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Berto Ricci e la terza via tra capitalismo e comunismo

Non ha capito nulla del fascismo chi vede in esso un blocco unitario, un corpo compatto senza parti né sfumature; e ha capito meno di nulla chi si ostina a considerarlo solo un prodotto della reazione, una forza mercenaria al servizio di agrari e industriali per sventare la rivoluzione bolscevica e reprimere le aspirazioni dei lavoratori: insomma se lo si riduce al fenomeno dello squadrismo. Chi pensa questo si è semplicemente creato una immagine di comodo, una testa di turco sulla quale riversare il proprio disprezzo e la propria saggezza democratica a posteriori, senza tener minimamente conto delle reali condizioni dell’Italia nel periodo fra le due guerre mondiali: politiche, economiche, sociali, culturali e morali. È comodo vederla così: si possono scaricare su un nemico vinto tutte le colpe e si può attribuire al fascismo una serie di difetti, di errori, di debolezze, che sono invece della classe dirigente italiana e, in parte, del popolo italiano. E si finge di non sapere che nessun governo liberaldemocratico, e tanto meno un governo di sinistra, tipo il Fronte Popolare francese, avrebbe saputo cavarsele meglio negli snodi decisivi di quegli anni terribili: la ricostruzione economica dopo l’effimera vittoria del 1918; la ricomposizione di un tessuto sociale degno di questo nome e del suo necessario presupposto, il senso dello Stato; la grande crisi del 1929 e la successiva depressione; il rapidissimo riarmo tedesco e l’affacciarsi minaccioso della politica hitleriana sullo scenario europeo; la difficile scelta di campo allo scoppio della Seconda guerra mondiale.

E non solo il fascismo fu un fenomeno variegato, complesso, contraddittorio, una costellazione di posizioni e di atteggiamenti, un bacino collettore di forze eterogenee, tenute insieme dal comune denominatore di allontanare lo spettro del bolscevismo e della guerra civile, ma anche e soprattutto di cercare una terza via fra comunismo e capitalismo e di mediare fra spirito antiborghese, proprio dei Fasci di combattimento del 1919, e spirito sanamente borghese, specie di area cattolica e specie dopo la firma dei Patti Lateranensi del 1929; e inoltre un tentativo di superare il socialismo accogliendone, però, la sostanza del programma sociale, ma rifiutando lo strumento della lotta di classe, tentativo che Mussolini tenacemente perseguì fino al 1924, quando il cadavere di Matteotti gli venne gettato fra le gambe, facendolo naufragare per sempre e togliendo alla società italiana una possibilità unica di percorrere insieme la via delle riforme sociali e quella dell’integrazione fra popolo e Stato, portando a termine l’opera incompiuta del Risorgimento. Esso fu variegato e contraddittorio anche nelle sue singole componenti, a riprova del fatto che più che di un movimento, e successivamente di un partito e di un regine, bisogna piuttosto pensarlo come un grande cantiere sempre aperto, un vasto e originale esperimento che attirò, ad un certo punto, l’attenzione del mondo intero, e suscitò rispetto e ammirazione anche fra molti che, dopo il 1940, lo avrebbero ingenerosamente denigrato.

Un tipico esempio di ciò che stiamo dicendo è la vicenda del cosiddetto fascismo di sinistra. Dire fascismo di sinistra è come dire corporativismo, e specialmente corporazione proprietaria: la teoria economica lanciata dal filosofo Ugo Spirito al Convegno di studi sindacali e corporativi di Ferrara del maggio 1932, secondo la quale le singole aziende avrebbero dovuto passare sotto la diretta gestione della corporazione cui ciascuna di esse apparteneva, e quindi i mezzi di produzione dell’intera economia, e il relativo capitale, sarebbero passati sotto il controllo dei produttori, soggetti attivi del processo produttivo e non più degli azionisti, soggetti passivi. Ebbene, anche tra i fascisti di sinistra le posizioni individuali furono sempre quanto mai diversificate e non giunsero mai ad una vera sintesi. Cosa c’era in comune fra Giuseppe Bottai, il direttore di Critica fascista, che aveva sempre l’aria di voler fare la "fronda" contro il regime, ma era legato a filo doppio coi poteri forti del capitale massonico e finanziario, e da ultimo scelse di schierarsi con Grandi, che rappresentava appunto quel mondo, contro Mussolini nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943, e un sindacalista come Enzo Pezzato, che durante il periodo di Salò fu il direttore (dopo l’eroe di guerra Carlo Borsani) de La Repubblica Fascista e che, essendosi sempre interessato solo di questioni sociali, era talmente in buona fede da tornare a Milano per chiudere il giornale, il 25 aprile del 1945, venendo ammazzato dai partigiani, i quali non restituirono mai il suo cadavere alla famiglia?

Una figura notevole del fascismo di sinistra, oltre ai giornalisti Concetto Pettinato e Bruno Spampanato, è quella di Berto Ricci, fiorentino, classe 1905, professore di fisica e matematica nei licei, scrittore, poeta, fondatore de L’Universale, che partì volontario per il fronte libico e morì, nel 1941, sotto un mitragliamento aereo britannico. La sua posizione riguardo alla corporazione proprietaria riflette la spaccatura esistente nel seno stesso del fascismo di sinistra. I sindacalisti in generale erano contrari, perché, nonostante tutto, non avevano dismesso la vecchia concezione della lotta di classe e quindi vedevano con allarme la prospettiva del completo assorbimento dei sindacati nelle corporazioni; i teorici del corporativismo, invece, a cominciare da Ugo Spirito, la propugnavano perché la consideravano come la naturale evoluzione del fasciamo verso il comunismo (il che aiuta a capire le scelte di molti di essi dopo la guerra). Berto Ricci, inizialmente contrario, mutò opinione qualche anno dopo, nella prospettiva di un più ampio ripensamento dell’intera esperienza fascista, che egli giudicava minacciata di sclerosi dalle forze conservatrici e che voleva far di tutto per rivitalizzare e riportare sul terreno delle radicali riforme sociali in senso anticapitalista, anche mediante l’espropriazione delle aziende, pur di scongiurare l’imborghesimento di un regime che, a suoi giudizio, doveva ancora fare tutto ciò che aveva promesso e fatto sperare agli italiani.

Chiarificatrice di questo dilemma e di questa svolta è una pagina dello storico marchigiano Domenico Settembrini (classe 2929, dunque oggi più che novantenne) tratta da uno dei suoi acuti e obiettivi studi sul pensiero politico moderno, la Storia dell’idea antiborghese in Italia, 1860-1989 (Bari, Laterza1991, pp. 308-310):

Nel 1938 si radicalizzava anche la posizione di Berto Ricci. Ai tempi della polemica sollevata da Spirito, Ricci su "L’Universale"del 3 ottobre 1932, pur non nascondendo il suo scontento – «non illudersi che il fascismo abbia fatto tutto. Il fascismo ha tutto da fare» – mostrava ancora di credere che la rivoluzione sociale del fascismo fosse realizzabile senza sovvertire il capitalismo – «a dir la verità non siamo entusiasti della ‘corporazione proprietaria’» – limitandosi a porlo sotto il controllo dello Stato: «se il fascismo è disciplina per tutti, non c’è motivo perché l’iniziativa privata non faccia per forza quello che non vuole fare per amore».

Ben diverse sono le conclusioni cui giunge nel 1938 Berto Ricci in un documento riservato apparso postumo: «la civiltà fascista in tutti i suoi aspetti, da quello economico a quello morale, è per il 99% ancora da fare», perché «un conservatorismo d’infima specie sta strozzando la rivoluzione». Questa volta però – nel pensiero di Berto Ricci — il fallimento coinvolge l’idea stessa del corporativismo, l’idea cioè che si possa avere un rinnovamento sociale radicale senza passare attraverso «l’espropriazione», che viene ora definita «il cimento inevitabile di tutte le rivoluzioni». Per cui adesso Ricci chiede esplicitamente quello che nel 1932 ancora escludeva: «l’estensione del diritto e del FATTO della proprietà ai produttori», in modo da ricreare l’antitesi Fascismo-Capitalismo, nella convinzione che «FINCHÉ NON SI TOCCANO I MEZZI DI PRODUZIONE, NULLA È FATTO».

Una sorta di fascismo comunista è dunque il punto di approdo della riflessione sociale di Berto Ricci? Sì e no. Certamente si respira in parte, in questo suo estremo documento — morirà durante la guerra in Africa, dove era andato volontario -, quello stesso spirito che già negli ultimi anni del fascismo, e in maggior misura subito dopo, spingerà tanti di quei giovani eretici fasciasti nelle file del Pci: «in tutto il mondo i poveri e gli sfruttati hanno saputo che la loro emancipazione dal capitale è per lo meno pensabile. Non lo dimenticheranno più. Se il Fascismo non alza la bandiera di questa emancipazione, la cercheranno ancora nel comunismo». Poco importa — aggiungeva — che noi fascisti ci si affanni a «’stradocumentare’ a piacer nostro che il comunismo russo è fallito». Anzitutto il capitalismo è talmente iniquo e insopportabile, che «i poveri e gli sfruttati», pur di non dover continuare a subirlo, seguiranno chiunque prometta loro di portarli fuori di esso, convinti sulla base del buon senso popolare che solamente «chi non fa nulla non falla». Inoltre, c’è il partito trockista «che fonda la sua fortuna sul riconoscimento di questo fallimento e sulla distinzione tra Stalin e Lenin», distinzione secondo Ricci «verissima», negata solamente dalla «pappetta antibolscevica oggi in commercio». Sicché «la sola documentazione del fallimento bolscevico, oggi, porta acqua al mulino di Trotzky».

E tuttavia Ricci resta solidamente ancorato all’altro punto determinante dell’ideologia fascista: il nazionalismo imperialista. Per lui la rivoluzione deve essere insieme imperiale e sociale, l’un aspetto e l’altro sono strettamente interdipendenti. È per questo che, nonostante sia ormai profondamente deluso circa la soluzione del problema sociale, non esita, con la guerra, ad andare volontario. Un muro ancora più alto tra il fascismo comunista — meglio sarebbe forse dire anticapitalista — di Ricci e il comunismo vero e proprio, è costituito però dal fatto che Ricci prende molto sul serio la contrapposizione tra l’idealismo fascista e il materialismo marxista, così sul serio da criticare anche su questo punto la prassi del "fascismo reale", che gli sembra — non a torto — adagiarsi nel materialismo, nel senso che invece di mirare a suscitare la convinzione, sempre più si accontenta del conformismo esteriore, materiale, degli atti. In altri termini, per un materialista il collettivismo economico è strumentale al fine di produrre il desiderato cambiamento di mentalità e di civiltà, vale a dire il collettivismo etico, la mentalità e il sentire collettivi, secondo il principio della rigida dipendenza della sovrastruttura spirituale dalla struttura materiale. Al contrario, un idealista, un volontarista, uno spiritualista, pur ritenendo — come è giunto ormai a pensare anche Ricci – «l’espropriazione» necessaria per realizzare la giustizia e per debellare «la demonia del denaro», e considerando quindi moralmente proficui questi suoi effetti; non crederà mai tuttavia che ciò basti di per sé a cambiare la società e l’uomo, indipendentemente quasi dall’intervento della volontà consapevole. Cambiato in senso collettivista l’ambiente socio-economico — questo pensa il rivoluzionario materialista — la rivoluzione culturale non potrà non seguire, perché l’ambiente mutato costringerà — o modellerà, se si preferisce — il comportamento di tutti entro gli schemi voluti., dopo di che dall’uniformità dei comportamenti seguirà, per il primato marxiano dell’"essere" sulla "coscienza", l’uniformità del sentire e del credere. Ricci fascista, quindi rivoluzionario idealista, ritiene invece che la rivoluzione culturale abbia una sua autonomia e avvenga — o non avvenga — dentro le coscienze. Il conformismo liturgico del regime pertanto è oggetto del suo attacco, non meno del compromesso col capitalismo: «la moralità, che è anch’essa e più di tutto un fatto un fatto dello spirito, non è concepibile senza la libertà […]. Non credo nella massa, credo negli uomini con volto e nome umano, che la compongono». E se il fascismo – a suo avviso — ha fatto bene a servirsi dell’autorità per dare agli italiani «il senso dello Stato», non bisogna confondere il «prologo», la «prima tappa», «la pura affermazione dell”autorità» «con tutto il processo», il quale richiede ora, come «compito del futuro immediato», «l’educazione alla libertà», a quella libertà che è «valore eterno, incancellabile, fondamentale». E per questo «occorre che il Fascismo si decida: o con dio o col diavolo: o sistema invariabile delle nomine dall’alto, o partecipazione del Popolo allo Stato: e non semplice atto di presenza alle adunate e versamento dei contribuiti sindacali». Occorre anche «affogare nel ridicolo chi vede nella discussione il diavolo; chi non capisce la funzione dell’eresia; chi confonde unità e uniformità».

Berto Ricci, come abbiamo ricordato in un altro articolo (v. Dobbiamo regolare i conti con i nostri "inglesi", pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 28/10/18), era convinto che alla società italiana fosse necessario uno strappo netto con le forze conservatrici che l’avevano sempre condizionata — e, se è per questo, l’avevano anche tenuta a battesimo — e che tuttora condizionavano il fascismo andato al potere. Egli era un idealista nel senso più nobile della parola, nonché un uomo estremamente coerente, arrivato al fascismo addirittura dall’anarchia; caso non unico, peraltro, specie nell’ambiente artistico fiorentino e toscano: si pensi solo al pittore Ottone Rosai e allo scrittore Enrico Pea, simpatizzanti per le idee anarchiche e poi, in una certa misura, attratti dalla figura di Benito Mussolini, nel quale videro l’uomo capace di dare corpo e sostanza a quelle idee, facendole uscire dal ghetto della verbosità velleitaria dei circoli ristretti di "puri", ove rischiavano di morire d’inedia.

Una cosa è certa: il corporativismo fascista presenta alcune analogie non secondarie, anche se è bestemmia il solo accennarlo, con il corporativismo di matrice cristiana; e in ogni caso taluni aspetti della politica sociale fascista presentano evidenti parallelismi con la moderna dottrina sociale della Chiesa, così come è stata formulata a partire dalla Rerum Novarum di Leone XIII del 1891. Vi sono alcuni documenti del Magistero, come la Quadragesimo anno di Pio XI, del 1931, che, letti senza pregiudizi ideologici, colpiscono per la loro contiguità con aspetti fondamentali della dottrina sociale fascista. Tanto per ricordare i principali, l’avversione sia alla lotta di classe e all’economia pianificata del comunismo, sia al laissez-faire del liberismo capitalista e speculativo della grande finanza; e l’idea che l’economia deve essere regolata dall’autorità superiore dello Stato, perché lasciata a se stessa, e in particolare fino a quando i mezzi di produzione e i capitali saranno saldamente nelle mani di una ristretta oligarchia degli affari, la società non troverà mai pace e un’armonica composizione dei conflitti di lavoro, né vedrà mai instaurato un livello sia pur minimo di giustizia distributiva (a questo proposito si pensi alla dottrina del distributismo, elaborata in ambito cattolico da G. K. Chesterton, V. McNabb ed H. Belloc, che si rifà alla grande tradizione benedettina). Ma ricordiamo che anche uno dei massimi esponenti del pensiero economico liberale "classico", J. M. Keynes, era sostanzialmente di tale avviso; e che l’idea della provvidenziale "mano invisibile" di A. Smith, che armonizza spontaneamente l’interesse privato con il bene pubblico, si è da un pezzo rivelata per quel che era sin dal principio: un grande inganno o una pia illusione, a seconda dei punti di vista.

Dopo la Seconda guerra mondiale il problema è stato nascosto sotto il tappeto, ma rimane in tutta la sua attualità e pregnanza. Per ottant’anni, sotto la pressione dei generosi "liberatori" anglosassoni, l’economia italiana si è appiattita, con grande soddisfazione dei nostri economisti, sugli schemi di un capitalismo malamente frenato, ma non costruttivamente bilanciato da uno statalismo inefficiente e da un assistenzialismo parassitario; così come si sarebbe volonterosamente appiattita, se i "liberatori" fossero venuti dall’Est, sotto la ferrea morsa dell’economia di piano di stampo sovietico. E qui il problema economico si salda con il problema politico della perdita sostanziale della sovranità. Non è consentito a una nazione sconfitta, e sconfitta a quel modo, occupare una posizione eminente nel contesto dell’economia mondiale: la sua subalternità politica deve essere anche subalternità economica. Tutto ciò che sta accadendo in Italia dall’inizio degli anni Novanta ad oggi, va letto e interpretato in questa prospettiva. La debellatio della nostra economia, che era giunta alla quarta posizione mondiale, è stata decisa in alto loco da quelle stesse forze plutocratiche, massoniche e finanziarie, contro le quali l’Italia ha giocato la sua ultima carta, molto male purtroppo, nell’arco di tempo che va dalla Pace di Versailles alle "radiose" giornate della Liberazione…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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