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La bambina dei sogni

Questo racconto è compreso nel volume "La bambina dei sogni e altri racconti"di F. Lamendola, editore Lalli, Poggibonsi (Siena), 1984, pagg. 11-40.

(N.B.: poiché il libro è da tempo esaurito, chi fosse interessato può mettersi in contatto con l’Assciazione Eco-Filosofica).

I

Mentre sto seduta davanti a questo tavolo, posso vedere attraverso i vetri della finestra il blu cupo dell’oceano e l’azzurro del cielo percorso da innumerevoli cirri in corsa veloce: immensi l’uno e l’altro, il mare e il cielo. Questo è il paesaggio che ho visto fin dai miei primi anni e che ha costantemente stimolato la mia indole fantastica. Mi piace essere davanti a questo azzurro infinito mentre mi accingo a raccontare a me stessa, mettendola per iscritto, la mia storia. Certo non potrebbe interessare a nessun altro che a me; mi basta che faccia un po’ di compagnia ai miei pensieri, nella solitudine di questo lungo inverno australe, fino al ritorno della primavera.

Mi chiamo Regina Wilson e abito in una fattoria nei pressi di Invercargill, sulla punta più meridionale della Nuova Zelanda. Sono nata qui quattordici anni fa. Mio padre Ronald fa il taglialegna, mia madre Alice è casalinga. Abbiamo un cane spinone, Tom, che è il mio migliore amico. Con lui ho esplorato a palmo a palmo i grandi boschi di faggi antartici che coprono le colline e le valli dietro la mia casa. La mia famiglia è tutta qui.

Della mia infanzia ho pochi e confusi ricordi, e tutti alquanto tardivi. I più antichi risalgono a quando aveva già almeno cinque anni. Da che cosa ciò dipenda, non saprei, forse dal fatto che non ebbi un’infanzia felice. Già allora mia madre aveva contratto il vizio del bere e andava soggetta a quelle crisi depressive che l’affliggono ancora adesso. Io allora credevo che fosse ammalata, e quando giaceva abbandonata sul letto per ore ed ore, pregavo il Signore perché la guarisse dal suo male misterioso. Mio padre l’ho sempre visto poco. Lui lavoranel bosco tutto il giorno; parte all’alba e rientra soltanto per mangiare, talvolta solo per cena. Che non andassero molto d’accordo, cominciai a capirlo abbastanza presto.

Quando andai a scuola cominciò un periodo un po’ più sereno. Stavo fuori casa metà giornata ed ero felice di giocare con le compagne e i compagni. Ma la scuola era troppo lontana da casa e le mie amicizie finivano irrevocabilmente quando suonava la campanella annunciante il termine delle lezioni. Inoltre, anche durante le vacanze ero quasi sempore sola. Presi perciò l’abitudine di fare delle lunghe escursioni nella foresta, e questa abitudine diventò presto un bisogno e una passione. Il labirinto dei faggi, gli alberi secolari coperti di muschio e avvolti da festoni di piante rampicanti, i tronchi abbattuti e marciti, le felci specchiantisi nelle pozzanghere erano il mio regno incantato. Talvolta mi spingevo fino alla sommità della collina battuta dal vento e col cuore che mi pulsava per la gioia contemplavo le acque smeraldine dello stretto di Foveaux e la sagoma verde-azzurra dell’isola Stewart, perduta nell’immensità antartica.

Senza quasi accorgermene e senza volerlo cominciai a diventare una solitaria. Avevo vissuto per anni in una casetta isolata, passando giornate intere senza vedere altri che i miei genitori, eppure ero stata una bambina naturalmente socievole. Ora non era più così. Se nel bosco incontravo qualcuno, mi infastidivo e cambiavo strada. A scuola non ero molto brava, però mi piaceva molto leggere per conto mio. Quando fui ammessa al prestito della biblioteca di Invercargill fui veramente felice. Potevo portarmi a casa tutti i libri che volevo e li divoravo con una specie di autentica voluttà. Ma più di tutto mi piaceva andare nel bosco. Lì mi sentivo rasserenata e quasi felice, signora assoluta di un regno proibito a chiunque altro: il regno dei sogni e della fantasia. Gli alberi e le nuvole delle radure erano i miei grandi amici.

Però sentivo il bisogno di un amico di genere un po’ più comunicativo. All’età di dodici anni il papà mi regalò Tom, lo spinone, facendomi letteralmente impazzire dalla gioia. Tom ed io diventammo inseparabili. Eravamo sempre sui sentieri del bosco. Una volta che fui malata per diversi giorni, Tom non si mosse dalla mia stanza se non per le sue immediate necessità e rimase lì finchè non fui guarita e potei alzarmi. La vita all’aria aperta aveva molto irrobustito il mio fisico. Potevo camminare e correre per miglia e miglia senza stancarmi, prendere violenti acquazzoni senza buscarmi un raffreddore, arrampicarmi sugli alberi fino in cima a forza di braccia. Ero sempre vestita come un ragazzo e solo alla domenica, con fatica, mia madre mi convinceva a indossare la gonnae qualche cosa di più femminile. Mi diceva, quando stava bene, che era un peccato che una così bella ragazzina se ne andasse in giro tanto trasandata. Io la obbedivo soprattutto per non farle dispiacere e perché ero felice di sentila dolce e serena come una mamma "normale". Purtroppo sapevo che la cosa sarebbe durata qualche ora o qualche giorno al massimo. Quando "non stava bene" ero io che badavo alla casa, facevo da magiare e glielo portavo a letto. Lei qualche volta si girava dall’altra parte e mi mandava via. Io soffrivo e me ne andavo a piangere dove nessuno, tranne Tom, poteva vedermi o sentirmi. Solo lentamente imparai a non piangere più. Ma altre volte la mamma era contenta che le portassi qualcosa, mi sorrideva con occhi pieni di riconoscenza e si sforzava di assaggiare il cibo anche se non ne aveva voglia. Una volta mi abbracciò forte e si mise a piangere. Da quella volta sentii che l’amavo moltissimo e deposi ogni segreto rancore per la sua debolezza. Forse non ero capace di farle capire quanto le volessi bene: ero molto chiusa e scontrosa, parlavo pochissimo. Spero che i miei gesti glie l’abbiano manifestato più delle mie parole.

Con mio padre andavo abbastanza d’accordo, ma lo vedevo realmente troppo poco. Comunque, col passar degli anni notai che il suo atteggiamento verso la mamma diveniva più comprensivo e affettuoso. Ritengo che lo facesse soprattutto per me, e glie ne ero grata, però avrei voluto che l’amasse per se stessa. In realtà, anche lui era un solitario, e non era quindi l’uomo adatto per farla uscire dalla sua depressione. Qualche volta ci provava, scherzava e mostrava un ottimismo che non era nel suo carattere. Succedeva che per qualche ora la nostr casa tornasse ad essere meravigliosamente serena. Mio padre era un uomo sicuro di sé, e lo invidiavo per la sua sicurezza. Avevo preso da lui l’amore per la natura e la riservatezza dei sentimenti, ma non la fiducia in me stessa. Le giornate più belle trascorse con lui erano quelle, purtroppo rare, in cui mi portava in barca con sé all’isola Stewart. Lui era un appassionato pescatore e io e Tom eravamo assolutamente felici di quelle escursioni laggiù fra mare e cielo, in compagnia del vento e dei gabbiani. Nella stagione invernale i pinguini venivano a svernare in una valle rocciosa sulla costa dell’isola e l’aria risuonava dei loro piccoli gridi. Io mi inebriavo gli occhi e le narici di quella vista e di quegli odori e sognavo orizzonti ancor più vasti, sconfinati, lontano lontano verso il Sud.

La presenza di mio padre sulla barca, che pescava silenzioso fumando la pipa, m’infondeva un meraviglioso senso di sicurezza. Mi sentivo protetta e felice anche se scambiavamo appena poche parole. Una volta però si scatenò una violenta tempesta. Ci sorprese a metà dello stretto, mentre si tornava a casa, e fu sul punto di affondare la barca. Il cielo si era fatto nero come la notte e le raffiche di vento sollevavano ondate di tre, quattro metri. Non credevo che ne saremmo usciti vivi. Invece ce la facemmo.

Quando tornammo a casa, fradici e un po’ ebbri per lo scampato pericolo, papà disse alla mamma una cosa che non mi sarei mai aspettata. Non mi aveva mai fatto dei complimenti e anche allora lo sentii per caso, mentre stavo asciugando Tom nella stanza accanto. Disse: "Dovresti essere fiera di tua figlia, Alice. Stavamo per affondare e non ha pianto, non ha gridato. È stata forte e coraggiosa come un uomo." Abbracciai Tom per la felicità.

II

Che avessi delle facoltà divinatorie fuori del comune non lo sospettai minimamente fino all’età di undici anni. Allora, una notte, sognai un incendio spaventoso nel bosco. Mi svegliai molto scossa per la vividezza delle immagini, quasi aspettandomi di udir crepitare le fiamme, e corsi alla finestra. Tutto era buio e silenzio. Allora, un po’ tranquillizzata, tornai a letto. Il giorno dopo dissi casualmente, facendo colazione: "Sai, mamma, ho fatto un sogno terribile questa notte. La foresta era in fiamme." Ma io stessa non ci pensavo quasi più. Tornando da scuola, nel pomeriggio, notai una densa nuvola di fumo scuro che saliva lontano, dalle colline. Mio padre era già tornato a casa, cosa insolita a quell’ora; vidi che era preoccupato. Mi chiese: "Reg, è vero che stamani hai detto alla mamma di aver sognato un incendio nella foresta?". Annuii, un po’ impaurita. Mio padre scosse il capo, pensieroso. "Non so come diavolo tu abbia fatto – riprese – ma il fatto è che stamattina è scoppiato veramente un incendio, su verso i pascoli del vecchio Martensen. Io stesso ne sono stato tesimone".

Dopo di quella volta, non parlammo più del mio sogno. Ma in un’altra occasione – era passato forse un anno e mezzo – la cosa si ripetè. Una sera andai a dormire col mal di capo e con uno strano senso di oppressione e di malessere. Credevo di avere qualche disturbo di stomaco. Invece feci ancora un sogno premonitore, vivido e angoscioso come la volta precedente. Sognai che mio padre si rompeva una gamba mentre era nel bosco. Mi misi a piangere così forte che la mamma mi sentì e venne a vedere che cosa avessi. Allora le raccontai il sogno e le chiesi di raccomadare al papà di non andare al lavoro l’indomani mattina. Ella mi tranquillizzò e io mi riaddormentai, con Tom che faceva la guardia ai piedi del letto.

L’indomani mattina mi alzai più tardi del solito; era estate e non c’era la scuola. Papà era già andato via, e io corsi allarmata dalla mamma a chiederle se lo avesse avvertito del mio sogno. "Ma certo che gliel’ho detto – rispose, cercando di rassicurarmi – ha risposto che sarà prudente, come e più del solito.- Io ero preoccupatissima. "Ma per una volta non poteva non andarci?", insistevo. "Rifletti, Reg: che cosa avrebbe raccontato al signor Morris? Che non andava al lavoro perché la sua bambina aveva fatto un brutto sogno? Te lo immagini se tutti facessero così, che cosa succederebbe?". Dovetti convenirne. Ciononostante, non mi rasserenai e attesi preoccupata il suo ritorno. Non andai nel bosco.

Prima di mezzogiorno arrivò l’automobile di Jim Purcell, un compagno di lavoro di mio padre. Disse a me e a mia madre di non preoccuparci, che papà aveva avuto un incidente e che lo avevano accompagnato in città, all’ospedale, ma che non c’era nessun pericolo. Alle domamde insistenti della mamma finì perr raccontare l’intera storia. Papà stava segando un albero quando la sega elettrica da cinquanta chili gli era sfuggita di mano, cadendogli sulla gamba destra. Gli aveva spezzato la tibia.

Mio padre fu ingessato e guarì quasi perfettamente in meno di due mesi, però da quella volta io mi convinsi definitivamente che non ero come tutti gli altri ragazzi della mia età, ma avevo qualcosa di diverso. I miei sogni ad occhi aperti, le mie fantasie di esploratrice solitaria ricevevano come una conferma potente e inaspettata da questa misteriosa capacità premonitrice. Dapprincipio ne ebbi paura, e per un certo tempo non potevo fare a meno di coricarmi la sera con un senso di apprensione e di timore. A poco a poco però mi abituai a convivere con la mia "diversità" e finii per considerarla una qualità come un’altra, come altri hanno una prodigiosa memoria oppure un olfatto finissimo. Io potevo, talvolta, prevedere il futuro. Non ero una strega. Ero una ragazzina dal carattere chiuso e sognatore, che però diversi compagni di scuola trovavano interessante e perfino simpatica.

Quando andai alla middle school mi accorsi, non senza stupore, che non solo gli altri non evitavano la mia compagnia, ma che spesso la ricercavano. Non capivo perché. Avevo sempre immaginato di essere scostante e una compagnia poco gradevole. Poiché riuscivo bene in ogni genere di sport e avevo un carattere spiccatamente indipendente, ero piuttosto popolare tra i ragazzi, che m trattavano quasi alla pari. Anche a me piaceva stare con loro, perché spesso i discorsi delle compagne mi annoiavano. Però non sopportavo certi discorsi che facevano con la più grande naturalezza.Mi indignava soprattutto la loro arroganza nei confronti del nostro sesso, e il fatto che in una ragazza non sembrassero mai vedere la persona, ma solo un corpo. Questo mi umiliava e mi riempiva di amarezza. Veramente ce n’era uno, Frank Oates, che sotto questo rispetto pareva distinguersi dai suoi compagni. Frank aveva due anni più di me, un carattere allegro ma non frivolo ed era l’unico che, oltre a trattarmi su un piano di parità, mi ispirasse un senso di fiducia e di vera simpatia. Credo che me ne innamorai un poco.

Frank suonava molto bene la chitarra e io gli chiesi di insegnarlo anchea me. Ero felice di poter creare della musica, anche se i miei gusti erano lontani da quelli della maggior parte dei miei coetanei. La musica moderna per la maggior parte non mi interessava. Frank da parte sua sembrava capirmi quando talvolta gli aprivo i miei pensieri e veniva spesso, non solo per insegnarmi a suonare. Ma un brutto giorno, inaspettatamente, tentò di prendersi delle libertà e lo fece in modo prepotente. Questo segnò la fine della nostra amicizia. Lo respinsi con uno schiaffo ed egli si arrabbiò, ma non reagì perché si rese conto che ero in grado di rendergli la pariglia. Se ne andò senza dir nulla.

Tornò a cercarmi un paio di volte, ma io non mi feci mai trovare. Ero disgustata. Aveva tradito la mia fiducia e questo non avrei potuto mai perdonarglielo. Anche lui era come tutti gli altri. Per colpa sua la mia anima, che timidamente cominciava ad aprirsi verso l’esterno, tornò a chiudersi come un riccio. Non volevo far vedere a nessuno la mia delusionee la mia insicurezza ed esteriormente continuai la mia vita come se nulla fosse sato. Ma soffrivo. A scuola strinsi maggiormente i miei rapporti con le ragazze, ma sempre con poca soddisfazione. Erano diverse, e lo capivamo sia io che loro. I loro interessi non erano i miei. Soprattutto mi deprimevano i loro discorsi di vestiti, di festini e di ragazzi con la motocicletta. Alcune interpretavano come superbia la mia indifferenza per tali argomenti di conversazione e mi ripagavano con freddezza. Ma in genere mi stimavano, anche se non mi capivano. Parevano invidiare la mia indipendenza e la mia apparente sicurezza.

Per fortuna prima di rompere ogni rapporto con Frank avevo potuto impadronirmi dei rudimenti fondamentali della chitarra. Continuai da sola, caparbiamente, e finii per diventare abbastanza brava. La chitarra, oltre a Tom, mi teneva compagnia quand’ero giù di corda, per esempio quando tornavo a casa la sera e trovavo la mamma a letto, il che succedeva piuttosto di frequente. La mia passione per la lettura invece si era molto affievolita.

III

Il professor Michel Ross venne da noi al principio dell’estate, da Auckland. Io avevo tredici anni e mezzo ed erano passati diversi mesi dalla faccenda di Frank Oates. Infatti per il mio tredicesimo compleanno il papà mi aveva regalato la chitarra, ed io già me la cavavo abbastanza bene. La venuta di un professore del Nord nella nostra casa solitaria era già di per sé un fatto piuttosto straordinario. Già altre volte in passato avevamo affittato una stanza della casa a turisti nella bella stagione, dato che il luogo era pittoresco e salubre e spazio per noi ve n’era più che a sufficienza. Questo ci permetteva di arrotondare le entrate familiari e consentiva al papà di prendersi un mese o due di ferie, anziché spostarsi nei paesi vicini in cerca di altro lavoro. E per me era sempre una festa, dato che il disagio di avere estranei per casa era compensato dalla presenza di papà, finalmente libero di dedicarmi un po’ del suo tempo e di portarmi in barca nello stretto.

Il nostro ospite questa volta era diverso dai soliti turisti e mi fece una strana impressione sapere che era professore. Professori così giovani erano piuttosto rari nella mia scuola, poiché non doveva avere più di venticinque o ventisei anni. Era un tipo dall’aspetto gradevole e dai modi garbati e riflessivi ed era venuto quaggiù in cerca di un clima più fresco per rimettersi da una malattia. Se il tempo era buono se ne stava tutto il giorno fuori casa. Usciva con un libro o un quaderno sotto il braccio e si avviava con passo tranquillo verso la collina. Capii subito che era, come me, un grande amante della natura. Più d’una volta lo sorpresi a contemplare il paesaggio di boschi e vallate e soprattutto il cielo percorso dalle rosse nuvole galoppanti. E parve molto contento quando gli feci vedere i nostri animali: i conigli, le galline, i piccioni. Mi piaceva perché mostrava interesse per tutte quelle cose che di solito i miei coetanei d’ambo i sessi non vedevano neppure, e perché sapeva ascoltare il silenzio, e capirlo. Non era di quelli che hanno paura del silenzio e cercano di riempirlo a tutti i costi, magari con i discorsi più banali. Però al tempo stesso la sua presenza era sempre di compagnia. Per questo, mentre all’inizio lo evitavo ed ero piuttosto diffidente, poco alla volta presi confidenza e diventammo amici.

Nelle sere di pioggia ci raccontava qualcosa delle sue esperienze e dei paesi che aveva visitato. Era stato in Europa e mi piaceva soprattutto sentire quel che raccontava di Parigi e dell’Italia. Anche la mamma in quel periodo pareva un po’ migliorata e sin tratteneva volentieri ad ascoltarlo. Micheal – ormai ci chiamavamo per nome – aveva una maniera garbata di narrare, evitando sempre di mettersi al centro del racconto e cercando di farci visualizzare quanto meglio poteva luoghi e persone. Si doveva essere accorto che a me e alla mamma quei racconti di terre famose e lontane interessavano moltissimo ed era molto gentile da parte sua accontentarci , pur non essendo di carattere molto chiacchierone. In realtà, credo che talvolta facesse uno sforzo su sé stesso per farci piacere.

Un giorno mi trovò in casa che leggevo un libro e venne a sapere della mia vecchia passione per la letteratura. Gli confidai i miei interessi e confessai che un tempo avevo nutrito l’ambizione di diventare celebre come Katherine Mansfield, la grande scrittrice neozelandese. Egli fu entusiasta dell’idea e mi esortò a non lasciar cadere quella mia passione letteraria. Mi prestò anche alcuni dei suoi libri e me ne consigliò altri, offrendosi di andarmeli a prendere alla biblioteca cittadina."Regina — mi disse (lui eral’unico che continuasse sempre a chiamarmi col mio nome tutto intero) — chissà che un giorno tu non divent realmente una scrittrice." Tom lo ascoltava e sembrava approvare con le orecchie ed egli lo carezzò. Si era affezionato presto al mio Tom, e ne era stato ricambiato. Questo era molto significativo per me. Io e Tom siamo sempre stati istintivamente solidali nelle nostre amicizie e nelle nostre antipatie.

Da parte sua, Michael sembrava apprezzare in me particolarmente due cose: quando suonavo la chitarra e quando gli raccontavo le antiche leggende dei Maori, che a mia volta avevo ascoltato dal papà. Quando suonavo stava ad ascoltare in silenzio senza dir nulla, guardando davanti a sé con un sorriso. La prima volta che mi udì suonare mi chiese se la sua presenza mi disturbasse; dissi di no e da quella volta si fermò ad ascoltarmi spesso. Le leggende degli antichi Maori invece sembravano interessarlo più di qualunque altra cosa, perché mi interrompeva di frequente con domande di chiarimenti o chiedendomi di ripetere storie già narrate. Questo all’inizio mi parve strano, finchè non capii che anche lui, come me, apparteneva al genere dei sognatori. Cert era buffo che un professore di filosofia si entusiasmasse ai mei racconti come un bambino, o almeno a me pareva buffo. Conoscendolo meglio compresi che questo era uno degli aspetti vitali del suo carattere apparentemente così calmo e posato. Michal era un vulcano addormentato, ma non spento, sotto una calotta di ghiaccio.

La leggenda che più lo affascinava era quella relativa alla Tribù Perduta, e su di essa voleva conoscere sempre nuovi particolari. Io allora tornavo a narrargliela, così come l’avevo appresa dal papà, mentre stavamo seduti sull’uscio contemplando le vette lontane delle maestose Alpi Neozelandesi che perdevano nella nebbia azzurrina e rosata del tramonto. Ma non potevo soddisfare mai completamente la sua curiosità.

Intorno al 1780, dopo la visita del capitano Cook al Dusky Sound, era scoppiata una delle tante faide tra due tribù maori. Gli Awea avevano ucciso un capo di una tribù più grande, non si sapeva bene quale, e poi, temendo la vendetta di essa, erano fuggiti verso l’interno della Fiordland, la Regione dei Fiordi sulla costa sud-occidentale. La tribù dell’ucciso però li aveva inseguiti e li aveva raggiunti presso le rive del lago Te Anau.Vi era stata una sanguinosa battaglia, e gli Hawea erano stati completamente sbaragliati. Circa la metà di essi erano rimasti uccisi sul posto. Ma, e qui siaffacciava il mistero, che ne era stato dell’altra metà? Si diceva ch’essa fosse riuscita a mettersi in salvo fuggendo sulle alte montagne che circondano il lago glaciale. Per il momento non si parlò più della cosa. Gli Hawea erano stati come risucchiati dalle profondità della terra, facendo smarrire ogni traccia di sé. Ma dopo vari anni, i primi colonizzatori bianchi dell’Isola del Sud stabilitisi nella regione avevano cominciato a vociferare di "indigeni selvaggi" che si aggiravano per le montagne. Poi non se ne era saputo mai più nulla.

Ma questa era solo una delle tante storie che si narravano intorno alla Regione dei Fiordi,l’angolo più misterioso e romantico della Nuova Zelanda. Fiordi profondi e bellissimi, impervie montagne scintillanti di neve, vallate immerse nel verde di foreste millenarie e impenetrabili, laghi d’un blu cobalto e nebbie improvvise facevano da cornice a segreti ancora forse inviolati. Soltanto un paio d’anni prima, come mi aveva detto papà e come era stato pubblicato dai giornali un cacciatore di nome Geoffrey Orbell aveva riscoperto vivo e vegeto, in una valle solitaria,il takahe, uccello dal piumaggio viola e dalle ali marrone-rossiccio e incapace di volare, creduto da tempo esitinto. Alcuni pensavano che perfino qualche specie minore del famosa moa, scomparso da almeno 400 anni a causa della spietata caccia dei Maori, poteva forse vivere ancora laggiù.

Quando chiesi a Michael perché s’interessasse tanto alla leggenda della Tribù Perduta, egli dapprima cercò di schermirsi. Ma davanti alla mia decisione dovette confessare che gli sarebbe piaciuto visitare la Regione dei Fiordi per raccogliere ulteriori informazioni. "Tanto più — disse — che questa storia della Tribù Perduta mi fa venire in mente un’altra leggenda indigena piuttosto interessante. Anticamente il navigatore Hui-Te-Rangi-Ora, trascinato dalle correnti e dai venti o forse salpando volontariamente alla ricerca di nuove sedi per la sua gente, si sarebbe spinto fino all’Antartide. Con una piroga dell’epoca, capisci? Il viaggio è narrato dalla tradizione orale, e non se ne sa null’altro."

"E tu pensi — gli chiesi — che possa esistere una relazione fra le due leggende?".

Egli si strinse nelle spalle e tornò a guardare affascinato le alte vette ormai quasi dileguate nella penombra violacea. La notte estiva si spandeva attraverso il cielo da oriente. Rientrammo in casa silenziosi.

IV

Michael si era reso perfettamente conto della reale natura della "malattia" della mamma. Accadeva spesso che lei non si facesse vedere ed ero io a preparare la cena, come meglio potevo. Egli dimostrò una sensibilità squisita e non mi disse mai nulla, limitandosi ad informarsi se la mamma stesse meglio. E quando ciò accadeva e mangiavamo tutti insieme, si comportava con lei come se non avesse intuito nulla. Gli ero profondamente grata di questo tatto.

Un giorno papà mi disse che l’indomani sarebbe uscito in barca e mi chiese se volevo invitare anche Michael. Lo feci subito ed egli ne fu entusiasta. Così il giorno dopo, alle prime luci dell’alba, partimmo tutti e quattro — papà, Michael, Tom ed io, diretti all’isola Stewart. Non ci ero più stata dalla volta della tempesta, e desideravo tanto vedere se c’erano ancora i pinguini. La traversata è di quasi 25 miglia e sfruttando il lungo chiarore estivo si poteva trascorrervi almeno tre ore, ripartendo per giungere in vista della terraferma prima del tramonto. Le ultime volte non ci eravamo mai spinti oltre l’isola Waikiwi e la prospettiva di una intera giornata sull’oceano mi riempiva di gioia.

Quel mattino cielo e mare erano di un azzurro purissimo, quale raramente è dato vedere anche quaggiù. Si annunciava una giornata d’una trasparenza meravigliosa, tanto che l’isola era visibile dalla costa ancor prima che salpassimo: ed è un fenomeno raro a quell’ora, dato che il Monte Anglem, la sua vetta maggiore, non supera i 1.000 metri ed è lontano almeno 50 chilometri in linea d’aria. Quando fummo in mezzo allo stretto il sole si levò completamente e illuminò la vetta dell’isola di una vivida luce. Stormi innumerevoli di uccelli marini solcavano il cielo stridendo e descrivevano magici arabeschi e volute eleganti. Alcuni si perdevano lontano lontano all’orizzonte, quasi correndo incontro alla cavalcata dei cirri dai bordi dorati, e sembravano misurare per l gioia della nostra fantasia gli spazi immensi che si aprivano tutto intorno a noi. Michael, pur essendo abitante di una grande città, si trovava perfettamente a suo agio, come se fosse vissuto da sempre in questi luoghi e ammirava senza parlare il magnifico spettacolo della natura. Io lo capivo benissimo e quel silenzio ci univa tutti quanti, come se ci stessimo scambiati ad alta voce quelle impressioni che tutti allo stesso modo sentivamo esultarci in petto.

Quando raggiungemmo l’isola, io e Tom corremmo felici su per la collina, mentre Michael e papà restavano a chiacchierare presso la riva. Speravo di veder di lontano i pinguini, che d’inverno nidificano su una spiaggia sottovento dietro una lingua di terra a nord-ovest. Ma non ne scorsi nemmeno uno. Evidentemente in quella stagione soggiornavano nelle isole più a Sud. Quando tornai giù verso la barca, papà e Michael stavano ancora parlando.

"Allora, trovati i pinguini?" chiese Michael di lontano, e io scossi la testa, poi riprese il discorso interrotto. Avvicinatami, sentii che chiedeva a papà: "Secondo lei, signor Wilson, una barca come la sua sarebbe in grado, dico teoricamente, di raggiungere l’Antartide?".

Mio padre lo guardò perplesso. "L’Antartide? Intende dire una barchetta a vela così, a un solo albero?".

"Be’, veramente stavo cercando di capire se in passato gli indigeni avrebbero potuto farlo. Con le loro piroghe."

Papà scosse il capo, dubbioso. "È molto difficile dirlo. I Maori avevano delle piroghe gigantesche ed erano dei grandi navigatori. Lo prova il fatto che fossero di origine polinesiana, dunque avevano già dovuto percorrere decine di migliaia di chilometri per raggiungere le nostre isole. Posso dirle un fatto accaduto a un mio conoscente, Eddy Slater, un pescatore di Bluff. Era diretto a Obart con una barca appena più grande della mia, e fu còlto da una tempesta. Accadde circa quattro anni fa. Perse completamente il controllo dell’imbarcazione e fu trascinato verso Sud a una velocità sbalorditiva. Quando la tempesta, per sua fortuna, si fu alquanto calmata, era giunto nientemeno che in vista dell’isola Campbell. Qualcosa come 800 chilometri a Sud di qui: era andato alla deriva per tre giorni."

"Senbra incredibile – osservò pensieroso Michael – in soli tre giorni. Non potrebbe essersi sbagliato? Non avrebbe potuto essere una delle isole Auckland? Come poteva essere certo che fosse proprio Campbell?".

"Su questo non vi sono dubbi. Eddy riferì di aver visto sulle rocce dell’isola una colonia immensa di pinguini, milioni e milioni d’individui. E solo a Campbell vi è una colonia del genere."

"Allora questo è un elemento a sostegno dell’ipotesi che le ponevo. Da Campbell alle isole Balleny vi è un altro balzo di circa 1.600 chilometri di oceano aperto; poi la costa dell’Antartide non è lontana…icebergs permettendo. Hui-Te-Rangi-Ora può esservi arrivato in dieci o quindici giorni solamente, partendo all’incirca da qui. È straordinario."

Era già mezzogiorno e bisognava cominciare a pensare al ritorno. Mangiammo qualcosa sulla spiaggia e poi ripartimmo. La corrente al centro dello stretto è piuttosto forte da superare, e inoltre papà voleva dedicarsi ancora un poco alla pesca, prima di rientrare. Michael si era fatto pensoso. Non era triste, soltanto pareva completamente assorbito da un’idea. Lo presi in giro per costringerlo a riscuotersi.

"A che cosa stai pensando di tanto affascinante? Alla tua fidanzata?".

"No — sorrise lui — e poi non ho alcuna fidanzata. Stavo pensando di fare una proposta a tuo padre."

"Che genere di proposta?", domandai incuriosita.

"Signor Wilson — riprese volgendosi direttamente a papà — lei sarebbe disposto ad accompagnarmi con la barca fin sulla costa occidentale?".

Papà non era tipo da mostrare turbamento, fosse pure per la richiesta più inattesa. Ciononostante, mi aspettavo che scuotesse il capo come faceva talvolta alle mie preghiere di portarmi con sé; e sapevo che in quei casi era irremovibile. Invece domandò semplicemente: "E dove precisamente, sulla costa occidentale?".

"Non lontano. Diciamo fino al Dusky Sound."

Mio padre si tolse lapipa di bocca e rimase a riflettere. "Vediamo: a occhio e croce saranno 250 miglia: due giorni e mezzo di navigazione. Ma con questa barchetta non sarà facile."

"Vedrà che per il suo compenso ci metteremo d’accordo."

"Non è questo. Si tratta della sicurezza del viaggio. Dicono che fra il Capo Providence e la Punta Puysegur vi siano delle correnti molto forti. E dai Monti Cameron, che scendono a picco nel mare, soffiano dei venti continui. Scusi, ma perché vuole andare laggiù? Non c’è nulla al Dusky Sound, che io sappia. Né un villaggio, né una casa. Solo mare e rocce."

"Vorrei visitare la Fiordland. Dal Dusky Sound potrei spingermi verso il lago Manapouri e magari fino al lago Te Anau. Ho delle particolari ricerche da fare laggiù."

"Allora le converrebbe andare a Te Anau per via di terra. È una strada molto lunga e piuttosto scomoda, perché bisogna attraversare le montagne. Ma è senz’altro conveniente."

"Non è la stessa cosa. I fiordi vanno visti dal mare. E poi da Te Anau come farei per raggiungere la costa? Lei è un marinaio abbastanza esperto. Potrebbe lasciarmi al Dusky Sound e tornare a prendermi, diciamo dopo un dieci giorni. Mi porterò viveri e una tenda, in modo da essere del tutto indipendente."

"Ci penserò — concluse mio padre. — Domani o dopodomani le saprò dire."

Non so perché, ma dopo quella conversazione anch’io diventai pensierosa. E non dissi quasi più nulla finché la barca scivolò nella piccola baia vicno a casa nella luce rossastra del tramonto.

V

Quella notte feci un sogno. Aveva tutte le caratteristiche dei miei vecchi sogni premonitori, sebbene non si fossero più ripetuti da tanto tempo. Sognai che Michael era partito per la Fiordland e io ne provavo una tristezza immensa. Non solo tristezza, ma anche preoccupazione ed ansia. Non avrei saputo dire perché, era come un oscuro presentimento. Poi, vedevo papà che tornava con la barca, dopo essere andato fin laggiù per riprenderlo e riportarlo indietro. Ma era solo. Il suo volto esprimeva fatica e dolore. Io ero corsa alla riva con Tom per vederli arrivare, e compresi subito, senza bisogno di chiedere nulla, che doveva essere accaduto qualcosa. Mio padre scuoteva il capo e mi diceva affettuosamente, cingendomi le spalle con il braccio: "Niente da fare. Ho atteso tre giorni, e Michael non s’è visto. Avrebbe dovuto essere là ad aspettarmi. Avevo quasi finito le provviste e non potevo trattenermi ancora. Mi dispiace, non devi essere triste." Ma io avevo voglia di mettermi a piangere e scappavo via, mentre lui mi chiamava.

Mi svegliai oppressa e angosciata. Il sogno mi era sembrato così vero che stentavo a tornare nella dimensione del reale, a convincermi che non era successo nulla. Poi mi ricordai che Michael voleva andare veramente al Dusky Sound, sulla costa occidentale. Rimuginavo mille pensieri fra il sonno e la veglia. Non distinguevo più il confine tra l’uno e l’altra. Finalmente mi riaddormentai.

Al mattino ero stranamente preoccupata e triste, ma solo dopo un poco mi ricordai del sogno. E mentre mi stavo vestendo ebbi la folgorazione di quanto mi stava accadendo: non volevo che Michael partisse perché la sua presenza era importante per me. Era l’unica persona al mondo dalla quale mi sentissi capita e apprezzata e non sopportavo l’idea che potesse capitargli qualcosa. Non avevo mai provato alcunché di simile per alcuno, neppure per Frank Oates. C’era una persona, una persona al mondo alla quale tenevo e non volevo perderla. Più tardi, quando lo vidi, gli dissi senza mezzi termini che non doveva andare nella Fiordland: che era una zona troppo deserta e selvaggia e che era troppo imprudente penetrarvi da solo. Potevano capitare tante cose, e nessuno lo avrebbe soccorso. Inoltre, come cittadino non era abbastanza pratico della natura, non conosceva tutti i suoi segreti. Queste cose le dissi in maniera confusa e un po’ concitata, con forza. Ma lui non capì. Mi guardava piuttosto stupito e sorrideva per tranquillizzarmi. Poi disse: "Mi dispiace, ma è deciso: non lo sai? Mezz’ora fa tuo padre mi ha detto che ci ha pensato, e che per lui va bene. Partiremo fra due giorni, il tempo di fare provviste e di procurarmi delle buone carte topografiche giù in città."

Duramente colpita da questa notizia, decisi di rivelargli le mie facoltà premonitrici. Gli raccontai dei miei sogni, quello dell’incendio e quello dell’incidente di papà, che si erano avverati entrambi, e infine quello che avevo fatto quella notte. Mi costò fatica parlare di queste cose, perché mi facevano apparire "diversa" ai miei stessi occhi e tanto più temevo la reazione di Michael nei miei confronti. Egli fu invece molto delicato anche in questa circostanza: disse che credeva a tutto quanto gli avevo detto dei primi due sogni, ma mise in dubbio che anche l’ultimo avrebbe dovuto fatalmente avverarsi. Era molto tranquillo e sicuro di sé: "Ripensa a tutti i sogni che hai fatto, Regina, anche in quest’ultimo periodo; e poi dimmi: si sono avverati tutti? Naturalmente no. Nei sogni si verificano tante situazioni fantastiche, associazioni di fantasia che nulla hanno a che vedere con la preveggenza. Tu ieri sera eri un po’ preoccupata e il tuo subconscio ti ha giocato uno scherzo."

Io improvvisamente scoppiai a piangere. Ho ripensato spesso a quell’episodio e cerco ancora di darmene una spiegazione soddisfacente. Non volevo perdere il mio unico amico, e questo timore mi causava una tensione notevole. Però era moltissimo tempo che non piangevo e addirittura anni che non lo facevo davanti ad estranei. Solamente Tom era stato testimone delle mie crisi di scoraggiamento. E non avevo l’intenzione di lasciarmi andare nemmeno con Michael, anzi con lui meno che con chiunque altro. Semplicemente, era stato più forte di me, e troppo improvviso perché potessi resistervi.

Egli ne restò colpito. Rimase lì pazientemente ad aspettare che mi fossi un po’ calmata. Mi sentivo ridicola e sciocca e sarei volentieri scappata via, ma ero troppo orgogliosa e non volevo comportarmi come una bambina ancor più di quanto stessi già facendo. Allora Michael mi prese le mani e stringendole con forza, come per infondermi fiducia e coraggio, sorrise: "Regina, ma cosa ti succede?".

"Perché vuoi andartene laggiù?", risposi, senza osare guardarlo. "Sai che è pericoloso e ci vai lo stesso. Vedi che io sto male e non te ne importa.Sei un egoista. Ti sei mai preoccupato di qualcun altro, tu, oltre che ti te stesso e dei tuoi libri di filosofia?". Avevo parlato d’impulso, senza riflettere, decisa a ferirlo pur di scuoterlo dalla sua decisione. Ma subito me ne vergognai e lo guardai arrossendo; però non feci marcia indietro.

Michael ebbe un sorriso mesto, quale non gli avevo mai visto, come se realmente lo avessi colpito sulla carne viva, e rimase qualche minuto a guardare nel vuoto, perduto in un lontano pensiero. Di nuovo avrei voluto scappare, ma questa volta era la vergogna a trattenermi. Finalmente si volsea guardarmi e fissandomi intensamente, con voce pacata, disse: "Sì, Regina: a qualcuno ho voluto bene. È stato molto tempo fa. No, non mi piace rivangare il passato. Ma nessuno è del tutto arido, nessuno è del tutto incapace di voler bene: questo non devi crederlo. E anche adesso, tu non immagini quanto sono felice di aver trovato quaggiù un’amica: una vera amica. Tu sei una ragazzina, ma mi capisci meglio di tutti gli adulti che ho conosciuto. Sei preoccupata per la mia partenza? Ma tornerò: e intanto voglio spiegarti perché sia così imprtante per me andare laggiù." Fece una lunga pausa e si volse a guardare le cime maestose dei monti, oltre il ballatoio di tronchi della veranda. Io avevo deposto ogni animosità ed ero assetata di sentirlo ancora parlare: i taciturni conquistano un doppio rispetto in chi li ascolta, quando si decidono a rompere il loro silenzio. E io sentivo che solo per me Michael si era deciso a deporre la sua abituale riservatezza e a parlarmi di sé, delle sue aspirazioni. Davvero, non poteva essere un arido.

"La vita non può fare a meno della poesia, Regina. Invano l’uomo moderno lotta con sé stesso per soffocarla, invano uccide la naturae scaccia lontano le cose belle. Il bisogno di poesia vive dentro di noi, ed è immortale. Ho fatto un viaggio di oltre mille chilometri per venire qui perché proprio quaggiù, all’estremità del mondo, avevo appuntamento con la poesia. Questo oceano sconfinato, che si perde nell’azzurro del cielo; la consapevolezza che fra questa sipaggia e il lontanissimo continente di ghiaccio non v’è nulla in mezzo, suggeriscono all’animo dei voli immensi. Lassù ad Auckland ho fatto un po’ di tutto: il pittore, lo scrittore, il poeta. Ma viene il momento in cui la poesia che è in te rischia davvero di morire, se le neghi ogni alimento. La uccidono lentamente la morsa dello squallore cittadino, del conformismo borghese, dei calcoli di convenienza economica. È per questo che ci tengo tanto a visitare la Fiordland. La leggenda della Tribù Perduta forse è solo un pretesto. Fra quelle montagne e quei fiordi blu cobalto spero di ritrovare qualcosa di me. Ora come ora sono una fontana disseccata."

"Perché dici queste cose? " protestai. "Tu sei vivo; sei l’unica persona viva che ho conosciuto finora."

Di nuovo sorrise con mestizia, come improvvisamente invecchiato. "Cara Regina: le ferite che non si vedono sono quelle che non guariscono. Però ti ringrazio di cuore per queste parole. Basta così: andiamo. Scendiamo alla spiaggia e vediamo chi scaglia i ciottoli più lontano!".

Corremmo giù verso il mare ridendo, con Tom che ci abbaiava gioiosamente fra le gambe.

VI

La vigilia della partenza di Michael, la sera dopo cena, uscimmo a sederci sulla veranda.Faceva piacevolmente fresco e giungeva dall’oscurità il rumore ovattato dell’onda lunga del Pacifico che si frangeva sulla spiaggia. Restammo lungamente a contemplare il vivissimo tremolìo delle costellazioni alte nel cielo del Sud. Fui io a rompere il silenzio. Ero in uno stato d’animo inesprimibile, sospeso tra la felicità e l’angoscia. Gli dissi: "Perché non mi parli un poco di te? Non so nulla di te, della tua famiglia. Tu invece sai tante cose di me, o perché le hai viste o perché te le ho raccontate. Non riesco a immaginarmi la tua storia, la tua esistenza lassù al Nord, nella grande città."

Non vedevo il suo viso. Era in parte girato verso le colline e la notte era senza luna. La sua voce mi giungeva come da strane lontananze, eppure era lì seduto accanto a me. "Io non sono nato in città. La mia famiglia è originaria di un piccolo paese, come la tua. Ad Auckland abito da cinque anni, ci son venuto per insegnare. E ci sto male.

"La nostra famiglia era composta dai miei genitori e da tre fratelli. Io sono il più piccolo. Poi una sorella maggiore di quattro anni, e un fratello di dieci. Mio padre era pastore presbiteriano e l’atmosfera domestica era quindi molto religiosa. Era un uomo all’antica, tutto d’un pezzo, ma non cattivo. Ci voleva bene ed io gli ero affezionato. Mia madre era molto ammalata e morì quando io avevo quattordici anni, poco più della tua età. Di lei ho dei ricordi molto belli: era dolce e paziente, sempre sollecita dei problemi altrui. Papà è morto cinque anni fa, dopo di che mi sono trasferito in città.

Mio fratello maggiore era sposato e aveva una bambina piccola quando scoppiò la guerra e fu richiamato. Non aveva la stoffa del soldato, faceva il commerciante. Rimase ucciso a Jiwo Jima poco prima della fine della guerra. Anch’io ero stato da poco richiamato, interrompendo gli studi. Ma quando la guerra finì, ero appena arrivato a Singapore e non avevo mai combattuto. Mio fratello aveva un carattere aperto e cordiale, molto diverso dal mio. Gli volevano bene tutti. Fu colpito su una spiaggia, mentre prendeva terra, e morì subito. Sua moglie si risposò meno di un anno dopo. So che è ingiusto, e forse stupido, ma non ho mai potuto perdonarglielo. Capisci, Regina? Vivere degli anni con una persona, avere un figlio da lei, e poi sostituirla non appena muore, come si cambia un vestito vecchio. So che non ho il diritto di giudicare: il cuore umano è un mistero, e forse ella ha sofferto molto più di quanto io creda. Ma ugualmente non posso pensare a lei senza rancore. Del resto, non so nemmeno dove sia adesso."

Michael si interruppe, le ultime frasi gli erano uscite sempre più faticosamente, strappate con doloree quasi a forza dalla pena dei ricordi. Lo sentii sorridere piano nel buio.

"È strano, Regina. La vita è così strana. Io non amo parlare di me, di ciò che è sato. Avevo sepolto il passato in fondo al mio cuore. Ed ora, dopo tanti anni, eccomi qui in una notte stellata d’estate, seduto ai confini del mondo con una ragazzina che fino a un mese fa non sapevo neppure che esistesse. E le racconto queste cose, mentre guardo la Croce del Sud che pulsa e tremola come volesse dirci qualcosa. Che strana cosa."

Restammo un poco in silenzio. Il richiamo d’un uccello notturno giungeva a tratti dal bosco, nella valle dietro la casa. La massa scura dei faggi giaceva sui fianchi delle colline come una vasta nuvola addormentata. Stavo zitta: avrei voluto dire tante cose…! Troppe. Finalmente mi decisi: "Sono contenta che tu ti confidi un po’ con me. Vuol dire che in me hai fiducia. Non ho mai avuto la fiducia di nessuno, finora."

"Tu meriti molto dalla vita, Regina. Abbi fede; stringi i denti; non arrenderti mai. Verrà certamente la tua ora di essere felice."

"Non mi hai detto nulla di tua sorella."

"Linda. Cara Linda. Adesso ha ventinove anni compiuti. È sempre stata una ragazza sensibile, ma forte nello stesso tempo. Da bambina piangeva quando vedeva un uccellino in gabbia. C’è tutta l’anima di una persona in questi piccoli episodi dell’infanzia, non credi? Linda adesso è molto lontana da qui. È missionaria, da tre anni lavora come infermiera in Perù. Io e lei eravamo molto legati. Quando partì ne soffrii molto, anche se in fondo l’avevo sempre saputo. Quella di andarsene missionaria era una sua vecchissima aspirazione: l’aveva tenacemente coltivata per tutta la giovinezza, a dispetto di ogni difficoltà. Linda è il tipo che con la sola forza della fede smuove le montagne. È piena di coraggio, porta con sé la speranza e la forza come altri si portano dietro la valigia, o i vestiti. Assomiglia molto a com’era la mamma, a parte la salute. Ecco, ora ti ho detto proprio tutto. Mi sembra."

"Ti sbagli. Aspetto ancora di sentire la storia più interessante: la tua."

Veramente a questo punto lo sentii ridere sommessamente nell’oscurità. "Interessante?".

"Interessante per me, certamente."

"Mah, non so cosa dirti… Avevo anch’io una vaga idea di fare il missionario. Non ne ho fatto nulla perché sentivo contemporaneamente un’altra vocazione, che alla fine soverchiò tutte le altre: quella di scrivere. Anzi, cominciai come pittore. Poi scrissi poesie, e infine saggi di filosofia. Un idealista, specialmente se è giovane, sogna di poter cambiare il mondo coi suoi libri. Nessuna mèta gli appare impossibile. Quando si è giovani e idealisti non si ha alcuna indulgenza per le debolezze umane: né le proprie, né le altrui. È per questo, credo, che sono vissuto sempre solo. Insofferenza per ogni forma di compromesso. Questa è una coerenza che si paga cara, ma da giovani si hanno le spalle forti per sopportare le peggiori delusioni."

"Lo avevo capito subito", commentai quasi tra me.

"Che cosa?".

"Che non sei quello che sembrui. Si direbbe tu voglia fare di tutto per apparire indifferente. In realtà sei di un’altra stoffa, completamente diversa."

" Bene, si è fatto tardi. Domattina devo partire all’alba." Si alzò in piedi. "Buona notte, Regina." Le parole non dette gemevano nel vento fresco della notte d’estate.

"Buona notte, Michael."

VII

I giorni che seguirono furono azzurri come la speranza e interminabili come il timore. Ero come sospesa fra due abissi, l’abisso della felicità e quello della disperazione. Volevo che i giorni passassero in fretta, perché papà, che era tornato sei giorni dopo essere partito con Michael, tornasse a riprenderlo. Ma in fondo al cuore avevo paura del giorno in cui finalmente la barca di papà sarebbe tornata: paura di vederla arrivare con un solo passeggero, come nel sogno. Avevo tutte le lunghe giornate d’estate per affondare in questi pensieri. Non c’era la scuola, e al mio passatempo abituale in città — giocavo in una squadra di pallavolo — avevo rinunciato da tempo, per non incontrare Frank. Così ero sola tutto il giorno.

Andavo nel bosco con Tom e mi spingevo sempre più lontano. Fermarmi in qualche luogo era un fastidio e una sofferenza. E incontrare estranei sul mio cammino era la cosa peggiore. Tornavo a casa la sera, e il più delle volte trovavo la mamma a letto. Allora preparavo la cena e ne portavo anche a lei. Dopo di che dovevo affrontare la notte, l’ora più attesa e più temuta della giornata. Addormentarmi significava uscire dalla vita, allontanarmi per qualche ora dalla mia infelicità, una liberazione almeno provvisoria. Ma giacere lì al buio senza riuscire a prender sonno, rigirarmi penosamente per ore, ben desta e lucida nonostante la stanchezza della giornata, e ripensare alla realtà in cui vivevo senza veder altro che un grigiore infinito, questa era una prova assai dura. Cercavo di farmi forza pensando a quando Michael sarebbe ritornato. Certo, lui sarebbe dovuto ben presto tornare a casa sua, lassù al Nord; ma l’essenziale era che avevo trovato al mondo un amico. La prossima estate avrebbe cercato di tornare: me l’aveva promesso. Solo da quel lato le nubi del domani si aprivano un poco e lasciavano filtrare qualche debole raggio di luce. Dovevo aver fede, come lui mi aveva detto, e non arrendermi.

Finalmente venne il giorno per papà di ripartire alla volta del Dusky Sound, ove si erano dati appuntamento per il ritorno. Ma fu proprio quella notte che feci il sogno. Vedevo Michael arrampicarsi su per una montagna ripida e liscia a strapiombo sul fiordo. Il sole mattutino scendeva giù dalle rocce obliquamente e lasciava ancora in ombra le acque del mare, qualche centinaio di metri più in basso. Il sentiero, o meglio il canalone lungo il quale Michael avanzava diagonalmente, impacciato dal pesante zaino sulle spalle, era estremamente stretto e malsicuro. A un tratto mise il piede in fallo e cadde. Io vedevo la scena da un punto d’osservazione situato alle sue spalle e molto più in alto, come al cinema. Quando lo vidi precipitare dal sentiero, annaspai come se cadessi a mia volta e protes le mani in avanti nel gesto di chi cerca un appiglio. Mi trovai sveglia e agitatissima, levata sul mio letto, con Tom che uggiolava piano e mi guardava senza capire.

Quando mi resi conto che ero lì nella mia camera e che avevo sognato, fui percorsa da un brivido in tutta la persona. Non era vero, non poteva essere vero. Mi sentivo quasi come se fossi stata io a stessa a spingere Michael giù per la parete di roccia. In preda alla disperazione, un pensiero venne in mio soccorso: che dopotutto era stato solo un sogno, e non dovevo entrare nell’ordine d’idee ch la cosa fosse già realmente accaduta. Pure, la mia mente finiva per tornare sempre là, e rivedevo come al rallentatore la scena della caduta. Ma il sogno non era giunto a mostrarmela tutta: mi ero svegliata troppo presto. Allora pensavo che se anche il mio sogno era stato veridico, non si poteva escludere che Michael fosse riuscito a fermare la caduta, aggrappandosi a qualche sporgenza. Ma poi mi tornava in mente l’altro sogno, quello di papà che tornava con la barca da solo: collegavo le due premonizioni e non avevo più scampo.

Assediata da tali angosce, trascorsi così la notte più lunga della mia vita. Mi aspettavano ancora quattro o cinque giorni di attesa: il tempo per papà di andare alla costa occidentale e tornare, se tutto andava bene. E non avevo nessuno con cui confidarmi. Non dissi niente alla mamma neanche quando stava abbastanza bene, perché mi sembrava che il parlare della cosa avrebbe finito per conferirle una realtà concreta, irrimediabile, che per adesso si poteva ancora scongiurare se io ero abbastanza forte da reprimere nel silenzio le mie paure. E così feci, a prezzo di un sacrificio terribile. Vagabondavo tutto il giorno per il bosco e mi sfogavo un po’ con Tom, che stava ad ascoltarmi con occhi umani e soffriva palesemente della mia sofferenza. Certe volte, dopo essermi appunto un po’ così alleggerita del mio opprimente fardello, mi pareva che il mio animo tornasse ad aprirsi insperatamente alla speranza. In quei momenti, pensando a quel che sarebbe accaduto dopo il ritorno di Michael, finivo per trovarmi alle prese con un altro genere di problema. Mi ero innamorata di Michael. Ma questo era assurdo, dovevo scacciare un simile pensiero. Senza quasi che lo volessi, però, ricordando gli ultimi giorni passati insieme, mi si faceva strada l’idea che forse qualcosa di simile era capitato anche a lui. Possibile? Non sapevo cosa pensare. Che cosa poteva saperne una ragazzina scontrosa e solitaria, abituata ad avere un cane, gli alberi e il vento del Sud come unici compagni e confidenti?

L’attesa non durò cinque o sei giorni, ma undici. Non posso riandare a quel periodo senza provare un fremito di orrore. Fu come una buia galleria che sembrava non dover mai finire, e dentro di essa io ero schiacciata come se tutto il peso della montagna gravasse sulle mie spalle. Ogni mattino mi svegliavo dicendomi: "Sarà oggi"; ma non accadeva nulla; e la notte mi coricavo reprimendo l’angoscia e pensando: "Allora sarà per domani. Sì, certamente sarà così." Ma l’indomani era uguale a ieri. Alla fine anche la mamma cominciò a preoccuparsi.

Un giorno, tornando dal bosco, vidi giù all’ancora la barca che dondolava sulle onde. Corsi in casa come una furia.Papà era in ingresso e stava parlando con la mamma, solo. Il suo viso appariva stanco e preoccupato. Quando mi vide, si volse e mi guardò con infinita tenerezza, senza dir nulla. Rimasi lì come fulminata. Poi, senza dir parola, mi precipitai fra le sue braccia.

Son passati sette mesi, e fra non molto tornerà la primavera. Mentre sto scrivendo, l’orizzonte del Sud si sta rannuvolando e le onde assalgono con violenza la scogliera, cingendola di spuma bianca dopo ogni attacco. L’intelaiatura della finestra geme debolmente nella stretta del vento, e gli alberi lontani, sulla punta in direzione di Bluff, si piegano come fedeli che s’inginocchino davanti all’altare. Ma fra un mese o poco più tornerà la primavera.

Col passare del tempo, anche le ultime speranze sono cadute. Abbiamo avvertito la polizia e la guardia costiera, ma senza alcun risultato. Michael è sparito come la Tribù Perduta di cui andava alla ricerca. Da Auckland non si è fatto vivo nessuno. Siamo riusciti a rintracciare la sorella e a scriverle, dopo che la polizia aveva già provveduto ad avvertirla. Dalla sua lettera di risposta, breve e profonda, è balzato fuori il ritratto di un’anima giovane e bellissima, così come lui me l’aveva descritta quella sera: dolce e forte al tempo stesso, e piena di fede. Ci chiedeva, fra l’altro, se suo fratello avesse lasciato involontariamente qualche debito. Non ne aveva lasciati, perché, come sono venuta a sapere poi, prima di partire aveva insistito per pagare il soggiorno nella nostra casa. Presentimento o semplice prudenza? Non lo sapremo mai. Di lui mi sono rimasti i libri che aveva portato qui con sé e due quaderni di appunti. Gli uni e gli altri trattano di filosofia e non li capisco, ma mi sono ugualmente cari. Dal momento che nessuno li ha richiesti, per adesso li tengo. Essi mi ricordano che non è stato tutto soltanto un sogno, come talvolta mi scopro a fantasticare. Davvero, senza quei libri e senza la lettera di Linda finirei per convincermi di avere sognato.

Ma se non è stato un sogno, un’illusione, che cosa è stato? Che senso ha avuto? Un baleno di felicità nella vita di una ragazzina solitaria e scontrosa, i cui unici amici sono un cane spinone, i faggi della foresta, e il vento che soffia dagli azzurri infiniti orizzonti del Sud.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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