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18 Dicembre 2018La verità esiste ed è accessibile agli uomini; la verità è semplice; la verità, tuttavia, si svela a chi ha il cuore semplice; la verità resiste agli orgogliosi e ai superbi, che vogliono afferrarla solo razionalmente. Questo è il segreto che i nostri nonni conoscevano intuitivamente, che i nostri avi conoscevano anche intellettualmente: che Platone ha cercato di esporre per mezzo dei miti e che san Tommaso ha cercato di esprimere affermando che fede e ragione concorrono al medesimo fine. Dante ha voluto trasmettere il medesimo concetto ricordando che esiste un limite a ciò che l’uomo può conoscere con le proprie forze, e che per giungere alla conoscenza delle cose più alte, egli deve trovarsi in grazia di Dio. Ora, la cosa più alta in assoluto è Dio: è Lui l’ente supremo, che origina, spiega e comprende ogni altro ente; di conseguenza, l’uomo non può arrivare alla conoscenza di Dio senza l’aiuto di Dio stesso, o, il che è il medesimo concetto, espresso in altro modo, senza trovarsi in stato di Grazia davanti a Lui. Pretendere di arrivare alla verità senza bisogno del suo aiuto e senza essere in grazia di Lui, equivale a sfidare Dio e a presumere di essere pari a Dio. La superbia di chi vuole innalzarsi al di sopra dello statuto ontologico della creatura, e la miseria delle passioni disordinate che abbrutiscono l’uomo e lo sprofondano in basso, sono due facce della stessa cosa: la mancanza del timor di Dio e quindi l’allontanamento volontario dell’uomo da Lui. L’uomo che si allontana da Dio non troverà la verità, perché ha deciso, egli stesso, di voltare le spalle alla verità: sarebbe come se uno, dopo essersi privato deliberatamente della vista, pretendesse di vedere, anzi sostenesse di vedere più degli altri e meglio degli altri.
Tutto questo non equivale a una svalutazione della ragione umana, bensì alla capacità di porre la ragione umana nella giusta prospettiva. La ragione è un mezzo, non un fine: un mezzo per seguir virtute e conoscenza. La ragione non è fine a se stessa, dunque neppure la ricerca del vero sarà fine a se stessa: con la verità non si gioca, non è un trastullo intellettuale per persone annoiate dalla vita di ogni giorno. In altre parole, la ricerca della verità nasce dal desiderio di innalzarsi al di sopra delle cose di quaggiù, ma senza disprezzare nulla, senza presumere nulla, senza pensare che l’uomo sia capace di trovare, da solo, quella verità ultima che cerca. La verità ultima non è alla portata dell’uomo, così come non è alla sua portata la scelta definitiva e irrevocabile del bene. L’uomo è fragile, la sua natura è instabile, e soprattutto egli è roso dal verme della concupiscenza, per cui può, in qualsiasi momento, lasciarsi travolgere dai suoi cattivi istinti e fare il male, magari pensando d’inseguire un bene. La sola espressione cattivi istinti farà sobbalzare sulla sedia più di qualcuno: dal punto di vista della cultura moderna, essa è inaccettabile e intollerabile. Ma come! Se l’uomo ha degli istinti, non possono essere cattivi in se stessi; al massimo, l’uomo moderno può arrivare ad ammettere che devono essere guidati e disciplinati. Ma che siano cattivi in se stessi, no, questo non lo ammetterà mai e poi mai: la natura umana è fondamentalmente buona, semmai è la società che la corrompe e la rende cattiva. E chi lo dice? Lo dice Rousseau. E chi è Rousseau? È quel misero pensatore che, senza argomentarlo e senza dimostrarlo, afferma che l’uomo nasce buono per natura, e che, di conseguenza, per spiegare il male, va in cerca di un colpevole esterno, e lo trova nella società. Strano, visto che società è formata da individui in carne e ossa e non da puri spiriti, o da extraterrestri, o da diavoli sbucati fuori dall’inferno. Anche un bambino capirebbe che questo ragionamento, se così lo si vuol chiamare, non funziona; ma, come disse qualcuno, se una determinata affermazione, per quanto palesemente falsa o sciocca, viene ripetuta dieci, cento, mille volte, per settimane e mesi e anni, finisce per diventare un assioma, un dogma, una verità auto-evidente: e così è stato per l’antropologia di Rousseau, malata di ottimismo come quella di Pelagio: l’uomo è buono, i suoi istinti sono buoni.
E se non sono buoni, rincara la dose Freud, sono comunque amorali, nel senso che non possono essere giudicati secondo il metro del bene e del male, cioè secondo il metro dell’etica. E perché non possono essere giudicati con quel metro? Perché sono istinti umani, dunque devono essere salvaguardati, in ogni caso, dall’accusa di avere in sé alcunché di malvagio. In effetti, dire che gli istinti sono a-morali, o extra-morali, o pre-morali, è una soluzione a metà, una soluzione di compromesso: è come mettere il problema in congelatore, evitando di sporcarsi le mani con una sentenza chiara e definitiva. Eppure, se l’istinto fondamentale dell’uomo, fin da bambino, è – poniamo – quello di assassinare suo padre e di prendere il suo posto nel letto accanto alla propria madre, risulta difficile evitare di definirlo "cattivo". Pure, la cultura moderna è stata capace di fare anche questo ulteriore salto mortale: dopo aver accettato la "scommessa" indimostrabile, e improbabile, di Rousseau, che l’uomo sia buono per natura, ecco la seconda "verità" ideologica da conciliare con la prima: che il male deve per forza venire da qualche altra parte, perché, quando l’uomo fa il male, e quando persino un bambino fa il male, ciò non nasce da un istinto cattivo, ma da una qualche forma di ottenebramento, da qualche temporanea follia che lo ha offuscato, non dalla sua intima natura. Così, se due bambini di dieci anni rapiscono e uccidono un bambino di due anni — non stiamo inventando nulla, purtroppo: è la storia dell’omicidio di James Bulger, a Liverpool, nel 1993 — e lo fanno semplicemente per noia e per divertimento, ecco che una legione di nipotini di Rousseau e di Freud vengono a dirci che sì, è stata una cosa terribile, ma insomma, sono pur sempre due bambini, qualche cosa li ha traviati, probabilmente la società, la famiglia, la televisione, ma in loro non c’era il male, non c’era la malvagità, hanno fatto del male ma non erano cattivi nel significato proprio della parola, erano solo ottenebrati da qualche fattore disturbante, che li ha momentaneamente accecati. Quante contorsioni intellettuali per negare l’evidenza, ossia che il male esiste ed è nell’uomo, sim da piccolo; che gli istinti cattivi esistono, e lottano nel profondo di ciascuno di noi con gli istinti buoni, la compassione, la solidarietà, il desiderio di proteggere il più debole; e che tutto ciò configura uno scenario ben diverso sia da quello ottimistico di Rousseau che a da quello a-moralistico di Freud.
Dunque, ribadiamo il concetto: la verità esiste, ma per essere degni di vederla, bisogna essere come Dio ci vuole: puri e umili di cuore. Quel che ci fa velo allo sguardo sono i peccati, ed è la superbia, cioè la pretesa di poterci innalzare più in alto di quel che consente il nostro statuto ontologico. Santa Caterina da Siena era – così pare – analfabeta, eppure si era avvicinata alla verità più di un uomo coltissimo e spregiudicato, come Federico II di Svevia, che i suoi contemporanei chiamarono stupor mundi. E gli Apostoli, che Gesù Cristo scelse personalmente in mezzo alla gente di Galilea — non furono essi a scegliere Lui, ma Lui a scegliere loro — non erano persone semplici e illetterate? Erano pescatori, gente umile, che non aveva fatto alcuno studio. Non scelse dei filosofi: eppure dai suoi discorsi traspare una sapienza così sublime, che avrebbe potuto affascinare i più grandi pensatori, da Socrate a Platone. Infatti, il punto è questo: non siamo noi che troviamo la verità, è la Verità che ci illumina dall’alto, quando noi abbiamo reso le pareti della nostra anima e della nostra mente abbastanza trasparenti da poter ricevere la sua luce. Ma finché viviamo sprofondati nel fango delle passioni disordinate, e accecati da una smisurata superbia intellettuale, quella luce noi non la vedremo, quei raggi benefici non li riceveremo, anche se sfolgorassero in pieno sopra di noi, perché, per noi, è come se non esistessero.
Scriveva Guido Capitolo a conclusione di uno suo breve, commovente scritto, intitolato La verità è semplice, nel quale narra il ritorno al paese natio, dopo vent’anni di assenza, per partecipare ad una commemorazione in onore di suo fratello maggiore, spentosi precocemente tanto tempo prima (da: Pagine inedite del preside Capitolo, in: Quarant’anni del Liceo Scientifico "G. Marinelli" (1923-1963), Udine, Del Bianco, pp. 135):
Il treno ripartì alla grande stazione e caddi in un sonno profondo che mi tolse ogni senso ed ogni immagine, finché le luci del giorno mi ferirono il volto e con un brivido tornai alla coscienza: innanzi a ne si stendeva il paesaggio della Lucania, che non vedevo da vent’anni. Non l’avevo mai sentito come allora: un paesaggio di sogno, in bianco e nero: una terra brulla senza alberi e senza fiori; montagne desolate che cadevamo a strapiombo su torrenti rovinosi; villaggi sparsi su posizioni assurde; malinconiche lande senza un segno di vita, con rare macchie e cespugli.
Mi balzò nella mente un passo del Diario di Kierkegaard: "Qui tutto si distende nudo e senza veli dinanzi a Dio; qui non si trovano le molte distrazioni, i numerosi meandri, in cui sembra che la coscienza si possa nascondere e di dove riesce difficile richiamare alla serietà della vita i distratti pensieri. Qui la coscienza deve decidere in modo determinato e preciso di se stessa. Dove io posso sfuggire innanzi al tuo sguardo, o Dio?".
Compresi allora il segreto dell’anima che veramente è vissuta in quella terra e ci è rimasta aggrappata: là non si sfugge allo sguardo di Dio e la coscienza deve decidere in modo determinato e preciso di se stessa. E compresi che chi non sfugge allo sguardo di Dio, sente che la verità è semplice.
Lo sguardo di Dio, nella potente immagine di Kierkegaard, è la verità che noi non riusciremo a vedere fino a quando non avremo imparato a metterci a nudo innanzi a Lui, confessando la nostra debolezza e il nostro bisogno di Lui. Dio è la verità, e la verità è bene, mentre la menzogna è male. Finché rimane sprofondato nella menzogna, finché si pasce di mezze verità, di piccole verità, di verità parziali, l’uomo dimostra di non essere degno di vedere ciò che sta in alto, e che brilla al di sopra di lui. L’uomo cerca istintivamente la verità, perché la verità è un bene, è il bene supremo; e l’uomo cerca istintivamente il bene. Ecco: qui, sì, possiamo parlare di un istinto che è naturalmente buono. Ma accanto agli istinti buoni, vi sono anche di quelli non buoni, e ve ne sono alcuni decisamente cattivi: invidia, superbia, lussuria, cupidigia, eccetera. Non possiamo dichiararli tutti buoni per decreto. Come diceva Chesterton nel libro L’uomo eterno (e stava parlando, per inciso, della pederastia, che oggi sembra andare moltissimo di moda, salvo essere "sdoganata" da una neo-morale permissiva, che si alimenta più di Freud che del Vangelo): gli errori non smettono di essere errori anche quando diventano di moda. Ora, negare che esistano degli istinti cattivi è un errore; mentre affermare che la loro esistenza sarebbe una prova dell’inesistenza di Dio, oppure, in alternativa, una prova del fatto che Dio non è buono (contraddizione in termini, Dio essendo la perfezione, ed il male essendo una deficienza dell’essere) è non solamente un errore, ma una bestemmia. Gli istinti cattivi sono una conseguenza del Peccato originale, ma l’uomo conserva intatta la capacità di fronteggiarli, purché abbia l’umiltà di affidarsi a Dio e di porsi sotto la sua protezione: perché, da solo, no, non riuscirà a controllarli. Non riuscirà a padroneggiare la rabbia, la gelosia, il pungiglione della lussuria, o quello dell’invidia; non riuscirà a evitare di essere dominato dall’avidità, o di sprofondare nell’accidia. E quanto più cade in preda ai suoi cattivi istinti, tanto più egli si allontana dalla verità.
Sappiamo qual è l’obiezione del pensiero moderno: la verità è indipendente dall’animo di colui che la cerca; la verità può essere trovata anche da una persona moralmente indegna, purché possieda sufficienti strumenti intellettuali. Rispondiamo che bisogna vedere di quale verità stiamo parlando. Noi parliamo della verità; quei signori parlano delle verità. Le verità parziali sono verità per modo di dire: il nome che indossano è fittizio, perché una verità parziale è tutt’altra cosa dalla verità, e può essere anche quanto di più lontano esista dalla verità. Un tipico esempio di ciò sono le verità scientifiche disgiunte dalla verità ultima, che è Dio. Sappiamo che, quando giunse loro la notizia che l’operazione di sganciamento della bomba atomica su Hiroshima era stata coronata da pieno successo, e che gli effetti erano stati quelli sperati, gli scienziati del gruppo Manhattan, ossia del progetto al quale avevano lavorato per diversi anni, si abbandonarono all’esultanza. E sappiamo anche che non erano persone malvagie: nondimeno esultarono per il fatto che il loro lavoro intellettuale aveva prodotto la distruzione immediata di circa 100.000 persone innocenti. Avevano trovato una verità scientifica, che è possibile scindere l’atomo e farne scaturire una immensa energia, ma quella non era la verità. La verità, che è il bene, non può produrre il male, né renderle peggiori: e cosa c’è di peggio, per delle persone perbene e rispettabili, che abbandonarsi alla gioia sfrenata, fino alle lacrime, perché si è trovato il modo di assassinare in un solo momento, senza rischi e senza perdite, quasi tutti gli inermi abitanti di una grande città? La sola spiegazione di questo apparente paradosso è che l’intelligenza, se è accecata dalla superbia, conduce a vedere solo le verità parziali e, di conseguenza, perde del tutto di vista il Bene, che dimora soltanto nella Verità.
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash