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Spunti per la decrescita sostenibile: 2. Rivalutare la sobrietà

Estratto dal Capitolo IV del libro "Metafisica del Terzo Mondo" di F. Lamendola, Lalli editore, Poggibonsi (Siena), 1985, pp. 38-45.

(N.B.: il testo è attualmente esaurito. Chi fosse eventualmente interessato può mettersi in contatto con l’Associazione Eco-Filosofica).

Le società dei paesi industrializzati sono impropriamente definite società del benessere.

Che questo non sia vero, e che non sia vero nemmeno nel significato puramente materiale dell’espressione, lo dimostra a sufficienza il vasto movimento di rivolta morale che, per reazione ai mali della vita consumistica, si è andato delineando sin dalla fine degli anni ’60, e che continua a crescere di forza, giorno dopo giorno. I movimenti pacifisti ed ecologisti, gli obiettori di coscienza, le organizzazioni di volontariato internazionale, gli stessi nuovi orientamenti sociali della chiesa (le comunità di base, l’opzione preferenziale per il servizio dei poveri, ecc.) sono altrettanti sicuri segni che la coscienza contemporanea, e quella giovanile in particolare, stanno mettendo a punto le strategie per uscire da una cultura del disagio ormai avverita come intollerabile e priva di prospettive.

Gli argomenti teorici con i quali il sistema capitalista tenta di sostenere un’estrema giustificazione della sua ragion d’essere sono estremamente fiacchi e screditati. Il più diffuso è ancora quello secondo il quale la libera iniziativa costituirebbe un aspetto fondamentale della personalità umana, e che privarla di esso significherebbe demotivarla.

Tuttavia, già alla fine del XIX secolo, in piena epoca positivistica, il poeta e pittore inglese William Morris aveva osservato che lo spirito di competizione non fornisce uno stimolo positivo, più di quanto potrebbe esserlo un toro infuriato che ci corresse dietro nel giardino di casa. (1) Gli ideologi del liberismo economico ribattono di solito, a questo punto, che non è lecito sopprimere nell’uomo il "naturale" desiderio di migliorare la propria posizione sociale. Implicitamente, dunque, essi riconoscono che noi viviamo in una società ingiusta, ove il singolo cittadino deve tentare di "arrangiarsi" per non finire schiacciato e travolto da meccanismi economici molto più grandi di lui.

In una società giusta, i bisogni del singolo non sono più trascurati di quanto lo siano i singoli organi da parte di un determinato organismo vivente. Oppure "migliorare" la propria posizione vuol dire emergere, farsi largo, prevaricare? Perché io dovrei desiderare di possedere un’automobile da venti milioni, se non per umiliare coloro che devono accontentarsi di una da otto? Ma in tal caso, ciò che m’ importa non è usufruire di un mezzo di trasporto comodo ed efficiente; ciò che m’ importa è di sottolineare la mia potenza in un mondo di sperequazioni, di ineguale distribuzione dei beni. Ciò che desidero veramente è la competizione per la competizione, la giungla per amore della giungla. E, quand’anche fosse vero che codesto è un sentimento connaturato alla natura umana, resta da dimostrare perché io, riconoscendolo come un sentimento brutale di natura inferiore, non dovrei sforzarmi di reprimerlo e di sradicarlo da me stesso! Anche l’impulso sessuale, ad esempio, è un istinto naturale dell’uomo: ma per chi volesse soddisfarlo con la forza ogni qual volta ne sorgesse in lui il desiderio, tutti riconoscono che l’ospedale psichiatrico sarebbe la medicina migliore.

Invece, a che cosa assistiamo nella nostra pretesa società del benessere? Ogni giorno siamo bombardati da messaggi radiofonici, televisivi, murali (quasi sempre d’ importazione o, comunque, d’ ispirazione americana) che esaltano la competizione violenta. La nostra gioventù, che passa ore ed ore davanti al piccolo schermo, si nutre di telefilm statunitensi ove la legge della giungla è eretta alla dignità del solo sistema di vita concepibile, e alla quale gli stessi "buoni" si devono adattare. Perfino per i nostri bambini vi è un sistematico inquinamento dei sentimenti da parte di innumerevoli cartoni animati (giapponesi, ma di concezione esasperatamente americaneggiante) infarciti di violenza, a volte sfacciata e volgare, altre volte più subdola e insinuante. Il lupo travestito da agnello penetra nelle nostre case e tenta di pervertire la naturale esuberanza dei giovanissimi, insozzandola con una sanguinosa morale delle zanne e degli artigli, ove chi vince non è colui che si trova nel giusto, ma chi è in grado di esercitare il maggior grado di violenza.

Qualcuno, forse, vorrà obiettare che gli impulsi di distruzione devono pur essere in qualche modo scaricati, e che è meglio sublimare la propria aggressività nel possesso di una rombante motocicletta, piuttosto che riversarla direttamente sul nostro prossimo. Ahimè, quando si esalta una cultura della violenza, della quale i cartoni animati giapponesi oppure il mito della motocicletta non sono che singole manifestazioni, non si può mai sapere dove si andrà a finire. Chi semina vento raccogliue tempesta, dice il proverbio. E quandoi si vive in una società che nei fatti, se non anche a parole, esalta i sentimenti aggressivi e antisociali, chi se non il più ipocrita fariseo potrà scandalizzarsi perchè alcuni giovani, usciti la sera a Roma in cerca di "emozioni forti", non han trovato nulla di meglio da fare che appiccare il fuoco a un povero immigrato somalo, che dormiva solo e all’addiaccio? (2) Al contrario; abbiamo il coraggio di dirlo apertamente: sarebbe strano che tanto messaggi di violenza, alla fine, non provocassero simili comportamenti!

Le origini del delirio consumistico, esaminate da un punto di vista psicologico (e tralasciando per ora quello economico, che altri hanno già ampiamente studiato), sono relativamente semplici. L’accumulo di beni materiali in quantità sempre maggiore, di gran lunga superiore ad ogni verosimile bisogno, trova la sua radice ultima in un nevrotico terrore dell’indigenza. Questo terrore è ingigantito ad arte dalla politica sociale dei "mass-media", la punta di diamante dell’odierno capitalismo, ma trova una base reale nell’atavica paura del bisogno, della solitudine, dell’impotenza di fronte a forze gigantesche, ostili e incontrollabili (la miseria, la malattia, e, al limite, la morte). Questa era la causa che induceva il ricco stolto della parabola evangelica ad ammassare frumento nei granai e ad esclamare: "O anima, tu hai una gran riserva di beni, per molti anni; riposati, magia, bevi e divertiti!". (3) E per questa maniera insensata di ricercare la felicità, quanto ha sofferto l’uomo, e quanto ha fatto soffrire! Fin dai suoi albori la storia umana non è che un ripetersi di sopraffazioni, iniquità e violenze camuffate, di volta in volta, da ragion di Stato o da volontà di Dio.

Attualmente, la società dei consumi ci ha condotto in questo vicolo cieco. Ci vien detto che dobbiamo consumare, affinchè la produzione non cada; e che dobbiamo produrre, affinché il consumo sia soddisfatto. (4) Insensatezza del serpente che si morde la coda! E i nostri uomini politici, i nostri dotti economisti, senza arrossire, ci spiegano che la ripresa, questa famosa ripresa economica è lì, ma proprio lì a portata di mano: ancora uno sforzo nella produzione, e l’avremo afferrata! Pare quasi che questa tanto agognata ripresa abbia assunto una misteriosa valenza metafisica, anzi quasi soteriologica; presto, presto, non possiamo lasciarcela scappare, non possiamo perdere una simile occasione. Il dollaro è in rialzo; l’economia degli Stati Uniti si rafforza; chissà che non riusciamo anche noi ad agganciarci al treno vincente, a prendere al volo l’autobus buono!

Ma perché nessun uomo politico, nessun dotto economista ha il coraggio di dire che questa fantomatica ripresa, quand’anche vi fosse, non sarebbe che l’anticamera di una nuova e più grave crisi? Che il sistema capitalistico è cosiffatto che non può continuare ad esistere senza alimentarsi di una insaziabile spirale di produzione e di consumo, di consumo e di produzione? E che la sua ancella favorita, la tecnologia (ammesso che sia davvero un’ ancella, e non la padrona) non può non sostituire sempre più la macchina all’uomo, creando disoccupazione e relegando l’uomo stesso in una posizione marginale rispetto al processo produttivo? Perché continuano a ingannarci dicendo che la ripresa è lì, a portata di mano, e che, una volta afferratala, potremo dar battaglia anche al problema della disoccupazione?

L’accumulazione del capitale procede secondo leggi proprie e, una volta avviata, non devia dal proprio cammino né a destra né a sinustra, perfino indipendentemente dalla volontà individuale di coloro che se ne avvantaggiano. Il capitalismo è un mostro che si alimenta di consumo e, di conseguenza, sua costante preoccupazione è quella di creare la psicosi del bisogno. Un tempo doveva persuadere l’uomo della strada che andare a.piedi era una umiliazione e un disagio intollerabile, e che quindi doveva per forza acquistare l’automobile. Ora lo deve persuadere che ne deve avere una per ciascun membro della famiglia. Ieri lo allettava col miraggio della "Cinquecento", oggi con quello della "Mercedes". E domani?

Una cosa è certa: il meccanismo non si può fermare, il consumo non può cadere, pena il collasso dell’ intero sistema. Non arriverà mai il momento in cui i "mass-media" ci lasceranno in pace e ci diranno finalmente: "Caro amico, adesso, dopo tantoi affanni, hai veramente tutto quel che ti serve. Mangia, bevi e sta’ tranquillo." Se avremo 1.000, saremo persuasi a non darci pace finchè avremo ottenuto 10.000. E quando avremo ottenuto 10.000, nemmeno allora sarà abbastanza: dovremo raggiungere 100.000. E poi…

Per quanto doloroso possa sembrare a noi, che ormai siamo assuefatti a un tal modo di pensare e di vivere, occorre spezzare il cerchio, infrangere la cieca spirale del consumo e della produzione. Poichè il consumismo è come l’Idra di Lerna – e, tagliata una testa con la soddisfazione di un bisogno, dal troncone subito ne spuntano altre – bisogna allora troncare il male alla radice e sopprimere la psicosi del bisogno, accontentandosi del necessario per vivere. Il superfluo genera il superfluo, la soddisfazione di un bisogno artificiale ne genera altri dieci.

Occorre riscoprire il valore della semplicità e della sobrietà, e farne uno stile di vita. La povertà stessa non è poi quell’incubo che noi occidentali, ormai da secoli, siamo portati a immaginare. La povertà non è la miseria. Come ha fatto osservare Albert Tèvoédjrè, la miseria significa abiezione, mentre la povertà non è che l’adozione di una norma di vita che abolisce il superfluo mentre assicura il necessario. (5) Può darsi che una simile proposta appaia utopistica nel contesto di una società che si è talmente abituata al superfluo, da considerarlo necessario e da essere disposta a pagare qualunque prezzo per conservarlo. Ma ciò cui non vogliamo rinunciare oggi con le buone, dovremo cederlo domani con le cattive. Inoltre, quand’anche l’imminente sovrappopolamento della Terra non ci ponesse di fronte a una simile necessità, è semplicemente cosa saggia fare un’autocritica al nostro stile di vita, e domandarci come mai, pur avendo sacrificato la nostra coscienza e gli altrui diritti alla conquista della felicità, abbiamo clamorosamente fallito il nostro scopo.

Vi è dunque un altro modo di essere felici? Vi è un’altra strada che conduce alla felicità, senza passare per il cammino da forzati del consumo illimitato e della produzione fine a sé stessa?

Certo, occorre del coraggio per ammettere di aver sbagliato tutto, e per tornare indietro dopo aver speso tante energie, e sia pure in una direzione sbagliata. La politica sociale che abbiamo perseguito, all’insegna dell’avere, è stata incontinente e immorale. Essa ci ha assuefatto alle debolezze, ai ripieghi, agli opportunismi; e non è facile pretendere che da un tale clima morale sorga quel tanto di coraggio necessario per confessare un totale fallimento. Tuttavia, non esistono alternative. Proseguire come abbiamo fatto sinora sarebbe un suicidio, e lo sappiamo; per questo fino a ieri era forse soltanto debolezza, oggi sarebbe colpa.

I valori morali, senza i quali non è possibile alcun futuro, si rivelano nella semplicità e nella sobrietà. Chi abbia avuto l’onore di trovarsi in mezzo ai giovani volontari, accorsi da ogni parte d’Italia per soccorrere i paesi terremotati del Friuli nel 1976, lo sa. E lo sa anche chi abbia veduto i missionari al lavoro nell’immenso Brasile sofferente, abituati a un regime di vita che da noi sarebbe considerato intollerabilmente povero. Ma è proprio la perdita o lo smarrimento dei valori morali che ha condotto la nostra società sull’orlo dell’abisso.

Da questo punto di vista, i paesi industrializzati hanno molto da imparare dal terzo Mondo (e, in minor misura, anche dal Secondo). Nella loro immensa presunzione, essi pensano di non poter avere altri rapporti con il Terzo Mondo che non siano quelli dell’assistenzialismo, dell’elemosima, della "civilizzazione". La maggior parte dei membri delle società industrializzate non è neanche sfiorata dall’idea che dal Terzo Mondo si possa imparare veramente qualcosa, che al Terzo Mondo non si debba solamente insegnare. È la solita, vecchia presunzione del professore che, a scuola, ha finito per confondere le idee con i libri, e che nemmeno immagina di quanto la vita reale, giù in strada, lo abbia di fatto lasciato indietro, insieme alle sue chimere e alla sua polverosa erudizione (non diciamo cultura, perché la cultura è una cosa viva).

L’uomo bianco, in particolare, non è mai andato in Africa senza paternalismo. Non si è mai accostato alle culture etnologiche (le cosiddette culture "primitive") senza una malcelata sufficienza. Non ha mai preso in esame la loro filosofia senza il pregiudizio di una sua inferiorità "naturale". L’idea di dover ora andare a scuola di saggezza da questi popoli disprezzati potrà apparirgli umiliante, come lo sarebbe per il vecchio professore l’idea di dover imparare qualcosa dalla folla illetterata di lavoratori che si agita tumultuosamente nella via, fuori dall’ombra e dal silenzio rassicurante dei libri. E certamente sarà un’esperienza umiliante, specialmente per i nostri intellettuali. Essi hanno smarrito il sentimento della semplicià e della concretezza: i loro libri appaiono come altrettante fortezze inespugnabili; le lezioni che si odono nelle nostre università intimidiscono e disorientano con lo sfavillìo rutilante di parole astruse, di discorsi criptici.

E adesso, dover ammettere che la verità è qualche cosa di infinitamente semplice; dover ammettere che la complessità dei ragionamenti e del linguaggio è, quasi sempre, il travestimento di una reale povertà della mente e del cuore: dover confessare tutto questo, a molti potrà apparire, ed effettivamente sarà, estremamente penoso.

Eppure è necessario.

L’uomo del Terzo Mondo, lo ripetiamo, ha molte cose da insegnarci anche in questo campo. Legato alla terra, egli ha saputo preservare (insieme al senso del sacro, cioè al senso del limite e a quello del mistero) quei valori di sobrietà, di apertura verso l’esperienza, di concretezza che da noi la civiltà contadina, ormai agonizzante, non è quasi più in grado di difendere. (6)

E a nostra volta, anche noi, figli delle civiltà industrializzate, abbiamo qualcosa da offrire ai popoli del Sud della Terra, per costruire insieme un progetto di salvezza. Lo vedremo nelle prossime pagine. Ma per quel che riguarda lo spirito di sobrietà, dobbiamo umilmente chinare il capo ed ascoltare. Noi che abbiamo smarrito il senso delle cose semplici, dobbiamo lasciare che siano proprio quei popoli a reinsegnarcelo. Non foss’altro che per questo, noi oggi abbiamo un immenso bisogno di conoscre meglio il Terzo Mondo, e di comprenderlo.

NOTE.

1) WILLIAM MORRIS, Come potremmo vivere, Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 151-52.

2) È accaduto, or non è molto, nella civilissima Italia, a Roma. La notizia è stata ampiamente riportata dai media.

3) LUCA, XXII, 19.

4) Cfr. HANS KÜNG, Essere cristiani, Milano, Mondadori, 1980, p. 680.

5) ALBERT TÉVOÉDJRÈ, La povertà, ricchezza dei popoli, Bologna, Editrice Missionaria Italiana, 1979.

6) "La fine della civiltà contadina è uno di quegli eventi di cui la stampa non parla, perchè avviene lentissimamente, ci mette decenni a compiersi, ma giustamente un poeta francese, Charles Péguy, l’ha definita il più grande avvenimento della storia dopo la nascita del Cristo." Così FERDINANDO CAMON, nella Introduzione al suo libro Un altare per la madre, Milano, Garzanti, 1978.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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