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Per una pedagogia graduale della verità

Immaginiamo una situazione di pura fantasia; una situazione teorica, di quelle che sono create dai romanzieri o che sono sfruttate dagli sceneggiatori cinematografici, perché possiedono il giusto mix di suspence, mistero, avventura e dramma psicologico. Immaginiamo, dunque — ripetiamo: nessun riferimento alla realtà; nessuna allusione, proprio nessuna, a fatti o persone dell’attualità — che un qualsiasi membro dell’equipaggio di una qualsiasi nave da trasporto, un giorno, per caso, anzi, una sera (è più suggestivo, fa più atmosfera), passando davanti al quadrato degli ufficiali, non visto e non udito, oda un brano di conversazione. Lui sta passando di lì per andare verso gli alloggi dell’equipaggio: ha finito il suo turno di lavoro sul ponte e si appresta ad andare a riposare. La voce del capitano, piuttosto alterata, ha richiamato la sua attenzione e lo ha indotto ad avvicinarsi alla porta, socchiusa, da cui essa proviene. La sera è calda – siamo ai Tropici e il mare è una lastra d’olio: nessun rumore esterno, neppure una bava di vento, viene a coprire o disturbare l’acustica del luogo; anzi, la porta semiaperta crea, per qualche misteriosa circostanza di ordine fisico, una sorta di rimbombo nel prospiciente corridoio, per cui le parole che vengono da dentro si ripercuotono come sotto l’effetto di un’eco. Il marinaio non è affatto un curioso, o un impiccione, e meno ancora un intrigante; passando di lì non aveva la benché minima intenzione di origliare; a dirla tutta, è moto stanco e il suo unico desiderio era di andare a gettarsi quanto prima sulla sua cuccetta. Però la luce accesa e la voce alterata del comandante hanno esercitato uno strano effetto su di lui; il fatto stesso che sia in corso una riunione nel quadrato ufficiali, a quell’ora, gli è parso un fatto quanto mai insolito, perfino un po’ inquietante. Di cosa stanno parlando, e perché di notte, all’insaputa di tutti, mentre quasi tutto l’equipaggio è sceso a riposare nei suoi alloggi, e sul ponte sono rimasti solo gli uomini strettamente indispensabili per la navigazione notturna? Per questo motivo, e contro tutte le sue abitudini, perfino contro il suo temperamento, l’uomo è rimasto quasi paralizzato dallo stupore e poi si è avvicinato, in punta di piedi, per cercar di cogliere almeno qualche frase di quella misteriosa riunione notturna.

Ed ecco, mentre si trattiene lì, dietro la porta socchiusa, col cuore che gli batte forte nel petto, e il sudore che incomincia a scendergli copioso per le membra, mentre trattiene perfino il respiro e se ne sta immobile, come se fosse costretto a stare fermo in mezzo a una distesa di uova, gli giungono all’orecchio delle frasi di senso compiuto, senso, però, che stenta ad accettare, tanto gli paiono incedibili, inverosimili, inaccettabili. Impossibile dire quante persone ci siano nella stanza; ogni tanto ode interloquire voci diverse, e gli sembra anche di averne riconosciute un paio, però non sarebbe in grado di precisare se gli ufficiali siano tutti lì, tanto più che almeno il secondo ufficiale e l’ufficiale di rotta dovrebbero essere, per forza, ai loro posti. Ad ogni modo, a parlare è quasi sempre il comandante: un ufficiale di marina di lungo corso, apprezzato da tutti, nella cui carriera non si sa dell’esistenza di una sola macchia, di un solo neo; un uomo di alta professionalità e dalla reputazione immacolata, stimato dai colleghi e dagli armatori, rispettato dall’equipaggio, anche se non precisamente amato da tutti. Il nostro uomo, ad esempio, non ha mai provato alcuna simpatia nei suoi confronti, non saprebbe nemmeno lui dire esattamente perché: una sensazione di distacco, di freddezza; una luce tagliente e dura nel suo sguardo: tutto qui. Nessuno screzio aperto, nessun gesto o provvedimento, da parte del capitano, che si possano interpretare come bizzarri, o ingiusti, o irregolari. Semplicemente, non è un uomo che trasmetta simpatia, e forse neppure fiducia: questa, almeno, è l’impressione che il marinaio ne ha sempre avuto, sin dal momento che quegli è salito a bordo — perché a prendere il comando della nave è arrivato qualche mese innanzi, mentre la maggior parte dell’equipaggio, su quella imbarcazione, ci vive e ci lavora da anni. D’altra parte, il nostro marinaio non è un sentimentale, né un uomo dalla forte immaginazione, o esageratamente emotivo e suggestionabile; è un tipo pratico, se si vuole terra terra: a lui non importa che il nuovo comandante non gli ispiri una particolare simpatia, o che non la ispiri anche a qualche altro membro dell’equipaggio; l’importante è che sappia fare bene il suo mestiere. Un comandante non deve piacere, non si tratta di un requisito indispensabile nella marina mercantile. Se un marinaio non è contento, si può sempre licenziare: non sono più i tempi della marineria a vela, quando inimicarsi il capitano significava rimediare frustate o peggio, e magari essere abbandonati, soli e senza risorse, sulla spiaggia di qualche isola disabitata, come accadde al celebre marinaio scozzese Alexander Selkirk al principio del XVIII secolo. Purché sappia il fatto suo, un comandante vale l’altro; così la pensa, o meglio la pensava, il nostro uomo.

Adesso, però, è diverso; adesso la vera natura del suo comandante non può lasciarlo indifferente. Quel che ha udito, benché gli siano sfuggiti molti particolari, e benché abbia dovuto allontanarsi in fretta, perché la riunione degli ufficiali era quasi alla fine e temeva di essere sorpreso in quella posizione compromettente, è di una gravità eccezionale. In breve, si tratta di questo: il capitano ha deciso di far naufragare la nave, senza curarsi minimamente di quel che accadrà agli uomini dell’equipaggio. Probabilmente è d’accordo con l’armatore e ha in mente un piano preciso, il cui scopo è far intascare alla compagnia marittima una grossa somma dalla società di assicurazioni. Uno sporco affare, insomma; un affare che vede il comandante impegnato in un preciso disegno per causare la perdita della nave, beni e – forse — uomini. Dalle parole che ha udito, nulla fa pensare che i congiurati si siano minimamente preoccupati se e quanti marinai perderanno la vita. Il piano è quello di simulare un errore di rotta, o un difetto degli strumenti, per portare la nave contro gli scogli della costa più vicina, di notte, quando la vigilanza del personale sarà ridotta al minimo, possibilmente sfruttando la nebbia o qualche altra circostanza del genere. Quella notte, che, a quanto gli è parso di capire, è già stata stabilita, ma purtroppo non ne ha inteso la data esatta, sul ponte e nella cabina di comando il capitano farà in modo che ci siano solo degli uomini fidati, cioè alcuni ufficiali che sono a parte del complotto: così saranno sicuri che nessuno vedrà nulla e nessuno lancerà l’allarme, fino a quando non sarà troppo tardi per scongiurare il disastro. Il prezzo del tradimento è già stato stabilito e tutti quelli che ne sono a parte riceveranno la loro quota; ciascuno, anzi, ha già ricevuto un acconto, e tutti si sono impegnati ad andare sino in fondo al piano criminale, simulando, nel frattempo, la massima naturalezza, affinché nulla ne trapeli e nessuno abbia la possibilità di mettersi in guardia.

Dunque, la situazione è questa. Possiamo solo immaginare la ridda di pensieri che si affollano nella mente del marinaio: la sua angoscia, il suo turbamento, la sua disperazione. Sa di essere a bordo di una bara galleggiante; sa che una notte, senza alcun preavviso, la nave andrà a cozzare contro gli scogli e farà naufragio, mentre quasi tutto l’equipaggio sarà immerso nel sonno; sa che di tale piano odioso sono partecipi sia il comandante, sia gli ufficiali, forse non tutti, però parecchi; e qui sta il punto: di chi ci si può ancora fidare, e di chi no? Che cosa deve fare, lui che ha scoperto il complotto, lui che sa quale destino incombe su tutti quanti? Perché è certo che qualcosa dovrà pur fare: ma che cosa, mio Dio, che cosa? Parlare con gli altri, condividere il terribile segreto di cui è diventato l’involontario custode: ma con chi? Come essere certo di non rivolgersi alla persona sbagliata? Chiunque, per quel che ne sa lui, potrebbe esser complice della congiura. Se si confidasse con uno di loro, la sua vita potrebbe essere in pericolo immediato. Fino a dove sarebbero capaci di spingersi, costoro? Un gruppo criminale che ha deciso di far perire la nave e che non calcola affatto la vita dell’equipaggio, avrebbe degli scrupoli ad assassinare un uomo, pur di chiudergli la bocca ed evitare di essere scoperto? Ma, oltre a questo, il marinaio incomincia a sperimentare una sensazione affatto nuova, quale mai avrebbe immaginato di provare: come è duro essere a conoscenza di una verità indicibile, di una verità che non può essere detta, perché non verrebbe creduta! Chi mai crederebbe a un uomo comune, il quale accusi uno stimato comandante di voler condurre deliberatamente la sua nave al naufragio? No: per credere una cosa del genere ci vuole un animo troppo forte, una coscienza più libera, una padronanza di sé superiore alla media. Vi sono delle verità talmente spaventose, che la maggior parte degli uomini se ne ritraggono, spaventati e turbati, e preferiscono dire a se stessi di essersi ingannati; preferiscono fingere di non sapere, perché altrimenti dovrebbero mutare completamente la loro prospettiva sulla realtà. Accettare l’idea che le persone poste più in alto, e che godono della fiducia universale, forse non sono altro che dei cinici ambiziosi, del tutto indifferenti alla vita e al bene degli uomini comuni; che sono solo dei tragici commedianti, impegnati a recitare una ignobile farsa, il cui solo scopo è ingannare sistematicamente tutti quanti, e intanto meditare il tradimento, studiare la maniera di colpire alle spalle tutte quelle persone ignare e disarmate, che si fidano, che non sospetterebbero mai nulla del genere: accettare una simile idea richiede una forza d’animo e una indipendenza di giudizio rarissimi, quali ne possiede, forse, una persona su mille, o anche meno. E dunque, come fare quando si viene a sapere una cosa del genere, quando si diventa partecipi di un segreto talmente spaventoso? Come trovare il modo di dirlo? E come vincere la ripugnanza che si prova nei confronti della verità, di quella verità che non si sarebbe mai voluto conoscere? Si arriva a rimpiangere la beata ignoranza di prima, lo stato sereno di quando non si conosceva il terribile segreto, e si giunge al punto di accusare se stessi, di darsi dei folli, degli allucinati, di credere di essersi ingannati, di aver sentito male, di aver interpretato in maniera sbagliata. Si preferirebbe dare torto a se stessi, piuttosto che accettare la dura realtà; eppure si sa, nel proprio intimo, che è tutto vero, che non ci si é sbagliati, che non si potrà mai più tornare a fingere di non sapere nulla. In quei momenti, in quella situazione, chi ha scoperto una verità che non può essere detta, soffre una tremenda solitudine: la solitudine di chi non può dire ciò che ha appreso, o che, pur dicendolo, non viene creduto, viene ritenuto pazzo, o peggio, viene indicato come un pericoloso perturbatore dell’ordine e della pace. In cambio della sua sollecitudine di voler mettere in guardia gli altri, è accusato, denigrato, infangato, trattato da nemico pubblico, da visionario, da presuntuoso temerario.

Abbiamo raccontato una storia Come andrà a finire? L’importante non è questo, ma capire quanto è difficile la pedagogia della verità. Chi ha compreso la verità non viene mai ringraziato per averla detta; al contrario, deve prepararsi ad affrontare una totale incomprensione e una radicale chiusura, accompagnata da un profondo rancore e da un’implacabile ostilità. L’obiezione più frequente che gli verrà opposta sarà questa: Chi credi di essere, per dire simili cose? Ti ritieni più intelligente, più perspicace di tutti quanti? Due sono i sentimenti che le sue parole susciteranno: oltre all’incredulità per l’enormità della sua rivelazione, incredulità che trae origine dalla forma mentale di gran parte degli uomini, costituzionalmente incapaci di modificare radicalmente, su due piedi, una convinzione lungamente conservata nell’animo, anche l’invidia e l’irritazione nei confronti di qualcuno che viene percepito come presuntuoso e arrogante. La maggior parte della gente è fatta così: preferisce non far nulla e continuare la vita di tutti i giorni, piuttosto che prendere in considerazione un’ipotesi così spaventosa, come quella di stare viaggiando su una nave già morta, destinata al naufragio, per opera di quelli stessi che ne hanno la responsabilità, come della vita di quanti si trovano a bordo. Innumerevoli casi lo confermano: quando la verità è troppo dura da accettare, si preferisce ignorarla e dare torto a colui che la esprime. Così molte persone, ingannate e tradite da quelli che amano di più al mondo, preferiscono rifiutare ogni avvertimento e concepiscono un’implacabile avversione per l’amico che ha provato a sollevar loro il velo dagli occhi. E la stessa cosa accade al soldato che viene tradito dal suo ufficiale; al risparmiatore che viene tradito dalla sua banca; al paziente che viene ingannato dal suo medico di fiducia; allo studente che viene ingannato dal suo insegnante; al credente che viene ingannato e tradito dal suo sacerdote o dal suo vescovo, i quali lo accompagnano lungo i sentieri perversi di una fede che non è più quella vera, quella che conduce alla verità e alla salvezza, ma un’altra, del tutto diversa, ma che ve lo conducono un passo alla volta, con paziente, diabolica abilità, senza dargli modo di rendersi conto delle loro subdole intenzioni; o forse sì. Forse quel credente, in fondo, desidera essere ingannato; o, per dir meglio, preferisce non dover prendere atto che lo stanno ingannando. Prendere coscienza di una verità scomoda e inquietante è faticoso, oltre che traumatico: implica una svolta radicale nella propria vita. Chi accetta di prender atto che è stato ingannato e tradito, sa che la sua vita non sarà più la stessa; sa che dovrà affrontare un cammino del tutto nuovo ed impervio; sa che perderà quasi tutti gli amici e i punti di riferimento; che dovrà sopportare, oltre alla propria sofferenza interiore, l’incomprensione degli altri, i quali gli si rivolteranno contro. Ecco perché la pedagogia della verità deve essere, per forza di cose, graduale e paziente. Non si può dir tutto e subito: bisogna aver compassione della fragilità umana. E pregare…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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