
Che peccato non aver avuto professori così
12 Giugno 2019
Fuori della Grazia la condizione umana è assurda
12 Giugno 2019Tutti sentiamo, sappiamo e vediamo, che c’è qualcosa che non va nelle democrazie odierne; pure, è impossibile manifestare apertamente questa impressione, esprimere questo disagio, perché subito scatta la censura del politically correct: ma come!, si dice, abbiamo combattuto per la libertà (?), e ora voi vorreste che tornassimo indietro, vorreste vedere la nostra società regredire alle dittature del passato, o, comunque, a delle forme di governo autoritario? Niente da fare: tutti sanno che la democrazia è malata, forse in coma; tutti però devono far finta d’esser contenti e soddisfatti. "Tutti" sono gli intellettuali e, naturalmente, i politici; tutti i rappresentanti dell’establishment: gli altri, il popolino, che brontolino pure, purché non si oltrepassino certi limiti; nel qual caso scattano le denunce e partono le condanne. Tanto per ricordargli di stare al suo posto: va bene i motteggi, va bene le pasquinate, però non esageriamo. Eppure, chi davvero ama la libertà farebbe meglio a interrogarsi sulle ragioni della crisi che travaglia la democrazia, invece di avvolgerla in una fasciatura da mummia, che la preserva solo in apparenza dagli oltraggi del tempo. È una pessima politica quella di nascondere la sporcizia sotto il tappeto, o di simulare la salute raddoppiando lo strato di trucco sul viso. Meglio, molto meglio, guardare in faccia la realtà e chiamare le cose col loro nome, sforzandosi di vedere se non ci sia, per caso, una soluzione ai problemi che ci attanagliano; altrimenti non si fa altro che accumulare i sintomi del male e, nascondendoli, aggravarli, finché essi esploderanno irresistibilmente e travolgeranno ogni cosa, rendendo impossibile qualunque tentativo di salvare l’organismo.
Quando diciamo che la democrazia, oggi, è manifestamente in crisi, non intendiamo parlare, semplicemente, del suo mal funzionamento, ma di una serie di dinamiche di portata assai più ampia, globale e strutturale. Perciò non bisogna confondere una democrazia che funziona male per delle ragioni contingenti e specifiche, come quella italiana, in cui non si riesce a ottenere neppure la buona amministrazione delle questioni ordinarie e di quelle locali – dal pareggio del bilancio all’efficienza dei servizi pubblici, ad un equo sistema fiscale e alla rapidità e affidabilità del sistema giudiziario – con il degrado della democrazia odierna su scala mondiale. Ciò vuol dire che Paesi come il nostro vivono sulla propria pelle un doppio problema, il collasso della democrazia per ragioni interne, dovuto soprattutto alla mancanza di una classe dirigente degna di questo nome, e la crisi della democrazia come sistema politico in quanto tale, nelle condizioni date della tarda modernità, e che non risparmia neppure le democrazie più efficienti e quelle dotate della migliore macchina amministrativa, come la Germania, o la Gran Bretagna, o gli Stati Uniti d’America. Non ci occuperemo, in questa sede, del primo problema, che riguarda, appunto, situazioni legate alla particolare storia di questa o quella nazione (e c’è chi sta peggio, molto peggio di noi: si pensi alle "democrazie" sudamericane o a quelle africane e asiatiche…), ma cercheremo di svolgere una breve riflessione sul secondo.
Perché è in crisi la democrazia, a livello globale? A nostro parere, perché la globalizzazione ha portato al pettine alcuni nodi che, altrimenti, avrebbero potuto restare quiescenti ancora per molto tempo, e in particolare due: la prevalenza del potere finanziario su quello politico, dall’alto e la crisi di rappresentanza, dal basso. Il potere finanziario è un potere occulto, tanto è vero che gli uomini più potenti del mondo, i proprietari delle maggiori banche, sono scarsamente conosciuti dal grande pubblico, o perfino ignorati. In teoria, essi dovrebbero occuparsi dei loro affari, o così pensa l’uomo della strada; di fatto, essi si occupano dei loro affari, e ciò implica che si occupano di ogni aspetto della vita moderna, a cominciare proprio dalla politica. In pratica, per poter realizzare i migliori investimenti e per fare denaro con le più sfacciate speculazioni, essi hanno bisogno di esercitare una tutela, possibilmente discreta, cioè poco visibile, sulla politica (ma anche sull’industria, l’agricoltura, il commercio, l’informazione, la sanità, la cultura, la scuola, eccetera), piazzando uomini ad essi devoti nei settori chiave del governo e dell’amministrazione degli Stati, dalle superpotenze agli staterelli che esistono solo per il fatto di essere dei paradisi fiscali. Ciò significa che devono selezionarli e farli eleggere: il che è possibile investendo molto denaro nelle loro campagne elettorali e supportando con ogni mezzo la loro scalata al governo. Ed ecco spiegato il mistero di uomini pressoché sconosciuti che, nel giro di tempi brevissimi, arrivano ai vertici del potere, accompagnati da una intensa propaganda mediatica che presenta come naturale e quasi come fatale la loro carriera, come se dipendesse da qualche loro merito speciale, da qualche loro particolare abilità, mentre dipende solo dal sostegno massiccio, implacabile, della grande finanza, che li mette in grado di sbaragliare la concorrenza.
Ricordiamo alle anime belle che, in democrazia, tutti possono candidarsi alle cariche pubbliche, ma chi dispone di molto denaro può farsi conoscere, può accedere alla stampa e alle televisioni, può diventare un personaggio mediatico e può trovare un coro di approvazione presso giornalisti, opinionisti, politologi e tuttologi, i quali si prestano a servire con zelo il migliore offerente. A ciò si aggiunga la potenza delle società segrete, la massoneria in primis, le quali agiscono come delle gigantesche mafie e piazzano i loro candidati nei posti decisivi, escludendone tutti gli altri, e che offrono una rete di solidarietà a livello non solo politico e mediatico, ma anche giudiziario: con giudici compiacenti che chiudono un occhio, e anche tutti e due, sui peccati dei "fratelli" mentre son più che disposti ad accanirsi, perfino inventandosi reati inesistenti, contro quelli che "fratelli" non sono. Ora, specialmente nel caso dei grandi Stati, candidarsi alla politica con ambizioni di governo significa aver bisogno di somme enormi di denaro; e chi, se non la grande finanza, è in grado di disporre di simili capitali? Non certo il privato cittadino, per quanto animato dalle migliori intenzioni e dotato di ottime capacità personali; e neppure i normali gruppi politici, come i partiti, almeno in base ai loro bilanci ufficiali e cioè senza tener conto dei finanziamenti in nero che ricevono da chissà dove e da chissà chi, e soprattutto chissà mai a quali condizioni. Prendiamo il caso degli Stati Uniti, la democrazia per eccellenza: la prima in ordine di tempo, e quella che si pone come modello per tutte le altre. Anche il cittadino più distratto e meno interessato alla politica sa come si svolgono le competizioni per la presidenza di quel Paese; sa, o intuisce, che dietro le quinte le multinazionali, e più ancora le grandi banche d’affari, investono somme favolose su questo o quel candidato, non certo per beneficenza, o per una forma d’idealismo; e che così si spiega l’emergere improvviso di personaggi fino allora sconosciuti, come è stato il caso di Barack Obama, la cui elezione viene poi presentata come un evento inarrestabile e quasi come una forza della natura, mentre è vero l’esatto contrario: che un certo signor nessuno è stato selezionato in base a precisi criteri, è stato studiato a tavolino, è stato "lanciato" a suon di milioni e miliardi di dollari, fino a portarlo alla Casa Bianca, per poi ottenere da lui una legislazione favorevole, e comunque mai contraria, agli interessi dei suoi finanziatori e manovratori occulti. Stesso discorso per altri personaggi "politici" in senso più ampio, per esempio Bergoglio, un signor nessuno che non osa nemmeno farsi rivedere nella sua Argentina, dove ha lasciato un ben tristo ricordo di sé, ma che fin dalla sua elezione tutti i media, all’unisono, come se avessero ricevuto l’imbeccata dietro le quinte, hanno salutato e acclamato come l’uomo della Provvidenza, il papa santo, l’uomo di cui la Chiesa aveva bisogno per rinnovarsi e dialogare con un mondo in rapida trasformazione (infatti: un mondo sottoposto ai ritmi accelerati della globalizzazione, voluti dalla grande finanza).
Contestualmente a questa invadenza del potere finanziario nella vita politica degli Stati, si registra una crescente erosione del principio di rappresentanza, perché i cittadini degli Stati democratici si rendono conto, e lo testimoniano andando a votare in numero sempre minore, che le loro possibilità di eleggere al Parlamento degli uomini che li rappresentino davvero, che facciano realmente i loro interessi, che lavorino onestamente per gli scopi dichiarati del governo, sono sempre più labili e scarse; in altre parole, che il meccanismo della democrazia si è terribilmente usurato, si è inceppato, sta mostrando l’ordito, insomma ha smesso di funzionare quasi del tutto, anche se restano in piedi le forme democratiche. Per fare solo un esempio: dalla caduta del governo Berlusconi, nel 2011, alle elezioni politiche del 2018, per sei anni e mezzo la normale vita democratica, in Italia, è stata congelata: quattro presidenti del Consiglio di sono avvicendati, in un momento gravissimo sotto il profilo economico e finanziario, e nessuno di essi è passato attraverso il responso delle urne; tutti e quattro — Monti, Letta, Renzi e Gentiloni — sono stati nominati dal presidente della Repubblica, e in pratica, dietro le quinte, dall’Unione Europea e dalla Banca Centrale Europea, vera artefice della caduta di Berlusconi. E questo è accaduto in una democrazia "matura", con una libera stampa (sic) e delle libere radio e televisioni (sic), per non parlare del libero sistema scolastico e universitario (sic); eppure nessuno, o quasi nessuno, ha gridato allo scandalo. Figuriamoci cosa accade nelle democrazie più recenti e più fragili, quelle del Terzo Mondo o quelle uscite dalla tanto strombazzata "primavera araba" del 2011 (e che era opera, sostanzialmente, dei servizi segreti occidentali e, ancora e sempre, della grande finanza internazionale). Negli Stati Uniti, la democrazia-madre, l’affluenza alle urne per le elezioni presidenziali, quelle che conferiscono un potere (teoricamente) enorme a un uomo solo e al suo staff, va ormai dal 50 al 60% degli aventi diritto: una percentuale che parla da sola. Ciò significa che in tutto il mondo le democrazie sono diventate, di fatto, delle ristrette oligarchie, che non riflettono necessariamente le intenzioni di voto della maggioranza dei cittadini. E si veda, in proposito, il caso forse più clamoroso, quello di Emmanuel Macron in Francia, un altro signor nessuno la cui sola benemerenza è di esser stato scelto dal potere finanziario per sbarrare la strada alla destra di Marine Le Pen e tutelare, una volta eletto all’Eliseo, gli interessi dei suoi mandanti e padroni.
La democrazia moderna è dunque avviata verso una crisi irreversibile; crisi che ha inizio da quando il potere finanziario comincia a diventare globale, cioè al principio del XVIII secolo, e al quale sono dovute, fra l’altro, le due guerre mondiali che hanno distrutto e umiliato la civiltà europea. Il modello per eccellenza è la democrazia antica: ma la situazione delle poleis greche, alle quali si possono accostare anche i comuni medievali, era molto diversa, soprattutto sul piano quantitativo. Una cosa è governare una repubblica di 10.00, 50.000 o anche 100.000 abitanti, e una cosa è governare una repubblica di 60 milioni, come l’Italia, o di 330 milioni, come gli Stati Uniti, o magari di 1 miliardo e 350 milioni, come l’India. Poi, oltre alle dimensioni, lo strapotere della finanza: le poleis greche avevano elaborato degli strumenti per contenerlo, benché, allora, esso non fosse che ai primi passi nella sua marcia verso la conquista del potere totale; anche la Repubblica di Venezia, che non era una democrazia, ma una oligarchia illuminata che seppe tener alta la propria bandiera per oltre 1.000 anni, aveva creato gli strumenti per difendersi dall’aggressione del potere finanziario. Ma oggi quelle difese non esistono più, sono divenute addirittura inconcepibili: il dogma della libera circolazione delle merci e dei capitali ne ha colpito alla radice perfino la possibilità giuridica. Eppure, già ai tempi della polis, non è che fosse tutto rose e fiori; Aristotele, per esempio, vedeva benissimo i limiti, i difetti, le degenerazioni del potere democratico e aveva elaborato uno schema che contemplava tre tipi di democrazia, più un quarto, del tutto degenerato, quello della demagogia imperante.
Così riassume il pensiero di Aristotele rispetto alla democrazia lo storico dell’antichità Gustave Glotz (Haguenau, Alsazia, 1862-Parigi, 1935) nel suo libri più famosi, La città greca (titolo originale: La cité grecque, 1928; traduzione dal francese di Paolo Serini, Trino, Il Saggiatore, 1956, e Milano, Il Saggiatore, 1969, pp.181-183):
La prima specie di democrazia, la più antica e la migliore, è quella che si fonda sul’eguaglianza: i poveri e ricchi sono sovrani in egual misura. È la democrazia per eccellenza, perché attribuisce a tutti eguali diritti al diritto di cittadinanza. Si ritrova nei paesi agricoli e pastorali, dove i beni di fortuna sono modesti e tutti lavorano per guadagnarsi la vita. Ivi, ci si riunisce in assemblea soltanto nei casi indispensabili, per eleggere i magistrati o più semplicemente per eleggere gli elettori, e per esaminarne la gestione; quanto al resto, si lascia la cura di governare ai pochi che possiedono mezzi sufficienti per occuparsi di politica. Aristotele trova in questo regime un buon esemplare della costituzione ch’egli predilige: quella che favorisce la classe media.
Altre due specie di democrazia ammettono egualmente la sovranità della legge, ma differiscono per quanto concerne l’eleggibilità alle magistrature e il compito arrogatosi dall’Assemblea popolare. La seconda specie, abbastanza diffusa, subordina l’eleggibilità alle magistrature a un modico censo e la partecipazione all’Assemblea a condizioni severe, Tale sistema, permettendo una buona scelta dei magistrati senza suscitare gelosie, lascia generalmente ai magistrati larghi poteri, cosicché il popolo si accontenta di eleggerli e di chieder loro conto del proprio operato. Aristotele approva anche questo sistema, perché conferisce il potere ai migliori e, col renderli responsabili davanti a u’altra classe, li obbliga a governare con equità.
Nella terza specie di democrazia, tutti i cittadini sono senz’alcuna distinzione eleggibili alle magistrature; ma la composizione e i diritti dell’Assemblea variano grandemente. In una città, i cittadini sono chiamati all’Assemblea per sezioni e a turno; in un’altra, entrano a turno nei collegi dei magistrati: collegi che si riuniscono in assemblea ristretta per discutere gli affari ordinari e sono convocati in assemblea plenaria soltanto per approvare le leggi, regolare le questioni costituzionali e ascoltare i rapporti dei magistrati. Altrove, si riuniscono per le elezioni dei magistrati e l’esame della loro gestione, per la legislazione, la pace e la guerra, e le altre funzioni sono riservate ai magistrati competenti.
Viene, infine — ultima in ordine di merito come in quello cronologico — la democrazia in cui la moltitudine non riconosce più la sovranità della legge, ma si arroga per intero la sovranità e la esercita per mezzo di decreti. Un regime simile può esistere soltanto nelle grandi città, perché fa predominare una classe che negli stato agricoli e pastorali conta poco o nulla; la classe dei lavoratori manuali e dei mercanti. Tale classe, il cui tenore di vita è degradato e la cui attività nulla ha di comune con la virtù, si aggira di continuo nei mercati e nelle vie della città, sempre pronta a riunirsi in assemblea, mentre gli agricoltori, dispersi per il territorio non sentono altrettanto vivo il desiderio di riunirsi. Un monarca dalle mille teste che si rifiuta di sottostare alla legge e che vuol farla da despota: tale il regime. Tale forma di democrazia è, perciò, nel suo genere, quel che la tirannide è rispetto alla monarchia. Invece di preferire i cittadini migliori, li opprime e mette in onore gli adulatori. Ed ecco sorgere una razza la quale non appare mai finché la legge impera sovrana, e che sorge infallibilmente quando essa non è più tale: la razza dei demagoghi. Due ne sono i metodi di azione. Da un lato, essi foggiano i decreti abusivi che conferiscono ogni potere al popolo, perché la loro potenza può solo avvantaggiarsi da un ampliamento della sovranità del popolo, di cui sono i padroni. Dall’altro, annichilano l’autorità dei magistrati con le accuse con cui li colpiscono davanti alla giustizia popolare.
L’ultima specie di democrazia è quella in cui il popolo è chiamato a deliberare su tutti gli affari e nessun magistrato può prendere qualsiasi decisione senza il consenso dell’assemblea popolare.
Quando una democrazia è pervenuta al punto da far tutto per via di decreti, non v’è più "politeia", non v’è più vero regime costituzionale. Affinché questo esista, è necessario, infatti, che la legge sua sovrana assoluta, che essa fissi le decisioni d’ordine generale e che i magistrati risolvano in base ai suoi principi i vari problemi particolari. Uno Stato in cui si faccia tutto per via di decreti non é, a ben guardare, una vera democrazia.
Alle città così duramente maltrattate Aristotele offre però una consolazione. Poiché la forma peggiore di governo rappresenta la degenerazione di quella migliore, la democrazia — il cui ideale è inferiore a quello dell’aristocrazia, e, ancor più, a quello monarchico — ha, nell’ordine della degradazione, il posto d’onore: è il più tollerabile dei regimi corrotti. In questo senso, si può dire che è il peggiore dei governi buoni e il migliore dei cattivi.
Meditando sul pensiero di Aristotele ci si rende conto che la degenerazione della democrazia in demagogia, stanti i meccanismi della globalizzazione, specie di tipo finanziario, e le dimensioni degli Stati moderni, è un fattore pressoché inevitabile. Dobbiamo allora contentarci di disporre del peggiore dei governi buoni e del migliore dei cattivi, come dice lo Stagirita? Contentarci di questo sistema di governo, solo perché riteniamo che altri eventuali sistemi sarebbero certamente peggiori? Ma peggiori per chi, sotto quale punto di vista? Il punto di vista, naturalmente, è quello della libertà individuale, vero e proprio dogma del liberalismo, di cui la democrazia è figlia. Ma a che serve la libertà individuale se tutte le altre spariscono? A farsi impiantare volontariamente un microchip sottocutaneo, onde essere meglio controllati e telecomandati, come già accade nella Svezia felix?
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