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Omaggio alle chiese nate: la cappella di S. Nicolò

Abbiamo girato in lungo e in largo per il centro di Udine, poi alla periferia e nei villaggi del circondario; quindi siamo rientrati in città, abbiamo passato in rassegna le cappella private di collegi religiosi e di antiche case signorili; infine abbiano cercato d’immaginare le chiese del passato, che nel corso del tempo sono state abbattute, trasformate, riadattate e destinate ad altro uso, di alcune delle quali non rimane più neppure il nome: e abbiamo scoperto, con vivo stupore, che alcune di esse erano nei luoghi più inaspettati, perfino in quelli più vicini alle case nelle quali abbiamo vissuto per anni, senza sospettare niente del genere. Ora torniamo nel cuore della città vecchia e rientriamo fin dentro la chiesa più importante e più grande di tutte, la Cattedrale, dove — insieme alla chiesetta della Purità, posta di fronte all’ingresso laterale meridionale — si sono svolti i momenti fondamentali del nostro ingresso nella Chiesa cattolica: dal Battesimo, alle lezioni di catechismo, alla Prima Comunione, alla Cresima. Anche se ci siamo già occupati della Cattedrale, sia nel corso di questa rassegna, sia in un più ampio studio a parte, vogliamo tornare al suo interno per soffermarci in un luogo particolarmente suggestivo, che merita un discorso a sé: la cappella di San Nicolò, che probabilmente anche parecchi udinesi non hanno mai avuto l’occasione di vedere, così come, da bambini, non l’avevamo avuta noi, pur essendo parrocchiani e avendo servito la santa Messa, chissà quante volte, come chierichetti. Non abbiamo intenzione di passare in rassegna, una per una, tutte le cappelle della Cattedrale, o meglio del Duomo, come di solito è chiamato; ci sembra, però, che un paio di esse meritino una speciale attenzione, per il loro alto valore intrinseco, sotto il profilo storico e simbolico prima ancora che sotto quello artistico. Del resto, non sarebbe giusto dedicare lo stesso spazio a un edificio grandioso e ricchissimo, come questo, e al più modesto edificio sacro della periferia, minuscolo e del tutto sprovvisto di opere pregevoli; per ristabilire un certo equilibrio è doveroso tornare qui dentro, sotto queste ampie volte, fra queste possenti colonne, nella luce mistica che entra dai finestroni e si scioglie nelle navate. Ed eccoci dunque nella cappella di San Nicolò, situata dietro l’ampio spazio del presbiterio, sotto la possente torre campanaria, sul lato nordoccidentale del Duomo.

Vi si accede dall’esterno, dal portale del campanile, perché fa parte del Museo del Duomo, ed è dedicato alla figura di uno dei più grandi, se non il più grande fra i Patriarchi di Aquileia: il francese Bernard de Saint-Geniès (1265-1350), contemporaneo di Dante — nacque proprio nello stesso anno del sommo Poeta -, qui conosciuto da tutti come Bertrando di San Genesio, o meglio ancora come il Beato Bertrando, poiché venne beatificato nel 1760 dal papa Clemente XIII. Fu lui a spostare la maggior parte degli uffici patriarcali da Cividale, sede dei Patriarchi aquileiesi dall’epoca longobarda, a Udine; fu lui, perciò, a fare di Udine la vera capitale dello Stato patriarchino; ebbe anche numerosi meriti come amministratore e riformatore in tutti gli aspetti, materiali e spirituali, della grande diocesi a lui affidata. Non si risparmiò fatiche e non ebbe paura dei rischi; tenne con salda mano il timone dello Stato fra guerre, epidemie (la famosa peste nera del 1348), terremoti, e riuscì a destreggiarsi, con alterna fortuna, fra i potenti vicini che lo insidiavano incessantemente: il duca di Gorizia, l’arciduca d’Austria, la Serenissima Repubblica di Venezia, i Caminesi di Treviso, i Carraresi di Padova. Vecchio di ottantacinque ani, ma dotato di un’indomita energia, andava ancora a cavallo per svolgere personalmente missioni diplomatiche, quando la morte lo colse, per mano della spada di un gruppo di nobili friulani congiurati contro di lui, sotto la guida di Enrico di Spilimbergo, al guado di San Giorgio della Richinvelda, sul Tagliamento (oggi in provincia di Pordenone), il 6 giugno 1350. Ora, nella cappella di san Nicolò è posta la grande arca marmorea che accolse i suoi reti mortali; non fosse che per questo, si tratta di un luogo che merita di essere visitato. Ma oltre a ciò, le pareti della cappella sono abbellite da un ciclo di affreschi di un grande pittore del 1300, Vitale da Bologna (1310-1360), meritevoli anch’essi di una visita: perciò le ragioni per considerare speciale questa cappella sono almeno due. L’arte del maestro bolognese, che risente del gotico tedesco, in questo ciclo udinese manifesta anche un debito abbastanza esplicito nei confronti di Giotto, per via della solennità e della monumentalità dell’impianto compositivo, accompagnate da una dignitosa compostezza, che caratterizza le singole scene.

Per la descrizione di questi bellissimi dipinti ci affidiamo alla guida sicura di un notevole studioso dell’arte friulana, Carlo Someda de Marco (1891-1975; nativo di Mereto di Tomba; pittore e direttore dei Civici Musei di Udine, nonché grande diffusore e promotore, insieme al fratello Pietro, della cultura e dell’arte del Friuli), che alla Cattedrale del capoluogo aveva dedicato, quasi cinquant’anni fa, una pregevole monografia, rimasta tuttora insuperata (da: C. Someda De Marco, Il Duomo di Udine, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1970, pp. 388-390):

Accanto alle due finestre sottostanti al timpano troviamo, pure in stato frammentario, al centro san Nicolò; a destra un santo vescovo con pastorale e sant’Antonio Abate; a sinistra un santo con un libro in mano e san Cristoforo con il Bimbo sulle spalle.

Sulla parete di destra in alto nel timpano dell’arco sono rappresentate le esequie a san Nicolò.

Il santo è disteso su di una portantina con la mitria in capo e le mani incrociate sul petto, dietro a lui un vescovo recita le preghiere con a fianco i ministranti che reggono il pastorale e i vasi sacri; ai lati una lunga teoria di autorità civili e religiose e rappresentanti di confraternite: la scena ha per fondo un’architettura conventuale.

Sopra questa scena è rappresentato san Nicolò in gloria, ai suoi lati due angeli e più sopra ancora il Cristo, entro un clipeo luminoso, con il libro aperto circondato da angeli: alcuni sono in preghiera e altri reggono la palma della vittoria e la corona della gloria.

Al di sotto di questa sentimentale e vigorosa composizione equilibrata su tre linee orizzontali, ove i volumi e la sobrietà coloristica sono elaborati con plastica delicatezza, si svolgono alcune figurazioni rappresentanti tre miracoli di san Nicolò. (…)

1. MIRACOLO DEL BAMBINO CADUTO IN MARE DURANTE UNA TEMPESTA E RESTITUITO AI GENITORI. Il racconto è descritto in un unico riquadro ma svolto in due tempi senza alcuna divisione tra loro. Nel primo tempo si vedono, sopra una barca che veleggia sotto un vento di burrasca, alcune persone piangenti assieme ai genitori disperati che hanno visto cadere il figlioletto in mare; nel secondo tempo troviamo i genitori in una chiesetta innanzi all’altare ricevere da san Nicolò il figlio salvato per sua intercessione.

2. MIRACOLO DI UN FANCIULLO POSTO IN SALAMOIA E RISUSCITATO. Anche qui il racconto è dipinto in un solo riquadro e svolto in due tempi. Nel primo tempo, da quanto si può capire dall’affresco quasi del tutto scomparso, il fanciullo viene rapito dalla sua casa dal mercante per porlo in salamoia; nel secondo tempo si vede san Nicolò, nella casa dello stesso mercante far uscire il fanciullo dalla tinozza in cui il salumaio l’aveva immerso.

3. MIRACOLO DEL CONTADINO DISONESTO RISUSCITATO. Il racconto è dipinto in due riquadri. Nel primo riquadro è figurata la stanza di un tribunale con i libri delle leggi posti in uno scaffale sul muro di fondo e i tre giudici seduti in cattedra; innanzi a questo si trovano un ebreo e un contadino che aveva ricevuto a prestito una somma dall’ebreo stesso. Il contadino aveva affermato di avergliela restituita determinando così la controversia che li portò innanzi ai giudici. Lo scaltro contadino, pur di vincere la causa, ricorre a uno stratagemma; preso un grosso bastone, lo svuota ed entro vi nasconde il danaro che doveva restituire all’ebreo e con il bastone si presenta al giudice. Prima di giurare, dovendo porre le mani sul libro del vangelo, prega l’ebreo di tenergli il bastone e poi giura con sicurezza che lui i denari non li aveva perché già restituiti al creditore. Fatta sentenza in suo favore, il contadino riprende il bastone, esce dal tribunale e si addormenta sulla strada e, come è rappresentato nel secondo riquadro, viene travolto e schiacciato a morte da un carro. Il bastone nella tragica circostanza si spezza e i soldi si spargono a terra rivelando lo stratagemma. Impietositosi, per la disgrazia l’ebreo invoca san Nicolò promettendogli di farsi cristiano se darà di nuovi la vita al contadino. San Nicolò opera il miracolo e l’ebreo si converte alla fede cristiana. (…)

Oltre alle descritte testimonianze di pittura murale trecentesca, in cui si intrecciano maestri e scolari con la grande difficoltà per uno studioso di stabilire il punto di stacco tra loro, troviamo in questa cappella conservate quattro tavole del massimo interesse nella storia del Duomo e sono: incoronazione delle Vergine e storie di san Nicolò di Bari (2,34×0,90) probabile parte di un grande altare dedicato a san Nicolò, opera del Maestro dei padiglioni. Allo stesso Maestro si attribuiscono le altre tre: Bertrando in preghiera (1.00×0,85) con cornice gotica dorata, uccisione del Bertrando (1,73×0,51) e Bertrando distribuisce pane ai poveri (1,73×0,51).

Nell’incoronazione della Vergine, vediamo Gesù seduto che pone sul capo della Madre, inginocchiata, la corona; ai lati gli stanno due angeli musici; in alto si apre un padiglione formato dalla corona e da strisce foderate di ermellino che si rivoltano sull’arco che sostiene il padiglione stesso; dietro a questo è raffigurata una graziosa teoria d’angeli. I volti della Vergine, del Signore, degli angeli sono tutti lievitati da un delicato atteggiamento di sorriso che conferisce loro una espressione tutta particolare, trasportando la scena in una atmosfera di sogno.

Prima della cappella di San Nicolò c’è l’antico battistero, poi trasformato in cappella Corporis Christi: probabilmente nel 1348, cioè press’a poco quando cui Vitale da Bologna affrescava le pareti del locale attiguo, nonostante il disastroso terremoto (ricordiamo che il Duomo, dedicato alla Vergine Annunziata, è stato iniziato nel 1236 e consacrato nel 1335). Ed è in questa cappella che è stata collocata l’arca marmorea con le spoglie del Beato Betrando, morto in odore di santità e fatto riesumare più volte, già dal suo successore Nicolò del Lussemburgo, ed esposto, incorrotto, alla pubblica venerazione, per trovare infine sistemazione nell’arca che egli stesso aveva fatto scolpire non per sé, ma per accogliere le reliquie dei due protomartiri della chiesa aquileiese, Ermacora e Fortunato. E poiché la sua statura risultò superiore alle misure della piccola arca, gli vennero tagliati i piedi, dispersi poi in giro per l’Europa (uno è finito in Ungheria) nel clima della devozione a volte eccessiva che il tardo Medioevo riservava alle reliquie dei santi. Per realizzare questa notevole opera scultorea vennero utilizzati marmi antichi, anche di provenienza romana: non dimentichiamo che le rovine di Aquileia, che era stata una delle più grandi città dell’Impero Romano, prima che Attila la distruggesse nel 452, per secoli e secoli fornì le pietre per numerose costruzioni delle età successive. Sorretta agli angoli da quattro vergini martiri e da un personaggio maschile al centro, reca sui quattro lati delle belle storie della Chiesa aquileiese, scolpite a bassorilievo, sempre nel marmo; come si è detto è piuttosto piccola, ma si caratterizza per una grande eleganza formale e per una nota gentile che rende meno lugubre la sua destinazione funeraria. Del resto, per l’uomo medievale la morte non era la fine, ma l’inizio della vita vera; figuriamoci nel caso di un santo. Nella prospettiva cristiana non si muore: si nasce due volte. La prima nascita, quella del corpo, è consacrata mediante il Battesimo: e infatti nella stessa cappella si può ammirare l’antico fonte battesimale; la seconda, quella dell’anima sciolta dal fardello del corpo, con le sue passioni e le sue debolezze, ha inizio col giudizio individuale, quando essa si presenta dinanzi a Dio: e a quel punto, non ha davvero importanza se i piedi sono ancora attaccati al corpo, oppure no. Questo ci aiuta a capire la disinvoltura, oggi per noi difficilmente comprensibile, con la quale venne "accorciata" la statura del Beato Bertrando, allorché ci si accorse che l’arca non era sufficiente a contenere la sua salma. Del resto, l’aveva detto anche Gesù stesso (Mc 9, 43-48): Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile. Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo: è meglio per te entrare nella vita zoppo, che esser gettato con due piedi nella Geenna. Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, che essere gettato con due occhi nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue. È con un senso di rispettosa commozione che ci si ferma a contemplare l’arca, ora vuota, perché il corpo del Beato Bertrando, dal 1971, riposa in una teca di cristallo sotto l’altare di San Giuseppe, nella seconda cappella a sinistra del duomo. Nominato patriarca dal suo connazionale Giovanni XXII, fu l’ultimo grande principe-vescovo del Friuli: settant’anni dopo la sua morte, i veneziani sarebbero entrati a Udine. La sua morte fu tragica ed eroica: il popolo udinese lo pianse a lungo, sinceramente, quasi presago degli avvenimenti futuri.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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