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Omaggio alle chiese natie: San Bartolomeo

Che ricchezza e imprevedibilità di scoperte si fanno, quando ci si accinge a studiare la storia delle chiese della propria città natale: accanto alle cose già note, ne emergono altre completamente sconosciute, inaspettate, sorprendenti, come se si attingesse a una miniera segreta di fatti strani e meravigliosi. Si crede di sapere tutto, o quasi tutto, della propria città, e specialmente della propria via e della propria casa natale, e invece si viene a sapere cose che mai ci si sarebbe sognati, alle quali mai nessuno aveva fatto anche solo un cenno, quando eravamo bambini — o, almeno, è così che pare. Già ci aveva entusiasmati la scoperta che nella nostra strada, via della Prefettura, che non può vantare alcun edificio sacro, moltissimo tempo fa una chiesa era esistita, nel complesso dell’ospedale e dell’oratorio di San Filippo Neri. Solo che la facciata della chiesa di Santa Maria Maddalena era rivolta sulla via Vittorio Veneto (allora contrada di Santa Maria Maddalena), quasi di fronte a via Rauscedo, mentre il vasto complesso, gestito per un lungo periodo dai Padri Filippini, che vi eressero anche l’oratorio, dove ora sorge il Palazzo delle Poste, venne abbattuto fra l’inizio del XIX secolo e il 1921, e insisteva piuttosto sull’attuale via Marinelli, e solo da tergo su via della Prefettura, che ancora nella seconda metà dell’800 era chiamata contrada dei Filippini ed era chiusa, perché non giungeva a sboccare fino alla roggia e alle mura della odierna via Piave. Invece, ecco la scoperta, una chiesa esistette ancor prima in quella stessa via, e si affacciava proprio sull’ultimo tratto, all’estremità settentrionale, di fronte al Palazzo Contarini, che tutti gli udinesi conoscono come il Palazzo d’Oro, naturalmente secoli prima che l’architetto Ettore Gilberti lo costruisse, quando, al suo posto, vi era il palazzo della nobile famiglia Gubertini, passato poi ai Valentinis. La chiesa era la cappella privata del palazzo signorile e fu costruita nel 1451, all’angolo di via Manin: resistette fino a qualche anno dopo il 1810, allorché, insieme a tante altre, cadde sotto il piccone delle soppressioni napoleoniche.

Nulla di tutto ciò avevamo mai saputo: e il bello è che questa chiesetta sorgeva sul luogo dove, ai nostri tempi, c’era un negozio di macellaio (cfr. Maurizio Buora, Guida di Udine, Trieste, LINT, 1986, p. 212): al numero civico immediatamente precedente il nostro; praticamente a due metri dal portone di casa nostra! Neppure sapevamo, da bambini – l’abbiamo appreso molto tempo dopo — che la via Manin, lungo il tracciato delle antiche mura sotto il colle del Castello, nel Medioevo si chiamava borgo San Bortolomeo o San Bartolomio, e ciò proprio per la presenza della chiesa dei Gubertini; più tardi fu nota anche come Bòrc di Civitât (borgo di Cividale) o Bòrc di Sant’Antoni di dentri (borgo di Sant’Antonio "di dentro", cioè della chiesa di Sant’Antonio Abate, all’angolo fra piazza Patriarcato e via Treppo, per distinguerla dalla chiesa di sant’Antonio da Padova, che sorgeva oltre il Giardino Grande, fuori porta Pracchiuso, appunto sulla via che conduce a Cividale). Per la stessa ragione, quella che abbiamo sempre conosciuto come Porta Manin, così chiamata in onore del presidente della Repubblica di Venezia del 1848, era, in realtà, la Porta di San Bartolomeo, eretta nel 1171 e attualmente una delle sole quattro porte medievali rimaste in piedi (le altre sono quelle di Villalta e di Aquileia sulla quinta cerchia, e Torriani sulla quarta; una quinta, di San Lazzaro, fu inutilmente abbattuta nel 1955). Ora il sito dell’antica chiesa di San Bartolomeo corrisponde alla casa ottocentesca di tre piani, situata proprio sull’angolo del borgo con la contrada dei Filippini, la quale negli anni ’30 si chiamava via Costanzo Ciano, e solo dopo la Seconda guerra mondiale, via della Prefettura (povero eroe della Grande guerra: evidentemente gli ha nuociuto, con effetto retroattivo, l’essere stato il padre di Galeazzo, il genero del Duce), dove sorgeva, oltre alla macelleria, la bottega di barbiere del mitico Fiorello, ricordato anche dallo scrittore Renzo Valente. La nostra casa, sempre su tre piani, ma un po’ più alta, la inglobava su entrambi i lati, essendo fatta a "L": il lato su via Prefettura ospitava, al piano terra, il forno e il magazzino, quello su via Manin il panificio, con il bar, del nonno Francesco Aloi, che faceva forse il miglior pane di Udine.

Che Paese incredibile, l’Italia; che Paese imprevedibile, la Patria del Friuli: ci sono memorie, pezzi di storia e d’arte dappertutto, letteralmente sotto ogni pietra! Una chiesa eretta quarant’anni prima che Cristoforo Colombo scoprisse il Nuovo Mondo: lì, sotto la porta della casa dove siamo nati e abbiamo passato gli anni dell’infanzia e della prima adolescenza. E il borgo medievale era lì, anche quello, oltre un secolo prima che Dante Alighieri scrivesse la Divina Commedia! E i nostri amici, i figli di un artista originario di Gemona, il pittore Carnelutti, abitavano in piazzetta Valentinis — uno dei luoghi più romantici della città, col selciato fatto coi ciottoli di fiume; certo non sapevamo che quel nome evocava il palazzo ormai scomparso, proprietà di una delle maggior famiglie friulane del Medioevo. Una famiglia che ha dato alla Chiesa una santa donna, la beata Elena Valentinis (1396-1458; ricorrenza il 23 aprile), una signora sposata con sei figli, che, rimasta vedova, si fece suora agostiniana e fu una mistica, dedita incessantemente alla penitenza e alla preghiera, ebbe estasi e visioni e mai più volle uscir di casa, se non per recarsi alla chiesa di Santa Lucia. E la familiarità che avevamo con la porta medievale, in realtà una torre, con l’emblema imperiale ancora scolpito in evidenza, l’aquila nera in campo giallo, a due passi da casa: sotto i suoi archi massicci c’erano dei negozi, c’era perfino un venditore di giocattoli con la sua sedia impagliata e i suoi banchi all’aperto: quando mai un bambino olandese, o inglese, o americano, potrebbe sognarsi di vivere un’infanzia del genere, col presente ancora immerso in pieno medioevo, con l’oggi e il passato che si abbracciano, che si sorridono, scavalcando d’un balzo secoli e secoli di storia? E poi quell’angolino ancor più nascosto, incredibile, che già nel nome rivela la sua ascendenza medievale: quella Salita San Bartolomio (con la "i") che si apre subito prima del passaggio laterale a destra della torre (passaggio che fu aperto, insieme all’altro, sul lato opposto della via, fra il 1934 e il 1941) e sale i gradini di pietra come se andasse a perdersi in un altro luogo, in un altro tempo. Quante volte abbiamo salito quei gradini, metà Montmartre, metà il rione romano Monti de Il segno del comando, perché lassù in cima abitava un artigiano: case vecchie, pittoresche, non belle ma a loro modo affascinanti, e nessun oggetto moderno in vista, tranne il lampione in ferro battuto che si protende sopra la salita e getta un’isola di luce nel buio della notte. L’edera sui vecchi muri che cresceva rigogliosa, intrecciando le sue nervature come un arabesco; le finestre con le inferriate, il ponticello in pietra che scavalca il vicolo come se volesse curiosare al di sotto, e i tetti, in alto, che si sfiorano e quasi si toccano, formando quasi una volta, irta di camini. Non pareva più d’essere in città, ma in qualche borgo di collina o di montagna, chissà dove — Cividale? Gemona? Tolmezzo? -, senza automobili, né rumori cittadini, solo una gran pace, gatti dal passo felpato e appena qualche rara voce umana.

Certo, quella insolita salita aveva una ragion d’essere: il rialzo del terreno era quanto restava delle antiche mura della terza cerchia, dominanti l’avvallamento del Giardino Grande, dove nel Medioevo si favoleggiava vivesse un drago, abitante nel vasto lago che in gran parte l’occupava: che uomini, i medievali, ancora immersi in una visione magica del mondo, simile, per certi aspetti — ma nel senso buono, buonissimo dell’espressione — a quella dei bambini; nel senso che, come i bambini, sapevano vedere ciò che sfugge alla ragione nuda e cruda. E dunque, che importa perché la salita a fianco della torre si arrampicava in alto, come volesse andare verso il cielo? Il bambino non si chiede razionalmente il perché delle cose, se lo chiede con tutto il suo essere, e proprio per questo afferra l’essenza delle cose anche meglio dell’adulto, che ha una mentalità analitica. Così, a noi bambini sfuggivano le spiegazioni strettamente razionali, storiche, topografiche, per cui le cose erano disposte a quel modo, avevano quell’aspetto; non ci sfuggiva, però, il senso profondo dell’insieme: quello era un mondo incantato, l’anticamera di un giardino segreto, popolato da abitanti che si muovevano al limite fra la fiaba e la realtà di tutti i giorni. Un mondo dove niente è impossibile, e dove, a certe condizioni, qualsiasi cosa può accadere. Ecco perché la scoperta, a posteriori, che a tre metri da casa nostra s’innalzava niente meno che una chiesa quattrocentesca, e che il lungo e stretto negozio di macelleria, dove entravamo tanto spesso, ne aveva fatto parte, ci sorprende, sì, a tanti anni di distanza, e tuttavia, proprio come allora, non ci lascia increduli, ma ci afferra e ci rapisce nella sua improbabile magia: come potrebbe non credere a una cosa simile un uomo adulto, quando ha avuto la fortuna di vivere l’infanzia in un regno incantato, dove la realtà presente e la poesia del passato si danno ogni giorno la mano?

Ha scritto la studiosa Liliana Cargnelutti nella sua monografia Nella contrada di San Bartolomeo, poi Via Manin (in: L. Cargnelutti, a cura di, Il "Palazzo d’Oro" nella città di Udine, Fondazione Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone, pp. 41-47):

La via [Manin], a cui si accede da una porta appartenente alla terza cerchia muraria, si era chiamata Borgo di dentro, Borgo di Sant’Antonio di dentro, Borgo o Contrada di San Bartolomeo da quando, nel 1451 era stata eretta una cappella provata intitolata a San Bartolomeo. (…)

A metà Quattrocento la strada inizia a prendere il nome di San Bartolomeo. Infatti nel 1452, il 24 agosto, il giorno di San Bartolomeo fu consacrata sull’angolo di quella che oggi è Via Prefettura la chiesa dedicata al santo, costruita dalla famiglia Gubertini, la quale occupava la casa sull’angolo di fronte ed estendeva i suoi possessi fino alle mura. (…) Giovanni Guberto Gubertini, dottore "in utroque iure", ultimo della sua famiglia, l’aveva voluta e dotata con più disposizioni di complessive 10 staia di fieno, 6 conzi di vino, 18 lire di soldi che i suoi eredi, i Valentinis, avrebbero dovuto continuare a versare negli anni, stabilendo che di notte fosse sempre illuminata da una lampada e che vi si celebrasse la messa un giorno alla settimana e la prima domenica del mese.

La pala dell’altare doveva essere di ottima fattura. Infatti, quando nel 1773 il pittore Giovanni Battista de Rubeis compilò un catalogo di opere d’arte esistenti negli edifici pubblici e nei luoghi di culto della città di Udine nell’ambito di un provvedimento legislativo della Repubblica di Venezia che estendeva alla Terraferma l’obbligo della redazioni di inventari delle opere d’arte per la loro salvaguardia, nell’elenco figura anche una pala d’altare della cappella, raffigurante il martirio di San Bartolomeo, attribuita a Jacopo Tintoretto, tanto che il de Rubeis indica l’opera tra le principali, evidenziandola con un segno e avvertendo del criterio secondo cui "li quadri, autori scielti in primo grado saranno marcati con croce e li altri, che saranno in secondo grado, senza segno alcuno". La cappella rimase al centro della via fino agli inizi dell’Ottocento, rimanendo sempre di proprietà dei Valentinis. Sconsacrata in età napoleonica, nel 1813 fu da loro venduta ad altri privati, adibita ad abitazione, con botteghe al pianterreno, aumentandone la cubatura e riformandone la facciata.

Quante volte siamo passati davanti al luogo ove sorgeva la scomparsa chiesa di San Bartolomeo, sfilando, con l’abito da chierichetto, le candele in mano, per la solenne processione del Corpus Domini, dal palazzo dell’Arcivescovo fino alla Cattedrale di Santa Maria Annunziata: processione allora affollatissima ed estremamente devota, aperta da monsignor Zaffonato e infoltita da decine di seminaristi. E quante volte ci siamo affacciati dalle finestre di via Manin, dall’appartamento delle zie (le nostre, davano su via della Prefettura), per vederla passare dall’alto, con più agio, in un solo colpo d’occhio, dalla Porta Manin fino all’angolo di via Vittorio Veneto, in tutto il suo fasto, come se i secoli fossero nulla per la liturgia cattolica, e un filo diretto legasse il passato col presente. Sembra che siano trascorsi secoli e secoli, da quei giorni, e non solamente cinquant’anni! Oggi il seminario è chiuso, altro che decine di seminaristi; e quel che ne rimane, unito a quelli di Gorizia e di Trieste, ha traslocato fuori città, a Castellerio. Ma, soprattutto, dov’è quella folla? Dove son finite tutte quelle anime devote? Non è solo un fatto di quantità, di numeri; è soprattutto un fatto di fede. Tutta quella gente aveva fede, era lì perché sentiva la maestà di Dio, sentiva la necessità di prepararsi per tempo alla vita che incomincia dopo la morte. I nefasti effetti del Concilio non si erano ancora fatti sentire: sarebbero maturati di lì a poco, e sarebbe cambiata ogni cosa, non certo in meglio. Noi, per intanto, abbiamo avuto la fortuna di vedere, di sentire, di respirare quell’atmosfera; di essere istruiti nel catechismo e di essere introdotti alla vita soprannaturale mediante i Sacramenti, da sacerdoti che lo "spirito" del Concilio non aveva ancora guastato, né aveva trasformato, a loro volta, in seminatori di scandali ed errori. Come sarebbe importante far capire ai cattolici di oggi che la liturgia non è vuota pompa né esteriorità, ma il riflesso quaggiù dello splendore della vita divina..

Fonte dell'immagine in evidenza:

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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