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Qual è il fine ultimo dell’uomo?
13 Giugno 2019Gli esistenzialisti, i surrealisti, i nichilisti e Dio sa quanti altri –isti affermano convinti, e ripetono incessantemente che la condizione umana è assurda; che la vita è un’assurdità; che è insieme una prigione, un manicomio e una stanza delle torture, se non addirittura un inferno da scontare qui e ora, giorno per giorno, ora per ora e minuto per minuto. Ebbene, hanno perfettamente ragione tutti quanti. Hanno ragione, sia ben chiaro, se ci si riferisce alla vita che si può vivere stando al di fuori della Grazia, ignorandola, rifiutandola e disprezzandola. Senza la Grazia, sì, è vero: la vita è un inferno, perché la condizione umana è semplicemente assurda; e vivere nell’assurdo è la stessa cosa che vivere all’inferno.
Anche per questa via negativa, cioè dal riconoscimento di cosa la vita autentica non è – non è conquista, possesso, orgoglio, perché nulla noi possiamo veramente conquistare possedere, nulla di finito, s’intende, e quindi il nostro orgoglio è vano e ridicolo — l’uomo contemporaneo potrebbe arrivare a Dio, così come l’uomo della società tradizionale e pre-industriale ci arrivava per via positiva, ossia contemplando ciò che la vita autentica è — pellegrinaggio, ritorno alla vera patria, e lotta incessantemente fra il bene e il male, verso la pace dell’Essere . Di fatto, però, nella stragrande maggioranza dei casi,m egli rifiuta di mettersi per questa via, di compiere questo passo, anche se lo scacco continuo delle sue ambizioni e la frustrazione sistematica delle sue speranze ve lo conducono, quasi inavvertitamente, molto, ma molto vicino. È sempre l’orgoglio che lo trattiene, l’orgoglio della ragione — io voglio essere il dio di me stesso — che diviene orgoglio della volontà: non serviam, non piegherò il ginocchio di fronte a Colui che solo deve essere riconosciuto e adorato (qualcuno ha mai visto il signore vestito da papa inginocchiarsi davanti al Santissimo?; davanti agli uomini, sì, molte volte, magari fino a baciar loro i piedi). L’orgoglio dell’Io porta alla negazione e al rifiuto di Dio, laddove la ragione stessa, della quale va tanto fiero, oltre ai suoi fallimenti esistenziali, lo condurrebbero senza fallo verso la Verità: questo è il dramma dell’uomo moderno; un dramma di superbia, avidità, lussuria, e soprattutto del suo Io sfrenato, ipertrofico, malato, dal quale deriva l’insaziabile concupiscenza.
Il panorama dei pensatori, degli scrittori e degli artisti del XX secolo conferma in pieno questa affermazione: l’uomo contemporaneo ha voltato le spalle a Dio consapevolmente, pur avendone visto la necessità e l’essenzialità; quindi si è reso da sé un ribelle e un disperato e con le sue stesse mani si è preparato l’inferno in cui arde e brucia, ancor vivo, in questa sua breve esistenza terrena. Bisogna poi dire che la cultura dominante ha voluto accentuare questa tendenza, ha voluto assolutizzarla, amplificando al massimo l’opera di tutti questi Prometei in sedicesimo, anzi, di tutti questi Capanei di risulta, banali, dozzinali, patetici, perché convinti di essere unici, grandi e irripetibili, mentre sono merce fabbricata in serie; e ha steso il mantello del silenzio e dell’oblio sulle voci diverse, sulle voci di quanti invece quel percorso l’hanno fatto, e l’ultimo passo l’hanno compiuto, gettandosi in ginocchio davanti a Colui che, solo, merita l’amore, la speranza, la gratitudine, la lode e l’adorazione. Voci di scrittori e pensatori che hanno trovato, o ritrovato, il Dio dei loro padri, al quale sono giunti per la via negativa, non potendo più arrivarci per quella positiva, ce ne sono, ce ne sarebbero parecchie; la cultura dominante, la critica, l’editoria, la stampa, la scuola e l’università hanno fatto di tutto per occultarle, per spegnerle, per impedire che giungessero alla massa del pubblico.
Fra queste c’è la voce di un grande poeta e drammaturgo francese, Paul Claudel (1868-1955), il quale, pur essendo un gigante della letteratura mondiale, non è mai stato amato dalla critica che conta, tutta in mano ai progressisti, e tuttora è poco conosciuto, specie fuori del suo Paese e della sua lingua; non ha mai ottenuto il Premio Nobel, quel Nobel che ebbero invece Albert Camus e Jean-Paul Sartre e che ormai non si nega più nemmeno a un Dario Fo e a un Bob Dylan; non è mai stato insegnato nelle scuole, forse perché la sua fede religiosa dava e dà fastidio, anche se poesie come La Vierge à Midi, oltre alla profondità dell’ispirazione e alla vibrante spiritualità che la pervade, sono da ritenersi perfette anche solo da un punto di vista fonetico e musicale (cfr. il nostro articolo: Il est midi. Je vois l’église ouverte. Il faut entrer…, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 22/03/2018). Ed è a questo gigante un po’ dimenticato, un po’ boicottato, un po’ occultato, che vogliamo qui rendere omaggio, e indicarlo ai giovani assetati di una parola di verità e di certezza, a quei giovani che non si rassegnano a dibattersi perennemente nello stagno fangoso del relativismo che tutto avvolge e tutto tende a far sprofondare. L’opera di Paul Claudel è, ripetiamo, poco nota al grande pubblico; al massimo si sa che scrisse un dramma in quattro atti, L’Annuncio a Maria (L’Annonce faite à Marie), del 1912, che potrebbe far pensare alla Madre di Dio, mentre è una storia di personaggi comuni — comuni, ma intimamente eccezionali — ambientata nel Medioevo delle cattedrali gotiche; dramma umano e sovrumano che non esita a confrontarsi con l’argomento-scandalo (per la cultura moderna, atea e materialista) del miracolo, inteso come punto d’incontro, misterioso e sublime, fra la Grazia divina e la tensione della fede umana. Ma l’opera di Claudel è vastissima e comprende, fra l’altro, Giovanna d’Arco al rogo, Testa d’oro, La storia di Tobia e di Sara, La scarpina di raso, ciascuna delle quali è un vero gioiello che brilla di luce vivissima nel panorama, così spesso oscuro e inquietante, del teatro e della poesia contemporanei (Oeuvres complètes, Gallimard, 1962-1965).
Citiamo una pagina scritta da Bernardino Cogo, un sacerdote vicentino molto colto e preparato, tornato poi, con molta discrezione, a vivere in famiglia e morto tragicamente, a ottantaquattro anni, nell’agosto del 2011, in un incendio (B. Cogo, Paul Claudel, seminatore di certezze; in: A.A.V.V., Profili di scrittori, inchieste teologiche, Milano, Edizioni della rivista Letture, 1962, pp. 69-72):
Nessuno forse, fra quanti scrittori e letterati hanno agito nella prima metà del ventesimo secolo, è stato così prepotente seminatore di certezze. La figura di Claudel resterà nell’esperienza di tutta una generazione come quella di un testimone della verità totale, di un alto ospite della luce, di evangelizzatore della problematica che assilla la sua epoca. (…)
Per mezzo secolo la sua indagine si è sviluppata costruendo una "Weltanschauung" che si chiarisce e si va arricchendo progressivamente. Istanze informi e motivi oscuri di precisano in successive riprese e, decantati dal primitivo aggrovigliarsi, si svolgono consapevolmente nel loro pregnante significato costituendo l’armoniosa cattedrale che è il pensiero dell’A. L’intera opera di Claudel si organizza infatti nel senso di quelle immense costruzioni medioevali che hanno l’ambizione di concentrare in sé un’interpretazione completa del reale, che sono una "Summa" espressa nella pietra. (…)
Vi è un processo di approfondimento e di estensione aderente alla progressiva illuminazione che si opera nello spirito del poeta. (…)
Il dramma di Claudel assume le istanze del teatro tragico greco e le esaspera assurgendo a proporzioni cosmiche e ad un impegno globale mai raggiunto in precedenza, poiché solo dopo la Rivelazione si poteva avere coscienza della necessità assoluta di Dio e conseguentemente del vuoto metafisico della sua assenza. "Tête d’Or" porta all’estremo l’assurdo del destino. Di Edipo e ripete l’esperienza e la pena di Prometeo. Il protagonista del dramma assume in sé la ribellione dell’uomo che si riscontra frammento e contingenza. Il possesso materiale delle cose e l’amore sono precari. Partito alla conquista delle une e dell’altro ritorna a mani vuote. Se dal possesso di ciò che è esteriore non si può dedurre una validità, perché non fondare la certezza su di sé? (…)
Il nocciolo del dramma sta qui. C’è uno cui noi tutti ci dobbiamo appellare; non lo conosciamo, ma è reclamato dal nostro vuoto, dall’insostituibile assenza. Ciascuno è solitudine e desidera ciò che non è; si sente limitato da quanto lo circonda. Le cose e gli altri, nel primo momento d riflessione, sono l’oggetto cui aspira come al possibile complemento dell’insufficienza individuale. Di qui nasce l’amore nella sua accezione più ampia. Amore che si esplica in volontà di possesso di quanto coesiste nel tempo e nello spazio. C’è tuttavia qualcuno che non sa scoprire il proprio limite e quindi non può avere desiderio di valicarlo: è la massima degradazione; nel bruto non si è neppure risvegliato l’uomo. (…)
Per gli assetati di conquista ogni nuovo oggetto è una possibile trasposizione dell’assenza. Per ogni disillusione inventano un nuovo ideale, senza mai approdare alla radicale fonte del desiderio. Questa è la tragicità di Tête d’Or: la terra, la donna, l’amicizia, Cébès, il regno, la conquista per se stessa sono gli oggetti della sua brama, della sua volontà di possesso. Uno dopo l’altro: non per questo impara che nulla di creato può soddisfare la sua esigenza metafisica. (…) è inutile quindi desiderare le cose finite perché l’assenza è in tutto. Mal a sete radiale è un appello non defraudabile. Forse si può giungere a Colui che è, e la cui misura ci è data dal "vide atroce", dalla spaventosa contingenza, per mezzo della rinuncia cosciente a possedere quanto è finito. (…)
L’orgoglio può trasformare il conquistatore deluso in un doloroso Prometeo che si fa Dio nel tentativo di radicare in sé ‘insufficienza degli altri. Una volontà ostinata si erge sulla consapevolezza della propria fondamentale impotenza. "Io voglio! Io possono! Bisogna!" La conquista del mondo un’impresa che riassume i miti dell’uomo antico e di quello moderno: miti che hanno condotto allo sfacelo, perché ogni illusione è apportatrice di morte. Nessuno potrà mai impunemente occupare il posto dovuto all’Unico necessario.
Quest’umile sacerdote – oggi, a sua volta, del tutto dimenticato – ha colto, ci sembra, l’essenza della poetica di Paul Claudel: il suo carattere ordinato e grandioso di edificio animato da un possente slancio ascensionale, il suo carattere metafisico e, nello stesso tempo, militante, di risposta alla crisi del mondo contemporaneo, al dilagare del relativismo, dello scetticismo e del nichilismo. Claudel, come Dante, è l’uomo delle certezze in un’epoca di dubbi e di sbandamento morale; certezze alle quali è giunto, a sua volta, attraverso la prova del dubbio e il crogiuolo della sofferenza (chi ignora il suo oscuro dramma familiare legato alla sorella maggiore Camille, scultrice, amante di Auguste Rodin, divenuta folle e internata in manicomio?; ne hanno parlato anche troppo!). La poesia di Claudel è come un balsamo per l’anima in questa nostra età malata; e siccome i registi scellerati della malattia non vogliono che l’uomo contemporanei trovi sollievo alla sua disperazione, hanno fatto e stanno facendo del loro meglio, o del loro peggio, affinché voci come la sua non arrivino agli orecchi del grande pubblico. Ah, se i giovani della seconda metà del Novecento, invece di Sartre e di Genet, avessero letto e gustato le poesie e i drammi di Claudel; se invece di Beckett, avessero letto Chesterton; se invece di Günter Grass, avessero letto Hans Carossa; se invece di Moravia e Pasolini, avessero letto Nicola Lisi e Domenico Giuliotti: forse avrebbero conservato, o ritrovato, l’incanto del mondo, che invece è stato loro rubato, calpestato, distrutto, poiché bisognava che tutti fossero immersi nella stessa cupa sensazione di smarrimento, d’impotenza e di assurdità (magari perché il moderno Principe salvatore del mondo, il vecchio Marx in versione aggiornata e corretta, potesse trarli fuori dalla palude dello sconforto e avviarli verso le magnifiche sorti e progressive della società comunista, senza sfruttati né sfruttatori, libera, felice, realizzata!). Si è voluto seminare pessimismo e materialismo, per poter raccogliere il nulla. Desertificare l’intelligenza e anestetizzare la sensibilità delle giovani generazioni era, ed è, ritenuta una strategia necessaria per giungere allo scopo: asservire l’uomo e renderlo disponibile a tutti gli esperimenti del potere occulto che ha steso i suoi tentacoli sulla terra intera, quello finanziario.
Le poesie e i dammi di Claudel ci innalzano al di sopra di questo carcere doloroso nel quale ci dibattiamo inutilmente, e ci mostrano la via per la redenzione dalla infelice condizione terrena, dal male e dal peccato; ciò che i critici e gli intellettuali progressisti hanno sempre considerato, sulle orme di Marx, una forma di alienazione, anzi, la sua forma suprema, quella religiosa. Eppure proprio per questo, dopo il clamorosa il fallimento del dio di Marx, e con gli ex marxisti divenuti strenui paladini di quel potere finanziario che sta asservendo e alienando più che mai gli uomini e i popoli, e spargendo, dopo il veleno della lotta di classe, il veleno dell’edonismo, dei diritti a senso unico, dell’individualismo selvaggio e della distruzione di ogni senso d’identità e di appartenenza, tornare a scrittori come Claudel rappresenta non solo la riscoperta di pagine belle, toccanti, fervide di spiritualità, ma anche la precisa indicazione esistenziale verso Colui ch’è la via, la verità e la vita.
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