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19 Giugno 2019Fra gli intellettuali che si muovo all’interno del perimetro del politically correct, e che accettano, quindi, i suoi riti e i suoi miti, Sergio Romano (vicentino, classe 1929, ex ambasciatore, saggista, editorialista del Corriere della Sera) è, probabilmente, quello che si è spinto più in là di tutti sul terreno del dibattito intorno all’ebraismo e ha parlato con maggiore franchezza non sull’Olocausto, ma sullo sfruttamento che di esso operano alcuni ambienti ebraici, per ragioni essenzialmente politiche. Nel suo libro Lettera a un amico ebreo (Longanesi, 1997), egli si è spinto fino al margine estremo di ciò che consente l’ideologia del politicamente corretto, cioè fino a metter in guardia certi ebrei dal voler teologizzare il fatto storico dell’Olocausto; ammonendo che, una volta imboccata questa via, non resta altro da fare che alimentare perennemente una nuova visione della storia basata su una colpa inestinguibile dei non ebrei nei confronti degli ebrei, che richiederà dosi sempre maggiori di contrizione e auto-umiliazione, cerimonie sempre più grandiose e formule di scongiuro sempre più solenni, in una spirale senza fine. Oltre, non poteva andare; e infatti si guarda bene dall’andare. Tutto il suo ragionamento si regge sulla dichiarata volontà di riportare l’Olocausto alle sue dimensioni di evento storico, per quanto terribile, togliendogli quella pretesa di unicità e quella assolutezza morale che sono la base per la sua teologizzazione, e rivendicando alla storiografia laica il diritto e il dovere di studiarlo come ogni altro evento storico, esaminando perciò, anche i "torti" delle vittime, oltre alle "ragioni" dei carnefici.
Peccato solo che egli parta da una premessa che smentisce radicalmente il ragionamento stesso: e cioè che sia ininfluente e "meschino" il conteggio delle vittime, e che se qualcuno pretende di farlo, sbaglia e cade in un atteggiamento reprensibile. Per gli eventi storici, però, non si dovrebbe procedere in tal modo. Per la storia laica, come la chiama lui, non è affatto meschino o ininfluente cercar di capire quanti furono gli Eburoni che Cesare ordinò di sterminare durante la guerra gallica, quanti gli armeni che perirono nel genocidio pianificato dai Giovani Turchi, o quante, per esempio, le vittime delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, o dei criminali bombardamenti alleati su Dresda, alla fine della Seconda guerra mondiale. Nel caso specifico Sergio Romano se la prende col libro di un eminente studioso cattolico, monsignor Vitaliano Mattioli, Gli ebrei e la Chiesa, 1933-1945, affermando che il suo tentativo di ridurre di qualche centinaio di migliaia il numero delle vittime non ha altro risultato che quello di rendere, sono parole sue, la "questione ebraica" ancor più ingarbugliata e intrattabile. Veramente non è stato carino, da parre sua, prendersela con un libro che era già stato attaccato così duramente da tutto il carrozzone del politicamente corretto, al punto da costringere l’editore Mursia a ritirarlo dalla circolazione, fatto che richiama l’Indice dei Libri Proibiti di controriformistica memoria; e da obbligare la casa editrice paolina, rea di aver ospitato una recensione favorevole sul mensile Jesus, a mettersi sulla difensiva, giustificarsi e chiarire la propria posizione. Premesso che monsignor Mattioli, romano, classe 1938, non era un qualsiasi sconosciuto, ma un docente di Storia contemporanea alla Pontificia Università Urbaniana, autore di numerose pubblicazioni, oltre che stimato sacerdote dalla vita esemplare, e che proprio a causa di quella vicenda si deve probabilmente il suo trasferimento in Brasile come sacerdote fidei donum, ove si spense dopo un delicato intervento chirurgico nel 2014, lasciando un indimenticabile ricordo nei seminaristi per le sue lezioni di teologia morale, resta il fatto che la sua vicenda testimonia come sia impossibile parlare serenamente del rapporto fra cristiani ed ebrei senza scatenare l’ira funesta dei secondi. Quando uscì il libro in questione, l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, di cui era presidente Tullia Zevi, si era scatenata in una furiosa contestazione, giungendo sino a far pervenire in Vaticano, presso Giovanni Paolo II, la sua "indignazione". E siccome don Franco Pierini, docente alla Facoltà teologica Seraphicum di Roma, aveva avuto il torto di pubblicare su Jesus una recensione sostanzialmente positiva di quel libro, ecco che un certo Carmine di Sante, uno dei dirigenti del Servizio Internazionale di Documentazione Giudeo-Cristiana, aveva chiesto, a sua volta, alla Società San Paolo di prendere le distanze da quella recensione, accusandola di fomentare l’antisemitismo e di riprodurre "gli stereotipi antiebraici più abusati e disgustosi". Don Pierini si era difeso affermando che ad argomenti storici bisognerebbe rispondere esclusivamente con argomenti storici, ma di fatto era stato scaricato; monsignor Mattioli, chi sa come, qualche tempo dopo prendeva la strada della diocesi di Crato, suffraganea della diocesi di Fortaleza, in Brasile, lui che, ordinato sacerdote nel 1963, aveva sempre lavorato e insegnato a Roma. Difficile non pensare a un vero e proprio esilio deciso dal Vaticano per liberarsi da una patata bollente; difficile anche non trarre qualche amara riflessione dalla sua vicenda, sia per quel che riguarda la libertà di ricerca storica, sia più in generale, per quel che riguarda il tema del rapporto fra cristianesimo e giudaismo, che, dopo la Nostrta aetate del 1965, sembra aver imboccato la via della sottomissione totale e incondizionata del primo nei confronti del secondo. Ricordiamo che, per la stessa ragione, cioè per una inverosimile accusa di antisemitismo, o quanto meno di antigiudaismo, la proclamazione della santità del padre Léon Dehon, già fissata, al termine del processo canonico, per il 24 aprile 2005, venne sospesa e congelata a tempo indeterminato, con grande amarezza dei padri dehoniani e con somma umiliazione di tutti i cristiani.
Questa era dunque la situazione quando Sergio Romano non si è peritato di far sentire la sua autorevole voce di studioso, non per biasimare la campagna di demonizzazione scatenata ai danni di monsignor Mattioli, ma per biasimare il libro dello stesso monsignore, contribuendo così a delegittimare le pochissime voci a lui favorevoli (di voci che abbiano tentato di difenderlo, dopo la campagna isterica scatenata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, non è neanche il caso di parlare, dato che praticamente non ve ne furono, con la sola eccezione di Vittorio Messori). Questi sono i limiti del politically correct e per questo abbiamo detto che Sergio Romano si è sempre mosso all’interno di essi; abbiamo però aggiunto che, rispetto ad altri, egli è quello che si è spinto fino al margine estremo, e a sostegno di questa affermazione vogliamo riportare una pagina del suo libro, sopra citato, Lettera a un amico ebreo (pp.135-137):
Per una parte dell’ebraismo l’"Olocausto" non è soltanto l’avvenimento centrale del secolo. È la manifestazione del male nella storia, una specie di "antidio" che occorrerebbe esorcizzare continuamente con rievocazioni, monumento, musei, atti di contrizione e richieste di perdono. Non un fatto storico: è la manifestazione più vistosa di una colpa — l’antisemitismo — mai sufficientemente espiata.
Ma questa è storia religiosa. Per la storia laica gli avvenimenti hanno cause proprie, effetti specifici e caratteri peculiari che li rendono, a dispetto delle apparenze e delle similitudini, irripetibili. Mi spiego meglio. Quando studia una guerra o un massacro, lo storico laico non può permettersi di ignorare la "responsabilità" delle vittime o, per meglio dire, le occasioni e i pretesti che esse offrono ai loro persecutori. Se ricostruisce il genocidio il genocidio degli armeni all’inizio della seconda [sic; la prima] guerra mondiale, lo storico dovrà ricordare che essi avevano stretti e sospettabili legami con le popolazioni armene nell’impero zarista. Se si occupa dell’attacco giapponese a Pearl Harbor il 7 dicembre del 1941, dovrà ricordare che gli Stai Uniti, nei mesi precedenti, avevano decretato un embargo sull’esportazione di prodotti petroliferi americani verso il Giappone. Per giustificare o assolvere? No, il suo compito è di comprendere, non di distribuire verdetti morali. Se si occupa di antisemitismo nazista, quindi, dovrà chiedersi quali cause possano avere contribuito a creare nell’opinione pubblica tedesca il clima che permise alla Germania di perseguitare gli ebrei o di voltare le spalle di fronte al loro massacro. Dovrà cercare di capire perché a una larga parte dell’opinione pubblica la sconfitta, alla fine della prima guerra mondiale, apparisse immeritata e perché in tale clima di frustrazione gli ebrei potessero diventare , nella leggenda popolare, i registi occulti delle sventure tedesche ("Die Juden sind unser Unglück", "gli ebrei sono la nostra disgrazia, gridavano gli striscioni dei convegni nazisti). Se si occupa di antisemitismo italiano, dovrà chiedersi per quali ragioni le leggi razziali furono accettate, sia pure con molte riserve, dalla maggior parte della popolazione. Dovrà chiedersi, ad esempio, perché tanti studiosi italiani, più tardi rispettati esponenti dell’Italia antifascista, abbiano accettato di occupare le cattedre da cui gli ebrei erano stati brutalmente espulsi, compiendo così un atto simile a quello di colui che accetta di comprare sottoprezzo la casa del vicino quando questi viene ingiustamente privati della possibilità di lavorare e costretto all’esilio.
Non appena si mette al tavolo su questi temi, lo storico si accorge che nulla di tutto questo sarebbe stato possibile se le misure antisemite non fossero cadute su un terreno seminato da pregiudizi in parte antichi, ma soprattutto recenti, collegati con l’espansione dell’ebraismo europeo nelle particolari condizioni economiche e sociali dell’Europa dell’Ottocento. Si accorge, in altre parole, che occorre rispondere a una serie di domande talvolta apparentemente sgradevoli e imbarazzanti: perché gli ebrei sono stati in certi momenti "antipatici" a larghi settori della pubblica opinione? perché sono così fortemente presenti nel movimento socialista e comunista? Perché sono altrettanto presenti nelle banche nel giornalismo, nel mondo accademico? Perché i germi di solidarietà appaiono più forti tra loro di quanto non accada, tanto per fare un esempio, tra italiani all’estero di seconda o terza generazione? È giusto che tale solidarietà venga definita, come è accaduto frequentemente, una "internazionale ebraica"? Con ciò, ripeto, non si vuole giustificare, ma comprende. Il rischio, ove si adotti un diverso atteggiamento, è quello di esprimere perentori giudizi morali, di scrivere la storia con la penna intinta nell’inchiostri dell’indignazione. È quello che vorrebbero gli storici "teologici", i quali leggono immediatamente in queste domande una diminuzione del genocidio e del suo significato.
Più oltre, restando nei confini del politicamente corretto, non era possibile dire. Però Sergio Romano ha detto, e soprattutto chiesto, abbastanza? Ha posto una serie di domande "scorrette": e chi se le ponga con spirito imparziale, potrebbe arrivare a delle conclusioni che lo porrebbero del tutto fuori dal politicamente corretto, lo respingerebbero nel lebbrosario del revisionismo fascista e magari anche razzista. Meglio fermarsi lì, come prudentemente lui fa, e lasciare che a scottarsi le dita con la patata bollente delle risposte sia qualcun altro. Lui, intanto, si è cautelato parlando male del libro di monsignor Mattioli, il che conferma l’assunto non detto ma sotteso al suo ragionamento: per poter fare una qualche osservazione critica nei confronti dell’ebraismo bisogna prima sacrificare una vittima sull’altare della Religione dei Sei Milioni, ovviamente una vittima non ebrea.
Tutto questo induce a una serie di riflessioni che vanno assai oltre l’oggetto iniziale. Una buona definizione di cosa sia il potere, quello vero e non quello apparente, è che di esso non si può parlare, se non per tesserne i più alti elogi e per dichiarargli la propria indefettibile lealtà. Oggi, per esempio, in Italia, si può parlare male di Salvini? Certo che si può; e c’è perfino un prete — un prete: questa è bella! –, un certo don Giorgio De Capitani, che esorta i fedeli ad ucciderlo, dal momento che è "un ladro", perciò lui elogia fin d’ora chi si prenderà la briga di ammazzarlo. Dunque, ciò dimostra che né Salvini, né la Lega, nonostante il consenso del 34% di elettori italiani, costituiscono un potere reale. Ma di Mattarella, si può parlare male? Già meno. E di Bergoglio? No, proibito. Nel primo caso fioccano le denunce, nel secondo le scomuniche. E tuttavia, a rischio di dover pagare una grossa multa o di vedersi espulsi dalla Chiesa cattolica, si può ancora criticare l’uno e l’altro, posto che si abbia il coraggio di affrontarne le conseguenze. Di chi è, allora, che non si può parlare, se non per lodarlo e giurargli eterna fedeltà, magari facendo un viaggetto in Israele e indossando la kippah, come fanno tanti politici italiani e non italiani (cfr. il nostro articolo: Riti d’iniziazione e riti di umiliazione, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 03/07/13 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 16/01/18; vedi anche il video, su Youtube, di Giorgio Vitali del 25/07/13), quasi che, senza tale cerimonia, la loro effettiva investitura sarebbe incompleta? Dello stesso potere che può costringere una seria e collaudata casa editrice a ritirare un saggio storico dalle librerie; che può far mandare in esilio un sacerdote assai colto e stimato, e costringere una prestigiosa rivista cattolica a discolparsi e a scusarsi; che può bloccare la canonizzazione, già decisa dopo un accurato processo canonico, di un eminente personaggio della Chiesa, il fondatore di una importante congregazione come quella dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù. Ed è lo stesso potere che può far arrestare uno storico inglese solo per le sue idee, e gettarlo in carcere per circa un anno…
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