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27 Ottobre 2018La chiesa di San Pietro Apostolo? Mai sentita. San Pietro Martire, vorrà dire; quella in via Paolo Sarpi. Oppure la vecchia chiesa di San Pietro e Polo, che sorgeva in borgo Aquileia, precisamente piazzetta del Pozzo, ma che venne distrutta dai bombardamenti aerei del 1944-45, e poi definitivamente abbattuta. Ma una chiesa di San Pietro Apostolo, no, non mi risulta che ci sia, né che ci sia mai stata. Così, molto probabilmente, vi risponderanno novantanove udinesi su cento, se chiederete notizie della chiesa di San Pietro Apostolo: perché nella società moderna il ricordo delle cose passate svanisce in fretta, sempre più in fretta. E invece è esistita, la chiesa di San Pietro Apostolo, o, se preferite, la chiesetta: era la cappella gentilizia del palazzo Polcenigo-Garzolini, in borgo Gemona, che ha ospitato per tanti anni il Collegio di Toppo-Wassermann, una vera e propria istituzione cittadina. Stiano parlando dell’ultimo tratto del borgo, e quindi del centro storico di Udine, quello più vicino al Piazzale Osoppo (dove sorgeva la storica Porta Gemona "esterna", della quinta cerchia di mura, da non confondersi con quella "interna", che sorgeva alla fine di via Bartolini e faceva parte della terza cerchia), oltre l’asse formato da via Santa Chiara (laterale di destra) e via Tiberio Deciani (laterale di sinistra).
Il palazzo è stato costruito nel 1705-1706 dalla famiglia Polcenigo ed era dotato, come tutte le case gentilizie, sia urbane che extra-urbane, di una cappella, la chiesa di San Pietro Apostolo, appunto, che rimase in funzione per un buon secolo, cioè fino ai primi anni dell’Ottocento, allorché venne sconsacrata — siamo all’epoca delle soppressioni napoleoniche — e trasformata in abitazione privata; ciò accade, per la precisione, nel 1808 (cfr. la Guida di Udine di Maurizio Buora, Trieste, LINT, 1986, p. 348). In quel momento, però, la proprietà era passata di mano, precisamente dal 1790, dalla famiglia Polcenigo alla famiglia Garzolini. Passa quasi un altro secolo, e nel 1900 il complesso, che era stato lasciato in eredità all’orfanotrofio Renati, viene acquistato dal Comune di Udine, che lo destina a sede di un collegio che si fa presto un nome e che attira studenti da tutta la regione, comprese la Carnia, il Tarvisiano, Gorizia e Trieste. Intanto, però, nei successivi passaggi di proprietà e di destinazione d’uso del bellissimo palazzo, la memoria di quella chiesetta svanisce rapidamente, tanto che oggi crediamo siano ben pochi gli abitanti che la conservano, compresi quelli residenti in via Gemona.
Citiamo parte di un articolo di Stefano Crovetto che riassume la storia del palazzo Polcenigo-Garzolini, postato il 3 dicembre 2015 sul magazine online dell’Università di Udine, qui.uniud.it, in occasione dei dieci anni di vita della Scuola Superiore dell’Università, che, dopo i lavori di restauro e di ristrutturazione, si è insediata nella sede prestigiosa del vecchio istituto di Toppo-Wassermann:
Il complesso, palazzo più collegio, si compone di una parte storico-monumentale costituita da palazzo Garzolini, che si affaccia direttamente su via Gemona, e dall’ex Istituto di Toppo Wassermann, che si sviluppa nella parte retrostante. La struttura, che si estende su circa 7.000 metri quadrati, fa parte del legato di Toppo Wassermann in proprietà al Comune e alla Provincia di Udine che, nell’ambito di un piano di riqualificazione del patrimonio immobiliare del legato, lo hanno concesso in uso all’Università per l’insediamento di un istituto superiore di studi, l’attuale Scuola Superiore, con annessa residenza universitaria. (…)
La mostra racconta i tre secoli di storia del palazzo attraverso le vicende delle famiglie Polcenigo e Garzolini che l’hanno costruito, abitato, modificato e utilizzato. (…).
La vita del palazzo attraversa 300 anni di storia di Udine e del Friuli ed è legata alle vicende di alcune importanti famiglie di Udine. Il fondatore, Marzio di Polcenigo, lo costruisce tra il 1705 e il 1706 sul fondo che la moglie Tranquilla Gugliola aveva ereditato dal primo marito Pietro Bortoli. I secondi proprietari, i Garzolini, succedono nel 1790 quando i Polcenigo vendono il palazzo e le annesse proprietà a Margherita Annibale Mangilli, moglie del conte Giuseppe Garzolini. Nell’Ottocento l’edificio è residenza di Giusto Garzolini e della moglie Maria Sbroiavacca che, perso il marito e senza eredi, lascia la proprietà al fattore Giovanni Battista Job. Questi lo cede subito alla Casa di Carità orfanatrofio Renati. Nel 1900 il complesso viene acquistato dal Comune e dalla Provincia di Udine per realizzare il convitto maschile di istruzione e di educazione di Toppo Wassermann come da volontà del conte Francesco di Toppo (1797-1883). Durante la prima guerra mondiale viene utilizzato come ospedale militare. Infine, nel 2002 viene concesso in uso all’Università di Udine che, negli ultimi anni, ha lavorato per il recupero dell’intero complesso, in particolare delle decorazione ad affresco degli interni.
Modello di architettura veneziana, il palazzo è caratterizzato dalle strutture tipiche dei palazzi nobiliari secondo gli schemi dell’architettura della città dei dogi. La facciata mostra il gusto sobrio ed elegante dei palazzi di città, mentre gli interni si caratterizzano per l’atrio del piano terreno, lo scalone monumentale che conduce al primo piano dove si trova anche il salone di rappresentanza.
Trasformatasi nei secoli da residenza a struttura scolastica, nella forma originaria il palazzo comprendeva una cappella intitolata a San Pietro Apostolo, all’inizio dell’Ottocento trasformata in abitazione. In seguito l’edificio perde i caratteri della residenza nobiliare e viene suddiviso in quattro unità abitative. I cambiamenti più rilevanti si hanno quando il palazzo diventa scuola con convitto. La costruzione dell’edificio scolastico nel vasto cortile viene affidata all’architetto Provino Valle, autore anche della copertura vetrata. I lavori, che non interessano il piano nobile, avvengono tra il 1910 e il 1924.
La decorazione degli interni riprende il gusto che caratterizza i palazzi cittadini dei nobili udinesi tra la fine del Settecento e il primo Ottocento. Motivi neoclassici di colonne e monocromi a finto rilievo che ricordano l’antichità sono alternati a vedute di fantasia e stemmi di famiglia. I dipinti murali, risalenti al primo decennio dell’Ottocento, interessano gran parte del piano nobile e vengono attribuiti al pittore udinese Domenico Paghini. In cima alle alte pareti dello scalone di accesso, numerosi stemmi nobiliari si alternano a due serie di paesaggi. La cupola dello scalone si caratterizza per un gusto scenografico di maniera barocca. Gli spazi del soffitto vengono moltiplicati dalle invenzioni prospettiche di un loggiato e di una cupola: qui si legge 1705, data di costruzione del palazzo. Di più certa attribuzione sono gli affreschi del salone centrale, opera di Domenico Paghini. La decorazione delle pareti è elegante e raffinata: moltiplicati da una finta architettura di colonne e loggiati, gli spazi ospitano diverse figure, secondo la tradizione della grande pittura murale veneta. Anche gli affreschi caratterizzati da paesaggi di rovine della stanza del direttore vengono riferiti allo stesso Paghini.
In effetti, avevamo sempre immaginato che nel palazzo del Toppo (così lo abbiamo sempre conosciuto e così lo abbiamo sempre udito chiamare) doveva esserci una chiesa, o almeno doveva esserci stata: tutti i palazzi signorili l’avevano. È interessante vedere il differente destino di quelle chiese, che erano nate come cappelle private e qualche volta, poi, erano state aperte ai fedeli. La chiesetta del palazzo Sbrojavacca, in borgo Aquileia, eretta nel 1583 e dedicata a Sant’Ermacora, è bensì sopravvissuta, ma è stata adibita a tutt’altro uso: era diventata la mensa ufficiali della caserma Gerolamo Savorgnan, e, dalla strada, è tuttora visibile, sull’angolo con il vicolo d’Arcano. La chiesetta del palazzo Arcoloniani, costruita nel 1363 e dedicata a San Leonardo, esiste ancora oggi e ha conservato, almeno all’esterno, la sua fisionomia originaria: sorge all’angolo di via Gorghi con via Carducci, all’interno di un piccolo giardino ora aperto al pubblico, ma un tempo privato. Un curioso destino ha voluto che proprio il palazzo scomparisse completamente, e invece la chiesa restasse in piedi; ha ospitato, per alcuni anni, la direzione di un importante istituto sanitario cittadino. La cappella Manin, in via Marinoni, iniziata nel 1733, esiste ancora ed è perfettamente conservata, autentico tesoro dell’architettura barocca cittadina, così come esiste il palazzo gentilizio di cui faceva parte, il palazzo Torriani. La chiesa di San Pietro Apostolo, invece, non è più riconoscibile: il palazzo Polcenigo-Garzolini è stato magnificamente restaurato e riportato ai fasti dei suoi tempi migliori, ma la cappella gentilizia non ha potuto essere ripristinata. Il fatto che vi fosse una chiesa parrocchiale a due passi, la chiesa di san Quirino, senza dubbio ha contribuito a far sì che sparisse in silenzio, senza lasciar dietro di sé troppi rimpianti, tranne, probabilmente, fra le persone che l’avevano amata e frequentata. Non era mai stata un centro di attrazione per la vita spirituale cittadina, come la scomparsa chiesa di Santa Maria Maddalena; se n’è andata in punta di piedi, come se non avesse voluto disturbare nessuno. Udine era piena di chiese e di cappelle, fra pubbliche e private; una più, una meno, al principio del XIX secolo sarà parso ai più che non avrebbe fatto molta differenza. Nei decenni precedenti c’erano state le politiche giurisdizionaliste da parte delle monarchie assolute "illuminate", che avevano imposto alla Chiesa una drastica riduzione delle chiese e dei conventi, nonché degli ordini religiosi e della loro sfera di attività; poi la tempesta della Rivoluzione francese e della scristianizzazione; infine, specialmente dopo l’avvento del Regno d’Italia nel 1866, una nuova ondata, meno spettacolare, ma forse ancor più radicale e sistematica, di soppressioni e confische del patrimonio ecclesiastico, con le relative devoluzioni a favore del demanio, messa in vendita di edifici e dispersione degli arredi sacri. Ancora oggi si possono vedere ex chiese o chiesette, in tutte le città d’Italia, trasformate in autorimesse, in officine, in boutique alla moda; e Udine non fa eccezione.
E allora, a che scopo voler ricostruire la storia di un’architettura sacra ormai scomparsa, oppure sconsacrata e adibita ad usi commerciali e direzionali? Quelle chiese, in parte trasformate e quasi irriconoscibili, in parte demolite e testimoniate al massimo da una iscrizione, ma spesso neppure da quella, non appartengono forse a un passato che non interessa più a nessuno, visto che perfino gli abitanti di quelle città, di quei quartieri e di quelle vie, non ne serbano nemmeno il ricordo? Non è forse più giusto volgere lo sguardo al presente, e lasciare che l’oblio si impadronisca di ciò che era destinato a scomparire? Noi non siamo di questa opinione. Abbiamo sempre pensato che conservare la memoria del passato è un fattore decisivo della civiltà; e che andare verso il futuro ignorando o disprezzando la tradizione è quanto di più sbagliato, di più stupido e di più irresponsabile si possa fare. È quasi un tradimento verso le nuove generazioni: le quali, per definire la propria identità, hanno bisogno di conoscere le loro radici. Pertanto esiste un preciso dovere di tramandare ai giovani la memoria del mondo che li ha preceduti, ma che è pur sempre il loro, così come il tronco che cresce e si allunga verso l’alto, per quanto si possa espandere con i suoi rami e le sue fronde, è pur sempre ancorato al terreno mediante le radici, e guai se le radici venissero meno: l’albero cadrebbe miseramente. Perciò il punto è proprio questo: se vogliamo che le nuove generazioni possano costruire una base sufficiente per la loro sopravvivenza, dobbiamo tramandare loro la memoria del passato, e tramandarla intatta, nel modo più rispettoso e amorevole. Poi, essi decideranno che cosa farne. Ma se noi per primi ignoriamo o disprezziamo il passato, il nostro stesso passato, allora affidiamo alle nuove generazioni un mondo aleatorio, instabile, sradicato, che rischierà di crollare al primo soffio di vento. Noi non possiamo limitarci a trasmettere ai giovani soltanto il patrimonio materiale di ciò che abbiamo costruito, nel bene o nel male; dobbiamo anche trasmettere loro un patrimonio spirituale e ideale, fatto dei valori che hanno dato un significato alla nostra vita, che hanno ispirato i nostri pensieri, che hanno alimentato la nostra dimensione intellettuale, spirituale e morale. Perciò, il fatto che una persona che abita in una certa città, in un certo quartiere, in una certa via, specialmente se ha una fede religiosa, sappia che lì, a due passi da casa sua, sorgeva una chiesa nella quale i suoi avi hanno pregato, hanno fatto dei voti, hanno ricevuto la benedizione del sacerdote al termine della santa Messa, è un fatto di civiltà, perché fa parte della continuità della vita interiore. Così come il cattolico crede nella Comunione dei santi, cioè nel legame attivo, operoso, efficace, fra tutti coloro che fanno parte e che hanno fatto parte della Chiesa, dovrebbe anche provare amore e rispetto nei confronti del modo in cui i suoi predecessori manifestavano la loro fede; e gli edifici sacri, con tutto ciò che contengono, oltre ad essere un ricco patrimonio di arte e storia, lo sono anche di devozione e spiritualità. Ed è di questo, ossia di spiritualità, che l’uomo di oggi ha disperatamente bisogno: perché di cose materiali, e specialmente di prodotti della tecnica ne ha fin troppi: ma le macchine non hanno dato, né potranno mai dare, una risposta alle sue domande esistenziali. Tutto ciò che può ancorarlo alle sue radici gli è necessario affinché possa rimanere se stesso: cioè un vero essere umano, e non un anonimo e insignificante numero in mezzo alla folla…