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Omaggio alle chiese natie: Santa Giustina

La chiesa di Santa Giustina, Vergine e Martire, è una delle chiese di Udine di cui gli udinesi hanno completamente perso la memoria; tutt’al più, sanno che una chiesa a lei dedicata esiste tuttora a Pozzo di Codroipo; eppure era una chiesa cittadina antica di secoli, poiché venne edificata nel lontano 1571 dai cappuccini, in quella che oggi si chiama via Tiberio Deciani (cfr. Gino di Caporiacco, Udine. Appunti per la storia, Udine Arti Grafiche Friulane, 1972, 1976, p. 111). I cappuccini erano presenti, oltre che in centro, nell’ospedale di San Lazzaro, in origine un ricovero per i lebbrosi, eretto nel 1285 per volontà di Uccelluto de Uccellis, fuori porta san Lazzaro, nell’attuale via Martignacco; da lì si trasferirono nella contrada che collegava borgo San Lazzaro con borgo Gemona ed eressero una chiesa di cui oggi si è persa quasi completamente la memoria. E diciamo "quasi" per l’esistenza di una via, lunga e stretta come un vicolo, che da via Tiberio Deciani (un giurista e penalista udinese vissuto nel XVI secolo), che allora si chiamava appunto il Bòrc dei Capucins, e prima ancora Vile Ongares’ce, contrada Ongaresca), all’altezza del Convitto Femminile Caterina Mander, arriva fino a via di Toppo, sulla circonvallazione esterna, dove un tempo correva la quinta e ultima cerchia di mura, terminata nel 1463.

Eppure, che in questa zona dovesse esserci, o quanto meno esserci stata, una chiesa, noi l’avevamo sospettato fin da ragazzi, proprio per quel toponimo, Santa Giustina, che non poteva avere altra spiegazione se non il culto legato a quella santa, e dunque, per forza di cose, attestare l’esistenza di una chiesa, o un convento, o almeno di un capitello, a lei dedicati dalla pietà popolare, e forse legati a qualche antica confraternita, come era tipico specialmente dei borghi. Ma dove sorgeva, visto che nulla ne segnalava l’esistenza, e neppure una lapide o una targa ne recava testimonianza? Era un bel rebus, come si dice. D’altra parte, perfino agli occhi di un ragazzo appariva chiaro che questa parte della città era stata investita frettolosamente e alquanto disordinatamente dalla modernizzazione, e che quei due borghi un tempo decisamente popolari, borgo Gemona e borgo San Lazzaro, e anche quell’altro che si allunga più oltre, sulla sinistra, borgo Villalta, dovevano apparire ben diversi fino a pochi decenni, forse solo fino a pochi anni prima. Era evidente che i condomini moderni che s’innalzano sul lato destro di via Deciani (venendo da via Gemona) erano sorti di recente e quasi di colpo, inserendosi in maniera non troppo felice in una via che conservava, per tutto il resto, un sapore antico e quasi paesano. Tutto o quasi tutto il lato sinistro della strada, infatti, e specialmente il tratto iniziale, fino a via Cicogna, conservava una serie continua di case a due o tre piani, dignitose, però modeste, dove non abitavano certo delle famiglie benestanti, bensì artigiani, operai e piccoli commercianti. Non c’era nemmeno un palazzo signorile, nemmeno un giardino, nemmeno un portone con qualche sia pur vaga ambizione di eleganza architettonica (anzi, ad esser precisi, uno solo, al numero civico 13). Quanto a via Santa Giustina, parallela di via Divisione Julia, che è quasi tutta moderna, almeno su lato sinistro, quella era una vera sorpresa: una via quasi nascosta fra le case, ora vecchie, ora moderne, che iniziava in maniera incerta, da una specie di piazzetta che pareva quasi perdersi fra cortili e androni ciechi, e a stento trovava la maniera di aprirsi il passo fra una lunga linea di case basse, dalle facciate intonacate con colori vivaci, e un muro di sassi che pareva più consono a un paesetto della Carnia che a una via cittadina; e andava avanti così per un bel pezzo, e pareva che dovesse morire da un momento all’altro, cioè terminare con un portone chiuso, e invece proseguiva coraggiosamente e alla fine sbucava, quasi con un senso di meraviglia, sulla trafficata via di Toppo, quasi fronte a via Ampezzo, vicino al Palazzo delle Mostre che ospita la galleria d’Arte Moderna. Una via incredibile, via Santa Giustina: con quelle case basse, modeste coi portoncini aperti direttamene sulla strada; talmente stretta da non poter ospitare nemmeno un marciapiede, e qualche piccolo giardino, perfino qualche balcone di legno (ai numeri 34 e 36), come usavano un tempo le case di campagna; e le finestre degli appartamenti ad altezza d’uomo, così che si ha quasi vergogna di voltare gli occhi, per non doverci guardar dentro, anche se quasi tutte hanno gli scuri di legno chiusi o sono protette da griglie in ferro battuto. E poi, a tradimento, già verso la fine, un complesso di edifici moderni, di condomini con tanto di verde privato; ma sulla sinistra le vecchie casette resistono ancora, addossate le une alle altre, più che mai popolari, più che mai vecchiotte. Chissà quante ne hanno viste: certo non son cambiate molto dai primi anni del ‘900; sono sfuggite a due guerre mondiali, ma forse non sfuggiranno alle ruspe del comune o di qualche azienda edile privata, come è accaduto in altri angolini caratteristici della città vecchia, in via Ronchi per esempio, o in via Petrarca. Ma nell’insieme, una via affascinante, proprio perché strana, proprio perché così tormentata: si sente che è carica di storia, una storia umile, ma chi ama le cose umili non la disdegna, anzi le si affeziona, e la ama per quel che è, con le sue case basse e povere, con quegli abbaini stretti, con quei tetti spioventi, e non la vorrebbe diversa, non la vorrebbe più ampia, o più comoda, o più signorile: così come sarebbe cosa sconcia vergognarsi del proprio padre, solo perché ha le mani piene di calli, visto che con quelle mani callose ci ha dato un futuro, ci ha fatto studiare, ci ha aiutato a trovare il nostro posto nella vita.

Comunque, il nome di Santa Giustina restava per noi un mistero, fino a quando non abbiamo trovato, sui libri e specialmente sul libro per eccellenza, la monumentale opera in due volumi di Giovanni Battista della Porta, Memorie su le antiche case di Udine — che, per l’innamorato della storia della città sotto il profilo urbanistico e architettonico, è come uno scrigno di pietre preziose, che Dio benedica il suo autore — la conferma che la chiesa era esistita, e naturalmente era dedicata proprio a quella santa. E sorgeva in via Tiberio Deciani, ma all’altezza dell’imbocco della via che ora porta il nome dell’edificio scomparso, e dove adesso c’è una specie di slargo, e dove alcune palazzine moderne e alcune aree verdi segnalano che vi è stato un radicale intervento edilizio, che ha completamente modificato l’aspetto originario della strada. Qualcuno ha pensato bene di piantare perfino un vialetto di palme. Di palme! Ma ve lo immaginate, che diamine c’entrano le palme con l’edilizia di Udine? Avessero almeno piantato di cedri, o degli abeti; o magari delle magnolie, dei bagolari: ma le palme africane, santo cielo, che ci stanno a fare in quel posto? Chi ha fatto una cosa simile, probabilmente avrà creduto di fare una cosa simpatica e originale, magari un po’ sbarazzina: del resto, se il comune di Milano ha osato fare una cosa del genere in Piazza del Duomo, chi non si sentirà autorizzato a fare lo stesso in qualsiasi luogo, e anche di peggio? Perché al peggio, pare impossibile ma è purtroppo vero, non c’è mai fine. E allora, non resta che voltar le spalle all’opera nefasta di questi signori — quelli che Ardengo Soffici soleva chiamare, con felice epiteto, i cafoni intellettuali, la cui specialità è scimmiottare stupidamente il motto di Rimbaud: Bisogna essere assolutamente moderni, e ai quali, evidentemente, nessuno ha mai insegnato, né essi hanno mai sospettato per conto proprio, che esiste un’anima dei luoghi e che bisogna rispettarla, se si vuol vivere in pace e in armonia con essi; non resta, dunque, che voltar le spalle anche fisicamente, a quei signori e alle sconcezze da essi escogitate, e lasciare che gli occhi della mente ci restituiscano, con dolcezza affettuosa, l’aspetto originario di questa bella via popolare, com’era prima che arrivassero costoro a rovinarla.

Ci soccorre, a questo punto, un brano del libro del poeta, storico e scrittore Tito Maniacco (Udine, 1932- ivi, 2010), dedicato allo scultore Mirko Basaldella, che era nato proprio in borgo San Lazzaro (Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1993, pp. 4-7), sperando di non fare cosa sgradita né all’Autore, né all’Editore, che ringraziamo anzi per aver offerto al pubblico una ricostruzione così calda e vivace della vecchia Udine, non ancora stravolta dal vento della modernità:

Lungo l’ultima cerchia delle mura, la quinta, ormai sbriciolata dagli uomini e dal tempo, i borghi hanno una netta caratteristica contadina. Non pare nemmeno di entrare in una città a coloro che devono fermare il carro per pagare il dazio alla Torre di Porta San Lazzaro (è dal 1885 che ciò succede). Chi vi passa a piedi e numerose vi passano le operaie che vanno a lavorare al Cotonificio Udinese, un chilometro circa verso nord una volta lasciato alle spalle il consueto paesaggio di monelli intenti a sguazzare, nonostante i divieti comunali, nel canale Ledra, entrerà in quella lunga e larga strada che, ancora dopo quasi un secolo, si chiama via Anton Lazzaro Moro. È la stessa strada che Sua Maestà Vittorio Emanuele III percorrerà quotidianamente, andata e ritorno, per recarsi dalla sua residenza di Martignacco al Comando Supremo dal 1915 al piovoso autunno del 1917. Da quel punto d’ingresso, che da centinaia di anni, almeno dal 1285, portava a un lebbrosario con una chiesetta dedicata a San Lazzaro, demolito poi dai veneziani per timore che potesse servire d’appoggio agli scorridori turchi, si formava un borgo i cui abitanti, almeno fin dopo la seconda guerra mondiale, piccoli artigiani, operai, filandine, facchini, carradori, cardatori, erano detti, con facilità spregiativa e per assonanza con San Lazzaro e con Anton Lazzaro Moro, "lasaròns" (lazzaroni). (…)

Se un lettore del 1993 volesse offrirsi un breve istante dedicato alla rappresentazione, sia pur sbiadita, della vita di borgo fra gli anni Dieci e la fine degli anni Venti, non avrebbe altro da fare che raggiungere l’asse nord di via Gemona e avviarsi a piedi per via Tiberio Deciani che nasce lì dove un tempo c’era un’ancona. La strada non è molto lunga e ha perso, specialmente lungo il suo lato destro, quasi tutte le caratteristiche di un tempo. Si arriva così al termine, proprio davanti a via Anton Lazzaro Moro. (…)

Fuori, fatti pochi passi, si arrivava nel complesso e frastagliato mare di braide e di orti separati da muriccioli, granai, vecchie stalle, recinti per polli, conigli e galline a perdita d’occhio, interrotti verso ovest dall’ondeggiare di un vicolo serrato fra alte pareti di pietra, che arrivava a ridosso dell’ultima cerchia muraria, indicata ormai solo dallo scorrere pigro del canale Ledra su cui frusciavano i sifoni della fabbrica di birra Dormisch.

Quest’ultima descrizione si riferisce all’attuale via Anton Lazzaro Moro, ma vale anche per la vecchia via Santa Giustina, la quale era parte del borgo San Lazzaro e non aveva, un tempo, alcuno sbocco verso nord, poiché era chiusa dalle mura cittadine, che non conoscevano interruzione fra porta Gemona e porta San Lazzaro, appunto. Ma chi desideri farsi un’idea di cosa significava, concretamente, vivere nei borghi di Udine fin verso la prima metà del XX secolo, dovrebbe leggersi uno dei romanzi meno conosciuti, ma forse fra i più poetici e struggenti, di Carlo Sgorlon (1930-2009): La contrada, del 1981. Una cosa è certa: i borghi erano pieni di vita, e adesso sono morti. Li hanno uccisi la scomparsa dell’artigianato e l’asfissia del piccolo commercio, la diffusione dell’automobile privata e del televisore (la sera, tutti zitti a guardare il Grande Fratello), ma sopratutto la dissoluzione delle grandi famiglie di due, tre generazioni fa. I cortili pieni di bambini sono diventati garage o parcheggi privati per le auto; pollai e conigliere sono spariti perché la gente va a fare la spesa al supermercato e compra l’insalata pronta in sacchetto, già lavata e magari geneticamente modificata, e la carne conservata ed estrogenata delle multinazionali alimentari. Quel che possiamo fare nei confronti dei vecchi borghi è di comporre un epitaffio onesto, rispettandone la memoria e sorvegliando affinché la crescita e la riqualificazione dei quartieri (atroce neologismo col quale si contrabbandano i peggiori scempi edilizi) avvengano in maniera non troppo dissonante rispetto alle vecchie case, così che la fisionomia complessiva realizzi un accettabile e ragionevole compromesso fra il vecchio e il nuovo, come è giusto che sia.

Ma torniamo alla chiesa di Santa Giustina, della quale ben poco siamo riusciti a sapere. Naturalmente esisteva anche un convento dei padri cappuccini, e anch’esso subì il destino di quasi tutti gli altri, nel breve ma terribile periodo del Regno d’Italia, dal 1805 al 1813: la soppressione. Mentre il vicino convento di Santa Lucia dei frati agostiniani, in via Mantica, passato alle suore francescane di San Nicolò, veniva adibito ad uso militare, e la chiesa sopravvive tutt’oggi grazie alla sua trasformazione in biblioteca universitaria, il convento di via Tiberio Deciani subì una sorte quasi peggiore della demolizione perché, sconsacrato, venne trasformato in una fabbrica (cfr. il sito friuli.vimado.it, Storia di Udine, da Napoleone ai giorni nostri, e il sito http://www.archivi-sias.it, e l’articolo di Paolo Medeossi Racchetta e "organzin" su Il Messaggero Veneto online 01/07/2011). Alla fine venne abbattuto, e anche della chiesa si perdono le tracce, tanto che non siamo riusciti a trovarne neppure una riproduzione. In base alla suddivisione della città in nove parrocchie, stabilita con decreto patriarcale del 1595, la chiesa e il monastero di Santa Giustina con annesso il convento dei cappuccini facevano parte della parrocchia di San Quirino. Ma dove sono adesso, solo Dio lo sa.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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