
Che cosa può fare, oggi, una persona perbene?
26 Dicembre 2018
Assalto al potere mondiale
26 Dicembre 2018La modernità è una malattia, questo è il punto centrale; e dalle malattie si guarisce, oppure si muore. Ma non si guarisce se non si fa nulla: per guarire bisogna curarsi; e, prima ancora di curarsi, bisogna sospendere quegli stili di vita che ci hanno fatto ammalare. Degli stili di vita che fanno ammalare fanno parte le cattive abitudini, le cattive compagnie, la cattiva musica, le cattive letture. Dipendere da telefonini, televisione e computer crea cattive abitudini; frequentare persone vuote, superficiali e consumiste denota cattive compagnie; ascoltare musica rock, o rap, o simili, fornisce cattivi stimoli; leggere libri stupidi volgari, insulsi, intossica la mente. Uno stile di vita sano si alimenta di un uso sobrio della tecnologia, limitato allo stretto indispensabile; della solitudine come ricerca del silenzio e dell’interiorità, e della frequentazione di pochi amici selezionati; dell’ascolto frequente di musica armoniosa e spirituale, che innalza l’anima; di poche ma buone letture. Questo, sul piano naturale; sul piano soprannaturale, le frequente partecipazione alla Messa e alla Comunione, perché dai Sacramenti viene l’aiuto, il consiglio e il conforto soprannaturale, senza i quali è impossibile mantenersi sulla retta via e non deviare, prima o poi, nell’errore: mentre l’uomo che confida solo nelle proprie forze è perduto. Nessuna casa rimane vuota per sempre: se non sa aprirsi alle forze del bene, finirà per diventare albergo delle forze del male. Abbiamo detto che la modernità è una malattia: la definizione è generica; ora precisiamo: la modernità è una forma di possessione diabolica. L’uomo è paragonabile a una casa: se non apre la porta a Dio, prima o dopo entra il diavolo, richiamato dall’orgoglio e dalla superbia della creatura che vuol far da sola, che non vuole servire il suo Creatore; e il diavolo fomenta le passioni distruttive.
Le buone letture, dunque: esse aprono la mente, e, attraverso la mente, il cuore; mentre le cattive letture, come i cattivi film, la restringono, la rimpiccioliscono, la chiudono. I utile dire che, per un’anima persa, questo rimpiccolimento e questa degradazione sono un avanzamento, un progresso: quando giunge a uno stadio avanzato, il male non riconosce più se stesso, anzi, capovolge la giusta prospettiva e si gloria di ciò che è diventato, nello stesso tempo in cui deride e disprezza il bene. Per chi ama la filosofia e cerca la verità, leggere sant’Agostino o san Tommaso alimenta un modo di ragionare austero, costruttivo, metodico, preciso, paziente, armonioso, consequenziale, logico ma anche potentemente spirituale, riflesso e strumento di una disposizione interiore coraggiosa e umile nello stesso tempo. Fra i moderni, solo Kierkegaard sta allo stesso livello; e anche Nietzsche, ma a patto di saperlo leggere nella maniera giusta, che non è affatto quella che pare evidente alla prima lettura. Paragonare sant’Agostino o san Tommaso a un Althusser, a un Sartre, a un Foucault, a un Derrida, è come passare da una fuga di Bach a un concerto di Sfera Ebbasta: dalla maestosità alla meschinità, dalla nobiltà allo squallore; quelli erano dei giganti, questi sono dei nani. Eppure ci sono persone che ci credono colte, ci sono ad esempio dei professori di filosofia, che ha letto solo Althusser, Sartre, ecc. e non hanno mai letto sant’Agostino o san Tommaso: cosa poi insegnino ai loro studenti, non è difficile immaginare. In questo modo, un pensiero sempre più debole, sempre più meschino, sempre più ciarlatanesco, si alimenta di se stesso: ci sono sempre nuove reclute, nuovi propagandisti che vengono arruolati ed entrano a far parte del tristo esercito della cultura moderna. Allo stesso modo, ci sono persone che hanno letto solo Ginsberg, Eco, Moravia, Genet, Jelinek, Süskind, e perciò si credono colte; ma non hanno mai letto Dante (tranne a scuola, forse, sbuffando e non capendoci nulla): in nome della modernità, costoro disprezza ciò che non è moderno, lo giudicano noioso, superato, eccetera, peraltro senza conoscerlo.
Il problema dei problemi, sul piano conoscitivo, è quello della verità. Se la verità esiste, la nostra vita ha un senso; se non esiste, non ce l’ha, e in tal caso hanno ragione i nichilisti e tutti i predicatori di stanchezza, disgusto, noia e morte. Scrive san Tommaso d’Aquino nelle Quaestiones disputatae de veritate (1, 1-4; a cura di Fernando Fiorentino, Milano, Bompiani, 2005, pp. 117-141):
1. [CHE COS’È LA VERITÀ] La presente [questione] riguarda la verità. E per primo ci si chiede che cosa sia la verità. Ora, sembra che il vero s’identifichi con l’ente: Agostino, nel libro dei "Soliloqui", dice che "il vero è ciò che è"; ora, ciò che è, non è nient’altro che ente; dunque, il vero e l’ente designano assolutamente la stessa cosa. […]
2. [SE LA VERITÀ SI TROVI PRINCIPALMENTE NELL’INTELLETTO PIÙ CHE NELLE COSE] Per secondo ci si chiede se la verità si trovi principalmente nell’intelletto più che nelle cose. Infatti, il vero, come stato detto, si converte con l’ente; ma l’ente si trova principalmente nelle cose più che nell’anima; dunque, anche il vero. […]
Ora, il compimento di un qualsiasi movimento od operazione risiede nel suo termine. Ma il movimento della facoltà conoscitiva termina nell’anima: occorre, infatti, che la cosa conosciuta sia nel soggetto conoscente secondo il modo di essere del soggetto conoscente. Ora, il movimento della facoltà appetitiva termina nelle cose: da ciò segue che il Filosofo, nel libro III dell’"Anima", pone un certo movimento circolare negli atti dell’anima, nella misura in cui, cioè, la cosa conosciuta muove l’appetito e l’appetito tende in modo da pervenire alla cosa, dalla quale ebbe inizio il movimento. E poiché il bene, com’è stato detto, dice ordine dell’ente all’appetito, invece il vero dice ordine [dell’ente] all’intelletto, da ciò segue che il Filosofo, nel libro VI della "Metafisica", dice che il bene e il male sono nelle cose, invece il vero e il falso sono nella mente. Ora, una cosa non è detta vera, se non nella misura in cui è adeguata all’intelletto; per conseguenza, il vero si trova in secondo luogo nelle cose, invece in primo luogo nell’intelletto.
3. [SE LA VERITÀ ESISTA SOLTANTO NELL’INTELLETTO CHE COMPONE E CHE DIVIDE] Per terzo ci si chiede se la verità esista soltanto nell’intelletto che compone e che divide. E sembra di no. Infatti, il vero è detto per rapporto dell’ente all’intelletto. Ora, il primo rapporto, mediante il quale l’intelletto si rapporta alle cose è [quello] secondo il quale forma le essenze delle cose, concependone le definizioni. Dunque, il vero si trova principalmente e prima di tutto in quest’operazione dell’intelletto.
Inoltre "Il vero è l’adeguazione delle cose e dell’intelletto"; ora, come si può adeguare alle cose l’intelletto che compone e divide, così [pure] l’intelletto che intende le essenze delle cose; dunque, la verità non esiste soltanto nell’intelletto che compone e divide.
4. [SE ESISTA UNA SOLA VERITÀ, IN VIRTÙ DELLA QUALE TUTTE LE COSE SONO VERE] Per quarto ci si chiede se esista una sola verità, a causa della quale tutte le cose sono vere. E sembra di sì. Infatti, Anselmo, nel libro "La verità", dice che il tempo si rapporta alle cose temporali come la verità alle cose vere; ora, il tempo si rapporta a tutte le cose temporali in modo tale che di tempo ce ne sia uno solo; dunque, la verità si rapporta in tal modo a tutte le cose vere, che di verità ce ne sarà una sola.
5. [Se qualche altra verità, oltre alla prima, sia eterna] Per quinto ci si chiede se qualche altra verità, oltre alla prima [cioè Dio: nota nostra], sia eterna. E sembra di sì. Infatti, Anselmo, parlando della verità degli enunciati, dice nel "Monologio": "Sia che si pensi che la verità abbia sia che si dica che la verità non abbia un principio o una fine, la verità non può essere racchiusa da un principio e da una fine". Ora, di ogni verità si pensa o che abbia un principio e una fine o che non abbia un principio e una fine; dunque nessuna verità è racchiusa da un principio o da una fine; ora, ogni cosa del genere è eterna; dunque, ogni verità è eterna.
Su ciascuno di questi concetti potremmo soffermarci per ore e ore: non si finirebbe più di estrarre tutto il metallo prezioso che questo generosissimo dispensatore di ricchezza distribuisce a quanti si recano nella sua miniera. Dunque, i punti che qui abbiamo evidenziato sono i seguenti: 1) la verità esiste, perché la verità è l’ente; 2) la verità si trova sia nella mente che nelle cose, ma in primo luogo nella mente, perché la verità è un giudizio, e più precisamente il giudizio che coglie le cose così come sono; 3) si trova nella mente, perché è la mente che giudica, ma si trova anche nelle cose, perché le cose sono l’oggetto del giudizio: ed entrambi, la mente e le cose, sono l’ente; 4) la verità è una, e grazie a questo fatto le singole cose sono vere; 5) la verità è eterna, non avendo inizio né fine.
Una volta assodati questi cinque punti, diventa possibile fare filosofia; se non li si accetta, risulta impossibile. La cosiddetta filosofia moderna è impossibile, o folle, perché rifiuta di accettare almeno uno di questi punti, a cominciare dal primo e più importante, sul quale tutto lo sforzo di conoscere si regge e trova un significato: che la verità esista. Quanti sostengono che la verità esiste, ma la mente non è capace di coglierla, rifiutano il secondo punto: pertanto, se fossero coerenti, poserebbero la penna e si dedicherebbero a qualcos’altro: se no, tutto quel che possono fare è spandere intorno la loro frustrazione, la loro impotenza e la loro rabbia. Se poi qualcuno pensa che la verità sia tutta e soltanto nella mente, cade nel solipsismo e il mondo intero diventa una creazione, o piuttosto un delirio, del soggetto individuale: ma anche così risulta impossibile fare filosofia, perché non esiste più una base su cui poggiare, né una meta verso cui tendere. E Dio sa se non vi è bisogno che gli uomini imparino a uscire da se stessi, a sgonfiare un poco il loro io ipertrofico: di tutto hanno bisogno, nelle condizioni odierne, tranne che di coltivare l’idea che la loro mente è non solo il centro del mondo, ma è il mondo essa stessa. Chi nega che la verità sia una, e parla delle verità al plurale, o si esprime male, o nega ciò che afferma. La verità è una per definizione: poiché l’ente è l’ente, non può essere in contraddizione con se stesso, altrimenti non sarebbe. Parlando in maniera approssimativa, si può dire che esistono le verità, per intendere che esistono le cose, e che le cose che esistono, in quanto esistono, sono vere, ci sono e sono così come sono: in questo senso, e solo in questo senso, si può dire che ci sono le verità. Potremmo anche dire che le verità sono tante e diverse facce dell’unica verità, che la mente umana, essendo finita, coglie come isolate e separate, mentre, in effetti, sono un’unica realtà: così come una creatura molto piccola, davanti ad un mosaico smisurato, può riuscire a vedere solo una singola tessera: ma il mosaico è uno solo ed è fatto di moltissime tessere. Infine la verità è eterna: e chi la ritiene transitoria, o parla in maniera impropria, o delira. La verità può apparire transitoria, se la si identifica con gli enti finiti; ma gli enti finiti sono manifestazioni del solo ente che da sé esiste e da sé è vero: l’Essere; dunque la verità è eterna, non ha principio né fine. La mente che coglie la verità degli enti ha un principio, perché tutto ciò che esiste sul piano del finito, esiste a partire da un certo momento, mentre c’era un tempo in cui non esisteva. Anzi, il tempo stesso è un concetto che acquista un senso solo se si ammette che gli enti non esistevano e poi hanno cominciato a esistere, perché il tempo è la registrazione del modificarsi degli enti finiti.
Molti equivoci verrebbero chiariti e molte perplessità sarebbero sciolte se si tenesse bene a mente che l’ente, nel senso forte del termine, è uno solo. Quando parliamo degli enti, al plurale, parliamo di qualcosa che partecipa all’ente, che proviene dall’ente, che è causato dall’ente e dall’ente riceve il movimento, cioè l’esistenza fisica: usiamo perciò la parola "ente" in un senso debole, esattamente come quando diciamo "le verità" al plurale. In conclusione, l’essere umano tende all’Essere, perché tende all’ente nella sua pienezza: intuisce la finitezza e la transitorietà del proprio esistere e aspira a ricongiungersi con ciò che non ha inizio né fine. E così come la volontà tende al bene, l’intelletto tende al vero: sono entrambi dei movimenti che esprimono questa nostalgia, la nostalgia dell’unità, della verità, dell’armonia e dell’eternità. La vita umana, così come la conoscenza, è un movimento: un movimento circolare, che vuol tornare all’origine, arricchita e pacificata: ma l’origine degli enti è fuori di essi, è nell’Ente originario ed unico. La cultura moderna nega o disprezza l’Essere e cerca di sopprimere sia la nostalgia, sia la tensione dell’ente finito verso l’Ente infinito: per questo diciamo che è una forma di possessione diabolica. È diabolico voler recidere il legame originario fra gli enti e l’Ente, perché è un legane ontologico, e volerlo spezzare equivale a porre l’uomo in guerra contro se stesso, come lo è un cane idrofobo, che è divorato da una sete spaventosa ma, al tempo stesso, è spinto da una forza terribile a fuggire l’acqua. L’uomo, ente finito, immerso nel tempo, non trova il bene se non facendo la pace con se stesso; e non farà mai la pace con se stesso se non ritornerà a Dio, l’Ente infinito ed eterno. Come la cerva anela ai rivi delle acque, così l’anima mia anela a Te, o Dio; ha sete di Te l’anima mia, dice il salmista, nella sua struggente invocazione all’Onnipotente. Una vita ben orientata è una vita che esprime questa costante invocazione: niente è buono e niente è vero, lontano da Dio o contro Dio, che è il Bene e il Vero; mentre tutto è o diventa vero e buono, anche ciò che umanamente è doloroso, se ci si apre alla Bontà e alla Verità di Dio…
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