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Omaggio alle chiese natie: S. Lorenzo Giustiniani

I Barnabiti avevano un collegio e un importante complesso scolastico nel cuore di Udine già a partire dalla fine del 1600, e naturalmente avevano anche una loro chiesa, la chiesa di San Lorenzo Giustiniani, dedicata al grande santo veneziano vissuto a cavallo fra XIV e XV secolo. La scuola si trovava sul lato orientale dell’attuale Piazza Garibaldi, che allora si chiamava Piazza Antonina, di fronte al palazzo Mangilli-Del Torso (che era, in origine, appunto il palazzo della nobile famiglia degli Antonini), ed era rivolta agli studenti delle famiglie più ricche e nobili, destinati a formare la futura classe dirigente cittadina. La chiesa era ancora in piedi molti decenni dopo che le soppressioni napoleoniche ebbero chiuso il collegio e costretto i Barnabiti a lasciare la città. Costruita nel 1699-1700, venne demolita solo nel 1874, per ampliare la facciata della nuova scuola, dapprima istituto tecnico Antonio Zanon, e successivamente scuola media Alessandro Manzoni. Essa è ancora visibile nelle vecchie foto della piazza, e scomparve, appunto, durante i lavori per la realizzazione dell’istituto tecnico (cfr. Maurizio Buora, Guida di Udine. Arte e storia tra vie e piazze, Trieste, LINT, 1986, p. 269).

Citiamo, dal sito http://www.stelliniudine.gov.it/, un estratto della monografia online della prof.ssa Francesca Venuto, intitolata Luoghi nascosti a Udine e Gemona. Palazzo Antonini-Mangilli-Del Torso e il suo giardino (pp. 19-21):

L’aspetto di Piazza Garibaldi nel Cinquecento era assai diverso rispetto a quello attuale, con molti più orti e giardini che edifici. Tra questi alcuni subirono numerosi passaggi di proprietà sia per eredità che con vendite, fino ad arrivare al 1679, quando Carlo Rimini e i fratelli Moro decisero di vendere le loro spaziose case al Comune di Udine, perché vi potesse collocare le scuole pubbliche. Il Comune decise di assegnarle, per l’insegnamento, all’ordine dei Padri Barnabiti perché realizzassero un collegio-convitto. Il Comune si rese conto che la spesa sarebbe stata molto impegnativa per cui fu costretto a chiede un prestito al Monte di Pietà. La scuola era destinata a persone ricche e nobili, questi ultimi avevano anche il privilegio di una sezione a loro destinata. Una scuola pubblica di tipo letterario era stata istituita a Udine già dal 1297; essa operò fino al 1679, quando fu trasformata nel "Gymnasium Civitatis Utini", gestito dai Padri Barnabiti, con il sostegno legale e finanziario del Comune di Udine. Fu un’istituzione organica, strutturata sul modello letterario ginnasiale, con gli insegnamenti di grammatica, di umanità, di retorica e di logica. Si costruirono locali adeguati allo scopo.

I Padri Barnabiti rappresentano uno dei più antichi ordini della Chiesa. Nato nel 1532, la sua attività principale era l’insegnamento, nelle scuole o come predicatori. Definiti originariamente "Congregazione di San Paolo", successivamente queste padri presero il nome della chiesa dove stabilirono la loro sede, cioè la Chiesa di San Barnaba a Milano. A Udine nel 1683 venne fatto costruire anche un portone tuttora esistente in via Ginnasio Vecchio per il loro ingresso all’istituto religioso, senza dover uscire dal centro cittadino, visto che allora, questo, era delimitato da una porta di cinta (Porton de Grazzano) ora non più esistente in via Cesare Battisti. Gli studenti cittadini, per accedere alla scuola erano costretti a passare per quella porta, anche perché quella era l’unica uscita, visto che l’attuale Via del Gelso non esisteva e la piazza era chiusa da edifici. Nel 1699 fu costruita in Piazza Garibaldi, allora chiamata "Piazza dei Barnabiti", anche la chiesetta di S. Lorenzo Giustiniani, demolita nel 1874, per far spazio alla nuova facciata della scuola. La chiesa aveva l’ingresso vicino ad essa, perché vi potessero accedere anche gli studenti. Nel 1810, con il decreto di Napoleone che fece chiudere tutti gli ordini e le Congregazioni religiose, anche il collegio-convitto di Udine venne chiuso e i Padri Barnabiti se ne andarono. In seguito l’ordine si riformò e attualmente ha sede a Roma e opera in molte parti del mondo. L’impegno dei Barnabiti cessò dopo 131 anni, con l’anno scolastico 1809-10, in applicazione del decreto di soppressione delle corporazioni religiose, emanato da Napoleone Bonaparte. Alla direzione della Scuola era allora il barnabita friulano, padre Alessandro Tartagna. A lui e ai suoi predecessori si deve la formazione di quella "Biblioteca Barnabitica" che costituisce, con i suoi 1230 volumi superstiti, di cui molti incunaboli, la base storica della Biblioteca del Liceo. Ginnasio e Liceo, prima istituzionalmente distinti (sino al 1851), poi fusi insieme nell’Imperial Regio Ginnasio Liceale proseguirono la loro attività fino al 1866, quando divennero una Scuola del Regno Italico. A questo periodo risale l’intitolazione dell’istituto a Jacopo Stellini, frate somasco cividalese vissuto tra il 1699 e il 1770, docente di filosofia morale, dal 1739 alla morte, nel Ginnasio patavino. Una raccolta di manoscritti delle opere di Stellini è stata donata dagli eredi all’Istituto ed è conservata in biblioteca.

Nel 1821 l’ingegnere Valentino Presani progettò l’attuale palazzo in stile neoclassico (ora Scuola Media Manzoni) destinato inizialmente al ginnasio–liceo. I lavori proseguirono lentamente, sia per ragioni finanziarie, sia perché all’inizio, il progetto non piacque e ci furono molte controversie e solo nel 1858, assai modificato, si completò il palazzo come ora lo vediamo. I locali del precedente collegio furono rinnovati nel 1833 e destinati ad ospitare fino al 1918 la Scuola Classica e in seguito anche altri Istituti quali l’Istituto Tecnico "Zanon", il Liceo scientifico "Marinelli" e altre scuole.

Per noi, che abbiamo frequentato la scuola media statale Manzoni, precisamente nel triennio 1967-70, quel luogo di Udine riveste un significato particolare; nessuno mai, però, ci aveva spiegato che quell’edificio aveva ospitato una delle scuole più antiche e prestigiose, quella dei padri Barnabiti, forse anche — se la supposizione non è troppo fantasiosa — per il tenace persistere di una certa mentalità anticlericale. Si deve considerare che i Barnabiti non vennero richiamati in città dopo il crollo dello Stato fantoccio di Napoleone, il Regno d’Italia, che li aveva cacciati e requisito il loro nobile collegio, né questo venne più restituito a loro o alla Chiesa. Nel 1866, poi, la piazza, che si chiamava Piazza dei Barnabiti, venne intitolata a Garibaldi, quasi per cancellare il ricordo di quell’epoca religiosa; il quale Garibaldi venne a visitare Udine l’anno dopo, il 1° marzo 1867, accompagnato da Benedetto Cairoli, e parlò alla folla dal balcone del palazzo Del Torso, come è attestato da una lapide posta sulla sua facciata. Nel 1886 venne posto davanti alla scuola un grandioso monumento in bronzo celebrante il cosiddetto Eroe dei Due Mondi, posto su un piedistallo, con un giovanissimo trombettiere delle camicie rosse, più in basso, che agita una lacera bandiera tricolore, opera dello scultore veneziano Guglielmo Michieli. Ora, si sa quanto fosse accesamente anticlericale il massone Garibaldi; quanto odio e disprezzo nutrisse per la Chiesa e per il papa Pio IX; e quanto i suoi seguaci e ammiratori sognassero un’Italia totalmente laicizzata e secolarizzata, nella quale il cattolicesimo fosse solo una specie di brutto ricordo. Quante volte, aspettando, sulla piazza, che si aprissero i portoni della scuola, i ragazzi dal lato sinistro, le ragazze, rigorosamente separate, sul lato destro, abbiamo osservato quel gruppo scultoreo; e quante volte abbiamo letto l’iscrizione posta alla sua base, che recita: A Giuseppe Garibaldi, che nel grande animo al valore antico l’umanità dei nuovi tempi congiunse, questo monumento i friulani eressero l’anno 1886. Quella espressione, l’umanità dei tempi nuovi, ci ha sempre dato da pensare: evidentemente, in quei decenni vi era chi sognava una umanità completamente rinnovata, che non portasse più il "peso" della tradizione. E quel giovane garibaldino che protende la tromba e la bandiera, e che — come è stato osservato — pare un angelo laico, sembra il simbolo o l’annunciatore dell’umanità nuova; mentre il Generale, solenne, ieratico, con la sciabola al fianco, sembra la divinità del riscatto, venuta a spodestare, come ne L’inno a Satana del Carducci, il vecchio Dio con tutti i suoi preti. Si aggiunga che — allora non lo sapevamo, lo abbiamo appreso molto tempo dopo — per dare maggiore risalto al monumento del supposto Eroe, la piazza subì una ulteriore e radicale ristrutturazione: fra le altre cose, vennero eliminati i basamenti delle fontane e abbattuti o decapitati i bellissimi alberi che l’adornavano, facendo sparire intere aree verdi, ultimo ricordo di quando la piazza, posta fuori le mura, era quasi un angolo di campagna attraversata dalla roggia.

Ecco, la falsificazione della storia è cominciata da qui: si è voluto manipolare il passato, cancellare frettolosamente milleottocento anni di storia del cristianesimo, esaltare una nuova era, l’Era dell’Uomo, fondata su una patente menzogna: che il Risorgimento sia stato un grande movimento di popolo, mentre la verità è che fu fatto da un pugno di massoni che odiavano tutto ciò in cui credeva il novantanove per cento della popolazione, ossia l’intero bagaglio della fede e della cultura religiosa cattolica. Il fatto che a noi studenti nessuno abbia detto che quella piazza e quello stesso edificio che ci ospitava, recavano l’impronta dei padri Barnabiti; e che solo recentemente un locale pubblico, situato di fronte, sull’altro lato della piazza, tramandi finalmente quel nome e quella memoria, è altamente significativo. La seconda menzogna che è stata rifilata alla nostra generazione è legata a un altro mito di fondazione, più recente e più esiziale, che i nostri professori ci hanno inculcato con pervicacia: che l’Italia democratica e repubblicana sia nata, dopo la Seconda guerra mondiale, per merito di un altro soprassalto di vitalità e di fervore patriottico, chiamato Resistenza, un evento che avrebbe segnato il riscatto del popolo italiano da una umiliante, ventennale dittatura e delle fosche vicende dell’occupazione nazista. Alcuni di quei professori, persone peraltro rispettabili, alle quali serbiamo gratitudine per la passione e la competenza con le quali ci hanno trasmesso l’amore per il sapere, avevano fatto personalmente tale "resistenza", e quindi ne portavano ancor vivo il furore ideologico. Si sono ben guardati, però, dal dirci che quella. Sfrndata dalla retorica auto celebrativa, fu una sanguinosissima guerra civile; che, alla sua conclusione, atroci vendette videro il massacro di migliaia di italiani ormai inermi, per mano di altri italiani; e che proprio lì, in Friuli, a non più di venti chilometri in linea d’aria da Udine, i partigiani comunisti avevano trucidato una ventina di partigiani cattolici nelle malghe di Porzûs, mentre a Gorizia e Trieste i comunisti iugoslavi si abbandonavano a vendette ancor più atroci, e migliaia di italiani innocenti venivano gettato nelle foibe, sul Carso, a volte ancor vivi, dopo aver subito sevizie inenarrabili, per scontare la sola colpa di essere italiani.

Il destino ha voluto che mentre ci venivano propinate dall’alto queste due spudorate menzogne — il Risorgimento come risveglio di popolo, e la Resistenza come riscatto nazionale dalla servitù e dalla barbarie nazifascista, una terza colossale menzogna, questa volta dal basso, venisse ad aggredire le basi di una consapevolezza onesta della realtà: quella del Sessantotto, della Fantasia al Potere, del Proibito Proibire, del Sei Politico, eccetera, eccetera. Era veramente l’inizio della fine per la cultura e per la serietà dell’istruzione scolastica, ma noi abbiamo avuto la fortuna di cogliere gli ultimi bagliori di luce prima che calasse la notte, e ne serbiamo un grato ricordo. Dopo le Camicie Rosse e dopo i Partigiani, si faceva avanti un terzo e più nefasto mito: quello del Rivoluzionario; dopo Garibaldi e Pertini, Ernesto "Che"Guevara"; e un nuovo nemico: dopo il cattolicesimo e dopo il fascismo, l’odiata "società borghese", marcia e decrepita, meritevole si sparire nelle fogne. E avanti coi Pasolini, coi Moravia, coi don Milani, coi Basaglia, al seguito dei Capanna, dei Cohn-Bendit e dei Marcuse, indi dei Pannella e dei suoi simili, con tutti quelli che proclamavano la "libertà" contro le catene di una non meglio specificata oppressione. E la marea femminista, naturalmente, con tutti i suoi nobilissimi ed elegantissimi slogan, come: Tremate, tremate, le Streghe son tornate, oppure: L’Utero è Mio e ne faccio quel che Voglio Io. Poco prima c’era stata un’altra rivoluzione, silenziosa ma ancor più devastante, proprio dentro la chiesa, l’ultima cittadella dei valori tradizionali — Dio, Patria e Famiglia – e aveva fatto da apripista al ’68 stesso: quella del Concilio Vaticano II. Zitti, zitti, con luciferina abilità, un pugno di cardinali e vescovi massoni aveva cominciato a stravolgere i fondamenti della dottrina cattolica, mirando a trasformare la chiesa cattolica in una neochiesa protestante, modernista e filo-giudaica, sfilando il Deposto della fede da sotto il sedere, con licenza parlando, dei fedeli stessi. Sì: eravamo solo dei ragazzini di undici anni, ma in qualche modo abbiamo intuito che la marea del nichilismo stava per portarci via le cose più belle che le vecchie generazioni ci avevano lasciato: il senso della serietà della vita, dell’onestà, della sobrietà, degli affetti familiari. Ora tutto ciò era divenuto il Male: andava dimenticato, rimosso. E così è stato: e nei decenni successivi è stata costruita una vera e propria anticiviltà, di cui stiamo ora raccogliendo i frutti velenosi: divorzio, aborto, eutanasia, matrimoni omosessuali; l’ignoranza e la stupidità del consumismo; e lo strapotere del capitale finanziario. Sommessamente chiediamo: ne valeva la pena?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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