
Estasi e morte nel linguaggio dell’arte
15 Marzo 2006
Ricordo di Noè Bordignon
17 Marzo 2006(Sono qui raccolte alcune delle poesie contenute nel volume "Voci di libertà dei popoli oppressi" pubblicato nel 1987 dall’editore Galzerano).
A) Voci dall’Africa.
B) Voci dal Sud America.
C) Voci dal nord America.
D)Voci dall’Asia
CANTO DI UNA DONNA SARA NGAMBAI
In Africa non esistono confini
nemmeno tra la vita e la morte.
Leopold Sedar Senghor
I
Sono nata in un villaggio della savana
all’ombra del fiume mormorante,
nel grande mare verde che corre all’infinito
e i cui alberi inseguono il cielo.
Nei miei occhi è una scaglia di quel cielo
nei miei muscoli l’eterna fatica di zappare
e il mio corpo bruno ha il respiro della terra
della zolla arida strappata alla polvere e alla sabbia
con la punta aguzza d’un bastone
con la rabbia dei miei denti luminosi
col sudore la dolcezza la speranza
con il ritmo spezzato dall’affanno.
Il sole
è una goccia stillante che abbaglia
sulle mie braccia piegate verso terra.
II
Se prendi in mano una di queste zolle
sentirai il peso della mia schiena curva
e di mia madre, e di tutta la mia gente
sentirai il fango del mio sudore
e la polvere delle mie labbra arse
ma la sete no,
perché tu non sai che cosa sia.
La sentirai calda nel tuo palmo bianco
come un bimbo che piange appena nato
la sentirai pesante come una pietra
come la pena di mille generazioni.
Ma davvero
nessuno
ti aveva detto mai
che una zolla di terra
può pesare più del mondo intero?
III
La notte
brillano altissime le stelle
e all’orizzonte il grido della foresta
è una macchia folta come di preghiera
venata di nebbie azzurrine.
Sì: come di preghiera!
Se tendi l’orecchio li potrai sentire
il passo timido e leggero delle antilopi
e la terra che trema sotto gli elefanti.
La notte
gli animali vanno a bere.
Se tendi l’orecchio li potrai sentire
nel raggio bianco della luna
potrai sentire la foresta che prega:
o forse no
perché tu non hai mai parlato alle stelle
e la sete non sai cosa sia.
IV
Sei venuto qui come un padrone
come se queste zolle
fossero tue da sempre.
Mi guardi negli occhi e non mi vedi
m’interroghi e non ascolti
mi tocchi e non mi senti.
Le tue mani pulite che hanno fretta
le tue mani che sanno tante cose
scherzano coi miei capelli di terra rossiccia
di spighe di miglio disseccate
di pozzi da anni inaridite
coi miei capelli di carogne imputridite
che profumano di ventoo caldo
di mosche di polvere sudata
di danze gioiose come nuvole.
Li tieni fra le tue dita bianche
ma
non capisci
non ti senti pungere in gola
il fremito di troppa vita scordata.
V
Io sono una zolla
una scaglia di questa dura terra.
I miei pensieri sono della sostanza
di cui è fatta l’erba della savana
La mia pelle guizza della stessa luce
con cui il sole ti ferisce gli occhi
il mio cuore pulsa con il ritmo
che solleva i fianchi al bufalo inseguito
alla gazzella dalle narici frementi
che ode il ruggito del leone.
Il mio polso batte sui ciottoli del fiume
e respiro nel fiore che s’apre alla pioggia.
Ogni cosa in questa terra mi parla
ed io parlo con lei,
perché la amo,
e sono in lei
e sono lei.
COMPIANTO PER MARCEL
(Un incidente alla Parigi-Dakar).
Marcel era vivo.
Non aveva che otto anni
e un’immensa gioia di vivere
che brillava nei suoi grandi occhi.
Era curioso e ciarliero
come un uccellino che saltelli pigolando
di ramo in ramo.
Per questo non seppe resistere
quando udimmo il rombo dei motori
sempre più vicino, sempre più forte
simile a un leone ferito ruggente.
Corse via in un baleno…
In un baleno
passarono i bolidi tra le capanne,
in una nube di polvere rossa
trafissero urlando tutto il villaggio
come una lancia vibrata con forza
lo trafissero urlando e ruggendo.
E di colpo erano passati, svaniti.
Anche Marcel era svanito con essi.
Di lui non ci restava che un corpicino
accartocciato sul bordo della pista
coi capelli ricciuti bianchi di polvere:
come un vecchietto addormentato…
CANTO DI UN MINATORE AYMARÀ
I
Di roccia e pietra è fatto il mio volto
scalpellato dal vento delle Ande
lo incidono rughe senza numero
come i letti dei fiumi di montagna
come alberi dai rami tormentati
rughe intrecciate, che cantano,
come i blocchi del muro di Cuzco.
L’aria gelida e rarefatta delle cime
scorre nel sangue delle mie vene
simile ai torrenti rabbiosi di primavera
quando la neve si scioglie sulla sierra.
Nei miei occhi stretti e profondi
come due fessure piene d’ombra
pazienti per soprusi secolari
brilla di tratto in tratto
la luce fierissima del condor
il signore di un impero immacolato.
III
E così è la mia anima d’indiano
dolce e terribile come queste altezze
malinconica come il suono della quena
ammalata d’inestinguibile tristezza.
In essa vi è qualche cosa del rombo sordo
e della roccia viva che spumeggia
quando precipita dall’alto l’Urubamba.
Vi è qualche cosa di quel grido soffocato!
Amico,
hai mai veduto il furente Rio Urubamba
là dove cade ruggendo come il puma
cade fra due nere pareti da vertigine
come il puma che balza muscoloso
atterrando il giovane guanaco?
Così è l’anima mia.
La crederesti addormentata come il ghiaccio
ma sotto il ghiaccio arde più del fuoco.
III
Questa terra bella e triste
fu nostra un tempo:
ma un tempo ormai così lontano
che nemmeno i più vecchi lo ricordano.
Dicono che era sempre stata nostra
finchè venne da Occidente l’uomo bianco
sputò con scherno sopra i nostri dèi
ci prese la terra la lingua la fierezza.
E adesso siamo qui
immobili come tronchi sotto la pioggia
come nude appendici di questa dura roccia
e l’acqua ci scorre sulle spalle
piangendo silenziosa nella nebbia.
Certe volte
quando risalgo a vedere il cielo
dal ventre buio della miniera
masticando la coca per la fame
cerco d’immaginare come fu quel tempo
quando nostra era la terra:
ma
nuvole scure di temporale
chiudono la valle all’orizzonte
chiudono la vista d’ogni parte.
IV
Il diavolo Hahuari m’ha condannato a morte.
Me lo sento ruggire nei polmoni
a ogni colpo di piccone
che avvento nella roccia.
Silicosi la chiama l’uomo bianco
ma per noi è il diavolo Hahuari
che ci prende la vita a goccia a goccia
come prese mio padre e i miei fratelli.
A sera nella baracca
mi fa tossire e tossire e tossire
i miei piccoli mi guardano pallidi
e nessuno osa dire niente.
Anche quando uccisero Gabriel
nessuno osò dire niente.
Lo ammazzarono i soldati,
come un cane,
e aspettammo che fossero andati
per portare il corpo alla sua donna.
La sua colpa fu l’avere scioperato.
Ma
alla sua vedova
l’amministratore della miniera
ha messo in pugno cinque dollari.
IN MEMORIA DI TUPAC AMARU
Quando lo presero,
lo portarono in piazza
perché quando passa il terrore
ciò che resta è una collera ferina.
Quando lo presero
lo portarono in piazza
e sotto i suoi occhi
gli uccisero la sposa, i figli, gli amici.
Quando passa il terrore
ciò che resta è una collera ferina:
per questo gli strapparono la lingua
e la gettarono in pasto ai cani.
Era passato il terrore,
il terrore che di lui avevano provato:
per questo quando lo presero
lo portarono in piazza.
Si scatenò la loro collera ferina:
legarono le sue membra
a quattro cavalli, e li frustarono
facendoli partire nelle quattro direzioni.
Avevano avuto una paura tremenda
e adesso la paura era passata
era rimasta solo la collera ferina
la collera che riempiva tutta la piazza.
Al colmo dell’orrore
i cavalli non poterono squartarlo
perché era troppo robusto:
allora dovettero decapitarlo.
Piangevano gl’indiani lacrime silenziose
esultavano gridando gli hacienderos
quando cadde dalle forti spalle
la testa di Tupac Amaru.
La portarono in giro nei villaggi
mostrarono a tutti quei poveri resti:
perché quando passa il terrore
ciò che resta è una collera ferina.
ELEGIA DEL VENTO DELLA PAMPA
Su queste scabre solitudini del Sud
su queste vuote aride pianure
mi avvento fischiando e tagliando
padrone di spazi immensi.
Non un’eco risponde al mio suono di corno
quando muggisco in vetta alle colline
aggirandomi come un toro infuriato.
Solo un silenzio primordiale mi risponde
dalle vette nevose alla riva del mare.
E ho paura.
Con un brivido scuro trasalisco
artiglio con rabbia gli stenti alberelli,
così,
per non inorridire del silenzio.
…
Non è sempre stata così, la mia pampa.
Un tempo era viva.
Risuonava di voci e di rumori
brulicava di cavalieri con le bolas
lanciati ventre a terra
sulle peste d’un guanaco o d’un nandù
e il fumo di cento e cento toldos
saliva rigando l’orizzonte.
Dove siete adesso, uomini forti,
liberi corridori della pampa sterminata?
Dove siete voi Puelche,
dove siete orgogliosi Araucani?
E voi Tehuelche, dove siete andati?
Dove galoppano adesso irresistibili
i grandi branchi di cavalli selvaggi,
agitando al mio soffio le criniere?
Dove lottano a morsi, nitrendo,
gli stalloni,
quando l’istinto del sesso
si accende infuocato nelle loro vene?
Non mi rispondete?…
Io lo so perché non rispondete.
Siete tutti morti, e la pampa
è oggi il vostro muto cimitero.
Al prezzo di pochi pesos
pagava l’uomo bianco lo scalpo di un indiano:
le donne di oltre vent’anni, le uccideva.
Ora la pampa è sua.
Vi pascolano pigri i suoi armenti
la trafiggono le torri del petrolio
come lugubri scheletri di ferro.
Solo nella mia voce ormai
parlano le genti belle del passato
il vento della pampa narra la loro storia
empie del loro spirito le vaste solitudini.
LETTERA DI UNA RAGAZZA FILIPPINA
AL SUO EX FIDANZATO AMERICANO
I
Avrei voluto dirti qualcosa, dear,
quando ieri ti vidi dal finestrino del tram
e tu ti sbracciavi, e mi correvi accanto.
Avrei voluto dirti tante, troppe cose:
per questo dalla mia bocca non uscì alcun suono.
Ma v’è realmente qualcosa da dire?
Ti rivedo ancora correre e correre,
sempre più stanco; e poi arrenderti,
restare a guardare il tram che si allontana.
È un ricordo che mi fa male:
pure fu un bene che sia andata così.
Non v’era più nulla da dire.
II
Mi hai veduta in città per un caso:
venivo a trovare il bambino, da zia Carmen.
Sta bene: cresce in fretta ormai
e negli occhi ha qualcosa di tuo.
Non chiedermi l’indirizzo
perché non te lo dirò.
Sta bene.
Hai perso ogni diritto su di lui
allorchè ci lasciasti come un vile.
Eppure non ti odio, dear:
tu sei stato una parte di me.
III
Anch’io me la cavo, sai?
Lavoro in una piantagione di banane
mi levo prima dell’alba
rincaso quando è notte inoltrata.
Ci pagano a cottimo: un tanto per scatola.
Otto ore, otto pesos.
Non puoi smettere neanche per orinare.
Ti ricordi di Mayta, my dear?
L’altro ieri ha avuto un aborto:
piangeva, gridavae continuava il lavoro.
– Andrai dal dottore alla fine del turno -.
le aveva detto il sorvegliante.
Alla fine del turno ha abortito.
IV
Non so perché ti dico queste cose.
Sento che non puoi capirle.
Tu, marinaio della Settima flotta,
che dicevi: – A Olongapo sono tutte puttane.-
Ma non sai che da noi una puttana
prende venti volte più di un’insegnante.
E se fino ad oggi è andata così
lo dobbiamo anche a voi, amici yankees.
Questo, almeno, ecco
questo dovresti saperlo.
V
Dovrei odiarti per ciò che sei
e per ciò che hai fatto a noi due,
al bimbo e a me.
Dovrei odiarti finchè tu e i tuoi compagni
Non ve ne sarete tornati a casa vostra.
Siamo così stanchi di voi
delle vostre belle parole
della vostra scoperta prepotenza
dei dittatori con i quali ci opprimete.
Siamo così stanchi
Che tiriamo la vita con i denti
Solo per vedere l’alba di quel giorno
in cui dovrete tornare a casa vostra:
quel giorno che dovrà arrivare!
Eppure non ti odio, dear:
tu sei stato una parte di me.
IL TIFONE È PASSATO
Il tifone è passato.
È sparito lontano, sul mare,
repentino com’era venuto.
Ora c’è un grande silenzio.
Cadaveri enfiati, d’uomini e d’animali,
le onde tranquille spingono a riva
lasciandoli poi come alghe bagnate.
Il tifone è passato.
…
Un bimbo giace sulla sabbia
la pancia gonfia da annegato
un cerbiatto gli è steso accanto
gli occhi grandi che guardano fissi.
Un bimbo e un cerbiatto
deposti vicini dalla marea:
un bimbo e un cerbiatto.
Oh, ma perché
sempre i più deboli, sempre
ma perché sui più indifesi
si abbatte il tallone della sventura?
LAMENTO DI UN VILLAGGIO AFGHANO
DISTRUTTO DALLE BOMBE SOVIETICHE
Il cielo era sgombro.
Scintillavano nel blu le nevi delle cime
e un vento gagliardo aveva pulito l’orizzonte.
Non una nuvola, neppure una…
Non un segno diverso, né un rumore…
Il cielo altissimo
sfolgorava di luce sopra noi.
È strano
essere cancellati via così,
senza nemmeno il tempo di capire.
Precipitare nel buio, nel silenziio…
Di colpo arrivò il rombo dei motori.
E già le bombe cadevano, esplodendo…
Rosseggianti in un mare di fuoco
i bambini correvano, chiamavano aiuto…
Ma durò pochi istanti
quasi neppure il tempo di gridare.
Ogni cosa aveva perso i suoi contorni:
i muri, gli alberi, le bestie
il viso degli esseri umani
le loro mani i loro sogni…
tre puntini si allontanavano nel cielo
sempre più piccoli come rondini
un neonato piangeva e piangeva
cercava il capezzolo di sua madre…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels