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Sulla natura del riso

Articolo pubblicato sul numero 5, anno XXVI (settembre-ottobre 1988) di "Alla Bottega. Rivista bimestrale dii Cultura ed Arte", Milano, pp. 21-23; e ora liberamente rielaborato (febbraio 2006) per il sito dell’Associazione Eco-Filosofica (già Associazione Filosofica Trevigiana).

Perché ridono gli esseri umani?

Che cosa, precisamente, li muove al riso, e perché?

L’Enciclopedia Italiana, alla voce "riso", recita testualmente:

"Espressione emotiva data dal tipico sfogo dell’allegria, o da improvviso piacere, senso del comico, stato generale di benessere e d’ottimismo. Esso è costituito dal modificarsi del ritmo respiratorio che si fa più breve e sonoro, e dal variare della mimica facciale."

L’autore dell’articolo, che è un neurologo, non ci dice molto sulla dimensione psicologica del riso; tenta comunque di ricondurne le cause a una serie di fattori psico-fisici circostanziati, quali l’allegria, il piacere improvviso, ecc. Ma che cos’è l’allegria? Che cos’è il senso del comico? Solo quando avremo risposto a tali domande potremo interrogarci sulla natura del riso, diversamente non possiamo che limitarci a descriverne la fenomenologia (variazioni del ritmo respiratorio, della mimica facciale, possibile incontinenza urinaria, ecc.).

Parecchi anni fa venne pubblicato un interessantissimo articolo del prof. G. A. Cesareo intitolato Il comico nella Divina Commedia (in: Francesco Landogna, Saggi di critica dantesca, Raffello Giusti ed., Livorno, 1928). In esso si sosteneva che i diavoli di Malebolge rappresentano, esasperandola, una tendenza universale dell’animo umano, che si esprime – camuffata – nel comico: "un istinto perverso di concorrenza, che ci spinge a godere, consapevoli o no, del male altrui."

Di un animale, di una pianta o di un oggetto inanimato non si ride, osserva il Cesareo, a meno che essi ci richiamino alla mente qualche personaggio noto. Solo del nostro simile si ride, e precisamente quando egli è in grado di concorrenza, cioè quando costituisce potenzialmente una minaccia.

"Nella vita sociale l’uomo, se da un lato si sente fratello al suo simile, da cui spera l’aiuto, dall’altro lo tiene per il nemico, di cui teme la concorrenza." Dunque, il comico esprime il piacere maligno di sottolineare l’inferiorità d’un nostro simile.

"Si ride d’un uomo che dica spropositi, e tanto più quanto la sua condizione sociale è più vicina alla nostra; ma non si ride d’uno scolaro che non sappia come iniziare una ricerca, e si rivolge a noi per consiglio… Un uomo prodigo riderà d’un avaro, e l’avaro a sua volta del prodigo… Ma né l’uno, né l’altro riderà del pezzente: questi è un vinto, non è più un emulo." (opera citata). Se poi il male altrui viene a toccare, anche indirettamente, la sfera del nostro egoistico io, subentra la pietà, e con essa il senso del tragico.

Questa tesi può sembrare a tutta prima paradossale – il Cesareo stesso lo ammetteva -eppure in tanti anni di verifica scrupolosa abbiamo dovuto constatarne la fondamentale esattezza. Si ride solo degli uomini, non delle cose; e si ride solo degli uomini uguali a noi che cadono nell’abisso del ridicolo e lasciano libero un po’ più di spazio per la nostra egoistica affermazione sociale.

Provate ad applicare questa traccia d’indagine al comico letterario, al don Chiscotte di Cervantes o al buon soldato Švejk di Hašek, o meglio ancora al comico letterario involontario (la figura di Leopold von Sacher-Masoch così come appare nella Venere in pelliccia, o nelle memorie di sua moglie Aurora Rümelin). Ma, soprattutto, provate ad applicarlo nella vostra esperienza quotidiana. Scoprirete che non si ride di un animale o di una cosa, se non riverberandone la comicità nella figura umana del rispettivo padrone; e che non si ride d’un uomo a noi superiore o inferiore (salvo rare eccezioni), ma solo dell’uguale che, per propria inettitudine o per uno scherzo del caso, scade nell’altrui considerazione sociale e diviene così "inferiore" oltre che buffo. Nemmeno dell’inferiore che è sempre stato tale, si ride, non essendo mai stato in grado d’impensierirci con la sua concorrenza; per lui non vi può essere che l’indifferenza o la compassione, talvolta la stizza.

E tuttavia esistono due diversi soggetti della comicità, l’attivo e il passivo, e con essi due manifestazioni molto diverse del riso; e qui è necessaria un’ulteriore indagine. Immaginiamo uno scolaro che, nel leggere in classe la lezione, pronunzi una parola erroneamente, dandole un tutt’altro significato. Risata clamorosa dei compagni; risata dell’insegnante (meno scomposta); risata, infine, dell’interessato (ovviamente più imbarazzata). L’insegnante ride meno convulsamente degli alunni soprattutto perché, giusta l’ipotesi del Cesareo, egli è socialmente troppo in alto per potersi rallegrare dell’altrui diminuzione (a meno che sia un insegnante insicuro e dall’autorità vacillante, nel qual caso non gli parrà vero di convogliare su un altro la potenziale aggressività della scolaresca). Ma come riderebbe di gusto, invece, se a fare la "papera" fosse, magari nel bel mezzo di una riunione, un suo collega e, possibilmente, un collega-rivale, di cui teme il confronto!

I compagni, invece, ridono con vera allegria perché vedono "diminuito" un loro pari, dunque un potenziale rivale che è messo momentaneamente "fuori combattimento" (e qui si potrebbero fare molte considerazioni sul rapporto esistente fra clima competitivo di un dato ambiente, tensione sociale e intensità degli scoppi d’allegria: avete mai notato che a scuola, quando si ride, si ride per un nulla?).

Ride, infine, anche l’interessato, se nella classe vi è un’atmosfera sociale relativamente "normale" (se egli fa il broncio o scoppia in pianto vuol dire che si sente – ed è considerato inferiore già da prima; e allora, quella dei compagni non sarà cordiale risata, ma dileggio freddo e demolitore). Perché, dunque, ride anche lui?

Innanzitutto, per dissimulare l’intimo disagio. Ridendo con gli altri, come gli altri, egli si "mimetizza" e accorcia la distanza fra sé e loro, distanza che la sua comicità involontaria aveva aperta, e la risata dei compagni aveva accentuata (specie all’inizio, assistendo al suo sconcerto e alla sua sorpresa). Quando colui che si era reso buffo partecipa alla risata generale, comincia già ad essere meno buffo, a "reinserirsi" socialmente. Se ride (e sia pure di sé stesso) significa che, almeno apparentemente, si diverte; e, se è in grado di divertirsi, vuol dire che ha superato lo stato di mortificazione e non si "sente" più troppo inferiore agli altri, o meglio che ha riconosciuto il carattere fortuito e transitorio della sua "inferiorità". Unendosi alla risata su di sé, quindi, mette in moto un rapido meccanismo di riabilitazione e di recupero nel contesto sociale.

C’è, tuttavia, unìn altro elemento in questa forma di comicità passiva, nella risata cioè di colui che ha scatenato involontariamente, col suo agire, l’ilarità generale, e che tuttavia si adatta prontamente a subirla in prima istanza, e a parteciparvi in seconda. Unendosi al riso degli altri, egli accetta implicitamente le regole di un gioco che suonerebbero, press’a poco, così: "Qualcuno, ogni tanto, deve assumersi il ruolo poco invidiabile di catalizzatore e valvola di sfogo dell’aggressività generale latente. Questo ruolo non è necessariamente fisso, dunque non reca con sé uno status di inferiorità permanente. Oggi a me, domani a te." Un alunno che sbaglia sempre la prova della lettura, ad esempio, finirà per diventare patetico o, al limite, indifferente, perché al comico è essenziale la categoria della novità. Difficilmente la stessa battuta muove al riso due volte di seguito.

Tornando al nostro discorso: colui che sa ridere di sé stesso quando tutti ridono di lui, è come se stringesse un tacito accordo coi compagni, che si potrebbe riassumere in questi termini: "Oggi è toccata a me far la parte del ridicolo, domani potrà toccare a voi. Accettando le vostre risate e addirittura partecipandovi, io pago in anticipo il mio debito al vostro bisogno di superiorità su un vostro simile, su un vostro uguale: e, da questo momento, torno in diritto di sfogarlo a mia volta, quando se ne presenterà l’occasione, e riscuotere così il credito presente." Dunque, la vittima non ride mai veramente di sé stessa, ma piuttosto paga il biglietto d’ingresso al gran teatro della società, paga cioè la cauzione sullo spettacolo che, domani, potrà godere a spese di qualcun altro.

La prova di quanto abbiamo ora esposto risiede nel fatto che coloro i quali rifiutano le regole comuni del gioco della comicità, non sono oggetto di riso, perché si pongono automaticamente al di fuori di un vero e proprio rito istituzionalizzato. Il buffone che, nelle corti dei signori medioevali, si prendeva lo spasso di ridere di tutto e di tutti, nei momenti più impensati, era spesso oggetto di timore, più che di divertimento: intendiamoci, faceva ridere, ma convogliando su altri la sua comicità potenziale. Le figure marginali esistenti nelle società pre-industriali erano, talvolta, solo moderatamente comiche, proprio perché il loro status sociale era riconosciuto universalmente come inferiore a quello degli altri membri del gruppo. L’ubriaco può far ridere, ma entro certi limiti, perché, a seconda del tipo di sbornia, può divenire aggressivo oppure può non intuire minimamente la propria comicità involontaria, e quindi agire da giocatore inconsapevole: per lui non vale il criterio della reciprocità e, quindi, viene a mancare uno dei pilastri di ciò che a livello sociale viene recepito come comico. Per fare la categoria dell’umorismo, insomma, non basta, come riteneva Luigi Pirandello, il sentimento del contrario, c’è bisogno di una tavola di regole basate sulla reciprocità, sicchè può muovere al mio riso solo quello che domani, a parti rovesciate, potrebbe muovere al riso altrui su di me. Il mestiere del comico consiste proprio nel saper cogliere, esasperandoli oltre misura, quegli elementi latenti di comicità potenziale che albergano in ciascuno di noi, nessuno escluso, ma solo entro una cerchia sociale di uguali.

Si rifletta, anche, all’atteggiamento degli esseri umani, e specialmente dei bambini, nei confronti dell esibizioni dei pagliacci del circo, e delle scimmie ammaestrate (non di quelle semplicemente imprigionate nelle gabbie dei giardini zoologici). Il pagliaccio muove facilente al riso, perché rappresenta la parodia di un tipo umano in cui, fatta salva l’amplificazione necessaria alla resa artistica, ciascuno si può, intuitivamente, riconoscere; la scimmia ammaestrata, perché ricorda irresistibilmente (vera o non vera la teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie) ciò che sarebbe una umanità bambinesca (non bambina), in cui l’adulto, cioè, regredisse allo stato infantile, con tutta la goffaggine e l’approssimazione di ragionamenti e di movimenti, non disgiunte da una buona dose di scaltrezza e di malizia, e tuttavia prive di quella amabilità innocente, di quella indifesa fiduciosità che tanto commuovono nel comportamento infantile. Su questa linea di ricerca, per inciso, si è mossa buona parte della produzione letteraria di un geniale scrittore polacco contemporaneo, Witold Gombrowicz, culminante nel suo famoso romanzo Ferdydurke.

C’è poi un altro tipo di riso, che è strettamente connesso col dolore. Non parliamo qui del riso isterico, che si manifesta in particolari stati di tensione emotiva e che precede, magari, una crisi di pianto. Parliamo di quella particolare risata che si esprime in concomitanza di una sofferenza fisica, sia inferta ad altri che subita su di sé; a patto, naturalmente, che tale sofferenza non ecceda un certo livello d’intensità, e che si accompagni ad altre particolari circostanze.

Un esempio banale può essere quello, frequentissimo sulle spiagge, d’estate, di un amico o di un gruppo d’amici che schizzano l’acqua fredda del mare addosso a un compagno, il quale non si sia ancora immerso, e non abbia quindi potuto regolare gradualmente la propria temperatura corporea. È un tipo di riso la cui vera natura tende a sfuggirci, ma che un attento esame fisiognomico (per esempio di una fotografia scattata al momento, e poi minuziosamente osservata, fuori dal contesto scherzoso e piacevole in cui era stata scattata) ci rivelerà essere di natura molto diversa da quel che sembrava all’inizio e che, per certi versi, finiremo per trovare addirittura inquietante. Qui le motivazioni del soggetto attivo (colui che esegue lo scherzo di gettare l’acqua fredda sul corpo dell’amico) e di quello passivo (colui che invece lo subisce) si caricano di ulteriori, reconditi significati.

Da parte del soggetto attivo vi è un risvolto sadico – di solito assolutamente inconscio – che consiste nella gioia di vedere il prossimo umiliato e sofferente davanti a sé (umiliato in quanto costretto in un ruolo passivo e comico), in quella particolare forma di inferiorità che è, appunto, provocata dalla sofferenza fisica – diciamo provocata, ma è arduo, in questo caso, distinguere l’effetto dalla causa; se cioè lo stato di inferiorità sia causato dal dolore, o se ne sia la conseguenza. Tale movente profondo agisce con forza incomparabilmente maggiore se soggetto attivo e soggetto passivo sono di sesso diverso (postulando, si capisce, la loro eterosessualità), perché la componente sessuale è oggi scientificamente accertata nel comportsamento sadico, anzi è il veicolo principale delle pulsioni aggressive. Va da sé che la risata, in tale situazione, ha precisamente lo scopo di camuffare e rendere in certo qual senso socialmente accettabile una certa misura di comportamento sadico.

Nei grandi criminali questo genere di pulsioni può raggiungere proporzioni raccapriccianti, come nei boia nazisti e nei deviati sessuali; ma un frammento di tale deviazione è presente in ciascuno di noi, ed è un ingrediente significativo del piacere di natura sessuale. Se questo pensiero vi apparisse sgradevole, provate a pensare quanta "normalità" vi sia in un pubblico di un film d’un regista come Dario Argento, ove belle e giovani donne vengono terrorizzate, inseguite, torturate e uccise con tutti i crismi della efferatezza e con un macabro indugio sui particolari più truculenti. Ma anche la letteratura di consumo non è da meno, con tutto il suo armamentario di serial killer alla Stephen King o di crudeli omicidi perpetrati nel torpore conformistico di una provincia ordinata e penpensante, stile Agatha Christie o Ellery Queen.

Sarebbe un errore, comunque, e non piccolo, ritenere che la componente sadica delle pulsioni libidiche sia patrimonio esclusivo, o preponderante, del sesso maschile, solo perché, in genere, essa è manifestata dai maschi in maniera più esplicita che dalle femmine. Poiché stiamo parlando di tendenze psichiche latenti e, generalmente, inconscie (o solo parzialmente conscie), e non delle loro manifestazioni esteriori, non dobbiamo lasciarci ingannare dalle apparenze ma constatare che la donna, forse più dell’uomo, e comunque non meno di lui, gode di tali pulsioni, prima fra tutte la pulsione al rifiuto sessuale, dopo aver provocato il maschio. A detta di molte donne che si sono sottoposte a terapia psicanalitica, il piacere del rifiuto è uno dei massimi piaceri da esse sperimentato, un piacere che – in certi casi – è suscettibile di trasformarsi in orgasmo fisico, ed è considerato da taluni soggetti come assai più soddisfacente dell’orgasmo ottenuto mediante un rapporto sessuale. Dal Corbaccio di Giovanni Boccaccio in poi, questo è divenuto un argomento tabù per gli scrittori di sesso maschile, i quali temono fortemente di essere senz’altro etichettati quali biechi maschilisti e misogeni, e di subire l’ostracismo della cultura ufficiale, sempre pronta ad appiattirsi sulle posizioni alla moda e a compiacere e assecondare il clima socio-culturale dominante. Non è stato più volte contestato il professor Claudio Risé, solo perché la sua teorizzazione del "maschio selvatico" si prestava a essere volutamente equivocata in chiave sessista, autoritaria e, magari, fascista?

Su questo argomento, del resto, esiste già una discreta letteratura scientifica; ad essa si aggiungono opere cinematografiche che tentano coraggiosamente di scandagliare questi luoghi misteriosi della psiche umana, e, nella fattispecie, della psiche femminile. E se un film come La signora della notte (titolo originale Cérémonie d’amour) di Walerian Borowczyk, del 1988, ma tratto da un romanzo di André Pieyre de Mandiargues, dovesse apparire a un pubblico femminile viziato di maschilismo, il che del resto è molto opinabile, esistono anche registe femminili che non hanno indietreggiato di fronte agli aspetti più sconcertanti della femminilità. Tra queste possiamo ricordare almeno Susan Streitfeld, autrice di Perversioni femminili (Female perversions), del 1996, interpretato magistralmente da una strepitosa Tilda Swinton.

Un esame approfondito sul perché un numero considerevole di donne trovino così soddisfacente l’appagamento provocato dal rifiuto sessuale di sé, da anteporlo a una forma più equilibrata e costruttiva di relazioni con l’altro sesso, anzi al punto di "specializzarvisi", sforzandosi di essere seduttive al massimo grado al solo scopo di potersi poi negare, ci porterebbe molto lontano, e non è questa la sede adatta. Ma il fatto rimane, e la dice lunga sullo stato di naturalezza, spontaneità e sana ricerca della gratificazione affettiva, in una società che si dice e si crede tanto disinibita e tanto emancipata. Forse viviamo immersi un un malessere sociale talmente grande, da aver intoiettato come normali degli atteggiamenti psicologici che, invece, sono aberranti, allontanandoci al tempo stesso dalla possibilità di trovare una soluzione ai nostri problemi che non sia un palliativo illusorio e, per giunta, tale da aggravarli e cronicizzarli.

Per tornare al nostro assunto, ci resta da vedere quale sia la natura del riso nella vittima di una sofferenza fisica, e sia pure di una sofferenza fisica leggera come quella di chi riceve uno spruzzo improvviso d’acqua fredda sulla pelle nuda. Qui le motivazioni viste in precedenza, a proposito della vittima di una momentanea umiliazione di natura solo spirituale (come lo scolaro che suscita le risate di tutti i compagni), non esauriscono il quadro. Come si può, infatti, ridere di un dolore subito, nell’attimo stesso in cui lo si subisce, cioè mentre il dolore è immediatamente presente agli organi della sensibilità e, quindi, al sistema nervoso centrale? E che sia un vero dolore, non c’è dubbio.

Osserviamo la fotografia di una ragazza, anche di una modella su una rivista illustrata, che sta facendo l’esperienza ora descritta, di ricevere gli spruzzi d’acqua gelata sull’epidermide calda e asciutta, prima di aver fatto il bagno ed essersi assuefatta alla temperatura del mare. Che cosa vedremo? Un volto che sta ridendo, eppure, se la foto ritraesse il suo viso fuori del contesto gioioso in cui è inserito (vacanze, amici, allegria), dubiteremmo forse che si tratti di un’autentica maschera di sofferenza? Forse, si dirà, in quegli istanti trova sbocco una tendenza "normalmente" repressa dalla censura del Super-io, quella masochista, della quale è così imbarazzante per noi ammettere, a mente fredda, l’esistenza. Forse. Ma forse c’è anche dell’altro.

Bisogna tener presente che il confine tra piacere e dolore è per sua stessa natura incerto e sfumato, misterioso: la manifestazione stessa del riso lo dimostra. Un accesso violento di risate porta alle lacrime, come avviene per un improvviso e cocente dolore. Di più: una risata forte e prolungata genera, essa stessa, un dolore fisiologico: il diaframma preme sulla massa intestinale e fa dolere il ventre (ecco spiegato il detto "ridere a crepapancia"). Eppure questo stesso dolore genera, chissà come, una ulteriore forma di piacere, come sarebbe quello di chi, tormentato dal prurito, si gratti con foga la pelle infiammata. Soffre, e soffre più intensamente di prima; eppure che sollievo, che liberazione, che piacere! E il piacere, moltiplicato, fa crescere il riso.

Si ride, quindi, non solo per "esorcizzare" il soffrire (quanto a questo, basterebbe il puro e semplice gridare, come fanno i soldati feriti in battaglia, o anche quando vanno all’attacco e temono soltanto di essere feriti e di soffrire), ma proprio perché si soffre; naturalmente – lo ripetiamo – entro un certo limite di intensità della sofferenza stessa. Vi sono, insomma, delle sofferenze fisiche che si rivelano, di per sé, stranamente piacevoli: un’improvvisa doccia fredda è fra queste, tanto più se inserita in un contesto sociale e psicologico gradevole, che ne attenua e ne modifica la carica dirompente (sole, vacanze, ecc.). Il Super-io, infatti, se le circostanze non lo tranquilizzassero e lo blandissero, si ergerebbe quale sentinella della moralità del soggetto, e non accetterebbe mai l’idea consapevole di un piacere guadagnato mediante l’esperienza volontaria del dolore. Per non parlare, in questa sede, di realtà più sconcertanti ancora, quali l’uso del cilicio medioevale, nelle quali certe sofferenze che dovrebbero, secondo il Super-io, mortificare il corpo e, in un certo senso, negarlo, ne esaltano invece la sensibilità e lo proiettano irresistibilmente al centro dei pensieri del penitente.

Sappiamo ancora troppo poco su certi meccanismi psicologici, e specialmente su certe funzioni del cervello umano. Sappiamo che il dolore "parte" dalle fibre nervose del sistema periferico mediante "scariche" dirette al mesencefalo e poi al talamo ottico, dove – pare – esso viene "riconosciuto" come tale. Al lobo frontale spetterebbe la determinazione del valore affettivo del dolore. L’origine di quest’ultimo, così come viene percepito dalla coscienza, è dunque una funzione psichica e non fisica; tanto è vero che una lesione del lobo frontale può rendere l’organismo insensibile al dolore (ma non, evidentemente, alle sue conseguenze), e ciò dimostra che il dolore è soltanto la spia di un pericolo, come la febbre è la spia di una aggressione batterica ai danni dell’organismo.

Ma se quel pericolo è di per sé stimolante, se ha il fascino eccitante di un’esperienza forse liberatoria? Anche la paura è un pericolo per il nostro equilibrio emotivo, eppure l’appassionato di romanzi o di film del terrore la ricerca con gioia. Non potrebbe scattare un meccanismo simile in presenza di certe forme di dolore fisico? E, al contempo, non potrebbe erompere la gioia dovuta all’orgoglio di aver dominato un nemico così temibile come il dolore, e di aver scoperto che, in fondo, ed entro certi limiti, sta in noi il potere di negargli la qualifica di dolore e di trasformarlo addirittura in una inconsueta forma di piacere? Scoperta, allegria, gioia, la cui tipica espressione è, appunto, la risata.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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