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19 Giugno 2019Sono in molti, oggi, specialmente fra i giovani che studiano la storia su libri di testo talmente omologati che paiono l’uno la fotocopia dell’altro, a ignorare che le Forze Armate italiane, nella Seconda guerra mondiale, non riportarono solo cocenti e disastrose sconfitte, ma anche un certo numero di vittorie. Sfortunatamente, esse ebbero luogo per lo più in settori periferici, e inoltre si trattò quasi sempre di successi tattici, magari brillanti, tuttavia non suscettibili di diventare significative vittorie strategiche, o per mancanza di mezzi adeguati, o per mancanza di una mente direttiva e di un chiaro concetto operativo, che coordinasse gli sforzi e li indirizzasse nelle direzioni più redditizie sotto il profilo strategico. Abbiamo detto sfortunatamente, ma questo avverbio è solo un modo di dire: infatti non la sfortuna, ma una condotta erronea delle operazioni impedì di riportare i massimi risultati là dove avrebbero potuto provocare una reale crisi dello schieramento nemico e quindi imprimere una svolta favorevole all’insieme della condotta della guerra. A suo tempo abbiamo rievocato una straordinaria vittoria aeronavale di cui i libri di storia sembrano essersi scordati, la battaglia di Mezzo giugno del 1942, cui concorsero reparti della Luftwaffe e unità della Kriegsmarine, essendo i tedeschi, a quell’epoca, preziosi alleati e non ancora barbari invasori e spietati occupanti (vedi l’articolo: Rimuovere la battaglia di Mezzo Giugno per meglio deprimere lo spirito nazionale, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 17/06/14, e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 19/01/18). Vogliamo adesso ricordare un fatto d’armi riguardante esclusivamente l’esercito, la conquista della Somalia britannica nell’estate del primo anno di guerra, per valutare i pro e i contro di quella campagna e per trarre le opportune conclusioni circa l’insieme della condotta delle operazioni da parte del nostro Comando Supremo, nonché sul significato politico del silenzio che è stato fatto calare sul sacrificio di quei nostri soldati, da parte della cultura dominante in Italia dopo il 1945.
Dal 3 al 19 agosto del 1940 l’esercito italiano dislocato in Etiopia condusse una vittoriosa campagna per la conquista di una colonia britannica, il Somaliland, che formava una sorta di enclave sul fianco dell’Africa Orientale Italiana (l’altra enclave, quella della Somalia francese, era stata neutralizzata dall’armistizio di Villa Incisa, il 24 giugno 1940), conclusasi con la conquista di Berbera, la capitale, sulle rive dell’Oceano Indiano. Si può discutere circa l’opportunità di quella campagna dal punto di vista strategico: i vantaggio più evidenti erano l’eliminazione di una pericolosa testa di ponte nemica sul fianco del nostro schieramento e l’accorciamento della frontiera di circa 400 km; gli svantaggi, la dispersione delle nostre forze su uno scacchiere marginale, e il consumo di munizioni, pezzi di ricambio e carburante, laddove le risorse a disposizione del viceré erano limitate e destinate a scemare progressivamente, stante l’interruzione di ogni rifornimento diretto da parte della madrepatria. Mettendo sul piatto della bilancia i pro e i contro, a nostro parere avrebbero dovuto prevalere i contro: quando si hanno a disposizione forze limitate e si sa di non poter sostituire il materiale usurato, né rifornire di benzina gli automezzi, e di carburante gli aerei e le navi, non si disperdono le proprie risorse su obiettivi secondari, ma si concentra tutto il potenziale disponibile là dove lo sforzo può risultare decisivo. E non c’è alcun dubbio che la sola direttrice d’attacco decisiva, nel teatro d’operazioni dell’Africa Orientale, fosse quella dell’alta valle del Nilo. Un’offensiva decisa nel Sudan, verso Khartoum, avrebbe consentito di minacciare da sud le posizioni britanniche in Egitto e creato le premesse per una manovra convergente del nostro esercito dalla Libia verso il Delta del Nilo. È vero che, per una tale campagna, sarebbero state necessarie delle forze meccanizzate e una adeguata protezione aerea, date le lunghe distanze da coprire su terreno scoperto; ma è altrettanto vero che, nel giugno del 1940, l’immenso territorio del Sudan era presidiato da forze britanniche assolutamente risibili, appena un velo di copertura che non avrebbe potuto opporre alcuna seria resistenza, come si vide nell’operazione che condusse alla conquista di Cassala il 4 luglio 1940. Il problema fondamentale, dal quale tutto il resto dipendeva, era quello dei collegamenti con l’Italia, quindi era innanzitutto la conquista di Suez e del Canale, in secondo luogo lo stabilimento di un contatto fra l’esercito dell’A.O.I. e quello schierato in Libia, che a sua volta era collegato all’Italia grazie all’impegno della Regia Marina. Perciò era chiaro che l’esercito italiano in Libia, comandato da Graziani, doveva puntare sul Delta del Nilo, così come era chiaro che l’esercito dell’Impero, comandato da Amedeo d’Aosta, doveva puntare su Khartoum, alla confluenza del Nilo Azzurro con il Nilo Bianco. Consumare uomini, materiali e carburante su qualsiasi altra direttrice d’attacco sarebbe stato contrario ai principi di una sana strategia, se è vero l’assioma stabilito una volta per tutte da von Clausewitz, che la guerra consiste nella ricerca dei mezzi per ridurre il nemico all’impotenza, e non nel disperdere forze su teatri secondari, inseguendo obiettivi chimerici o dettati da ragioni meramente politiche. Le guerre non si vincono conquistando territori, ma fiaccando le risorse del nemico: dunque la conquista della Somalia britannica era un’operazione non necessaria e inutilmente dispendiosa, dettata più da ragioni di prestigio che da ragioni strettamente militari.
Così rievoca quel capitolo oggi quasi dimenticato della nostra militare il saggista B. Palmiro Boschesi nella sua opera L’Italia nella Seconda guerra mondiale (Milano, Mondadori, vol. 1, 10/VI/1940-25/VII/1943, 1975, pp. 19-21):
Secondo le direttive di Mussolini all’inizio della Seconda guerra mondiale, alle truppe dell’Africa Orientale Italiana spetta un compito offensivo. Massimo responsabile della zona è il viceré Amedeo di Savoia, comandante superiore delle Forze Armate dell’Africa Orientale, che il 21 giugno 1940 viene nominato anche governatore generale militare e civile. Da lui dipendono il vicegovernatore civile Daodiace e il vicegovernatore militare generale Claudio Trezzani (che il 27 luglio sarà nominato capo di Stato Maggiore del governo generale dell’A.O.I., cioè vero comandante in capo delle truppe dell’Impero).
L’organizzazione data all’inizio del giugno 1940 prevede il frazionamento della difesa in tre scacchieri: lo scacchiere Nord al comando del gen. Di corpo d’armata Luigi Frusci, lo scacchiere Est al comando del gen. Di corpo d’armata Guglielmo Nasi, e lo scacchiere Sud e Ovest al comando del gen. Di corpo d’armata Pietro Gazzera. Il settore Giuba, in particolare, è sotto la responsabilità del gen. Gustavo Pesenti.
Quanto alle truppe, l’Italia può contare in Africa Orientale su 23 brigate coloniali per un totale di 270.000 indigeni, sulla divisione Ganatieri di Savoia di stanza d Addis Abeba e su diversi battaglioni di Camicie Nere per un totale di 54.000 uomini. Nella base di Massaua si dispone di 7 cacciatorpediniere, 2 torpediniere, 5 Mas e altre unità, compresi 8 sommergibili. L’appoggio aereo è fornito da circa 200 apparecchi. L’avvio all’offensiva italiana, già iniziata con una serie di bombardamenti nel mese di giugno, viene dato il 4 luglio con la conquista, ad opera del gen. Tessitore dello scacchiere Nord, del centro di Cassala, seguita il giorno dopo dalla conquista di Gallabat (località entrambe situate nel Sudan anglo-egiziano al di là del confine). Lo scacchiere Sud occupa a sua volta il forte di Moyale, immediatamente al di là del confine cin il Kenya, il 16 luglio.
Ma l’impresa realizzata per dare lustro alle armi italiane in questa prima estate di guerra è la conquista della Somalia inglese che, secondo la relazione del quartier generale delle Forze Armate pubblicata il 24 agosto ad impresa conclusa, "era prevista dal piano strategico di guerra".
Il compito di aggredire la colonia britannica (governata dal brigadiere A. R. Chater e difesa dal Camel Corps, da due reggimenti del Punjab e da un battaglione del 1° reggimento della Rhodesia el Nord per un totale di circa 13.000 uomini) viene affidato al gen. Guglielmo Nasi, che ha a disposizione 40.000 uomini suddivisi in tre colonne, una di sinistra comandata dal gen. Bertoldi, una di centro comandata dal gen. De Simone e una di destra comandata dal gen. Bertello. Il pano scatta il 3 agosto. La colonna Bertoldi prende le mosse da Adele e punta su Zeila che raggiunge e conquista due giorni dopo con il proposito di bloccare un eventuale ma improbabile aiuto proveniente dalla Somalia francese. La colonna De Simone conquista il 6 agosto il centro di Hargeisa, dirigendosi quindi verso la capitale Berbera. La colonna Bertello, infine, supera il confine più ad oriente e il 6 agosto occupa il villaggio di Adueina. L’avanzata verso Berbera della colonna De Simone, alla quale si congiungono elementi delle altre due colonne, viene fermata al passo di Tug Argan che vede l’ultima resistenza britannica. La battaglia, svoltasi tra l’11 e il 16 agosto, vede il progressivo incalzare delle truppe italiane, superiori di numero, che costringono il gen. Godwin-Austen a ritirarsi per evitare l’accerchiamento.
Godwin-Austen chiede ed ottiene dal comando superiore l’autorizzazione ad abbandonare la Somalia e il 16 agosto ripiega rapidamente su Berbera, riuscendo ad imbracare gran parte delle sue trippe e a fuoco vasto settori della città. Il 19 gli italiani entrano a Berbera. Il bilancio dell’impresa è di 2.052 perdite nelle file italiane e di sole 250 perdite nelle file inglesi.
Il bollettino di guerra n. 73 dà il lieto annuncio: "Travolte le superstiti resistenze delle retroguardie nemiche, nel pomeriggio di ieri 19 le nostre truppe hanno occupato Berbera, capitale della Somalia britannica". Mussolini si affretta ad inviare un messaggio al duca d’Aosta: Vi giunga, Altezza", scrive fra l’altro il Duce, "insieme col mio, il plauso del popolo italiano che ha seguito con assoluta certezza di vittoria le fasi della dura battaglia. Dopo la necessaria sosta, voi dirigerete verso altre mete la volontà perseverante e l’ardimento delle truppe che presidiano l’Impero e lo estendono nei confini e nella potenza".
Hitler spedisce a sua volta un telegramma di congratulazioni a Mussolini: "Vogliate, Duce, e con Voi il vostro esercito, le mie e le cordiali felicitazioni di tutto il popolo tedesco per la grande vittoria nell’Africa Orientale". Il ministro della Guerra britannico, in un comunicato, sottolinea che l’evacuazione della Somalia è stata effettuata con pieno successo, afferma che l’abbandono della colonia era già stato messo in preventivo e conclude: "Le perdite del nemico sono assolutamente fuori proporzione alla sua conquista". Lo storico Emilio Canevari ha scritto: "In questa futile impresa, che non aveva strategicamente alcun significato, si sperperano gran parte delle risorse che avrebbero potuto essere impiegate utilmente nella sola direzione militarmente e politicamente redditizia: il Sudan".
Siamo d’accordo col giudizio di Emilio Canevari: quella della Somalia britannica fu una campagna sostanzialmente inutile e, quel che è peggio, terribilmente dispendiosa, quando ogni uomo, ogni animale da soma, ogni camion, ogni mitragliatrice, ogni proiettile e ogni goccia di carburante erano necessari là dove ci si poteva ripromettere un risultato decisivo: quello in direzione del Nilo. D’altra pare, sarebbe un errore tener conto solo degli aspetti strettamente militari della campagna dell’Africa Orientale; riteniamo che altri due fattori abbiano avuto un peso decisivo nel determinare le scelte operative: quello politico e quello psicologico. Politicamente, il Comando Supremo, e lo stesso Mussolini, nel giugno del 1940 s’illusero che la guerra fosse ormai già quasi finita, e quindi non fosse necessario predisporre dei piani di medio e lungo periodo. Errore fatale, perché la Gran Bretagna, sostenuta apertamente dagli Stati Uniti, non aveva alcuna intenzione di chiedere l’armistizio, come lo aveva chiesto la Francia; e perché un’azione decisa nelle prime settimane di guerra avrebbe potuto condurre a risultati importanti, dal momento che gli inglesi erano già quasi rassegnati allo sgombero del Mediterraneo e si tenevano pronti a salpare da Suez e alla perdita di Malta, non avendo, all’inizio dell’estate, forze sufficienti per tenere le loro posizioni, qualora l’Italia avesse condotto le operazioni in maniera decisa e aggressiva. L’errore psicologico consistette nel pensare che si potesse fare la guerra, e perfino vincerla, senza picchiare troppo duro contro il nemico, onde non esasperare i rapporti futuri con le nazioni alleate (scrupoli che gli alleati non ebbero, dato che pochissime ore dopo l’inizio delle ostilità l’aviazione britannica bombardava Torino e la flotta francese bombardava Genova, provocando un inutile massacro di civili). Fu per questo, oltre che l’infiltrazione massonica negli alti comandi delle Forze Armate, e specialmente della Marina, che l’Italia s’illuse di poter sedere al tavolo della pace senza aver giocato il tutto per tutto sui campi di battaglia. Gli alleati del Tripartito, compresi i giapponesi, rimasero stupiti dall’inazione italiana nei primi mesi di guerra, e in particolare dalla mancata occupazione di Malta; i nemici ne trassero le loro brave deduzioni e si prepararono con calma a sferrare il contrattacco, concentrando le loro forze nei settori decisivi, avendo capito che gli italiani non avrebbero fatto lo stesso ma avrebbero fatto la guerra all’italiana, cioè senza cercare il risultato decisivo. Gli ammiragli di Supermarina, per esempio, si preoccupavano anche troppo del fatto che ogni uscita in mare delle corazzate avrebbe causato un consumo enorme di carburante, ma stranamente sembra che non abbiano pensato che, consumo per consumo, tanto valeva far uscire le grandi navi per affrontare il nemico in una battaglia risolutiva e assicurarsi il dominio del Mediterraneo, invece di tirare qualche colpo di cannone a distanza e poi rientrare alle basi. A questo errore psicologico non fu estranea l’ingenuità del duca d’Aosta, cui i suoi vecchi amici di college inglesi fecero credere che, se non avesse colpito per primo, lo avrebbero lasciato in pace, neutralizzando di fatto il settore dell’Africa Orientale e lasciando alle future trattative di pace decidere le questioni coloniali fra le due potenze. Questo errore d’ingenuità può aver contribuito a fargli scegliere come direttrice d’attacco la Somalia britannica, obiettivo del tutto secondario, tralasciando la valle superiore del Nilo, obiettivo decisivo per le future sorti del conflitto.
Queste riflessioni di riconducono inevitabilmente alla debolezza di fondo dell’Italia nel 1940, la stessa del 1915 e la stessa di oggi. Che non era, e non è, una debolezza materiale, o non solo materiale. Se è vero, infatti, che sul piano industriale e finanziario l’Italia era molto svantaggiata in un confronto diretto con le democrazie occidentali, è altrettanto vero che per fare una guerra contro simili avversari, non una piccola guerra coloniale come quella d’Etiopia del 1935-36, è necessaria una saldezza spirituale, culturale e morale, ossia è necessario che la nazione possieda i requisiti della compattezza e della piena coscienza di sé. L’Italia non li aveva, perché il popolo italiano non si era ancora sufficientemente formato. Inoltre, erano forti le forze politiche socialiste e comuniste, le quali aborrivano i valori nazionali, considerati mistificazioni della borghesia, e che in nome dell’internazionalismo vedevano nella guerra e, paradossalmente, nella sconfitta, l’occasione per la conquista del potere. Tale era stato il loro atteggiamento nel 1915-18, e per un soffio esse non erano riuscite a creare un livello di disfattismo tale da provocare la catastrofe (si pensi allo "sciopero militare" di Caporetto). Se ciò non era avvenuto, lo si deve al fatto che il generale Cadorna usò la mano pesante con la giustizia militare e fece lavorare i plotoni d’esecuzioni a pieno ritmo. Ma nel 1940 l’esercito non era guidato da Cadorna, bensì da Badoglio: e anche se dirlo è politicamente scorrettissimo, la verità è che il fascismo non osò attuare le decimazioni contro i renitenti alla leva, i disertori e i ribelli alla disciplina (i quali, peraltro furono assai meno numerosi che nelle "radiose giornate" del maggio 1915) con lo stesso pugno di ferro che avevano usato i governi liberali al tempo della Prima guerra mondiale. Ciò diede agio a quanti desideravano la sconfitta dell’Italia, non solo socialisti e comunisti, ma grandi industriali, banchieri, massoni, ammiragli, monsignori, di spargere il veleno disfattista in tutti gli ambiti della società, Forze Armate comprese. E che questa non sia un’insinuazione gratuita lo prova l’infame articolo 16 del Trattato di Parigi del 1947, che vieta all’Italia di perseguire penalmente i traditori che collaborarono col nemico sin dal 10 giugno del 1940 (e che ebbero laute decorazioni dai vincitori quale riconoscimento dei loro servigi). Ora, in una situazione come questa, era fatale che l’Italia non potesse condurre una guerra a fondo, ma si limitasse a sperare in una rapida conclusione del confitto, in sostanza mercé le vittorie tedesche. Se il conflitto fosse durato a lungo, se si fosse inasprito, se avesse assunto un carattere fortemente ideologico, la debolezza del fronte interno si sarebbe rivelata in pieno e avrebbe lasciato campo libero alle mene dei nemici del fascismo, i quali, accecati dall’odio di parte, non consideravano che una eventuale sconfitta sarebbe stata non solo la sconfitta del fascismo, ma dell’Italia come nazione sovrana e indipendente.
Tutto questo ci aiuta a inquadrare nella giusta prospettiva operazioni come quella per la conquista della Somalia britannica, nell’agosto del 1940. Se l’Italia avesse voluto davvero combattere la sua guerra, invece di assicurarsi pegni prematuri per la pace, come la Somalia britannica, avrebbe colpito con la massima decisione e con tutte le forze disponibili, terrestri, aeree e navali, in tre direzioni precise: Malta, Suez e Gibilterra (in quest’ultimo caso, cercando di trascinare con sé il caudillo spagnolo). Chi non vuol combattere sul serio; chi si limita a sperare nella vittoria, senza dover lottare sino in fondo, ha già perso in partenza: se non sarà il nemico di oggi a fargliela pagare, sarà l’alleato, un domani. Ma l’Italia, nel giugno del 1940, poteva davvero restar fuori dal conflitto? Questa è la vera domanda che ci si deve porre. E la risposta, secondo noi, è negativa, e abbiamo già provato a dimostrarlo, a suo tempo, in alcuni articoli (cfr. specialmente Ma è proprio vero che l’Italia avrebbe potuto tenersi fuori dalla seconda guerra mondiale?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 12/03/10 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 21/12/17; e Fu il ricatto inglese, nel 1940, a spingere l’Italia in guerra?, rispettivamente il 04/11/10 e il 10/12/17). Ciò conferisce alla situazione di Mussolini, fra il settembre del 1939 e il giugno del 1940, una tonalità veramente drammatica. Il dilemma non era se entrare in guerra o restare neutrali, ma contro chi e al fianco di chi entrare in guerra. E chi non ha capito, né vuol capire, che quello non fu il dramma privato di Mussolini, di un dittatore e del suo regime, ma il dramma collettivo dell’Italia; e che con esso si giocavano i destini futuri della Patria per chissà quante generazioni, davvero non ha capito nulla.
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