Estasi e morte nel linguaggio dell’arte
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Voci di libertà dei popoli oppressi

(Sono qui raccolte alcune delle poesie contenute nel volume "Voci di libertà dei popoli oppressi" pubblicato nel 1987 dall’editore Galzerano).

A) Voci dall’Africa.

B) Voci dal Sud America.

C) Voci dal nord America.

D)Voci dall’Asia

CANTO DI UNA DONNA SARA NGAMBAI

In Africa non esistono confini

nemmeno tra la vita e la morte.

Leopold Sedar Senghor

I

Sono nata in un villaggio della savana

all’ombra del fiume mormorante,

nel grande mare verde che corre all’infinito

e i cui alberi inseguono il cielo.

Nei miei occhi è una scaglia di quel cielo

nei miei muscoli l’eterna fatica di zappare

e il mio corpo bruno ha il respiro della terra

della zolla arida strappata alla polvere e alla sabbia

con la punta aguzza d’un bastone

con la rabbia dei miei denti luminosi

col sudore la dolcezza la speranza

con il ritmo spezzato dall’affanno.

Il sole

è una goccia stillante che abbaglia

sulle mie braccia piegate verso terra.

II

Se prendi in mano una di queste zolle

sentirai il peso della mia schiena curva

e di mia madre, e di tutta la mia gente

sentirai il fango del mio sudore

e la polvere delle mie labbra arse

ma la sete no,

perché tu non sai che cosa sia.

La sentirai calda nel tuo palmo bianco

come un bimbo che piange appena nato

la sentirai pesante come una pietra

come la pena di mille generazioni.

Ma davvero

nessuno

ti aveva detto mai

che una zolla di terra

può pesare più del mondo intero?

III

La notte

brillano altissime le stelle

e all’orizzonte il grido della foresta

è una macchia folta come di preghiera

venata di nebbie azzurrine.

Sì: come di preghiera!

Se tendi l’orecchio li potrai sentire

il passo timido e leggero delle antilopi

e la terra che trema sotto gli elefanti.

La notte

gli animali vanno a bere.

Se tendi l’orecchio li potrai sentire

nel raggio bianco della luna

potrai sentire la foresta che prega:

o forse no

perché tu non hai mai parlato alle stelle

e la sete non sai cosa sia.

IV

Sei venuto qui come un padrone

come se queste zolle

fossero tue da sempre.

Mi guardi negli occhi e non mi vedi

m’interroghi e non ascolti

mi tocchi e non mi senti.

Le tue mani pulite che hanno fretta

le tue mani che sanno tante cose

scherzano coi miei capelli di terra rossiccia

di spighe di miglio disseccate

di pozzi da anni inaridite

coi miei capelli di carogne imputridite

che profumano di ventoo caldo

di mosche di polvere sudata

di danze gioiose come nuvole.

Li tieni fra le tue dita bianche

ma

non capisci

non ti senti pungere in gola

il fremito di troppa vita scordata.

V

Io sono una zolla

una scaglia di questa dura terra.

I miei pensieri sono della sostanza

di cui è fatta l’erba della savana

La mia pelle guizza della stessa luce

con cui il sole ti ferisce gli occhi

il mio cuore pulsa con il ritmo

che solleva i fianchi al bufalo inseguito

alla gazzella dalle narici frementi

che ode il ruggito del leone.

Il mio polso batte sui ciottoli del fiume

e respiro nel fiore che s’apre alla pioggia.

Ogni cosa in questa terra mi parla

ed io parlo con lei,

perché la amo,

e sono in lei

e sono lei.

COMPIANTO PER MARCEL

(Un incidente alla Parigi-Dakar).

Marcel era vivo.

Non aveva che otto anni

e un’immensa gioia di vivere

che brillava nei suoi grandi occhi.

Era curioso e ciarliero

come un uccellino che saltelli pigolando

di ramo in ramo.

Per questo non seppe resistere

quando udimmo il rombo dei motori

sempre più vicino, sempre più forte

simile a un leone ferito ruggente.

Corse via in un baleno…

In un baleno

passarono i bolidi tra le capanne,

in una nube di polvere rossa

trafissero urlando tutto il villaggio

come una lancia vibrata con forza

lo trafissero urlando e ruggendo.

E di colpo erano passati, svaniti.

Anche Marcel era svanito con essi.

Di lui non ci restava che un corpicino

accartocciato sul bordo della pista

coi capelli ricciuti bianchi di polvere:

come un vecchietto addormentato…

CANTO DI UN MINATORE AYMARÀ

I

Di roccia e pietra è fatto il mio volto

scalpellato dal vento delle Ande

lo incidono rughe senza numero

come i letti dei fiumi di montagna

come alberi dai rami tormentati

rughe intrecciate, che cantano,

come i blocchi del muro di Cuzco.

L’aria gelida e rarefatta delle cime

scorre nel sangue delle mie vene

simile ai torrenti rabbiosi di primavera

quando la neve si scioglie sulla sierra.

Nei miei occhi stretti e profondi

come due fessure piene d’ombra

pazienti per soprusi secolari

brilla di tratto in tratto

la luce fierissima del condor

il signore di un impero immacolato.

III

E così è la mia anima d’indiano

dolce e terribile come queste altezze

malinconica come il suono della quena

ammalata d’inestinguibile tristezza.

In essa vi è qualche cosa del rombo sordo

e della roccia viva che spumeggia

quando precipita dall’alto l’Urubamba.

Vi è qualche cosa di quel grido soffocato!

Amico,

hai mai veduto il furente Rio Urubamba

là dove cade ruggendo come il puma

cade fra due nere pareti da vertigine

come il puma che balza muscoloso

atterrando il giovane guanaco?

Così è l’anima mia.

La crederesti addormentata come il ghiaccio

ma sotto il ghiaccio arde più del fuoco.

III

Questa terra bella e triste

fu nostra un tempo:

ma un tempo ormai così lontano

che nemmeno i più vecchi lo ricordano.

Dicono che era sempre stata nostra

finchè venne da Occidente l’uomo bianco

sputò con scherno sopra i nostri dèi

ci prese la terra la lingua la fierezza.

E adesso siamo qui

immobili come tronchi sotto la pioggia

come nude appendici di questa dura roccia

e l’acqua ci scorre sulle spalle

piangendo silenziosa nella nebbia.

Certe volte

quando risalgo a vedere il cielo

dal ventre buio della miniera

masticando la coca per la fame

cerco d’immaginare come fu quel tempo

quando nostra era la terra:

ma

nuvole scure di temporale

chiudono la valle all’orizzonte

chiudono la vista d’ogni parte.

IV

Il diavolo Hahuari m’ha condannato a morte.

Me lo sento ruggire nei polmoni

a ogni colpo di piccone

che avvento nella roccia.

Silicosi la chiama l’uomo bianco

ma per noi è il diavolo Hahuari

che ci prende la vita a goccia a goccia

come prese mio padre e i miei fratelli.

A sera nella baracca

mi fa tossire e tossire e tossire

i miei piccoli mi guardano pallidi

e nessuno osa dire niente.

Anche quando uccisero Gabriel

nessuno osò dire niente.

Lo ammazzarono i soldati,

come un cane,

e aspettammo che fossero andati

per portare il corpo alla sua donna.

La sua colpa fu l’avere scioperato.

Ma

alla sua vedova

l’amministratore della miniera

ha messo in pugno cinque dollari.

IN MEMORIA DI TUPAC AMARU

Quando lo presero,

lo portarono in piazza

perché quando passa il terrore

ciò che resta è una collera ferina.

Quando lo presero

lo portarono in piazza

e sotto i suoi occhi

gli uccisero la sposa, i figli, gli amici.

Quando passa il terrore

ciò che resta è una collera ferina:

per questo gli strapparono la lingua

e la gettarono in pasto ai cani.

Era passato il terrore,

il terrore che di lui avevano provato:

per questo quando lo presero

lo portarono in piazza.

Si scatenò la loro collera ferina:

legarono le sue membra

a quattro cavalli, e li frustarono

facendoli partire nelle quattro direzioni.

Avevano avuto una paura tremenda

e adesso la paura era passata

era rimasta solo la collera ferina

la collera che riempiva tutta la piazza.

Al colmo dell’orrore

i cavalli non poterono squartarlo

perché era troppo robusto:

allora dovettero decapitarlo.

Piangevano gl’indiani lacrime silenziose

esultavano gridando gli hacienderos

quando cadde dalle forti spalle

la testa di Tupac Amaru.

La portarono in giro nei villaggi

mostrarono a tutti quei poveri resti:

perché quando passa il terrore

ciò che resta è una collera ferina.

ELEGIA DEL VENTO DELLA PAMPA

Su queste scabre solitudini del Sud

su queste vuote aride pianure

mi avvento fischiando e tagliando

padrone di spazi immensi.

Non un’eco risponde al mio suono di corno

quando muggisco in vetta alle colline

aggirandomi come un toro infuriato.

Solo un silenzio primordiale mi risponde

dalle vette nevose alla riva del mare.

E ho paura.

Con un brivido scuro trasalisco

artiglio con rabbia gli stenti alberelli,

così,

per non inorridire del silenzio.

Non è sempre stata così, la mia pampa.

Un tempo era viva.

Risuonava di voci e di rumori

brulicava di cavalieri con le bolas

lanciati ventre a terra

sulle peste d’un guanaco o d’un nandù

e il fumo di cento e cento toldos

saliva rigando l’orizzonte.

Dove siete adesso, uomini forti,

liberi corridori della pampa sterminata?

Dove siete voi Puelche,

dove siete orgogliosi Araucani?

E voi Tehuelche, dove siete andati?

Dove galoppano adesso irresistibili

i grandi branchi di cavalli selvaggi,

agitando al mio soffio le criniere?

Dove lottano a morsi, nitrendo,

gli stalloni,

quando l’istinto del sesso

si accende infuocato nelle loro vene?

Non mi rispondete?…

Io lo so perché non rispondete.

Siete tutti morti, e la pampa

è oggi il vostro muto cimitero.

Al prezzo di pochi pesos

pagava l’uomo bianco lo scalpo di un indiano:

le donne di oltre vent’anni, le uccideva.

Ora la pampa è sua.

Vi pascolano pigri i suoi armenti

la trafiggono le torri del petrolio

come lugubri scheletri di ferro.

Solo nella mia voce ormai

parlano le genti belle del passato

il vento della pampa narra la loro storia

empie del loro spirito le vaste solitudini.

LETTERA DI UNA RAGAZZA FILIPPINA

AL SUO EX FIDANZATO AMERICANO

I

Avrei voluto dirti qualcosa, dear,

quando ieri ti vidi dal finestrino del tram

e tu ti sbracciavi, e mi correvi accanto.

Avrei voluto dirti tante, troppe cose:

per questo dalla mia bocca non uscì alcun suono.

Ma v’è realmente qualcosa da dire?

Ti rivedo ancora correre e correre,

sempre più stanco; e poi arrenderti,

restare a guardare il tram che si allontana.

È un ricordo che mi fa male:

pure fu un bene che sia andata così.

Non v’era più nulla da dire.

II

Mi hai veduta in città per un caso:

venivo a trovare il bambino, da zia Carmen.

Sta bene: cresce in fretta ormai

e negli occhi ha qualcosa di tuo.

Non chiedermi l’indirizzo

perché non te lo dirò.

Sta bene.

Hai perso ogni diritto su di lui

allorchè ci lasciasti come un vile.

Eppure non ti odio, dear:

tu sei stato una parte di me.

III

Anch’io me la cavo, sai?

Lavoro in una piantagione di banane

mi levo prima dell’alba

rincaso quando è notte inoltrata.

Ci pagano a cottimo: un tanto per scatola.

Otto ore, otto pesos.

Non puoi smettere neanche per orinare.

Ti ricordi di Mayta, my dear?

L’altro ieri ha avuto un aborto:

piangeva, gridavae continuava il lavoro.

– Andrai dal dottore alla fine del turno -.

le aveva detto il sorvegliante.

Alla fine del turno ha abortito.

IV

Non so perché ti dico queste cose.

Sento che non puoi capirle.

Tu, marinaio della Settima flotta,

che dicevi: – A Olongapo sono tutte puttane.-

Ma non sai che da noi una puttana

prende venti volte più di un’insegnante.

E se fino ad oggi è andata così

lo dobbiamo anche a voi, amici yankees.

Questo, almeno, ecco

questo dovresti saperlo.

V

Dovrei odiarti per ciò che sei

e per ciò che hai fatto a noi due,

al bimbo e a me.

Dovrei odiarti finchè tu e i tuoi compagni

Non ve ne sarete tornati a casa vostra.

Siamo così stanchi di voi

delle vostre belle parole

della vostra scoperta prepotenza

dei dittatori con i quali ci opprimete.

Siamo così stanchi

Che tiriamo la vita con i denti

Solo per vedere l’alba di quel giorno

in cui dovrete tornare a casa vostra:

quel giorno che dovrà arrivare!

Eppure non ti odio, dear:

tu sei stato una parte di me.

IL TIFONE È PASSATO

Il tifone è passato.

È sparito lontano, sul mare,

repentino com’era venuto.

Ora c’è un grande silenzio.

Cadaveri enfiati, d’uomini e d’animali,

le onde tranquille spingono a riva

lasciandoli poi come alghe bagnate.

Il tifone è passato.

Un bimbo giace sulla sabbia

la pancia gonfia da annegato

un cerbiatto gli è steso accanto

gli occhi grandi che guardano fissi.

Un bimbo e un cerbiatto

deposti vicini dalla marea:

un bimbo e un cerbiatto.

Oh, ma perché

sempre i più deboli, sempre

ma perché sui più indifesi

si abbatte il tallone della sventura?

LAMENTO DI UN VILLAGGIO AFGHANO

DISTRUTTO DALLE BOMBE SOVIETICHE

Il cielo era sgombro.

Scintillavano nel blu le nevi delle cime

e un vento gagliardo aveva pulito l’orizzonte.

Non una nuvola, neppure una…

Non un segno diverso, né un rumore…

Il cielo altissimo

sfolgorava di luce sopra noi.

È strano

essere cancellati via così,

senza nemmeno il tempo di capire.

Precipitare nel buio, nel silenziio…

Di colpo arrivò il rombo dei motori.

E già le bombe cadevano, esplodendo…

Rosseggianti in un mare di fuoco

i bambini correvano, chiamavano aiuto…

Ma durò pochi istanti

quasi neppure il tempo di gridare.

Ogni cosa aveva perso i suoi contorni:

i muri, gli alberi, le bestie

il viso degli esseri umani

le loro mani i loro sogni…

tre puntini si allontanavano nel cielo

sempre più piccoli come rondini

un neonato piangeva e piangeva

cercava il capezzolo di sua madre…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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