio, che gettava una lama di luce sullo sfondo verdeggiante degli orti e del frutteto: pareva una nuvola luminosa impigliata nel giardino dal vento capriccioso di marzo. Per me, sono ancora reali quanto (anche se diversamente) l’acero che tuttora fiorisce e getta la sua ombra sull’erba; la loro forma, i loro colori, perfino le loro ombre proiettate sul muro sono ancora qui, sullo schermo della mia memoria; posso vedere perfino quelle care ombre muoversi e ondeggiare su e giù, per effetto della lieve brezza notturna; posso udire lo stormire delle loro chiome nel grande silenzio della luce lunare. Al tempo steso, sono in grado di immaginare che, al posto del ciliegio (fra un mese, fra un anno o fra dieci) qualcuno pianterà un nocciolo, o magari un sambuco; anzi posso fin d’ora immaginare che un seme di nocciolo o di sambuco stia germogliando sotto la terra, e che il nuovo albero crescerà, slanciandosi verso il cielo e diverrà adulto, nella gloria del sole.

Ebbene, qui abbiamo tutti i diversi livelli di entità dell’ente, in ordine gerarchico, dal più "forte" al più tenue, offerti alla nostra riflessione. Al livello più alto troviamo l’acero: c’è, è lì, sotto i miei occhi, e sotto gli occhi di chiunque altro si affacci dalla mia finestra: esiste, gode di un’esistenza attuale. A un livello più "debole" di esistenza troviamo la catalpa e il ciliegio: c’erano, e ora non ci sono più; sopravvivono però nella memoria di coloro che li videro: esistono nella mente del soggetto. Poi, un altro gradino ancora più in basso (o più in alto; chi può dirlo?), il ricordo di quelle ombre proiettate dalle fronde della catalpa sul muro della casa di fronte, e ondeggianti nel silenzio della notte: ombre di una cosa scomparsa, ombe di un’ombra; esistono, ma come ricordo di un’immagine riflessa e non dell’oggetto vero e proprio. Scendiamo (o saliamo) di un altro gradino ancora, ed ecco l’idea del sambuco o del nocciolo che sta per nascere dalla terra: so che il seme ha attecchito, so che nascerà la nuova pianta: la "vedo" con lo sguardo dell’anticipazione: c’è, esiste, ma come potenzialità che sta venendo alla luce; per ora, è soltanto nella mia attesa e nel processo di sviluppo sotterraneo, che attualmente nessun occhio umano potrebbe vedere. La sua esistenza è in fieri: non la si può negare, ma non se ne può fare esperienza diretta. È una congettura verosimile; attende, per esistere pienamente, l’oggetto concreto che le dia attualità. Infine, all’ultimo livello (o forse al primo), troviamo l’idea di un nuovo albero che, però, nessuno ha seminato, il cui seme ancora non è giunto e forse non giungerà mai: qui non abbiamo l’attesa di qualcosa di altamente probabile – se non addirittura certo; quindi, non è possibile alcuna anticipazione della fantasia se non come ipotesi puamente astratta. Possiamo, per es., immaginare che fra mille anni (quando niente, del paesaggio circostante, sarà ancora come oggi), nascerà, al posto del vecchio ciliegio, un carpino: cosa certamente possibile, ma niente affatto probabile rispetto alle infinite altre possibilità che vi nascerà un’altra specie di albero, oppure che non vi nascerà alcun albero, magari perché quel terreno sarà divenuto totalmente sterile e roccioso, o sommerso dal corso di un torrente, o magati sprofondato in un nuovo mare; o ancora perché verrà stretto in una morsa di ghiaccio dello spessore di centinaia di metri; o spazzato da una colata di lava incandescente. Oppure quel terreno (non fra mille, ma fra cinquant’anni) potrebbe diventar paludoso, e non essere più adatto alle colture arboree; potrebbe essere seppellito da un frana, potrebbe trasformarsi in magma solidificato. La probabilità che lì e proprio lì possa crescere, prima o poi, un carpino, è forse una su milioni e milioni; non la si può escludere, ma è difficile che si realizzi. Io posso immaginare il carpino sul luogo ove adesso non c’è e dove, per adesso, non c’è ragione di pensare che crescerà: una proiezione puramente teorica della mente, un esercizio della facoltà immaginativa piuttosto ozioso e gratuito. Esiste quell’oggetto, quel carpino solamente supposto e immaginato? Esiste come un’ipotesi non verificabile (io non ci sarò fra mille anni, né vi sono indizio che vi sarà esso): decisamente, un concetto e non una cosa; un concetto come lo sono i numeri.

Volendo, potremmo completare questa scala gerarchica con un sesto livello di entità (più pallido ancora, più evanescente dell’ipotesi non verificabile; eppure, come pensava anche Pirandello, in un certo senso più "forte" perché più dotato di essenza, di inseità) immaginando che, in quel luogo preciso, in futuro farà il nido tra i rami del carpino una chimera. Ora, io so (o, almeno, credo di sapere) che le chimere non esistono (15); dunque non si fa più questione di probabilità statistiche (magari una su un milione o su un miliardo e così via), ma di impossibilità logica. Saremmo portati, quindi, a profetizzare che l’evento immaginato non si verificherà mai; dunque che esso non è nemmeno un concetto, perché un concetto è una nozione che esprime i caratteri universali di un determinato oggetto (o di una categoria di oggetti). Il concetto di freschezza, per esempio, esprime proprio il carattere fondamentale di un oggetto dato: quello di venir percepito come fresco. Ma il concetto di chimera? Certo, possiamo immaginarla: artisti e scrittori l’hanno perfino rappresentata. Noi, però, sappiamo (o crediamo di sapere) che non esiste, che è un mero gioco della fantasia: sappiamo che non è improbabile, ma addirittura impossibile. O meglio, crediamo di saperlo. (16) Ora, secondo le categorie della logica generalmente ammesse, si può anche concepire una chimera, ma non crederci: si sa (si crede di sapere) che essa è solo un gioco della fantasia. Dunque, posso senz’altro immaginare che un giorno, chissà quando, una chimera farà il nido fra i rami dell’albero che avrà sostituito il vecchio ciliegio, in quel posto preciso; ma non ci si può logicamente aspettare che ciò accadrà per davvero. Gli occhi della mente possono "vederla", ma solo per gioco e con uno sforzo non indifferente dell’immaginazione (mentre raffigurarsi un carpino in luogo del ciliegio non richiedeva alcuno sforzo). La chimera, dunque, esiste? Esiste, poiché ne stiamo parlando, la stiamo

immaginando (come volevano le regole del "mondo tre" di Popper); ma ad un grado ancora più tenue, quasi evanescente; come un gioco consapevole della fantasia (e, per contro, come ente ancora

15) Paracelso, per es., credeva fermamente all’esistenza di elfi e ondine; ed egli era, oltre che un medico valente e un esperto mago e alchimista, un teologo profondo e un uomo di vastissima cultura e ammirevole intelligenza. Cfr. K. Seligman, Lo specchio della magia, Roma, Gherardo Casini ed., 1965.

16) Perché, come afferma Shakespeare, "vi sono più cose fra cielo e terra, Orazio, di quante ne possa sognare tutta la vostra filosofia" (Amleto, I, 5). Vale la pena, in proposito, di riportare questo celebre aneddoto. Un giorno, Bertrand Russell affermò, nel corso di una lezione universitaria, che "in questa stanza, non vi sono rinoceronti". Ludwig Wittgenstein, che sedeva fra i banchi, fece allora il gesto di guardare sotto il proprio banco, scuotendo il capo perplesso, come a voler controllare che tale enunciato corrispondesse a verità. È vero che, in quel caso, si parlava di rinoceronti e non di chimere, tuttavia crediamo che il principio resti valido: se un enunciato è logicamente coerente, l’esperienza pratica si trova in serio imbarazzo per convalidarlo o confutarlo, poichè il mondo delle cose concrete giace su un piano di realtà diverso da quello del pensiero.

più universale ed "essenziale" di ogni altro: proprio perché non determinato in alcun grado sul piano dell’esistenza concreta, che è sempre una forma di delimitazione nello spazio e nel tempo).

Lasciamo da parte il caso del sogno e quello del miraggio. Io posso vedere in sogno il sambuco (che non c’è ancora), il carpino (che forse non ci sarà mai), la chimera (che sicuramente non può esserci, esserci stata né esserci in futuro); posso inoltre "vedere" il miraggio di un sambuco, o l’allucinazione di una chimera. Questi due casi, infatti, introducono due variabili che nella casistica fin qui considerata non trovano spazio: la non intenzionalità della coscienza (io non sono libero di sognare questo o quell’altro oggetto: gli oggetti, nel sogno, vengono da sé, anche se è una parte altra della mia psiche ad evocarli) e la distorsione percettiva (il miraggio e l’allucinazione sono forme di distorsione e di alterazione degli strumenti della sensazione, i quali m’informano della "realtà" in maniera erronea). Sia l’uno che l’altro caso, pertanto, esulano dal contesto dell’intenzionalità della coscienza, che a noi interessa: perché dove la coscienza non è libera e dove le informazioni che le giungono siano inesatte, non può evidentemente esservi spazio per la scelta.

Ci sarebbe, a questo punto, un ultimissimo caso da considerare, ancora più estremo di quello della chimera. La chimera, infatti, non esiste come oggetto reale, ma è pensabile e quindi esiste come oggetto mentale. Voi sono, infatti, degli enti (anche se non sappiamo se sia ancora lecito definirli tali; un po’ come il biologo non sa se i virus si possano definire "viventi", posti come sono al limite fra l’organico e l’inorganico), che possono essere predicati ma non pensati. Per esempio, io posso enunciare una frase del tipo: "la radice quadrata di 4 è uguale a 16", ma non posso pensarla, perché so che la radice quadrata di 16 è uguale a 2; e, comunque, so che la radice quadrata di un numero non potrà mai essere maggiore del numero stesso. Oppure posso dire: "Per trovare l’area di una data corona circolae, debbo addizionare l’area del cerchio maggiore e quella del cerchio minore", ma non posso pensarlo, perché so intuitivamente (quand’anche non avessi alcuna nozione di geometria del cerchio) che devo fare l’operazione inversa, ossia sottrarre l’area del cerchio minore a quella del cerchio maggiore. Allo stesso modo, posso tranquillamente affermare che "lo spostamento delle righe spettarli verso il rosso, noto come legge di Hubble, indica che è in atto una contrazione generale dell’Universo", ma non riuscirò nemmeno ad immaginarlo, perché so che il red-shift indica un allontanamento della sorgente luminosa, e quindi testimionia – al contrario – un processo di espansione dell’Universo. In tutti questi casi, la mia mente ha formulato dei giuochi di parole che sapeva essere tali: perché la mente, che sempre pensa per immagini, non può pensare qualcoia di contraddittorio sul piano intuitivo (intuire è intuire immagini; intus legere, ossia "leggere dentro"). Si badi, sul piano intuitivo e non solo sul piano logico: infatti, una radice quadrata maggiore del numero da cui è stata estratta fa a pugni con l’intuizione, così come una corona circolare la cui area sia data dalla somma del cerchio maggiore e di quello minore; mentre l’inferenza che l’effetto Doppler attesta una contrazione dell’Universo contrasta sia con l’intuizione che con la pura logica: se esso indica un allontanamento della sorgente luminosa, è chiaro che la nostra distanza da essa aumenta e non diminuisce. Analogamente, nella proposizione "Annibale, valicate le Alpi col suo esercito e sboccato nella Pianura Padana, fu sconfitto presso il Rodano", di primo acchito i conti non tornano sia con la storia (non fu sconfitto, ma vincitore) sia, soprattutto, con la geografia: il Rodano è al di là delle Alpi rispetto alla Pianura Padana; per cui, avendole valicate dalla Gallia verso l’Italia, non poteva trovarsi di nuovo presso le sue rive. E si badi che, mentre il primo errore è un mero errore di fatto (secondo la logica, nulla vieta che Annibale potesse venire sconfitto dopo la traversata delle Alpi), il secondo è un errore di fatto ma anche di giudizio (perché, una volta presa conoscenza della posizione della Pianura Padana sulla carta geografica, è impossibile immaginare che il Rodano la possa attraversare). Anche quella frase, dunque, non può essere veramente pensata, per poco che si conosca la geografia: è un non-senso logico, poiché offende il nostro senso intuitivo dello spazio. Se si cerca di pensare veramente un evento del genere di quello enunciato, alla fine bisogna rinunciare e dichiarasi sconfitti, perché o si pensa Annibale "sconfitto" presso il Rodano (al di là delle Alpi), oppure al di qua (nella Pianura Padana). I dati dell’enunciato sono irrimediabilmente contraddittori, e non c’è spazio neanche per immaginare, fantasticando, un evento come quello descritto.

È chiaro, a questo punto, che ci siamo spinti sul promontorio estremo del possibile, e che l’enunciato "la radice quadrata di 4 è 16"; oppure "Annibale, sceso nella Pianura Padana, fu sconfitto sul Rodano" rimane per così dire sospeso nel vuoto, non trovando alcun appoggio né nell’esperienza, né nella probabilità, e neanche nell’immaginazione pura e semplice. E dunque lo si può definire un ente, qualche cosa che esiste? Sì e no. Esiste nella mia mente, ma non come concetto, bensì come semplice enunciato; non può esistere come pensiero, perché in quanto pensiero è impossibile. Rimane fermo alla dogana fra essere e non-essere, in attesa del controllo, ma con la quasi certezza che, alla fine, verrà respinto, non avendo in regola i documenti dell’ente. Non esiste un pensiero astratto nel vero senso della parola: chiamiamo astratto il pensiero più lontano dall’esperienza concreta; ma il pensiero, in ogni caso, pensa sempre per immagini o, comunque, istituisce rapporti di quantità, estensione, sequenza temporale e così via. Dunque gli enunciati di cui sopra non corrispondono ad alcun pensiero; sono, semmai, degli esempi di non-pensiero (come il non-compleanno di cui si parla nel romanzo Alice nel paese delle meraviglie): cioè un ente falsificato, uno pseudo-ente che finge di esistere e nasconde il suo nulla dietro una maschera.

Apriamo un’altra breve parentesi. "Coerenza" e "corrispondenza" non sono sinonimi. Un sistema può essere coerente, anche se non corrisponde ad alcun fatto reale. La matematica (e la logica, o almeno la logica proporzionale) non è vera né falsa; è semplicemente un sistema formale, coerente rispetto alle regole che si è dato. La accettiamo per ragioni pratiche; in realtà, essa è "vera" nel proprio ambito, cioè funziona, quando applica con coerenza le proprie regole, anche se (come il calcolatore elettronico) non ne comprende il significato. 2 + 2 = 4 è "vero" perché è coerente con le leggi della matematica. Se la coerenza fosse tutt’uno con la verità, anche la sconfitta di Annibale presso il Rodano sarebbe "vera" secondo le regole sintattico-grammaticali e secondo quelle logiche (nel senso che non implica contraddizione linguistica né logica, almeno fino a quando non si va a controllare su un manuale di storia antica e, soprattuttoo, su un atlante geografico). Per confutarla, bisogna conoscere la geografia e sapere che il Rodano è al di là delle Alpi, e non al di qua. Secondo la teoria della verità come corrispondenza fra enunciati e fatti reali, un enunciato è vero se corrisponde a un fatto (vero). Per esempio, "il Sole è caldo" se il Sole è caldo; ossia, l’enunciato è vero nelle presenti condizioni di spazio-tempo (ma non sarà più tale fra qualche miliardo d’anni, quando il Sole sarà un stella spenta e morta, come tante altre prima di esso). Il logico polacco A. Tarski sintetizzò in questo modo la teoria corrispondentista: "‘Enunciato’ (con le virgolette) è vero se e solo se Enunciato; laddove il primo termine esprime l’enunciato e l’ultimo, invece, il ‘fatto’": Notiamo, per inciso, che la "verità" come coerenza non può essere contraddetta solo perché corrisponde a un sistema formale (1 + 1 è "vero" solo perché abbiamo dato un certo valore prestabilito ai numeri), mentre la verità come corrispondenza ha senso solo se può essere invalidata. La prima è, tendenzialmente, "vuota" in quanto non si cura della corrispondenza tra enunciati e fatti (i fatti della matematica non sappiamo neppure cosa siano: creazioni della mente o "cose in sé"?), la seconda è costantemente esposta al rischio di venire falsificata (che succede se alteriamo tutti i documenti storici e riscriviamo la seconda guerra punica, sostenendo che Annibale fu sconfitto non a Zama, ma appena disceso dalle Alpi; e magari dopo averle discese verso il Rodano – dunque, per la seconda volta – e non verso il Po? E che succede se riscriviamo la storia contemporanea, sostenendo che Italia, Germania e Giappone hanno vinto la seconda guerra mondiale; o se falsifichiamo tutti i comunicati stampa e riscriviamo l’attualità, sostenendo che Italia, Germania e Giappone siedono nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, come membri permanenti e con diritto di veto?).

È tempo di ricapitolare le ultime cose dette sul concetto di irreversibilità della scelta esu quello di responsabilità della coscienza. La scelta è (nel presente spazio-tempo, quindi nel mondo del relativo) un evento irreversibile e interrelato con tutte le altre scelte e con tutti gli altri eventi, tanto che le sue "onde di probabilità" si spingono ovunque. Diverso è il grado di responsabilità del soggetto nei confronti dell’oggetto, così come diversa è la gerarchia degli enti che costituiscono gli oggetti possibili. Dell’idea di chimera concepita nella mia mente, ad es., sono responsabile solamente verso me stesso: posso evocarla o disfarla a capriccio. Dell’albero reale che c’è in giardino, al contrario, sono responsabile verso di esso e verso il mondo, oltre che verso di me. Il soggetto è sempre responsabile verso se stesso; è responsabile verso l’oggetto in varia misura, a seconda dell’oggetto stesso (e delle sue relazioni con esso); è responsabile verso la totalità del sistema quando il proprio oggetto non è un oggetto puramente mentale. Secondo talune scuole di pensiero, veramente, è possibile che esista una precisa e diretta responsabilità nella scelta verso l’altro, anche quando l’oggetto della scelta è mentale: tale, ad es., il caso dell’azione sciamanica comunemente nota come magia bianca e magia nera La donna che, nel II Idillio di Teocrito, ricorre ad entrambe le forme di magia per reagire al tradimento del suo uomo; e l’amante-maga che, nell’ecloga VIII delle Bucoliche di Virgilio, compie riti magici per ricondurre a sé Dafni, cercano entrambe di esercitare un’azione diretta sull’oggetto, istantanea (cioè indipendente dalla distanza) e per via esclusivamente psichica. Ma su ciò, valga quanto dicemmo sul paradosso EPR e sulla velocità della luce come limite generalmente ammesso alle possibilità di comunicazione diretta fra due sistemi fisici separati. Crederci o non crederci, tutto sommato, è una questione di gusti; e la magia non è altro che un caso particolare della meccanica quantistica. Sta di fatto che gli stessi fisici, oggi, non si fanno troppi problemi a parlare disinvoltamente, e sia pure con un pizzico d’ironia, a parlare di telepatia dei quanti: specialmente dopo la scoperta della disuguaglianza di Bell e sulla non-località (ma su tutta la questione, rimandiamo al dotto saggio di Gian Carlo Ghirardi Un’occhiata alle carte di Dio, del 1997; nell’originale il titolo è tutto in caratteri maiuscoli, dunque non si sa se "Dio" vada inteso con la maiuscola o con la minuscola).

Il soggetto, quindi, ogni qualvolta sceglie, determina il proprio destino e, in una certa misura, quello dell’oggetto e dell’intero sistema spazio-temporale. Alcuni soggetti sono consapevoli di questa enorme responsabilità, tuttavia ne traggono conclusioni errate. Schiacciati sotto il peso di essa, tendono a evitare la scelta, per eluderla il più possibile. Ciò è ad un tempo ingenuo e irrealistico. Abbiamo visto che anche non scegliere corrisponde a una scelta precisa, sempre. Di conseguenza, il soggetto deve farsi carico del senso di responsabilità ed orientare le scelte in conseguenza. Ma, per l’aspetto etico, si rinvia a quanto già detto al punto b) della sezione I, e a quanto diremo a conclusione dell’intero discorso che stiamo svolgendo sulla scelta, ricapitolandone la dimensione etica.

III. Patologia della scelta.

La scelta è, per definizione, scelta di libertà, oppure non è. Di conseguenza, tutti i fattori che tendono a restringere la libertà del soggetto, evidentemente restringono la libertà della scelta. Ora, abbiamo visto che non esiste soggetto indipendente dalla facoltà e dall’esercizio concreto della scelta, poiché il soggetto si costruisce e si definisce come tale precisamente mediante la scelta. Di conseguenza, la libera scelta non è qualcosa che possa scaturire naturalmente, nelle condizioni date, da un libero soggetto che sia anteriore ad essa. Soggetto e scelta sono un tutt’uno, un fenomeno, un processo. Non esistono condizioni che garantiscano la libertà della scelta a priori. Esistono, come abbiamo cercato di mostrare, condizioni che impediscono e limitano in maniera decisiva la libertà della scelta; tra queste, come si ricorderà, l’esistenza di un Dio, di un meccanismo, di una materia, di un’idea, di uno spirito, di un’ideologia o di un partito, allorché essi pretendano il ruolo di protagonisti assoluti della vicenda umana, allorché sviluppino un loro progetto, disegno o movimento di cui gli esseri umani sarebbero non già i protagonisti ma, nel migliore dei casi, dei comprimari e, nel peggiore, dei semplici burattini. Probabilmente non vi sono argomenti decisivi per negare un ruolo preminente di Dio, della materia, dello spirito, ecc.; così come non ve ne sono per affermarlo. Lasciando impregiudicata la questione ontologica, riteniamo che preferire una delle due alternative succitate, sia – in fondo – questione di gusti, cui il ragionamento razionale, a posteriori, fornisce o meno delle pezze giustificative. Quanto alla libertà della scelta (e quindi del soggetto), dopo aver evidenziato i modi dell’essere che la vanificherebbero, ci limiteremo a prendere in considerazione quelle condizioni relative che contraddistinguono la libera scelta: quelle, cioè, che dipendono dal soggetto e sulle quali esso può agire, per modificarle a proprio vantaggio. È chiaro che, nel mondo del relativo – in cui l’essere umano vive e opera – non si danno né si daranno mai condizioni di libertà assoluta, ma sempre e solo relativa. Entro l’ambito, comunque ristretto, di tale libertà relativa, si tratta però di vedere quali siano le strategie e quali gli obiettivi che possono assicurare il massimo grado di libertà della scelta (o, se si preferisce, il minor grado di limitazione, il che è lo stesso). Per fare ciò, prenderemo in esame la patologia della scelta: da esso emergeranno, per contrasto, le condizioni ottimali per una scelta (relativamente) libera.

1) LA SCELTA COME FUGA IN AVANTI.

La scelta, si è detto, è innanzitutto una assunziuone di responsabilità, un farsi carico di sé, dell’altro e del mondo. Eppure, nella struttura della coscienza vi è una tendenza profonda, ancestrale, quasi istintiva alla fuga dalle responsabilità (non tanto in senso eudemonistico, che sarebbe, almeno, un prendersi cura di sé, quanto in senso irrazionalmente nichilistico. La scelta, infatti, non si traduce automaticamente in una decisione: scegliere è optare e, benché richieda un atto di volizione, non impegna interamente il soggetto: o, almeno, così crede la coscienza. Spesso si vive, e si sceglie, con il "pilota automatico" inserito: meccanicamente e per forza d’abitudine; o pensando a qualche cosa d’altro; o, addirittura, riposando. Perché vi sia una decisione, occorre che tutto l’essere del soggetto si mobiliti: dunque, autocoscienza; e autocoscienza rapportata a quel determinato atto che è la scelta. Ora, scegliere continuamente è – come si è detto – inevitabile; ma decidere è un atto che, in molti casi, ripugna istintivamente, perché significa mettersi in gioco, rischiare, affrontare volontariamente l’angoscia della vertigine.

Ecco allora che la coscienza, nella sua furbizia, spesso inconsapevolmente elabora una sottile strategia per sottrarsi , o avere l’illusione di sottrarsi, alla decisione: per vivere la scelta non (com’è effettivamente) un procedere in avanti, assumendo il dato dell’irrevocabilità e della conseguente responsabilità; ma come fuggire in avanti. La fuga non è, necessariamente, un rivolgersi indietro; può essere anche un gettarsi in avanti; così come, in determinate circostanze, affrontare l’emergenza può corrispondere a un tornare indietro. Ciò che è caratteristico della scelta non è il movimento direzionale della coscienza (avanti verso il futuro, o indietro verso il passato), bensì la motivazione profonda di essa, che è sempre un’assunzione di responsabilità e un farsi carico. In senso morale ed esistenziale, la scelta è sempre un andare avanti, anche se può corrispondere a un movimento retrogrado della coscienza: per es., scegliere di tornare indietro per affrontare un brutto ricordo e decidere, così, di non essere più prede, ma cacciatori.

In genere, la coscienza che davanti alla necessità di decidere sceglie la fuga, non lo fa consapevolmente. Scegliere consapevolmente di fuggire è già un atto di volizione assai vicino al decidere, anche se è un decidere in negativo, cioè decidere di non decidere e, quindi, cercar di sottrarsi all’impegno della scelta.

La scelta come fuga è un’altra cosa. Essa ha luogo quando la coscienza si autoinganna e fa mostra di assumersi delle responsabilità decidendo, ma in realtà fugge dalla scelta autentica, e maschera tale fuga con un apparente andare-verso, mentre invece è un allontanarsi da. La coscienza, ad es., può decidere di farsi carico di un oggetto secondario che comporta (magari) fatica, sacrificio e responsabilità, per mascherare il fatto che non osa scegliere fra due oggetti primari che si escludono a vicenda. I sensi di colpa (inconsci) verranno sviati e tratti in inganno dallo sfoggio di alacrità e spirito di abnegazione del soggetto; tutti diranno: "Poverino, vedi come si sacrifica!": ma lui solo, al fondo della propria anima, saprà che la viltà e soltanto la viltà ha originato quello spirito di dedizione e di autosacrificio.

Ma che cos’è, propriamente parlando, la fuga? La fuga è (direbbe un buddhista, o in indù) avidya, ignoranza: ignoranza del fatto che soggetto e oggetto, conoscente e conosciuto sono la stessa cosa. Tuttavia, anche lasciando impregiudicata la grande questione metafisica se l’Essere sia uno (nel qual caso la distinzione tra soggetto e oggetto avrebbe valore puramente pratico e relativo), è certo che il soggetto, ponendosi di fronte a degli oggetti, esce da sé e condivide l’oggettualità, divenendone parte – in ultima analisi, si sceglie sempre sé stessi. La scelta sfocia in un fatto interno della coscienza; è un ritrovarsi, un immergersi nella corrente dell’identità. Scegliendo il tu, io divento veramente me stesso; non potrei farlo né potrei verificarlo, senza di te. Tu, oggetto, mi sei necessario non solo in quanto altro ma anche in quanto, scegliendoti, divento parte di te – e tu di me: diventiamo uno.

Ma la coscienza, spesso, ha paura di questa rivelazione. Teme di perdersi. Crede che porre il tu come parte del possa condurla a smarrirsi, a non ritrovare più la propria identità, il proprio io cui è ferocemente attaccata perché, sbagliando, si identifica puramente e semplicemente con se stessa. Di conseguenza, si aggrappa: si aggrappa alle cose, si aggrappa al proprio io: non vuole lasciarsi andare. Non sa che, per ritrovarsi, bisogna perdersi e che, per riconoscersi, bisogna aprirsi al tu e fargli spazio entro di sé, assumendolo e affermandolo. La coscienza, tendenzialmente, vuole affermare sé stessa e non l’altro: affermare l’altro, accoglierlo in sé le sembrerebbe un modo di mettere in pericolo se stessa, di sminuirsi – forse, di non più ritrovarsi. Trattenuta dai mille lacci dell’attaccamento, la coscienza rifugge da tutto ciò che crede la possa diminuire e, talvolta, preferisce caricarsi d’infiniti pesi non necessari, piuttosto che guardarsi dentro e accettare apertamente il proprio destino di essere colei-che-deve-scegliere.

È legittimo, talvolta, aver paura; è umano desiderare la fuga, in certe situazioni. Mascherare la fuga da atto di coraggio è abietto. Purtroppo, il mondo è pieno di vili che recitano senza necessità la parte degli eroi, mentre un momento di viltà apertamente confessato è un atto dignitoso e un indice di forza, piuttosto che di debolezza. Quando la viltà travestita da coraggio prevale, i coraggiosi sono chiamati vili e si assiste a un grottesco capovolgimento della verità, come denuncia Leopardi ne La ginestra:

"Così ti spiacque il vero

dell’aspra sorte e del depresso loco

che natura ti die’. Per questo il tergo

vigliaccamente rivolgesti al lume

che il fe’ palese, e, fuggitivo, appelli

vil chi lui segue, e solo

magnanimo colui

che sé schernendo o gli altri, astuto o folle

fin sopra gli astri il mortal grado estolle." (vv. 78-86).

2) LA SCELTA COME RIVINCITA TARDIVA.

La scelta può anche essere vista dalla coscienza come un’occasione di rivincita rispetto a fallimenti e frustrazioni antecedenti. In tal caso, essa viene brandita come una clava per assestare colpi formidabili all’oggetto; ma i suoi veri nemici, elusivi e inafferrabili, restano i fantasmi interiori. Inconsapevolmente, quando si verifica tale situazione, la scelta da mezzo per affermare la propria decisione tende a divenire il fine. Il piacere della rivincita chiede di essere assaporato lentamente e la coscienza, di conseguenza, indugia sull’orlo della scelta, ne prolunga artificialmente i tempi, li dilata in modo da rallentarne gli effetti d’irrevocabilità. Quando il soggetto è assetato di rivincite tardive, la scelta non è più il momento della decisione, ma il godimento di un qualcosa che sta oltre il fatto della decisione; non uno strumento ma un bene in sé, non un cosa ma un come. Essa diviene l’organo della voluttà della coscienza, perché il Soggetto che insegue rivincite è un sensuale che non cerca di spegnere la sete, ma che ama la propria sete per poter bere insaziabilmente. È, quindi, oltre che un sensualee un voluttuoso, un masochista per eccellenza: non sa e non vuol sapere che l’unico modo di spegnere la sete è bere quanto basta per estinguerla. Esso, al contrario, vorrebbe fare del bere l’atto caratteristico della propria vita interiore, condannandosi così, da se stesso, a un tormento inestinguibile. Eppure gode di un tale tormento: ne gode e ne soffre allo stesso tempo; è un io perduto.

La scelta, in una tale prospettiva, non è più uno stadio etico nella storia della coscienza, ma casomai un momento estetico chiuso in se stesso e solo apparentemente liberatorio. In realtà è un momento narcisistico e involutivo, una regressio sterile e puerile, un misconoscimento della natura evolutiva della coscienza. La scelta come rivincita sacrifica l’elemento più nobile della coscienza, quello decisionale, mediante il quale l’io costruisce se stesso, al piacere momentaneo e illusorio di "pareggiare i conti" con la realtà esterna (ma, in effetti, con un avversario inafferrabile perché collocato nel passato), ignorando che quando è quest’ultima a dettare le regole dell’evoluzione interiore, l’io è perduto. Da soggetto, la coscienza tende a farsi oggetto: il suo destino, la sua realizzazione le sono sfuggiti di mano. Essa non esercita più un ruolo di dominio su se stessa, ma subisce passivamente speranze e timori per qualcosa che è fuori di essa e che si insignorisce di essa attraverso la sua pusillanimità e la sua ignoranza.

Vi è qualcosa di profondamente tragico in questa situazione. La coscieza che vive il momento della scelta come fuga è patetica; la coscienza che la vive come rivincita non può suscitare che ripulsa. Simile a un re il quale si faccia schiavo delle proprie passioni più turpi, perde il controllo della propria dignità e riceve in se stessa la propria punizione: quella di abdicare, irrimediabilmente e colpevolmente, alla propria natura di agente, cioè di soggetto. Anche il desiderio di rivincita (come il timore) nasce dall’attaccamento, da un attaccamento – si direbbe – postumo alle cose. Infatti quando si crede di aver perduto qualcosa (ignorando che la coscienza non perde mai nulla, perché è grande abbastanza per contenere e conservare ogni cosa), è allora che si è assetati di riconquistarla, magari facendo pagare al mondo gl’interessi della propria sofferenza e della propria frustrazione. Ma le cose "ritrovate" mediante la rivincita, non sono le stesse che credevamo d’aver perduto: son diventate altre, le signore implacabili della nostra ossessione, che ci frusteranno a sangue quanto più c’illuderemo di averle riconquistate. Così, non solo ci ritroveremo a stringere vanamente un pugno di sabbia tra le dita: avremo abdicato all’essenza profonda del nostro essere, facendoci servitori d’infimo rango di quelle stesse forze che avevamo creduto di dominare e soggiogare, vinte, ai nostri piedi.

3) LA SCELTA COME SFIDA E PROVOCAZIONE.

Accade che la coscienza, per reagire a un sentimento d’inferiorità o per mascherare un disagio esistenziale, individui nella scelta un momento privilegiato di sfida e di provocazione nei confronti della realtà esterna. La caratteristica fondamentale di tale atteggiamento è la stolida reiterazione: si ripete all’infinito la scelta, per ripetere all’infinito la sfida. Quel che conta, infatti, non è l’oggetto da scegliere, ma l’atto della sfida in se stesso, camuffato da scelta. Ora, la scelta corrisponde a una decisione positiva: è un agire-per. La sfida, al contrario, è un atto di decisione puramente negativo: un agire-contro. La coscienza che si abitui a vivere la scelta come un’occasione di sfida, poco alla volta finisce per esserne dominata e diventa una coscienza ossessionata.

La coscienza ossessionata si muove in uno stato di perenne eccitazione, di perenne gioco al rialzo, innaturalmente protesa oltre se stessa ma senza trascendersi, senza redimersi. Essa vive la maledizione di un conflitto insanabile con se stessa: aspira a un sovvertimento permanente di valori e di giudizi che tuttavia, nella paradossalità del suo atteggiarsi verso se stessa, non soddisfa né soddisferà mai la sua sete bruciante di scandalo liberatorio. È costretta ad alzare la posta ad ogni nuova puntata, pur sapendo che, per tale via, non farà altro che rafforzare quell’impalcatura forzata e innaturale, quella nevrosi circolare e autoalimentantesi che è al tempo stesso la sua delizia e la sua inguaribile maledizione.

Per la coscienza ossessionata non è importante scegliere, ma sfidare e provocare; la scelta, di conseguenza, risulta condizionata in partenza, schiava di una logica perversa che la domina e che è estranea ai veri bisogni, alle vere aspirazioni della coscienza. Non c’è libertà, non c’è redenzione, ma solo la pena di un rito sempre uguale, che sciupa sistematicamente ogni occasione di autenticità, ogni possibile riscatto dalle catene di un ego irrazionale. La volontà, paralizzata da una strategia di aggressione à outrance, che diviene fine a se stessa, si esaurisce e si annulla in una vana tensione, in una eccitazione permanente che rimane prigioniera di una logica autodistruttiva.

Nella scelta ridotta a sfida, vengono negate la dignità e l’essenza profonda del rapporto con l’altro e, a maggior ragione, viene meno la possibilità di riconoscere nel tu un elemento essenziale di crescita e di individuazione dell’io. L’altro diventa uno sgabello per fare sfoggio di aggressività; viene ridotto a oggetto nel senso più letterale e più degradante della parola. Si può dire che, se nella scelta come rivincita tardiva il tu è ingigantito fino a proporzioni abnormi dallo spirito di revanche, nella scelta ridotta a sfida il tu è semplicenente ignorato e rimosso. Quel che conta è l’ego, il senso ubriacante e artificiale di potenza dell’ego che nasce dal sentirsi solo e coraggioso contro tutto e contro tutti: magnificamente solo ed eroicamente in lotta. Il tu esiste solo in quanto elemento da svalutare, denegare; elemento puramente strumentale, necessario alla elaborazione dei fasti dell’ego più sfrenato; non, come nel caso della rivincita tardiva, in vista di un obiettivo definito (la rivincita passante attraverso l’umiliazione dell’altro), ma in vista di un generico bisogno di "essere contro" affinché la coscienza possa sentirsi viva. Tanto più è lanciata contro qualcosa o qualcuno, tanto più riesce a sentirsi viva. Alla patologia della rivincita tardiva appartengono quei soggetti che non sono riusciti a elaborare e superare la frustrazione di episodi ben precisi e circoscritti nella dialettica col mondo esterno; alla patologia della scelta come sfida, invece, sono riconducibili quei soggetti che vivono in uno stato di frustrazione diffusa e permanente, magari rafforzata da singoli episodi circoscritti. Nell’un caso come nell’altro, la coscienza ha perduto i profondi rapporti organici che legano la coscienza dell’io alla consapevolezza del tu; e l’io, così sbilanciato in senso centripeto, tende a collassare continuamente su se stesso.Ciò spiega la tendenza di tali soggetti a reiterare senza fine le proprie dinamiche inconsciamente autodistruttive, a perseverare nell’inferno della incessante reificazione dell’ego: vittima e carnefice di se stesso, della propria incapacità di diagnosticare lealmente la propria infermità ed ignoranza.

4) LA SCELTA COME NEVROSI VITALISTICA.

Un’altra particolare maniera di non scegliere è quella di moltipicare il proprio ego in un gioco pirotecnico di continue, frenetiche pseudo-scelte: scegliere sempre per non scegliere mai. Diceva giustamente il principe di Salina, protagonista del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa Il Gattopardo: "Bisogna che tutto cambi, affinché tutto possa rimanere come prima". Stategia gattopardesca, dunque, che per il fatto di essere parzialmente inconscia non per questo risulta meno efficace. Prototipo di tale tipo umano è – come mostra, con la sua abituale acutezza, Sören Kierkegaard – la figura di Don Giovanni: colui che sceglie tutte le donne che si trovano alla sua portata, per non doverne scegliere nessuna; e, molto probabilmente, per poter continuare a fuggire impunemente da se stesso. Di fronte a un tale tipo umano (del quale Don Giovanni è soltanto un esempio "classico" e particolarmente emblematico) tutto quello che si può dire è che, a meno di un prodigio, solo una sosta forzata, un evento esterno che spezzi la catena nevrotica dell’iper-attivismo, potebbe innescare un processo di ripensamento delle sue motivazioni irrazionali, e avviare una possibile liberazione – cioè, un ritorno all’interno del suo autentico Sé.

Se poi andiamo a esaminare più da vicino le motivazioni psicologiche dell’iper-decisionista, ci accorgeremo facilmente che esse svolgono la funzione di una vera e propria cortina fumogena perché egli possa fuggire dal vero Sé. A lui non importa tanto la possibilità insita nella scelta, cioè la sua profonda dimensone etica, quanto l’atto della decisione in se stesso: la decisione come manifestazione della potenza dell’io. La frenesia della scelta, per costui, nasce da un attaccamento al proprio ego, che si vuol vedere esaltato dall’esercizio della sovrana facoltà di decidere. Gli sfugge, in tal modo, la verità più profonda insita nell’atto di scegliere: che scegliere è sempre un aprirsi, un andare verso, una scoperta e una attenzione nei confronti dell’altro. La scelta diventa, al contrario, chiusura e autoaffermazione solipsistica. Si potrebbe dire che, per un tal genere di coscienza, la decisione è il fine e la scelta il mezzo – ossia un perfetto capovolgimento del giusto rapporto tra mezzi e fini. D’altra parte, per questo tipo di personalità "decidere" corrisponde all’esercizio di un potere e non a una possibilità cui accostarsi con "timore e tremore"; è un modo per sentirsi importanti, per sentirsi vivi. Per costoro, apparire è più importante che essere: anche ai propri stessi occhi. Si tratta di personalità superficiali che scambiano il fare con l’agitarsi vanamente; incapaci di sentire la solennità e, diremmo quasi, la sacralità del fatto di scegliere, ossia di un qualcosa che mette in gioco tutta la dimensione coscienziale.

Si potrebbe obiettare che, avendo sostenuto l’inevitabilità di sceglire continuamente, di scegliere anche quando si crede di aver deciso di non scegliere, è poi contraddittorio qualificare di superficialità e banalizzazione della scelta coloro che, per temperamento, tendono a esercitare con frequenza tale facoltà. In effetti, l’equivoco potrebbe nascere solamente se ci si ostina ad abusare del termine "scelta", facendone – più o meno implicitamente – un sinonimo di "esercizio della volontà". La scelta è molto di più: è il dire sì alla vita, è l’offrire il proprio essere alla vicenda del mondo. In questo senso, la scelta assume il valore di una partecipazione totale e perde quel carattere di piccola azione utilitaristica e tattica, limitata al campo del contingente e dello strumentale. Certo, non si può fare a meno di scegliere continuamente, come un viandante che, percorrendo un sentiero nel bosco, ad ogni svolta e ad ogni bivio sceglie una strada piuttosto che un’altra; ma, a questo punto, la scelta diviene cosa estremamente seria e importante, forse decisiva. Così come – dicono i saggi Zen – è possibile vedere l’intero Universo in una goccia d’acqua, così l’intera vita morale dell’io si riflette nelle singole scelte contingenti e ne viene, mano a mano, modellata.

Francesco Lamendola

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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