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12 Luglio 2006
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12 Luglio 2006Questo articolo è stato pubblicato sul numero 28 del 9 ottobre 1988 (anno 69) del settimanale anarchico "Umanità Nova", fondato nel 1920 da Errico Malatesta, ed è dedicato alla scrittore ceco Jaroslav Hašek, autore del memorabile romanzo Le avventure del buon soldato Švejk durante la guerra mondiale [1914-1918].
A Praga la sua presenza è ancora ben viva: in diverse birrerie si possono ammirare i ritratti degl’indimenticabili personaggi che affollano il romanzo – autentico campionario della più varia umanità – nelle esilaranti incisioni dell’artista ungherese Josef Lada, l’altrettanto famoso illustratore dell’edizione originale. Anche il cinema cecoslovacco vi si è ispirato, in particolare con il bellissimo film d’animazione del 1954 "Il buon soldato Švejk" del regista Jiri Trnka, autentico poeta del film a pupazzi, autore di quel capolavoro assoluto che è la trasposizione del "Sogno di una notte d’estate", da Shakespeare, del 1959 (cfr. Ernesto G. Laura, "Il film cecoslovacco", Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1960). Tra le riduzioni teatrali della popolarissima opera di Hašek, ricordiamo almeno queklla di Bertolt Brecht, messa in scena da E. Piscator (Brecht ha scritto anche, per il teatro, "Schweyk nella seconda guerra mondiale", 1941-44).
La miglior biografia dello scrittore praghese, in lingua ceca, è quella di Jiri Hajek, "Jaroslav Hašek" (ed. Melantrich, Praga, 1983). L’edizione italiana del "Buon soldato Švejk", con le illustrazioni di J. Lada, è quella "storica" di Feltrinelli del 1961, in due volumi (settima edizione, 2003), nella traduzione di Renato Poggioli e Bruno Meriggi.
JAROSLAV HAŠEK
C’è un nome che in genere manca nelle storie generali dell’anarchismo o che vi è ricordato appena di sfuggita, ed è quello dello scrittore cecoslovacco Jaroslav Hašek. Dovrebbe figurarvi non tanto perché egli abbia aderito consapevolmente al movimento anarchico, che forse conosceva in maniera solo superficiale, ma perché la sua opera di artista è stata costantemente vissuta in una dimensione libertaria della quotidianità, che trova pochi altri esempi nella storia della letteratura. La sua umanità ricca, vivace, esuberante, insofferente di qualsiasi pastoia o etichetta o bandiera, ci offre l’esempio forse unico di un intellettuale autodidatta, capace non di teorizzare o predicare, ma di vivere l’ideale libertario con coerenza assoluta.
Troppo noto è il suo capolavoro Osudy dobrého vojàka Švejka za svetevé vàlky (ossia Le avventure del bravo soldato Švejk durante la guerra mondiale), anche attraverso riduzioni teatrali e cinematografiche celeberrime, perché qui ci si soffermiamo a parlarne. Basterà dire che Švejk è ormai un personaggio letterario immortale, come il Don Chisciotte di Cervantes (al quale lo accomunano certi tratti) e come il Gargantua di Rabelais (che ci richiama per il robusto, schietto e spesso rude umorismo popolaresco); anzi, si può dire che egli è ormai diventato il simbolo di una condizione umana.
Švejk cela una profonda saggezza contadina dietro la sua apparente storditezza, che fa andare in bestia tutti i suoi superiori. Applicando gli ordini in maniera puntigliosissima, li rende assurdi e ineseguibili; e professando un cieco rispetto per l’autorità militare (in questo caso, quella del decrepito Impero austro-ungarico), viene ad esserne di fatto uno strumento inutilizzabile. La sua bonaria sottomissione disarma e smaschera l’ottusa crudeltà di un sistema che pretende di avere in sé la propria ragion d’essere. Qualcuno ha messo in dubbio che Švejk sia un personaggio rivoluzionario, a causa del tono scettico e corrosivo che pervade tutta la sua filosofia spicciola. È un errore colossale. Proprio perché scettico e corrosivo, proprio perché irriducibile a qualunque schema e a qualunque partito, Švejk (come del resto il suo autore) è anzi il simbolo di una contestazione permanente e sovversiva.
Sul romanzo di Hašek, comunque, è facile trovare abbondante materiale, anche in lingua italiana. Manca invece, a quanto ci risulta, una compiuta e attendibile ricostruzione biografica, almeno nella nostra lingua. E perciò vogliamo parlare qui, piuttosto, dell’uomo Jaroslav Hašek, la cui vita è essa stessa un romanzo, non meno imprevedibile e umoristico di quello del suo popolarissimo personaggio.
Nasce a Praga il 24 aprile 1883, un anno prima che le autorità austriache dichiarino lo stato di assedio a Vienna e promulghino delle leggi speciali anti-anarchiche e anti-comuniste che segnarono, di fatto, il tramonto del movimento libertario organizzato nell’Impero asburgico. Stellmacher, discepolo di Johann Most, viene giustiziato, Puekert ed altri fuggono all’estero (cfr. George Woodcock, L’anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, Milano, Feltrinelli, 1980, pagg. 380-81). Hašek cresce quindi in questo clima di opprimente strapotere dello Stato, della burocrazia imperial-regia, dell’esercito, un esercito per di più straniero; e reagisce con la tipica strategia difensiva della gente cecoslovacca: l’ironia.
La sua giovinezza è una sequenza caleidoscopica di improvvisazioni: fa il garzone di drogheria, il commerciante di cani più o meno rubati (e se ne trova abbondante traccia nel romanzo), il redattore di giornali umoristici, ma anche scientifici – incredibile questa versatilità culturale -, l’impiegato di banca. Ogni tanto molla tutto e si dà a dei periodi di vagabondaggio. Oppure si smarrisce nelle taverne e nelle osterie della "vecchia" Praga, popolate da una umanità ricca e per lo più "irregolare", dove passa intere giornate e dove si abbandona volentieri a delle sbronze veramente omeriche – ma, forse, sarebbe più giusto dire rabelaisiane.
Tuttavia, dietro questa facciata di scioperato irresponsabile, la sua mente attentissima osserva e registra tutto, segue tutto, lavora incessantemente. Prima dello scoppio della guerra mondiale, il Nostro ha già pubblicato centinaia di racconti, tutti graffianti e ferocemente satirici; alcuni degni di stare a fianco dell’opera maggiore, anche se pochissimo conosciuti, ancor oggi, fuori della Cecoslovacchia. Tra essi ricordiamo Un omicida davanti al tribunale; 1907; Catastrofe nella miniera, 1908; Il fervore impiegatizio di Stefan Brycha, 1911; Se uno cade nei Tatra [i monti al confine tra Slovacchiae Polonia], 1912; La guida dei forestieri e altre satire, 1913. Un certo numero di questi racconti sono sati pubblicati, in italiano, nelle antologie Il tuono viola, Milano, Nuova Accademia ed., 1963; Lo sciopero dei malviventi, Roma, Lucarini, 1989; e Švejk contro l’Italia, Milano, Garzanti, 1965.
Autore fecondissimo, era capace di scrivere pagine e pagine con la stessa alacrità tumultuosa con la quale si ubriacava sistematicamente nelle birrerie dei rioni popolari della "sua" Praga. Città che era, ricordiamolo, un crocevia culturale di prim’ordine della "vecchia" Mitteleuropa, albergando in sé tre anime diverse ma complementari: la slava, la tedesca e l’ebraica (le ultime due verranno poi spazzate via dal diluvio nazista e dalle conseguenze della seconda guerra mondiale).
Nel 1904 si era accostato a quel che restava del movimento anarchico, e per un certo tempo aveva frequentato il circolo libertario dei letterati di Praga, come il suo concittadino – ma scrittore di lingua tedesca – Franz Kafka. Nel 1911, un altro colpo di testa, fra il goliardico e il geniale: Hašek fonda addirittura un partito, pomposamente battezzato "Partito del progresso moderato nell’ambito della legge". Un capolavoro di ironia nei confronti delle occhiute autorità asutriache, una trovata che supera quasi in fantasia la celebre beffa dei nostri giorni del pseudo-Stato di Ocussi-Ambeno (cfr. F. Lamendola, Uno Stato tutto da ridere, sul numero del 12 giugno 1988 di Umanità Nova).
Nel 1914 scoppia la guerra (per l’esattezza, il 6 agosto l’Austria la dichiara alla Russia zarista, dopo che il 28 luglio l’aveva dichiarata alla Serbia ed erano poi intervenute Germania, Russia, Francia e Gran Bretagna). Hašek l’accoglie favorevolmente, perché vi intravede la prossima liberazione della sua patria. Del pari si arruola con apparente buona volontà quando, al principio del 1915, lo Stato lo chiama alle armi (Stato dei Cecoslovacchi: l’Austria del kaiser Franz Josef d’Asburgo, scherzosameente chiamato dagli Italiani "Cecco Beppe"). In realtà, egli ha già formulato il suo piano, e lo realizza nel 1916, alla prima occasione favorevole: giunto al fronte, insieme a migliaia di suoi commilitoni boemi getta le armi, e si consegna al "nemico" senza sparare un colpo di fucile. Sono i mesi della travolgente offensiva del generale Brusilov, che penetra a fondo nelle linee austriache e che mette fuori combattimento qualcosa come 600.000 uomini, molti dei quali, come il Nostro, non vedevano l’ora di darsi prigionieri.
In Russia non rimane inattivo, ma si arruola subito nelle legioni cecoslovacche, costituite dall’Intesa con i prigionieri austriaci di nazionalità ceca e slovacca, allo scopo di proseguire la guerra contro l’Austria-Ungheriae la Germania (i cosiddetti "Imperi centrali"). Si dedica anche a un’attiva propaganda "disfattista" rivolta ai suoi compatrioti che, in uniforme grigio-azzurra, stanno ancora servendo l’imperial-regio esercito di Cecco Beppe (cui subentra, nel dicembre 1916, l’ultimo sovrano Carlo d’Asburgo). A Kiev, capitale dell’Ucraina, è redattore del giornale Cechoslovan, dalle cui colonne incita i Cechi a scuotere il giogo asburgico.
Nel 1917 scoppia la rivoluzione: anzi, le due rivoluzioni: quella di Febbraio, che vede la caduta dello zar Nicola II e la formazione di un Governo provvisorio; e quella dell’ottobre, con cui i bolscevichi s’impadroniscono del potere e, poi, sciolgono l’Assemblea Costituente, instaurando la loro dittatura. Hašek non perde tempo a fare la sua scelta e, mentre la stragrande maggioranza delle legioni ceche rivolge le proprie armi contro il governo sovietico, istigata dalle potenze occidentali e con l’avallo del futuro presidente Thomas Masaryk, egli fa un ennesimo gesto "controcorrente" e si arruola, invece, nell’Armata Rossa. Molto probabilmente, all’oscuro delle tendenze sempre più autoritarie dei bolscevichi, egli crede di essersi schierato dalla parte delle forze popolari più vive ed autentiche, dalla parte di chi proclama di voler dare un taglio netto con il passato. È un’ingenuità: una delle tante. Ma non è facile, in quei giorni convulsi, e con la guerra civile in pieno svolgimento fra rossi" e "bianchi" (aggravata dall’intervento straniero), capirci qualcosa. L’esperimento sovietico sembra in grado di fare molte promesse e, se dovesse riuscire a realizzarle, tante cose gli si potrebbero perdonare. Non tutti, anche nel campo anarchico, hanno fin da subito la lucidità di Emma Goldmanche denuncia la deriva autoritaria e statalista; lo stesso Kropotkin, sulle prime, si illude circa gli esiti della rivoluzione (come già si era illuso sugli esiti della guerra, nel 1914). E, del resto, il sangue di Kronstadt non è ancora scorso per ammonire i libertari che, con i Soviet, la rivoluzione è finita davvero; né le gesta di Nestor Makhno sono molto conosciute e tanto meno adeguatamente comprese, tranne che in una ristretta zona dell’Ucraina meridionale.
Le notizie su questo periodo della vita di Jaroslav Hašek divengono ancor più incerte e confuse, ancor più bizzarre e stravaganti del solito. È certo che combatte per due anni con i Sovietici. Pare che si trovi a ricoprire la carica di "commissario" di un governo locale; inoltre conosce una donna, con la quale torna a Praga nel 1920, e che presenta agli amici come una "principessa" russa. Altro non si sa. [Qualche altra notizia si può trovare nella biografia di Jiri Hajek, Jaroslav Hašek, Praga, ed. Melantrich, 1983, corredata da una ricchissima documentazione fotografica, in gran parte inedita.]
Dopo il ritorno in patria (l’Austria non c’è più, la Cecoslovacchia è uno sato sovrano e democratico) incomincia a scrivere il suo capolavoro. La sua esperienza di guerra gli fornisce il canovaccio, il suo irriducibile senso del grottesco gliene fornisce i mezzi. Ma lo riprende anche il "cerchio magico" delle birrerie di Praga: una Praga non più slavo-tedesca, ma finalmente capitale del popolo ceco.
Il buon soldato Švejk appare dapprima a dispense. Ogni tanto, però, Hašek – già minato dalla cirrosi, come testimoniano le rare fotografie dell’epoca – si ubriaca al tavolo di qualche locale, e il suo editore (l’umorista Franta Sauer) deve andarlo letteralmente a "ripescare", restituirlo alla lucidità con abbondanti dosi di caffè forte, e pregarlo di rimettersi a scrivere. Un riflesso di questa gestazione del romazo quanto mai travagliata si trova, probabilmente, in quelle lunghissime pagine di monologhi strampalati, cui volentieri si abbandonano i protagonsiti, in un clima fra il surreale, lo scherzoso e il demenziale. Alla fine i suoi amici (quasi come Sansone Carrasco fece con Don Chisciotte) decidono di sottrarlo definitivamente alla tentazione – non dei libri, ma dei giganteschi boccali di birra – e lo conducono a vivere fuori città, nel villaggio di Lipnice, nel vano tentativo di disintossicarlo.
Qui lo sorprende la morte, il 2 gennaio 1923, dopo che è riuscito a scrivere quattro delle sei parti previste, in cui doveva articolarsi il romanzo. Le ultime due, ci si proverà a scriverle il giornalista Karel Vanek, ma – com’era da prevedersi – con esiti di gran lunga meno felici.
Oggi, in Cecoslovacchia (1), Hašek-Švejk è una leggenda vivente. Si possono ammirare dappertutto i personaggi del romanzo nei celeberrimi disegni di Josef Lada: l’ottuso sottotenenente Dub, incarnazione del militarismo più gretto e malevolo; il cappellano militare ubriacone Otto Katz, che si gioca l’attendente alle carte, con gli amici; l’ingenuo e ridicolo cadetto Biegler, i cui sogni di gloria guerresca finiscono con un tragicomico attacco di diarrea; il tenente Lukàcs, diretto superiore di Švejk, che rischia più vole l’esaurimento nervoso a causa del suo "impossbile" soldato, e che, forse, è la controfigura dell’Autore, almeno negli sprazzi, ahimé sempre più rari, di sobrietà. [Su questa presenza "viva" di Švejk nella Praga d’oggi, cfr. Il Milione, enciclopedia geografica, Novara, De Agostini, ed. 1968, vol. III, pp. 153. 175. La migliore edizione ceca del capolavoro di Hašek, in due volumi rilegati in ottavo e con le incisioni di Josef Lada a colori, è quella di Cecoslovensky Spisovatel, Praga, 1987].
Questa galleria comica e satirica è un vasto affresco di vita, un messaggio pacifista e libertario, un atto di fede nella bonarietà e nella tolleranza degli uomini d’ogni tempo e d’ogni paese.
(1) L’articolo, scritto dopo alcuni viaggi di studio a Praga, è dell’ottobre 1988, quando esisteva ancora la Repubblica Cecoslovacca (e anche l’Unione Sovietica). Il 1° gennaio 1993 la Repubblica Ceca, sotto la presidenza di Vaclav Havel, e la Slovacchia, si sono separate consensualmente, dopo avere formato un’unica entità statale dalla fine del 1918 (trattato di Saint-Germain con l’Austria, 1919, e trattato del Trianon con l’Ungheria, 1920; poi, sempre nel 1920, trattato di Sèvres con Polonia e Romania per la definizione delle rispettive frontiere.
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