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Omaggio alle chiede natie: Santo Stefano

Lo studio delle antiche chiese, delle chiese un tempo gloriose e che furono care al cuore della cittadinanza, ma ormai scomparse dal panorama urbano, ci offre delle continue sorprese nella miglior conoscenza della nostra città. Si scopre che l’attuale topografia e l’attuale struttura edilizia sono determinate anche dalla demolizione di antichi palazzi e sono legate per mille fili alle tumultuose vicende passato, sicché non è possibile conoscere veramente la propria città senza conoscerne un poco anche la storia. Chi vive solo nel presente, senza porsi domande su quello che vede, e non s’interriga sul perché le strade, le piazze e gli isolati abbiano assunto un certo aspetto, che non è, magari, almeno in apparenza, il più logico e funzionale fra quanti ci si potrebbe aspettare, non riuscirà mai a penetrare l’anima di quel luogo e ad esserne cittadino a pieno titolo; sarà soltanto un ospite occasionale, un locatario casuale, pago di vivere alla superficie delle cose e privo di un profondo legame affettivo con esse.

Prendiamo, ad esempio, una delle piazze più banali e apparentemente più "inutili" di Udine: piazza Venerio. È uno spazio rettangolare ricavato in mezzo alle case, quasi incongruo, che non sembra svolgere alcuna funzione utile da nessun punto di vista; per giunta, non è affatto bella, e se non fosse perché, da una parte, si apre sul lato posteriore della storica chiesa di San Francesco, e sull’altro lascia intravedere la piazza del Duomo con la cattedrale di Santa Maria Annunziata, ci si potrebbe chiedere a che cosa serva, perché sia nata, insomma perché esista. Sui due lati più lunghi del rettangolo non vi sono che palazzi moderni, il verde è scarsissimo, niente botteghe, nessun monumento sia pur modesto: che ci sta a fare? In fondo, non si direbbe nemmeno una piazza: una piazza è un luogo che convoglia e raccoglie le attività commerciali, o direzionali, o culturali: ci si aspetta di trovarvi dei locali, dei negozi, o almeno una scuola, una biblioteca, un museo, una chiesa… Ecco, una chiesa. Sì, in piazza Girolamo Venerio (un illustre ma sconosciutissimo meteorologo vissuto fra il Sette e l’Ottocento) c’era una chiesa: la chiesa di Santo Stefano, che certamente la maggior parte degli udinesi non ha mai neppur sentito nominare. Logico: è scomparsa da moltissimo tempo. Come non ha mai saputo che questa piazza è nata semplicemente dalla demolizione di un antico e grandioso palazzo, appartenente a una delle principali, se non la principale, famiglia aristocratica udinese: quella dei Savorgan, che era di origine tedesca e che venne qui intorno al 1200, dalle sue terre avite nella Stiria, o forse nella Moravia. Famiglia che aveva molte dimore, per non parlar dei castelli sparsi in tutto il Friuli (e che hanno lasciato ben due toponimi; Savorgnano presso San Vito al Tagliamento e Savorgnano vicino a Povoletto). I Savorgnan, però, a differenza delle altre famiglie feudali friulane, che parteggiavano per l’Impero (Strumieri), scelsero, dal 1385, di mettersi a capo dei popolari e di favorire la parte veneziana (i cosiddetti Zamberlani): abbiamo già visto che, nel Crudele Giovedì Grasso del 1511, Tristano Savorgan svolse un ruolo decisivo nel massacro dei nobili residenti in città, ma poi finì a sua volta assassinato, a Villaco, dai parenti degli uccisi. Ne abbiamo già parlato trattando della scomparsa chiesa di Santa Barbara (originariamente dedicata a San Mauro), che era la cappella privata del palazzo Torriani, abbattuto per ordine della Serenissima nel 1717, contestualmente alla condanna a morte dello scellerato Lucio Sigismondo della Torre. Ebbene: proprio come la odierna piazza XX Settembre, già piazza dei Grani, è nata dalla demolizione del palazzo della Torre, così la piazza Venerio è nata dalla demolizione, sempre ordinata dal governo veneziano, del palazzo Savorgnan. Tale demolizione venne decisa nel 1549 e si dovette alle pressioni delle famiglie nobili, che solo vedendo atterrato il palazzo cittadino dei loro odiato nemico, potevano considerar soddisfatta la loro ardente sete di vedetta, non essendo rimasti paghi di vedere il cervello di Tristano sparso sulla via e divorato dai cani (anche i cadaveri dei loro congiunti, peraltro, il 27 febbraio del 1511, erano stati sottoposti a mutilazioni orrende dal popolo infuriato).

La chiesa di Santo Stefano era dunque la cappella privata del palazzo Savorgnan e sorgeva di fronte ad esso: la studiosa Laura Casella indica la sua ubicazione all’angolo di piazza Venerio con la via dei Calzolai. E così come la storia dei feudatari del Friuli, che s’intreccia sia con quella dei patriarchi di Aquileia, sia, dopo il 1420, con quella della Serenissima, è una storia assai fosca, scritta sovente col sangue, così anche la chiesa di Santo Stefano fu il teatro di un atroce fatto di sangue, ossia l’assassinio di Federico III Savorgnan, antenato di Tristano, quello del Giovedì Grasso. L’assassinio di Federico ebbe luogo nel 1389, al culmine di una fase particolarmente drammatica della storia friulana, quando il patriarcato, allora sotto Giovanni (Jan) di Moravia, si stava avviando al tramonto e le mire contrastanti di Venezia e degli Asburgo sobillavano le lotte feroci dei nobili, i quali, i Savorgan specialmente, non esitavano a far ricorso anche al popolo, attraverso la mobilitazione delle "cernide" ossia le milizie armate cittadine, magari con un pretesto, come avvenne appunto nel 1511. Non è questa la sede adatta per esporre, neppure sommariamente, le complicatissime vicende che culminarono nell’assassinio di Federico Savorgnan, il 15 febbraio 1589; basti dire che esso venne ordinato, secondo l’opinione corrente, dallo stesso patriarca Giovanni di Sobieslav, marchese di Moravia e nipote, o forse figlio naturale, dello stesso romano imperatore, Carlo IV di Lussemburgo. Il quale fu ripagato, cinque anni dopo, con la stessa moneta: un gruppo di udinesi, fra i quali Tristano e suo fratello Francesco, lo assassinarono per vendetta, il 13 ottobre 1394, imperatore o non imperatore. Non era facile, del resto, nemmeno la vita dei patriarchi aquileiesi: chi non ricorda l’assassinio del migliore di essi, Bertrando di Saint Geniès — uomo quanto mai energico, sebbene ultranovantenne — avvenuta per mano di un gruppo di nobili friulani, a San Giorgio della Richinvelda, il 6 giugno del 1350?

Ecco come lo storico Gino di Caporiacco ha revocato l’assassinio di Federico Savorgnan nel suo libro Udine. Appunti per la storia (Udine, Arti Grafiche Friulane, 1972, 1976, pp. 78, 80, 81):

Il 15 febbraio 1389 Federico di Savorgnan venne ucciso nella chiesetta di Santo Stefano, vicino a casa sua, dopo che aveva ascoltato messa.

Colpevoli dell’assassinio erano Enrico Bleon di Fagagna, allora maresciallo del patriarca, un cavaliere boemo parente di Elisabetta, matrigna di Giovanni, Francesco di Andrea dei Savorgnan della Bandiera, Nicolò di Portis, Marco di Fagagna, Giovanni di San Daniele, che furono aiutati da altri. Appena il popolo di Udine seppe del delitto si sollevò ed uccise Elisabetta, squartò due complici (o ritenuto tali) degli assassini, impiccò e trucidò altri che si erano dichiarati lieti della morte di Federico. Il Consiglio imposto dal patriarca fu subito sciolto e furono creati di nuovo i deputati; fu posta una taglia sugli uccisori del Savorgnan e si chiese l’aiuto di Venezia. Subito arrivò in città Gabriele Emo con il mandato di presentarsi al patriarca per chiedere giustizia del misfatto, per porgere le condoglianze della Serenissima ai parenti, per dissuadere loro e gli udinesi da ulteriori vendette e per curare la restituzione ai figli di Francesco del castello di Savorgnano e degli altri beni ancora in mano dei suoi nemici. (…)

Sabato 22 giugno [1392], Nicolò di Savorgnan, sulle ghiaie del Tagliamento, trucidò Agostino vescovo di Concordia che, secondo una sua affermazione, era stato l’istigatore dell’uccisione di Federico e quindi l’atto fu giustificato da vendetta dettata anche dal dover provvedere alla propria sicurezza personale. (…)

Seguì un periodo di relativa tranquillità, prima del dramma conclusivo. L’8 ottobre 1394 gli udinesi spedirono a Soffumbergo ambasciatori per invitare il patriarca a venire a Udine. "Fu questa ambasciata un tranello?" si chiede Paschini. Giovanni accettò e la mattina del 13 ottobre, a Udine, fu ucciso davanti la porta del castello da un gruppo di congiurati, tra i quali erano Tristano e Nicolò di Savorgnan, Simeone e Odorico di Colloredo, Bernardo di Strassoldo, Vernerio Favarotta di S. Daniele, Doimo di Castello e alcuni altri udinesi. Il suo corpo fu trasportato nella chiesa del castello e il giorno seguente sepolto in Duomo, davanti all’altare maggiore, di notte, senza sacerdoti, nel sepolcro del patriarca Nicolò. Narra un cronista che i beni del patriarca furono mesi a sacco e così fu fatta vendetta dell’uccisione di Federico di Savorgnan.

A questa ricostruzione ci permettiamo solo di aggiungere e precisare che la sventurata Elisabetta, massacrata dagli udinesi per vendicare la morte di Federico Savorgnan, non era matrigna del patriarca Giovanni di Moravia ma dello stesso Federico. A questo proposito citiamo anche una pagina dello storico Arduino Cremonesi, tratta dalla Enciclopedia Monografica del Friuli Venezia Giulia (Udine, 1978, vol. 3, parte 1, p. 174):

[A Filippo d’Alençon] successe Giovanni di Moravia che era nipote dell’imperatore Carlo IV. Egli volle subito abbattere la supremazia dei Savorgnani nella città di Udine. A tal fine nominò un nuovo consiglio di quella comunità, aumentandone la rappresentanza popolare. Giovanni di Moravia aveva probabilmente rette intenzioni ma era di temperamento arrogante ed intempestivo, per cui si procurò incautamente diversi nemici. Quando poi un gruppo di suoi sostenitori, fra cui il maresciallo del Patriarca, assassinò nella chiesa di Santo Stefano di Udine proprio Federico Savorgnan, si scatenò il furore dei popolani che parteggiavano per l’ucciso. La plebe inferocita trucidò alcuni avversari del Savorgnan e scannò sulla pubblica via la sua sventurata matrigna che egli aveva indegnamente angariato.

Che tempi, erano quelli; e che uomini. Si prova un misto di orrore e di ammirazione per quella franchezza brutale, per quella capacità di osare, di rischiare tutto, di metterci la faccia, che tanto contrastano con la viltà, i sotterfugi e l’ipocrisia degli uomini d’oggi, e specialmente dei politici e degli uomini di chiesa. Ci si chiede se Giovanni di Moravia dovesse far eliminare in modo così plateale il capo della fazione filo-veneziana, e per giunta sulla porta di una chiesa, all’uscita dalla santa Messa: proprio lui, il Patriarca, il capo spirituale, oltre che politico, della Patria del Friuli. Ebbene sì, quella era gente che, quando aveva deciso di agire, non si fermava mai a metà dell’opera; e che non si nascondeva dietro un dito. E ci si chiede anche se i Savorgnan e gli altri congiurati non avessero altro modo, per far valere le loro ragioni – dopo aver già massacrato un bel po’ di gente, anche innocente, come la povera Elisabetta – che ammazzare a pugnalate il patriarca, dopo averlo fatto uscire con l’inganno dal suo ben munito castello di Soffumbergo: ebbene sì, mai lasciare un lavoro a metà, mai lasciar vivi quelli che domani potrebbero farti uccidere. Chiesa o non chiesa; patriarca o non patriarca. Per quella gente di ferro, animata da passioni indomabili, non esistevano alternative, non c’erano vie traverse: andava dritta allo scopo, senza rimorsi, conscia di non potersi permettere né uno sbaglio, né un errore. Ed essere clementi, a quel tempo, era peggio di un errore: era un’ingenuità che si pagava con la vita. Poi, le mani ancora lorde di sangue, si poteva entrare in una chiesa o in convento, chiedere di un sacerdote e confessarsi, e accettare anche una gravosa penitenza, perfino un pellegrinaggio in Terra Santa; intanto, però, i conti erano saldati. Si può solo immaginare quanti sforzi e quanti secoli ci sono voluti perché lo spirito di mitezza e di perdono del cristianesimo riuscisse a penetrare in quegli uomini duri, in quei feudatari di origine tedesca che conoscevano solo la forza e l’uso delle armi, e restavano tali anche quando venivano consacrati vescovi o patriarchi. È stata un’impresa ciclopica, unire lo spirito cristiano allo spirito guerriero della nobiltà feudale: ma è da lì che è nata l’Europa. Oggi l’Europa sta miseramente affogando, senza dignità, senza fierezza: soccombe senza combattere, si lascia asservire, invadere, conquistare senza neanche una parola, un gesto di protesta. Si lascia derubare dalle banche, svirilizzare dalla cultura progressista e omosessualista, e soggiogare da ondate di falsi profughi che la colonizzano a milioni. Rimane l’atto isolato, disperato, non condivisibile, dello storico Dominique Venner, 78 anni, che il 21 maggio 29013 si è tolto la vita nella cattedrale di Notre Dame, per protestare contro la perdita dei valori tradizionali della civiltà europea; e dopo, un gran silenzio. Tutte queste cose ci vengono in mente sostando in piazza Venerio, in questa piazza che non è una piazza, davanti al luogo ove sorgevano un palazzo e una chiesa, costruita nel 1313, e poi scomparsa nel turbinio dei secoli e nel succedersi delle generazioni, dei governi, dei sistemi politici e sociali. Nulla è rimasto, quasi neanche il ricordo: né del palazzo, simbolo d’una classe che fu potente, né della chiesa, simbolo d’una spiritualità millenaria. Pure, se vogliamo sopravvivere dobbiamo tornare alla fonte…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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