
La teologia della Shoah genera la religione della colpa
19 Giugno 2019
E questo sarebbe un grande filosofo?
20 Giugno 2019È noto che Giovanni Preziosi, a detta non solo dei suoi nemici, ma anche dei (pochissimi) amici, era letteralmente ossessionato dall’esistenza di due pericoli occulti: massoneria ed ebraismo internazionale, contro i quali, a partire dal 1920-22 e fino all’ultimo giorno della sua vita, condusse una battaglia diuturna, frenetica, rispetto alla quale i suoi svariati e molteplici interessi, sociali, politici, culturali, e le sue numerose altre polemiche e contese, non di rado finite nelle aule di giustizia con esito alterno, devono considerarsi del tutto secondarie. Della sua convinzione che il giudaismo, non in senso religioso ma in senso politico, rappresentasse un gravissimo pericolo per la civiltà europea e per l’Italia fascista, specialmente dopo la scoppio della Seconda guerra mondiale, che egli addossò proprio al complotto giudaico mondiale, qualcosa abbiamo già detto in un precedente articolo (cfr. Una pagina al giorno: La Palestina sarà una terra di sangue, di Giovanni Preziosi, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 25/08/2009 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 18/01/18). In questa sede vogliamo invece spendere qualche parola sull’altro corno della sua "ossessione", la massoneria, anche se i due complotti, per lui, si riducevano in sostanza a uno solo, essendo le due facce d’una stessa centrale operativa, che si serviva tanto della plutocrazia anglosassone, quanto del bolscevismo russo per stringere l’umanità nelle sue spire e perseguire la distruzione della sola forza organizzata capace di opporsi al suo disegno, il fascismo. E ci ha colpito il fatto che di Preziosi — caso non certamente unico, peraltro, nel clima ultra-conformista, per non dir peggio, della cultura uscita dalla "gloriosa" Liberazione, democratica e antifascista — si sono occupati, a suggello della sua totale damnatio memoriae, solo i nemici politici delle idee che egli rappresentò e per le quali, sebbene fossero e siano discutibili, sacrificò l’intera sua vita, fino ala tragica morte nell’aprile del 1945; sicché l’ultima parola sul controverso e sfortunato giornalista e scrittore, non privo di doti intellettuali e d’intraprendenza in svariati ambiti sociali (si prodigò da giovane, quand’era ancora prete, per l’assistenza ai nostri emigranti negli Stai Uniti e in Germania), ma quanto mai irrequieto, spigoloso, sgradevole, è stata scritta da chi non aveva, e non ha, il minimo interesse a compiere uno sforzo d’imparzialità e obiettività nei suoi confronti.
Prendiamo il caso di ciò che dice di lui il saggista Aldo Alessandro Mola nel suo grosso volume Storia della Massoneria italiana dall’Unità alla Repubblica (Milano, Bompiani, 1976, pp. 579-81):
Nel 1944, dunque, egli pubblicava il suo "Syllabus": "Giudaismo, bolscevismo, plutocrazia, massoneria, una miscellanea di scritti sparsi in vent’anni di battaglia pubblicistica, che costituiva la ‘summa’ delle "prove dell’infamia massonica". Pochi mesi prima Preziosi aveva aggiunto un altro grano alla sua corona: la definitiva condanna del Risorgimento nazionale in quanto operazione monarchico-massonico-giudaica: con buona pace di Gentile, Volpe e quant’altri avevano cercato nella tradizione risorgimentale l’annuncio del’Italia moderna fascista. Una tesi, questa, che già l’aveva sospinto a contrapporsi, sin dal 1922, al nazionalista Federzoni, piuttosto lontana e per certi aspetti persino opposta al pensiero del carloalbertino Alessandro Luzio, ma che tuttavia metteva bene in evidenza quale fosse il punto d’arrivo della sostituzione del fanatismo al criticismo storico. In "La Massoneria" di F. Gaeta, "scoperto" e prefato da Preziosi, come negli scritti centrali della citata miscellanea, il discorso ritornava sulla "rivelazione" che tutte le Logge del mondo fanno capo alla "massoneria superiore ebraica", i cui corpi (Scudo di Abramo, Scudo di David, Fratelli del Patto, Fratelli della Fede…) erano altrettanti gradini che conducevamo al vertice della "Bnai Berith": Figli del Patto, la superloggia che — annidata tra i bolscevichi (come sosteneva il Louis Ternac di "La libre parole") e ramificata nel mondo capitalistico — abbracciava nei suoi tentacoli l’intera società mondiale dominando come un solo cervello economia, istituzioni politiche e ogni altra cosa. Il dualismo monoteleutico, applicato alla lotta contro la Massoneria, suscitava in Preziosi quella sfrenata megalomania che acutamente Norman Cohn ha individuato nell’antisemitismo demonologico: SOLO sulla rupe della storia, EGLI affrontava il MOSTRO e a una a una ne avrebbe reciso le teste restituendo agli uomini l’originaria serenità, la purezza, la "ingenua" felicità.
Come sorgevano difficoltà alla pubblicazione della nuova serie repubblichina di "La Vita Italiana" — ora per via delle ristrettezze imposte dalla guerra, ora per ragioni tipografico-editoriali, ora perché il ministro della Cultura popolare, Mezzasoma, ne faceva sequestrare i fascicoli, giudicandoli controproducenti per la più ampia strategia del regime — EGLI si rivolgeva direttamente a Mussolini per spiegare per filo e per segno come tutti gli intoppi a suo danno rimontavano a una Causa che infine non poteva avere che un nome: MASSONERIA. Senonché, beffardamente, avvoltolato tra i funzionari della Casa Editrice che avrebbe dovuto fare alle stampe le decisive opere di Preziosi, il Serpente Verde si rigirava a piacere tra le squamose mani il Minculpop (che andava infatti nominando ebrei e massoni in posizioni chiave, gridava Preziosi) e nuovamente avvinghiava gli ambienti più vicini allo stesso "duce": al quale, il 6 febbraio 1945, inviandogli il primo esemplare della seconda edizione del "pamphlet" di Gaeta ("nessun libro sul pericolo massonico è più preciso e convincente di questo in ogni sua pagina") ricordava, a mo’ di rimprovero, che le copie della prima edizione erano state tolte dalla circolazione.
Chiamato a render conto, F. Mezzasoma, ministro della Cultura popolare, scriveva senza indugi a Mussolini che "il direttore de ‘La Vita Italiana’ deve essere evidentemente vittima di una allucinazione quando non sa vedere che boicottaggio e sabotaggio proprio in quegli organi che gli hanno dato la possibilità di fare quel pochissimo che ha fatto e di cui tanto ha parlato e Vi ha parlato" (30 gennaio 1945). Tre giorni prima, a Giorgio Almirante, da tempo ben noto ai lettori del mensile "La difesa della razza" e fidatissimo braccio destro di Preziosi, il dott. Corrado Marchi, dell’Editrice implicata nell’attività pubblicistica dell’Ispettore per la Razza [cioè lo stesso Preziosi], affermava "in maniera categorica che la sua coscienza di fascista, non ebreo né massone [qualità di cui era stato tacciato, n.d.t.], e di editore, era perfettamente tranquilla: più di quanto si è fatto e si fa, non è possibile fare".
Non più di libri, ormai, aveva bisogno la pluridecennale invettiva antimassonica, né di nuove dotte disquisizioni, né d’altre chiose: tutto ciarpame necessario alle ostiche dottrine, alle tesi perdenti, non già alla smania d’azione e di distruzione in cui sprofondava la RSI. Avevano ragione "Camicia Nera", "Avanguardista", i fogli, insomma, che non badavano a mezze misure nel caricar la dose di documenti usciti dalle cucine economiche delle redazioni federali repubblichine: i quali, come sarcasticamente faceva rilevare "Leonessa", giornale della Brigata Nera di Brescia, proprio per la violenta sbrigatività di cui facevan uso, avevan certo più efficacia dei 367 fascicoli sino ad allora usciti di "La Vita Italiana".
Può essere che noi siamo ipersensibili o inguaribilmente malati di donchisciottismo, ma non ci piace questa maniera, spocchiosa e sprezzante, di parlare del nemico sconfitto; specie quando si sa di aver le spalle coperte da tutto l’establishment del politicamente corretto, il che offre il vantaggio di poter sparare a zero senza doversi sobbarcare la fatica di sostenere un contraddittorio ad armi pari. E non ci piace il vezzo di citare i propri amici a sostegno delle proprie tesi, gratificandoli di acume psicologico, solo perché buttano lì due frasi fatte sulla megalomania altrui; ci ricorda troppo i salotti televisivi di Corrado Augias, dove sono invitati — ma a spese di tutti i contribuenti italiani – solo quelli che la pensano come il conduttore o che, in ogni modo, portano acqua al suo mulino, e coi quali è tutto un cerimoniale ossequioso, in stile quasi rococò. Già il fatto che a celebrare il processo ideologico del caduto sia un suo nemico dichiarato, ci sembra che offra ben poche garanzie di serietà e imparzialità. Non è bello quando i vincitori mettono il vinto, ormai defunto, alla berlina: non è bello Carlo Emilio Gadda che infierisce sul cadavere di Mussolini e non è bello Eugenio Garin che si accanisce contro la memoria di Francesco Orestano (cfr. i nostri articoli: Nausea dell’esistenza e bassezza morale di un falso "grande" della letteratura: Carlo Emilio Gadda, e Quando i vincitori scrivono la storia della filosofia: il caso di Francesco Orestano, pubblicati rispettivamente sul sito di Arianna Editrice il 12/05/10 e il 13/01/11, e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 21/10/17 e il 29/11/17). L’Autore di questa pagina, da parte sua, dimostra di non essere uno storico, ma un polemista; del resto, le oltre 800 pagine della sua Storia della Massoneria dovrebbero intitolarsi, piuttosto, Apologia della Massoneria, dal momento che è scritta tutta in tono d’iperbolico elogio, oltretutto ingenuamente manicheo: guarda caso, sono tutti nobili idealisti i massoni, e tutti energumeni svitati gli anti-massoni, come in questo caso. Oltre a scoccare parecchie frecciate di dubbio gusto contro Preziosi, il Mola vorrebbe ridurre le tesi di quest’ultimo, frutto di una vita di ricerche e fonte, a loro volta, di una massa imponente di scritti, all’ossessione paranoica di uno squilibrato; e pensa d’aver fornito la prova delle prove quando riporta la convinzione di Preziosi che tutto il Risorgimento sia stato viziato dalla componente massonica, monarchica e giudaica. Dopo di che, trionfante, sottolinea come una simile interpretazione collida frontalmente, secondo lui, con quella di Gentile e di Volpe e quindi si ponga come insostenibile anche sul versante fascista, che considera il Risorgimento come la premessa del fascismo stesso. Questo è solo un esempio del modo di ragionare, o meglio di semplificare, del Nostro. Le due interpretazioni del Risorgimento, quella di Preziosi e quella di Gentile, non sono affatto incompatibili, ma possono integrarsi benissimo a vicenda: si può vedere nel Risorgimento la presenza delle forze che cita Preziosi, e tuttavia è possibile vedervi anche il significato ideale evocato da Gentile; con la non secondaria precisazione che Gentile vedeva il fascismo come la prosecuzione e il completamento dell’opera interrotta e incompleta del Risorgimento, e non viceversa, il Risorgimento come preludio del fascismo. Anzi proprio perché il Risorgimento è stato una rivoluzione incompleta e interrotta, il ragionamento di Gentile non fa una grinza; e, nello stesso tempo, lascia aperta la domanda sul perché sia stata una rivoluzione incompleta e interrotta: al che si può rispondere che ciò è accaduto per essere stato egemonizzato, a partire da un certo momento, dalle forze sotterranee evocate da Preziosi, e con ciò sottratto a una vera e sentita partecipazione popolare, la quale non poteva prescindere dal coinvolgimento delle masse cattoliche. Invece, come è noto, il Risorgimento fu fatto soprattutto da un piccolo gruppo di massoni, in odio ai sentimenti religiosi della stragrande maggioranza della popolazione: fattore di debolezza non certo lieve per il futuro Regno d’Italia, sorto da un’iniziativa di pochi, in contrasto col sentimento dei più. Ma su ciò il Mola sorvola bellamente, perché, altrimenti, dovrebbe affrontare un tema sgradito alla sua tesi: l’assoluta mancanza di basi popolari della massoneria e quindi l’essere un fenomeno non solo ambiguo, ma anche lontanissimo dalla cultura e dai bisogni più autentici del popolo italiano. E del resto, che grado di obiettività storiografica si può attribuire a uno studioso che chiama repubblichini i fascisti della Repubblica Sociale? Essi furono fascisti repubblicani; chiamarli "repubblichini" rivela un atteggiamento di sprezzo che è quello dei partigiani al tempo della guerra civile, ma che, in un’opera pubblicata oltre trent’anni dopo quei fatti, lascia alquanto perplessi.
Non sappiamo, né vogliamo sapere, se il Mola sia massone. Uno dei vantaggi di affiliarsi a una società segreta, e non dei minori, è proprio quello di poter tener nascosta la propria appartenenza e quindi di potersi muovere su un doppio binario, pubblico e segreto, a seconda delle circostanze. Quel che è certo è che egli non fa il minimo sforzo per nascondere la sua incondizionata simpatia per la massoneria, il che ne fa uno storico alquanto insipido. Un giornalista, nel corso di un’intervista, si è visto costretto a chiedergli se volesse muovere almeno una critica alla massoneria; al che la risposta è stata un ulteriore elogio e non una critica, a conferma di quanto detto sopra. I vincitori, quando si muovono in regime di monopolio, possono permettersi di calpestare l’abc del corretto modo di procedere di fronte a una questione storiografica; tanto, sanno di giocare sempre in casa e di non doversi preoccupare di nulla. E allora, dàlli all’untore; com’è facile sparare sulla memoria di Preziosi, il grande maledetto: nessuno si leverà a balbettare una sola parola in sua difesa. Questo, peraltro, non è un caso eccezionale, al contrario è paradigmatico. Da settant’anni la cultura dominante italiana procede in questo modo: fa tutto da sola, se la canta e se la suona, si fa il processo (qualora ne abbia voglia) e si auto-assolve, e condanna all’inferno tutti i suoi nemici. Per gente così la massoneria, se non ci fosse, si dovrebbe inventarla: altrimenti, come farebbero strada?
Quanto alla tesi di Preziosi, che vede il B’nai B’rith al centro d’un vasto complotto: e se fosse vera?
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio