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Jakob Burckhardt e “L’età di Costantino il Grande”

Lo storico svizzero-tedesco Jakob Burckhardt (Basilea, 1818-1897), amico di Nietzsche, è universalmente noto per "Il Cicerone. Guida al godimento dell’arte in Italia", del 1855; "Storia della civiltà greca", del 1898-1902; "Considerazioni sulla storia universale", del 1905; e soprattutto per "La civiltà del Rinascimento in Italia", del 1860, prima interpretazione del Rinascimento come civiltà globale, in cui l’uomo sviluppa pienamente le sue capacità in un’ottica laica e immanente.

Meno nota è la sua monografia giovanile "L’età di Costantino il Grande", del 1853, ampio e fondamentale studio sugli aspetti politici, sociali, economici, culturali ed artistici dell’Impero Romano nella prima metà del IV secolo, ossia nella delicatissima fase di trapasso dal paganesimo al cristianesimo: un vero e proprio momento-chiave nella storia dell’Occidente. Di essa, principalmente, vogliamo occuparci nel presente articolo.

I.

Jakob Burckhardt di Basilea fu uno dei più geniali storici dell’Ottocento di lingua tedesca. La sua grandezza appare sempre più evidente a mano a mano che il tempo trascorre e restituisce nitidezza alle figure, sottraendole alle confuse impressioni della contemporaneità.

Al suo tempo egli non fu sempre apprezzato nella giusta misura, perché fu un isolato, uno studioso che procedeva imperturbabile contro corrente. In tempi di crescente positivismo, egli per certi aspetti era ancora, tuttavia, un romantico. In un’epoca in cui gli studiosi di storia si erano svegliati d’improvviso con l’idea di esser stati miracolosamente promossi a scienziati, egli si applicò col meglio delle sue forze alla storia dell’arte, alla filosofia, a tutti i fattori spirituali dell’esistenza. In un’epoca di conclamato democraticismo ma di effettiva brutalità imperialistica e di isterismi nazionalistici, egli – scontento del presente – gli volgeva le spalle, rivolgendosi alle ombre del passato. Mentre Bismarck riunificava la Germania col ferro e col fuoco e fondava la massima potenza europea, gettando però le premesse di una conflagrazione mondiale, Burckhardt sentenziava seccamente: "Die Macht in sich ist böse" ("Il potere in sé stesso è malvagio"). Mentre la filosofia hegeliana teneva banco in quasi tutte le università europee, egli affermava l’insostenibilità di qualsiasi filosofia ella storia. Mentre intorno a lui si faceva un gran parlare di progresso, egli concisamente osservava: Ma noi non siamo iniziati ai fini della sapienza eterna, e non li conosciamo" (Riflessioni sulla storia universale, Milano, Rizzoli, 1966, p. 17). Quando il motto universale degli storici era "scienza e specializzazione", lui difendeva il valore del dilettantismo e dell’approccio globale al passato. Mentre un fremito di ottimismo percorreva il continente accecando le menti, egli scuoteva il capo e pessimisticamente prediceva un buio futuro.

Ci sono voluti cent’anni per vedere chi avesse ragione e chi torto; ma, soprattutto, ci son voluti quegli irrimediabilie tragici errori, che una voce isolata nel deserto aveva per tempo denunciato.

La figura umana del Burckhardt, inscindibile da quella dello studioso, potrebbe ancor oggi essere d’esempio a molti di coloro che hanno tanto strepitato sulla sua mancanza di metodologia scientifica e perfino di problematica storiografica. Su di lui, in Italia, è a lungo pesata – quasi come una condanna morale – la sentenza del padre del neoidealismo nel nostro Paese, che per cinquant’anni dettò legge come un sultano orientale. Benedetto Croce ebbe a dire che Burckhardt era uno storico "senza problema storico" (B. Croce, la storia come pensiero e come azione, Bari, 1938, pp. 92-194). Solo oggi, lentamente, si comincia a rivedere siffatta impostazione e a rivalutare la figura e l’opera dello storico di Basilea. Benedetto Croce era ammalato di megalomania e non riuscì mai a liberarsi dal vizio di trinciare sentenze, spesso ispirate da meschina gelosia professionale, incoraggiato in questo dal coro di servile adulazione di quanti accoglievano le sue sparate come altrettanti responsi dell’oracolo di Delfo.

Mentre in Italia Croce si faceva portavoce della sapienza divina, in Francia l’opera di uno studioso isolato come Burckhardt scorreva senza lasciar traccia dietro di sé. Con incredibile leggerezza, uno storico della fama di Georges Lefebvre si è lasciato andare a un’affermazione di questo genere:

"(…) come Renan e persino più di lui, [Burckhardt] pone in primo piano l’interesse per l’arte e la passione estetica. Certo gli è inferiore. Non è un erudito, non possiede la diversificata documentazione di Renan, né il suo spirito critico; non si interessa che alle arti." (G. Lefebvre, La storiografia moderna, Milano, Mondadori, 1973, p. 264).

A dire il vero, si ha l’impressione che una pagina come questa possa essere stata scritta solo da uno che non abbia mai avuto fra le mani un libro di Burckhardt. Sorvoliamo pure sull’immancabile puntata sciovinistica, così caratteristica degli storici (e non solo) d’Oltralpe, su quel gratuito ed estremamente ingenuo "certo gli è inferiore" di Burckhardt rispetto a Renan. Ma non possiamo non denunciare come la passione estetica dello storico svizzero sia stata fraintesa, e forse deliberatamente, dal Lefebvre: "Non si interessa che alle arti…". Ecco che la passione estetica diviene gusto estetizzante, vagamente pre-dannunziano, vagamente languido e morboso, vagamente dolce e immorale. No, nulla di più lontano dal sobrio, virile, severo spirito riflessivo del Burckhardt, dal suo alto senso dei valori etici, dalla sua coscienza professionale di storico – sebbene non erudito, questo sì che è vero. (Ma ci sembra un po’ difficile sostenere che Ernest Renan lo fosse; Renan che, nella sua celebre Vita di Gesù, guardava al paesaggio della Palestina come al "quinto Vangelo", capace di rivelargli quel che i Vangeli canonici non dicono…).

II.

Jakob Burckhardt era nato a Basilea nel 1818, aveva studiato a Berlino, aveva lungamente viaggiato, soprattutto in Italia, sua patria ideale ed eterna; e infine era ritornato a Basilea per rimanervi sino alla fine, scrivendo, insegnando e rifiutando le allettanti offerte di cattedre universitarie che gli piovevano da ogni parte. Culturalmente era e rimase un isolato, che procedeva per la propria strada senza curarsi del baccano positivista e dei pindarici voli degli idealisti hegeliani. Eccettuato un triennio all’Università di Zurigo, insegnò sempre, indefessamente, nella sua città natale, esempio quotidiano per i suoi studenti di amore allo studio, di intelligenza riflessiva, di infaticabile laboriosità. Di carattere schivo ed austero, apparentemente quasi rigido, possedeva in realtà una ricchezza umana piuttosto rara fra gli studiosi tedeschi, e che era la ragione della sua predilezione per l’Italia. Gli schizzi e le fotografie dell’epoca ce lo rappresentano così, con la cartella delle lezioni sotto il braccio (quegli appunti preparati tanto meticolosamente, tanto amorosamente), l’aria grave ed assorta, propria di chi ha la coscienza di seguire l’unica strada che meriti di essere seguita fino in fondo. Non fu, tuttavia, uno spirito polemico; la sua polemica era solo culturale, acuta ma quasi silenziosa, e non intaccò mai il suo sobrio carattere, amareggiandolo. Acri inimicizie, come quelle fra Hegel e Schopenhauer, non facevano parte del suo stile.

L’età di Costantino il Grande (Die Zeit Konstantins des Grossen) fu la prima grande opera del giovane Burckhardt e vide la luce nel 1853, a due anni di distanza dalla Storia dell’imperatore Adriano e dell’età sua di un altro grande solitario della storiografia ottocentesca di lingua tedesca, Ferdinand Gregorovius (vedi in proposito il nostro articolo: Ferdinand Gregorovius, uno storico poeta). Nel 1855 usciva Il Cicerone. Guida al godimento dell’arte in Italia (Der Cicerone. Eine Anleitung zum Genuss der Kunstwerke Italiens); nel 1860 la celeberrima Civiltà del Rinascimento in Italia (Die Kultur der Renaissance in Italien); nel 1898-1902, postuma, la Storia della civiltà greca (Griechische Kulturgeschichte) e nel 1905, sempre postume, le Riflessioni sulla storia universale (Weltgeschichte Betrachtungen). Questo elenco comprende solo le opere maggiori. Il Burckhardt morì nella sua amata Basilea, quasi ottantenne, nel 1897.

La novità e la grandezza della sua impostazione storiografica appare manifesta sin dalle prime opere. In opposizione al dilagante storicismo, che proprio in ambiente germanico iniziava la sua marcia trionfale attraverso la cultura europea, egli proponeva un tipo d’interpretazione del passato attenta soprattutto all’elemento "unificante" di una data civiltà, superando la varietà puramente esteriore delle sue manifestazioni. Per questo le sue opere sono così simili a delle pitture, a dei grandi affreschi ove intere epoche e intere civiltà sono colte nel loro elemento essenziale e unficatore. E tale elemento essenziale, tale "spirito" era, per lui, quello che meglio che in ogni altro campo si manifestava nell’architettura, nella scultura, nella pittura, nella letteratura, nella filosofia e nel sentimento religioso.

Resterebbe da vedere, per usare l’espressione del grande storico francese Fernand Braudel, se una "storia interna", ossia della cultura, dell’arte e della religione, possa mai costituire una realtà a sé, slegata dai concreti fattori sociali, economici e politici di una società (cfr. F. Braudel, Scritti sulla storia, Mulano, Mondadori, 1976, pp. 248-249). Tuttavia, su questo preteso distacco molta esagerazione è stata fatta. Non è vero che il Burckhardt "non si interessò che alle arti", come sostiene il Lefebvre. E il suo primo libro di ampio respiro, la giovanile Età di Costantino il Grande, del quale ora vogliamo particolarmente occuparci, ne è un chiaro esempio.

III.

Il punto centrale attorno al quale ruota la problematica del libro L’età di Costantino il Grande è la natura della conversione religiosa di Costantino e le sue implicazioni politiche. Fino a quel momento, due tesi si erano scontrate in campo storiografico: quella di matrice cattolica, che vedeva nel primo imperatore cristiano (se poi fu tale: certo è che ricevette il battesimo solo sul letto di morte) un sincero spirito religioso e un difensore della fede contro le eresie, prima fra tutte l’arianesimo; e quella razionalista di matrice illuministica, che lo giudicava un politico abile ma senza scrupoli, del tutto estraneo allo spirito genuino del cristianesimo. Aveva sostenuto con vigore la prima tesi il Tillemont; la seconda, con grinta addirittura fremente, Voltaire. Qust’ultimo era arrivato a scrivere:

"Qualche volta si tarda molto ad aver giustizia. Due o tre scrittori, mercenari o fanatici, si mettonoa parlare del barbaro ed effeminato Costantino come di un dio, e trattano da scellerato il giusto savio e grande Giuliano. Tutti gli altri, copiando i primi, ripetono l’adulazione e la calunnia. Queste opinioni diventano quasi un articolo di fede. Finalmente arriva il tempo della savia critica e, dopo qualcosa come quattordici secoli, alcuni uomini illuminati fanno la revisione di quel processo che l’ignoranza aveva giudicato. Si scopre così che Costantino era un ambizioso fortunato, che non rispettava né Iddio né gli uomini, che ebbe l’insolenza di fingere che Iddio gli aveva mandato per aria una insegna ad assicurargli la vittoria, che si bagnò nel sangue di tutti i congiunti, si abbrutì nelle mollezze, ed ebbe solo l’astuzia di farsi passar per cristiano: in conseguenza di che venne canonizzato. Giuliano invece fu sobrio, casto, disinteressato, valoroso e clemente; ma, non essendo cristiano, fu considerato per secoli come un mostro." (Voltaire, Dizionario filosofico, Milano, Mondadori, 1977, pp. 407-08).

Alla luce di questa polemica e in questa prospettiva storiografica, Jakob Burckhardt si accinse a una revisione della figura storica di Costantino il Grande e di tutta l’età sua. Egli, personalmente, non era un credente, ma nemmeno un dichiarato avversario del cristianesimo (come lo sarà, invece, il suo giovane amico Nietzsche), e invano cercheremmo, nelle fitte pagine di quest’opera dalla vasta impostazione, un atteggiamento partigiano o fazioso, un indizio che ci permettesse di risalire a un pregiudizio religioso da parte sua. Come storico, ciò che lo interessava era la ricerca della verità, da qualunque parte si trovasse; come spirito idealista e indipendente, la sua prospettiva non poteva che essere estremamente severa nei confronti di chi non si perita di strumentalizzare il sentimento religioso per le esigenze di una spregiudicata politica di potere (die macht in sich ist böse!).

La conclusione non poteva esser dubbia: Costantino , in quanto uomo di stato (eccellente uomo di stato, nel senso di Machiavelli), era un temperamento essenzialmente a-religioso, e per lui la religione non avrebbe mai potuto essere un fine, ma solo un mezzo per la sua vertigionosa scalata al potere assoluto. Il giudizio del Burckhardt, in proposito, era del tutto esplicito:

"In un uomo di genio come l’imperatore, cui l’ambizione e la sete di potere non concedevano un attimo di tregua, non è possibile parlare di paganesimo e cristianesimo, di religiosità cosciente o di irreligiosità. Un uomo simile è essenzialmente non religioso." (J. Burckhardt, L’età di Costantino il Grande, Biblioteca di Storia patria, 1970, p. 357).

IV.

Sarebbe ingiusto mettere in dubbio il fatto che Burckhardt si accinse al proprio lavoro con animo sgombro da prevenzioni, cercando il più possibile di lasciar palrare le azioni di Costantino. Come si è detto, esisteva ormai da gran tempo una ben precisa questione storiografica costantiniana; e se, a conclusione della sua ricerca, il Burckhardt si trovò nettamente schierato nel campo ch’era stato dei razionalisti, è certo che egli si sforzò di vagliare criticamente le posizioni di entrambe le tesi contrapposte, pro e contro Costantino.

D’altra parte, le conclusioni alle quali era approdato lo storico svizzero coincidevano solo in parte con quelle della tradizione storiografica illuminista, di un Voltaire o di un Gibbon. Lo storico di Basilea, infatti, non pensò mai, neppure per un attimo, di sminuire o sottovalutare la genialità di Costantino come uomo di Stato, anzi la mise nel massimo risalto. Senonché il potere, per lui, era e sempre sarebbe satato una cosa malvagia. Ciò non significa che, per lui, un vero uomo di Stato debba per forza possedere un animo criminale. Pensare questo, significherebe far torto all’intelligenza del Burckhardt, che Johan Huizinga, il grande storico olandese, avrebbe definito, non senza ragioni, "lo spirito più saggio del XIX secolo." Per fare un esempio, nel suo libro l’imperatore Diocleziano viene energicamente rivalutato – ciò che andava contro una tradizione consolidata -, e la sua figura appare sempre più grande e disinteressata, quanto più emerge l’implicito confronto con la personalità ambigua, sfuggente, ambiziosa e spietata di Costantino.

Resta il fatto che un grande uomo di Stato, per Burckhardt, ben difficilmente potrebbe essere uno spirito buono ed onesto, e in nessun caso uno spirito religioso. Queste riflessioni torneranno nell’opera sua più famosa, L’età del Rinascimento in Italia: sulla scorta del pensiero di Machiavelli,e col terribile esempio di Cesare Borgia silenziosamente sullo sfondo, egli riconosce la misteriosa incompatibilità fra virtù e potere, e prende atto che i più energici uomini di Stato non hanno mai lasciato di sé il ricordo di elevate qualità morali ed umane.

A proposito di Costantino, scrive il Burckhardt:

"Costantino era solito dire: – Diventare imperatore è solo questione di fortuna; ma chi è stato condotto dalla forza del Fato alla necessità di regnare, deve fare di tutto per mostrarsi degno dell’Impero – (Hist. Aug., Heliogab., 33). E in fondo, a ben considerare, Costantino fu, più di tutti i suoi contemporanei e coreggenti degno del potere, anche se a volte ne abusò orribilmente." (J. Burckhardt, L’età di Costantino il Grande, cit., p. 465).

Prendendo poi in considerazione l’appellativo di "grande", di cui la tradizione storica cristiana lo ha gratificato, egli ne mette in risalto la sostanziale esattezza, affermando esplicitamente che sarebbe stato ingiusto metterla in dubbio.

Su questo giudizio del Burckhardt, in verità, si potrebbe eccepire parecchio: né Cesare, né Augusto, né Traiano, né Marco Aurelio ebbero mai il titolo di "grandi"; forse che ne furono meno degli di Costantino? Ebbero invece quel titolo Erode di Giudea, minuscolo monarca semita, inguaribile doppiogiochista, sempre dalla parte del vincitore di turno – prima Antonio, poi Ottaviano -, colui che secondo i Vangeli ordinò la strage degli innocenti; Pompeo, generale mediocre e politico pusillanime; Teodosio, imperatore non privo di abilità, ma ottusamente bigotto, assolutista, mediocre politico. Con la sola eccezione di Alessandro il Macedone, l’appellativo di "grande" , sorto e diffuso in Oriente, poi arrivato in Roma, aveva sempre designato l’astuzia subdola, la maestria nell’intrigo, tipiche dei tirannelli asiatici. In Occidente, e specialmente in ambito cristiano, esso subì profonde modifiche, tuttavia continuò a designare non tanto la vera e propria grandezza politico-militare, quanto piuttosto l’abilità diplomatica, o bellica, e – da ultimo – la pietà religiosa. La storia, quindi, ha chiamato "grandi" il re Antioco di Siria, che i Romani disfecero a Magnesia, o l’imperatore Teodosio, le cui principali benemerenze furono la persecuzione di eretici e pagani nonché la prona soggezione a un vescovo battagliero e intollerante, Ambrogio di Milano; e non coloro che grandi lo furono veramente. Lo stesso Burckhardt, tracciando il suo vasto affresco storico, si era accorto, ad esempio, che Diocleziano era stato ben più grande di Costantino.

Burckhardt, comunque, sembra esser giunto assai vicino al punto centrale della discussione sulla "grandezza" di Costantino, allorché scriveva:

"In tempi meno eccezionali Costantino, pur con le stesse qualità politiche, non avrebbe occupato lo stesso posto nella storia, e si sarebbe dovuto accontentare della fama di un Probo o di un Aureliano. Ma poiché la ‘forza del Fato’, per usare la sua espressione, lo aveva fatto nascere al confine tra due età, accordandogli anche un lungo periodo di regno, la sua natura di uomo politico e di governo ebbe modo di manifestarsi in tutta la sua molteplicità." (J. Burckhardt, L’età di Costantino il Grande, cit., p. 406).

V.

È abbastanza agevole rendersi conto, leggendo L’età di Costantino il Grande, che il vero protagonista di quel libro non è – come il titolo del libro farebbe pensare – l’imperatore Costantino, ma bensì Diocleziano. Nella contrapposizione tra l’imperatore pagano e quello cristiano, fra il "nero" persecutore dei cristiani e il loro liberatore, il vantaggio è tutto del primo. Burckhardt, che dedica un’ampia introduzione al periodo antecedente l’avvento di Costantino, pone pienamente in risalto la geniale attività riformatrice di Diocleziano, che salva l’impero giunto sull’orlo del precipizio, e lo restaura per altri cento anni. È noto che anche questo giudizio storico, come quello sulla a-religiosità di Costantino, non è affatto condiviso dalla totalità degli storici. Tenney Frank, per esempio, ha scritto:

"Egli [Diocleziano] è stato lodato dagli storici per la sua abilità costruttiva e per la sua agilità nell’allontanarsi dalle tradizioni e nell’escogitare nuovi sistemi di governo. Ma che un uomo della sua origine e della sua educazione si scostasse dal passato di Roma non deve apparire strano. Esso non era il suo passato; e Diocleziano probabilmente sapeva poco delle tradizioni romane. E quanto all’originalità, egli non doveva far altro che applicare alla situazione trovata alcune delle idee che poteva attingere dalla storia di qualsiasi despota orientale, allo scopo di creare il tipo di governo assolutamente non romano, che egli impose ad un mondo sofferente." (T. Frank, Storia di Roma, Firenze, la Nuova Italia, vo. 2, pp. 305-06).

Nel giudizio sulla originalità delle riforme di Diocleziano, Corrado Barbagallo ha seguito le orme di Burckhardt, mentre il Rostovzev ha ricalcato, sostanzialmente, quelle di Frank. Ricordiamo anche, quasi a titolo di curiosità, che il Vogt e l’Alföld hanno sostenuto la sincerità della conversione di Costantino al cristianesimo, ricollegandosi a una tradizione elogiativa di parte cattolica che risale al vescovo Eusebio di Cesarea, consigliere dello stesso Costantino ed autore di una Storia Ecclesiastica in cui ne tesse le più alte lodi.

Per tornare a Diocleziano, la vera grande macchia del suo governo è, per Burckhardt, la persecuzione anti-cristiana degli ultimi due anni (303-305), una macchia dalla quale la memoria di questo imperatore non potrà mai essere mondata. È dunque necessario spendere almeno qualche parola su tale argomento.

Burckhardt, servendosi delle fonti che il suo tempo gli metteva a disposizione, propende a ritenere che la persecuzione dioclezianea fu estremamente cruenta e che vennero versati degli autentici fiumi di sangue; e inoltre che proprio l’entità del sacrificio sopportato aveva conferito ai cristiani la superiorità morale che consentì loro di subentrare al decadente paganesimo. Personalmente agnostico in materia di religione, lo storico di Basilea non lesina gli elogi all’eroismo dei martiri., né trattiene parole di esercrazione nei confronti dei persecutori. Tuttavia anch’egli, come tutti gli estimatori di Diocleziano, non può fare a meno di interrogarsi sulle ragioni che indussero l’imperatore a un atto politico che fu al tempo stesso tanto feroce quanto inutile.

Burckhardt sostiene che Diocleziano, fino a quel momento, aveva non solo tollerato intorno a sé la presenza di parecchi cristiani, ma lasciato persino che penetrassero nel palazzo imperiale. Valeria e Prisca, la figlia e la moglie di Diocleziano, secondo lui erano, con molta probabilità, seguaci o almeno simpatizzanti del cristianesimo. E poi Burckhardt mette in evidenza ciò che differenzia in maniera sostanziale la decima ed ultima persecuzione anti-cristiana (quella, appunto, dioclezianea) da tutte le precedenti: essa si abbattè sulla chiesa con violenza eccezionale dopo un quarantennio di pace religiosa: un quarantennio durante il quale il cristianesimo aveva potuto diffondersi a macchia d’olio in tutti i ceti sociali dell’Impero. Tanto più, dunque, quella battaglia finale del paganesimo appariva insensata oltre che sanguinosa. Perciò ritorna l’imbarazzante domanda: perché?

La spiegazione avanzata dal Burckhardt non è priva di originalità e ha trovato, da allora in poi, larga eco tra gli storici: tra gli altri, l’ha fatta sua, in sostanza, l’italiano Corrado Barbagallo, autore di una prestigiosa (e oggi semi-dimenticata) Storia Universale, i cui due volumi dedicati alla storia romana sono il solido nucleo dell’intera opera. Sostiene dunque, lo storico svizzero, che Diolceziano si decise a quel passo, benché riluttante, perché seriamente preoccupato di un possibile, anzi probabile "colpo di Stato" da parte dei cristiani, intenzionati a rovesciarlo dal trono per mettere al suo posto un elemento a loro favorevole. Non che l’intera comunità cristiana accarezzasse simili progetti, precisa subito dopo il Burckhardt; è sufficiente pensare a un complotto guidato dai cristiani politicamente più decisi e temerari, negli ambienti di Nicomedia e in qualche altro centro dell’Asia Minore (unica regione dell’Impero Romano ove i cristiani allora già fossero, verosimilmente, la maggioranza della popolazione). Uomini decisi a colpire prima di essere colpiti, con uno spiccato senso delle opportunità che il momento sembrava offrire loro. I disordini scoppiati in Siria fra le comunità cristiane, proprio alla vigilia dell’editto di persecuzione, sarebbero la dimostrazione del fatto che un tale evento non era una mera ipotesi di cortigiani visionari o in mala fede, ma una possibilità che poteva tradursi da un momento all’altro in un fatto reale. E il pur giusto Diocleziano, in quanto "uomo politico", non potè trattenersi dal colpire per primo, con tutta la violenza di cui lo stato poteva ancora disporre.

La vecchia spiegazione, tanto cara a coloro che volevano "scagionare" Dioclezianoa tutti i costi, e cioè che egli avrebbe ceduto alle pressioni del feroce Galerio, incitato a sua volta dalla madre Romula che era una fanatica sacerdotessa pagana, è scartata dal Burckhardt quasi con impazienza. Egli scrive che Diocleziano, "come è noto", non temeva Galerio; quanto poi al fatto che quest’ultimo, per convincerlo a rompere gli indugi, avrebbe fatto incendiare dolosamente il palazzo di Nicomedia (chissà che i nazisti si siano ricordati di questa diceria, quando misero a fuoco il Reichstag) egli ritiene si tratti di una favola assolutamente inverosimile. Diocleziano, taglia corto Burckhardt, non era uomo da farsi appiccare il fuoco sulla testa, neppure da un tipo deciso come Galerio. Il responsabile di molte falsificazioni, a questo proposito – aggiunge lo storico di Basilea – è lo scritttore cristiano Lattanzio: con le sue menzogne – è l’espressione testuale da lui adoperata – ci ha presentato deliberatamente un’immagine dell’imperatore falsa e deformata. Per convincersene, soggiunge, basta leggere le pagine in cui Lattanzio descrive il carattere di Diocleziano: lo scrittore cristiano ha indugiato, per spirito partigiano, sugli aspetti più controversi e sulle dicerie meno credibili della tradizione anti-imperiale. Lattanzio aveva scritto perfino che Diolceziano era un pavido!

Ora, a prescindere dal fatto che non è poi cosa scontata che Diocleziano non temesse Galerio, le accuse rivolte a Lattanzio appaiono, nel complesso, giustificate. Il ritratto che Lattanzio ci presenta di Diocleziano è del tutto insoddisfacente. Ci si può domandare, tuttavia, se lo stesso Burckhardt sia sfuggito al destino di accogliere le fonti antiche quando suffragavano le sue tesi, e di respingerle quando le contraddicevano. Sembra che i suoi giudizi su personaggi come Carino, Massimiano, Massenzio – tanto per fare qualche nome – consentano di concludere che nemmeno lui riuscì a mantenere un atteggiamento assolutamente imparziale nei confronti delle fonti antiche, le quali, per parte loro – e specie per la storia del tardo Impero – sono spesso tutt’altro che agevoli da interpretare, viziate come sono da un intreccio quasi inestricabile di tendenziosità, scarsa informazione e ingenuità grossolana.

VI.

Una delle tesi più affascinanti de L’età di Costantino il Grande, e che ha trovato maggiore fortuna tra gli storici successivi, è certamente quella relativa alla "demonizzazione del paganesimo". Come scrive Santo Mazzarino nella sua prefazione al libro di Burckhardt, nell’edizione italiana a cura della Biblioteca di Storia Patria, noi tutti parliamo, dopo lo storico di Basilea, di "demonizzazione del paganesimo".

A questo argomento il Burckhardt dedica pagine ispirate, dense di suggestione, presentandoci con vivezza di tinte e di toni l’irruzione della magia orientale e dei culti misterici e teurgici provenienti dall’Asia profonda, nel tardo paganesimo romano. Esso non ha più nulla dell’olimpica serenità della religione ufficiale greco-romana dei primi secoli dell’Impero (serenità che viene del resto messa in dubbio dal Burckhardt anche per la sua età aurea); è ormai una religione degradata da superstizioni cruente e da componenti orgiastiche, imbevuta di misteriosofia e di demonologia. La stessa filosofia neoplatonica non è immune dagli aspetti più irrazionalistici dei culti orientali, anzi ne subisce profondamente il fascino:

"I pagani colti sembrano accostarsi alla frenesia miracolistica e alle superstizioni del popolo e volgersi ad un nuovo mezzo di salvezza spirituale, al neoplatonismo, che sapeva unire la filosofia alle forme più accentuate della superstizione." (J. Burckhardt, L’età di Costantino il Grande, cit., p. 217).

E ancora:

"In ogni pagina della storia del terzo secolo leggiamo chiaramente l’evoluzione di tutti questi fenomeni, l’ossessione sempre crescente del miracolo, il fanatismo pagano, il misticismo e l’esaltazione ascetica, tutti fatti che avevano prodondamente e sostanzialmente modificato i rapporti del singolo con il mondo soprannaturale." (Ibidem, pp. 217-18).

Da un punto di vista teologico, scrive Burckhardt, la differenza tra paganesimo e cristianesimo si era venuta riducendo, fino a sparire quasi del tutto. Anche il paganesimo, tra la fine del terzo e l’inizio del quarto secolo, si era ormai chiaramente orientato in direzione del monoteismo, abituando le coscienze a una visione meno antropomorfica e più spirituale della divinità. Lo stesso neoplatonismo, che pure alla fine si rese conto della minaccia e intraprese una violenta battaglia contro il dilagare della "barbarie cristiana", aveva contribuito a tale orientamento.

"L’essenza del paganesimo tardo era molto vicina al cristianesimo: il fine dell’esistenza non era più limitato alla vita terrena, alle sue gioie e alle sue vicende, ma comprendeva anche un mondo ultraterreno dove l’anima si ricongiungeva alla divinità." (Ibidem, p. 268).

Se, poi, l’essenza di una religione risieda nella sua concezione teologica e nella sua visione ultraterrena, o non piuttosto nelle sue concrete istanze di vita morale, dato che la sfida dell’esistenza qui e ora non è, comunque, eludibile – è una questione che Burckhardt, evidentemente, lascia nell’ombra. Vogliamo dire che una somiglianza fra il tardo paganesimo e il cristianesimo, a livello di speculazione teologica, certamente vi fu; resta da vedere se questo aspetto era davvero recepito come fondamentale dai fedeli delle due religioni, o se poteva essere apprezzato quasi solo da alcuni teologi raffinati e relativamente indipendenti.

Per meglio colorire il quadro della "demonizzazione" del paganesimo, Burckhardt adopera, qualche volta, delle tinte un po’ eccessive. Egli, ad esempio, riporta il caso dell’imperatore Massenzio, il figlio di Massimiano Erculio, che avrebbe fatto trucidare donne incinte e bambini perché gli aruspici ne esaminassero le viscere e gli predicessero il futuro. Ora, è un dato di fatto incontrovertibile che Massenzio fosse un uomo particolarmente superstizioso. È cosa nota che perfino alla vigilia dello scontro finale con Costantino, egli si rivolse al responso dei suoi indovini: responso che fu tipicamente sibillino, e che egli equivocò, andando incontro alla morte nella battaglia del Ponte Milvio. È anche noto come, nel tardo paganesimo romano-orientale, il sangue fosse divenuto un elemento essenziale del culto, a cominciare dal taurobolio degli adoratori di Mithra. Che dei sacrifici umani, tuttavia, venissero praticati con eguale intensità, questo è più difficile da dimostrare, anche se la cosa non deve apparire impossibile (se è vero, come è vero, che potenti società segrete tutt’oggi esistenti praticano uccisioni rituali di esseri umani nel corso di cerimonie sataniche). Certamente, gli scrittori cristani accusano Massenzio di simili nefandezze; ma Burckhardt non aveva rifiutato di prestar loro fede, quando si trattava di Diocleziano? Del resto, gli scrittori cristiani accusano anche l’imperatore Giuliano. Ci dicono che, dopo la sua morte in Mesopotamia, nel 363, fu trovata nella sua tenda una donna impiccata, sempre in omaggio alla cruenta superstizione dei culti pagani. Dobbiamo prestar loro fede?

Episodi di questo genere, continua Burckhardt, sono attestati anche a proposito di Marco Aurelio. Noi abbiamo tutto il diritto di dubitarne, aggiunge. Però, secondo lui, il solo fatto che simili voci – e sia pure infondate – potessero circolare, non può non gettare una luce sinistra sugli usi di un’epoca, quella degli Antonini, che viene solitamente riguardata dagli storici come una specie di età dell’oro di Roma antica. Sulla correttezza metodologica di questo tipo di riflessioni, però, ci sembra di dover fare qualche riserva. Anche sulle riunioni "segrete" dei cristiani, come si evince da Celso e da altri autori antichi, esistevano delle "leggende nere" avidamente credute negli ambienti pagani, e che anzi fornivano in parte la giustificazione ideologica delle persecuzioni anti-cristiane. Anche in quel caso si parlava di sacrifici umani e di riti nefandi e innominabili, corredati di particolari singolarmente raccapriccianti. Eppure non solo tutti gli storici moderni, di qualunque orientamento politico-religioso, non vi hanno mai prestato la minima attenzione (altri discorso si potrebbe fare per le accuse di sacrifici umani rituali alle comunità giudaiche); ma nessuno ha mai pensato di trarne deduzioni negative per tutta l’epoca in cui tali voci sorsero e si sviulpparono.

Possibile che lo stesso Burckhardt, pur così attento alle astuzie del potere e così diffidente verso le dicerie non supportate da fatti oggettivi, sia incorso nella leggerezza di scordarsi, e sia pure per un attimo, che la storia è sempre scritta dai vincitori, a loro uso e consumo?

VII.

Ci sia permessa, a questo punto, una breve digressione. Burckhardt ci ha familiarizzati con il concetto di una "demonizzazione del paganesimo" (senza, peraltro, operare una doverosa distizione storico-etimologica: daimon, nella cultura pagana, era uno spirito di natura sia benevola che maligna; quello di Socrate, ad esempio, era "buono"; è solo col tardo paganesimo che gli spiriti malvagi tendono a prevalere, forse proprio per influsso del cristianesimo: sia nel senso di una contaminazione culturale di tipo sincretistico, sia nel senso che i padri della chiesa accusavano gli dèi pagani di esseri nientemeno che degli spiriti diabolici). Possiamo ora chiederci se il concetto di "demonizzazione" non possa trovare applicazione in altre epoche della storia e in altri contesti culturali.

Da quando la storiografia francese delle Annales ha messo sul tappeto la questione del significato della Controriforma tridentina – ovvero, come gli storici cattolici amano chiamarla, della Riforma cattolica – esistono le premesse concettuali per sviluppare ulteriormente le premesse da lui poste. Ricapitoliamo brevemente i termini del problema. Per lungo tempo si è pensato che, per usare le parole di Jean Delumeau,

"… il Medioevo sia stato il grande periodo della fede cristiana e che, tra l’XI e il XIII secolo, ci fu una specie di apogeo religioso. Questo sarebbe stato seguito, fin dal XIV secolo, da una rapida degradazione non solo delle istituzioni ecclesiastiche, ma anche del comportamento cristiano. Le due Riforme – quella di Lutero e quella della Chiesa cattolica (…) avrebbero in seguito provvisoriamente risanato la situazione. Ma il secolo dell’illuminismo portò presto colpi decisivi alla dottrina del Vangelo, mentre l’apostasia delle masse iniziò fin dall’epoca della Rivoluzione francese, per assumere un ritmo più accelerato in seguito e fino ai nostri giorni." (J. Delumeau, Cristianizzazione e decristianizzazione fra il XV e il XVIII secolo, in Società, chiesa e vita religiosa nell’Ancien Régime, a cura di C. Russo, Napoli, 1976, p. 553).

Sicché, continua lo storico francese, parlare

"… di decristiamizzazione nel XIX e nel XX secolo, significa supporre che l’insieme della popolazione fosse effettivamente cristianizzato prima dell’inizio dell’era industriale. Ora mi sembra, invece, che, da un lato, si è sempre confusa la fede di un’élite con quella della massa (…) e che, d’altra parte, il conformismo è stato identificato con la vita religiosa." (Ibidem).

La conclusione del Delumeau è che

"il Cristianesimo che molti abbandonarono, a partire dal XVIII secolo, era una religione carica di manicheismo, che vedeva nel corpo, nella terra e nella scienza delle trappole del Maligno, una ‘teologia del Dio terribile’ (…), un paganesimo vestito di vesti cristiane." (Ibidem, pp. 574, 557).

Pertanto si suggerisce, contrariamente alla rappresentazione diffusa fra l’opinione pubblica, ma anche fra gli storici, che la vera età della cristianizzazione dell’Occidente ebbe inizio dopo la Rivoluzione francese e la Rivoluzione industriale, e oggi è ancora in pieno svolgimento. Tale la tesi del Delumeau.

Ma eccoci arrivati al punto. Così come il Burckhardt ha parlato, col pieno assenso di molti storici, di "demonizzazione del paganesimo" tardo-antico; così come il Delumeau ha rovesciato la prospettiva abituale della storia del critianesimo, parlando di "decristianizzazione" tra XV e XVIII secolo; perché non percorrere la strada sino in fondo e parlare senz’altro, senza equivoci, di una "demonizzazione del cristianesimo" a partire dalla pretesa Riforma tridentina?

L’ossessione del demonio; i grandi processi per stregoneria; l’Inquisizione e l’Indice dei libri proibiti; le sanguinosissime guerre di religione; i roghi degli eretici a Roma e anche a Ginevra; la notte di San Bartolomeo, il massacro di Haarlem, la crociata europea di Filippo II; l’abuso della pratica delle indulgenze e la spaventosa corruzione e modanizzazione della Curia e del clero; l’accentuazione degli aspetti repressivi, angosciosi, veterotestamentari della predicazione cristiana; il ritorno a un Dio terribile che punisce con giustizia inesorabile, piuttosto che la visione di un Dio misericordioso che accoglie e che perdona; il senso del peccato ovunque presente, il ritorno dell’idea agostiniana dell’umanità come "massa dannata", quasi un neo-manicheismo che getta ombre inquietanti sulla bellezza e bontà della creazione: tutto ciò non potrebbe autorizzare a parlare di "demonizzazione del cristianesimo"?

Il cristianesimo aveva sempre combattuto il paganesimo antico, affermando che le sue divinità adombravano i dèmoni volti alla dannazione dell’essere umano. San Paolo aveva esplicitamente affermato "che i pagani, quando fanno un sacrificio, lo offrono agli spiriti maligni, non certo a Dio. E io non voglio che siate in comunione con gli spiriti maligni." (I Corinzi, 10, 20). San Paolo, dunque, ha aperto la strada alla demonizzazione del paganesimo; ma nel XVI secolo il diavolo, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra, invade con i suoi terrori città e campagne; penetra nei conventi e nei monasteri, ove intere comunità religiose sono vittime della possessione diabolica (come nel celebre caso di Loudon). I giudici che istruivano i processi a carico di streghe e stregoni, come mette in evidenza il Mandrou, erano inflessibili proprio perché fanatizzati dall’idea che, bruciando il corpo di quanti avevano stretto un patto col diavolo, avrebbero almeno salvato le loro anime. Erano insomma, e in perfetta buona fede, animati da vero zelo cristiano: zelo cristiano alla rovescia, però. Tutto questo non sa molto di demonizzazione del cristianesimo? Certo Gesù Cristo, scacciando il demonio in quel branco di porci che precipitarono nel lago annegando (cfr. Matteo, 8, 28-34), non avrebbe potuto prevedere che il Maligno sarebbe un giorno tornato a guastare dall’interno la purezza della religione sorta dalla sua predicazione.

VIII.

Ma torniamo a Burckhardt e, precisamente all’affermazione del Lefebvre, secondo cui la storia dell’arte avrebbe costituito l’interesse esclusivo dello storico di Basilea. Ne L’età di Costantino il Grande vi è un capitolo, intitolato Senescenza del mondo antico e della sua civiltà, dedicato interamente agli aspetti storico-artistici. La concezione di Burckhardt – che ricalca, sostanzialmente, quella degli storici illuministi – è che l’arte e la letteratura del III e IV secolo abbiano conosciuto una generale e penosa decadenza; diverse sono però le premesse, diversa la prospettiva dalla quale egli muove, rispetto a un Gibbon o a un Montesquieu. Burckhardt asseriva che l’arte, per essere e rimanere tale, deve "seguire la propria legge interna", ossia guardarsi dal cadere in balìa di ideologie ad essa estranee. È nota la sua teoria delle "tre potenze": Stato, Religione e Cultura"; ecco come egli stesso definiva quest’ultima:

"Chiamiamo cultura tutta la somma di quelle manifestazioni dello spirito che hanno origine spontanea e non aspirano ad alcun valore universale o forzato. Essa ha una funzione costantemente modificatrice e disgregatrice sulle due istituzioni sociali stabili [ossia Stato e Religione], tranne nel caso in cui queste stesse non l’abbiano interamente assoggettata e circoscritta ai propri fini. Se ciò non è, essa costituisce la critica di entrambe, l’orologio che rivela l’ora in cui forma e sostanza non coincidono più." (J. Burckhardt, Riflessioni sulla storia universale, Milano, Rizzoli, 1966, p. 81).

Date queste premesse, si può comprendere lo sguardo sostanzialmente pessimistico col quale Burckhardt considerava la produzione artistica e letteraria dell’età costantiniana. Insomma era barbarie, e non perché – come per Gibbon – si era allontanata dagli schemi collaudati del naturalismo ellenico, ma perché, schiava delle ideologie religiose, oltre che di quelle statali, aveva perduto la propria libertà interiore e, quindi, non aveva più nulla da dire.

"L’arte stessa, già in epoca pagana schiava dell’ideologia, aveva ora, con il trionfo del cristianesimo, cambiato solo di padrone, ma non certo di grado. Per molti secoli ancora essa, prigioniera dei propri contenuti, sarà costretta a ignorare le proprie leggi interne o a seguirle solo in minima parte; e questa fu infatti una delle più violente negazioni dell’eredità del mondo classico." (J. Burckhardt, L’età di Costantino il Grande, , cit., p. 292).

Dalla valutazione negativa dell’arte e della letteratura dell’epoca tardo-antica non si salva quasi nulla e nessuno. Né Claudiano, il maggiore dei poeti dell’ultima latinità – ma che non esce, a giudizio di Burckhardt, dai limiti di una produzione mediocre e per lo più adulatoria; né gran parte dell’architettura pagana (è triste vedere, scriveva, quei templi grandiosi e difformi, eretti sol perché un collegio di sacerdoti disponeva di bastanti mezzi finanziari); né, tanto meno, i letterati minori, sul tipo di Optaziano, autentico maestro della parola fine a sé stessa.

"Quello che ufficialmente veniva considerato come poesia e perciò ammirato era, sotto Costantino, quanto di più squallido la letteratura possa produrre, e cioè un gioco di metrica o di parole." (J. Burckhardt, Ibidem, p. 295).

Egli stesso però, in vari punti della sua opera, era costretto a smorzare i toni di una crtitica troppo categorica, ammettendo – per esempio – che l’inno a Roma di Rutilio Namaziano (inizi del V secolo) è quanto di più commovente la poesia tardo-latina abbia potuto lasciare ai posteri. Si tratta, comunque, di eccezioni, ché l’impressione di fondo, indubbiamente, rimane.

Al termine di quel VII capitolo, nel quale prendeva in esame lo stato delle arti e delle lettere nell’Impero Romano a partire dal III secolo, Burckhardt pensosamente concludeva:

"È possibile quindi che la decadenza della poesia e dell’oratoria coincida sempre anche con la decadenza nazionale di un popolo? Non si tratta invece di fiori caduti già prima che il frutto possa maturare? Il vero non può forse sostituire il bello, l’utile il piacevole? La domanda può restare senza risposta e non è riconducibile a questo genere di alternative. Ma chiunque si avvicini all’antichità classica, anche solo al suo tramonto, vedrà come con la bellezza e con la libertà siano scomparse anche la vita classica più autentica, la parte migliore del genio della nazione romana e come l’ortodossia retorizzante, viva ancora nel mondo greco, non possa essere considerata altro che eco morta di una esistenza più splendida nella sua piena fioritura." (J. Burckhardt, Ibidem, p. 301).

Dunque, se l’Impero Romano sopravvisse politicamente ancora così a lungo alla rovina delle arti e delle lettere, ciò avvenne perché restaurazone politica (dioclezianeo-costantiniana) e fioritura artistica non procedono sempre di pari passo e non devono essere considerate interdipendenti. Il Burckhardt è esplicito su questo punto:

"Lo stato può addirittura sopravvivere alla nazione, come del resto questa allo stato. Il concetto di ‘senescenza’ non deve escludere la possibilità di una sopravvivenza, esso indica piuttosto il graduale esaurimento di quelle fonti vitali che avevano dato alla nazione i suoi caratteri spirituali e fisici più nobili." (J. Burckhardt, Ibidem, p. 275).

Qualche anno più tardi, Burckhardt vorrà impegnarsi nella ricostruzione di un momento storico nel quale la situazione appare esattamente rovesciata, e cioè la fioritura artistica e culturale che germinò indipendentemente dalla decadenza politica: e sarà il celeberrimo Die Kultur der Renaissance in Italien.

IX.

L’interesse prevalente – ma non esclusivo – di Jakob Burckhardt per gli aspetti sorico-artistci lo portarono a sottovalutare, come già abbiamo notato, quelli economici, finanziari, politico-sociali. E, come ha osservato Oswald Spengler, ciò avvenne con suo danno (cfr. Il tramonto dell’occidente, Milano, Longanesi, 1978, vol. 1, p. 51).

Detto questo, bisogna riconoscere che egli fu ugualmente uno storico insigne e anche, nelle sue Riflessioni sulla storia universale, un pensatore non privo di originalità e di vigore, pur se rifiutò deliberatamente di costruire un sistema, perché pensava (a differenza di Hegel) che la storia non ha una finalità o, se l’ha, non è accessibile al nostro sguardo. Pertanto è sommamente imgiusta l’accusa che gli ha rivolto Eugenio Garin, di essere stato una specie di filosofo dilettante:

"In realtà, alla netta ribellione contro ‘qualunque sistema’, corrispondevano, nel Burckhardt, piuttosto esigenze e bisogni, che non idee chiare e consapevolezza critica." (E. Garin, Introduzione a La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni, 1975, p. XIX).

Giudizio che riecheggia, come si vede, quello del Croce secondo cui buona parte della storiografia tedesca del XIX e XX secolo (Dilthey, Troeltsch, Max Weber, Huizinga, Wölfflin, Meinecke) sarebbe stata "priva di problema storico": una di quelle affermazioni che sembrano terribilmente serie e, per di più, gravide di riprovazione professionale; ma che, guardate un po’ da vicino, si rivelano miserevolmente vuote e insignificanti. Che significa, per uno storico, non avere un problema storico? O significa che quello storico è un mero erudito (ma abbiamo già visto che Burckhardt non lo era, e certo non lo erano gli altri sopra citati), oppure che non condivideva la coincidenza di razionale e di reale che Croce aveva mututato da Hegel, e dall’alto della quale distribuiva patenti di serietà storiografica a destra e a sinistra, a suo inappellabile giudizio.

Burckhardt, innamorato della bellezza, pensava – platonicamente – che essa, in ultima analisi, nel momento della contemplazione sarebbe venuta a coincidere con la verità e la bontà, in un quadro completo e armonioso (cfr. Riflessioni sulla storia universale, cit., p. 24). Dunque, egli amò l’estetica ma non fu un decadente estetizzante, al contrario, sentì con forza l’esigenza di un sapere ispirato a princìpi di verità e di bontà.

Burckhardt eccelleva nello studio dei fenomeni artistici perché egli stesso era dotato di una finissima sensibilità estetica. I suoi schizzi di cattedrali e di palazzi eseguiti in tutte le città d’Europa, da Bruges a Venezia, ci rivelano un disegnatore dotato di leggerezza e sicuro senso della forma. Le sue opere storiche ci rivelano non solo un illustre studioso, ma uno scrittore di talento, capace di affascinare il lettore. Infine le sue poesie, poco o niente conosciute, testimoniano un talento poetico degno di stare accanto a quello di un altro grande storico-poeta del XIX secolo: Ferdinand Gregorovius. Come in quello, nei suoi versi traspare l’amore per l’Italia, per il suo grande passato, per la sua natura, per la sua arte.

Alcuni versi giovanili del Burckhardt, pubblicati in Italia anni or sono, testimoniano questo amore commovente, che presenta qualche analogia con un poeta latino da lui (non a caso) ammirato: Rutilio Namaziano.

"(…) Sorge Roma da lungi;

già s’innalza dal vapore nebbioso della campagna

un edificio gigantesco sopra la città e il mondo.

È là che abiteremo, circondati da silenziosi giardini.

(…)che in tiepide notti ripenseremo a dio e alla felicità;

mentre di fuori si scambiano lievi sussurri d’amore

il platano e il pino, e, poco stante,

dal Campidoglio spunta la luna."

(Cit. in Gusatavo Fioroni, Jakob Burckhardt nella persona, nei pensieri, nelle opere, Nuova Antologia, IV serie, vol. 76, 16 agosto 1868, pp. 660-85; in La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni, 1975, p. XV).

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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