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Tutto è iniziato colla separazione tra fenomeno e noumeno

La filosofia moderna, che i professori, al liceo e all’università, presentano agli studenti come un gigantesco balzo in avanti dopo la stasi e le "tenebre" del medioevo, non è altro che un graduale, metodico, inesorabile processo di autodistruzione della ragione: della ragione vera, la ragione complessiva e armoniosa, espirt de géometrie più esprit de finesse, a vantaggio di una dimensione univoca della ragione, quella logico-matematica. Il processo di dissoluzione parte dal tardo medioevo, cin Guglielmo di Ockham, se non prima, con Pietro Abelardo, e procede a grandi falcate nei secoli successivi; ma raggiunge il suo vertice e il suo "capolavoro" con il criticismo kantiano. È Kant, colui che separa radicalmente e irreversibilmente il fenomeno dal noumeno, la cosa come appare dalla cosa in sé, che conduce a compimento tale processo di disintegrazione. Di questo tragico esito abbiamo già parlato diffusamente a suo tempo (cfr. il nostro articolo L’"io penso" kantiano e l’autocastrazione del pensiero moderno, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 15/05/07 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 15/11/17; ora ci resta da considerare, in tutta la sua portata, gli effetti devastanti che tale "scoperta", o, se si preferisce, tale "rivoluzione", ha avuto sul pensiero successivo.

Arthur Schopenhauer, e non è stato il peggiore dei suoi errori, tributa un’autentica ovazione a Kant per aver felicemente condotto a  termine tale scoperta, riprendendo e perfezionando la primitiva intuizione di Locke: cioè la distinzione fra proprietà primarie e secondarie delle cose, come del resto avevano sostenuto molti altri prima di lui, per esempio Cartesio. Scriveva il filosofo di Danzica ne Il mondo come volontà e rappresentazione (tr. di Paolo Savj-Lopez G. Di Lorenzo, Milano, Ed. CDE, 1993, pp. 542-543):

Il più grande merito di Kant è la distinzione del fenomeno dalla cosa in sé, – fondata sulla dimostrazione che tra le cose e noi sussiste sempre l’intelletto, per cui esse non possono essere riconosciute secondo quello che, che esse possono essere in se stesse. Egli venne condotto su questa via da Locke (vedi i "Prolegomeni ad ogni metafisica, § 12, nota 2). Questi aveva dimostrato, che le proprietà secondarie delle cose, come suono, odore, colore, durezza, mollezza, liscezza e simili, essendo fondate sulle affezioni dei sensi, non apparterrebbero al corpo obiettivo, alla cosa in se stessa, a cui egli invece assegnò solo le qualità primarie, ossia quelle, che presuppongono solo lo spazio e l’impenetrabilità, come estensione, forma, solidità, numero, mobilità. Solo che questa distinzione di Locke, facile a trovarsi, e che si mantiene alla superficie delle cose, fu quasi soltanto un preludio giovanile di quella di Kant. Questa invero, partendo da un punto incomparabilmente più alto, spiega tutto ciò, che Locke aveva lasciato valere come "qualitates primarias", ossia proprietà della cosa in se stessa, come del pari appartenente solo alla manifestazione di essa nella nostra facoltà intellettiva, ed invero proprio perciò, che le condizioni di essa, spazio, tempo e causalità, ci sono note "a priori". Dunque Locke aveva sottratto dalla cosa in sé la parte, che gli organi dei sensi hanno nella sua manifestazione; Kant però ora ne sottrasse anche la parte delle funzioni cerebrali (quantunque non sotto questo none); per cui adesso la distinzione del fenomeno dalla cosa in sé acquistò un significato infinitamente più grande, ed un senso assai più profondo. A questo scopo egli dové imprendere la grande separazione della nostra conoscenza "a priori" da quella "a posteriori", il che prima di lui ancor non era mai avvenuto con la debita precisione e perfezione, né con chiara conscienza; nondimeno ora questo divenne la materia principale delle sue profonde investigazioni…

Lasciamo al buon vecchio Schopenhauer la responsabilità di queste iperboliche lodi, come pure quella di non aver visto che la sua bestia nera, quegli che lui considerava il cialtrone filosofico per eccellenza, Hegel, è, al contrario, l’erede più che legittimo di Kant: che altro è, infatti, l’aver ridotto tutto il reale a pensiero, se non la logica conseguenza di aver ridotto il pensabile all’esperibile, e aver messo fra parentesi quel che resta fuori? Se le qualità esistono (e sia pure le qualità primarie>: ma è rigorosa, è davvero scientifica a distinzione fra primarie e secondarie?), ma sono inerenti al pensiero piuttosto che alle cose in se stesse, allora è il pensiero, e non la realtà, l’oggetto del nostro conoscere; ma in tal caso, come stupirsi che arrivi un filosofo ancora più audace, e anche più coerente, il quale, partendo da tali premesse, dichiara che tutta la realtà è pensiero, e quindi il pensiero non è una qualità dell’essere, ma l’essere una qualità del pensiero? A questo pazzesco capovolgimento del giusto ordine delle cose Hegel non è arrivato da solo: è stato Kant, tanto calorosamente applaudito da Schopnehauer, che gli ha fornito la corda per impiccarsi. Quanto più lontano aveva saputo vedere Berkeley, il quale aveva negato la distinzione fra le qualità primarie e secondarie, concludendo, dopo un attento esame, che le qualità sono tutte secondarie, e dunque sono tutte soggettive. In effetti, ammettere la distinzione cartesiana e lockiana, che è poi la distinzione kantiana, fra ciò che è e ciò che appare, crea inevitabilmente una schizofrenia: da un lato ci sono le cose quali ci appaiono, ma che costituiscono la sola realtà a noi accessibile; dall’altro, ci sono le cose in se stesse, delle quali non si può dir nulla, perché non sono esperibili, e quindi sono sì pensabili, ma che senso ha pensare ciò che non potrà mai essere constatato? In effetti, il noumeno è il caput mortuum del criticismo kantiano: se ne sta lì, in disparte, ineliminabile ma sostanzialmente inutile: non serve a nulla, e tuttavia non si può far finta che non ci sia. Dopotutto, esso è la garanzia che le cose ci sono e che il mondo esiste, e che ciò che noi esperiamo non è solo il delirio di un pazzo: in teoria, dunque, è la chiave di volta di tutto; in pratica, il filosofo procede sulla via del conoscere ignorandolo del tutto, andando avanti come se non ci fosse. Non è molto logico e non ha molto senso.

A suo modo, è più logica e più sensata la filosofia di Hegel, che riduce tutto a Pensiero, non si sa bene di chi, pensiero di se stesso; se delle cose in sé non possiamo dir nulla, non ci resta che dire: il nostro dire scaturisce dal pensare, e il pensare è la sola cosa certa. Capire chi sia il soggetto pensante, è un altro paio di maniche: a ogni giorno basta la sua pena. Questo, del resto, è tipico della cultura moderna: perché farsi tanti problemi in anticipo, perché rovinarsi la digestione, preoccupandosi in anzitempo di un problema che potremo risolvere in un secondo momento? L’abbandono del sistema (il tanto vituperato "sistema", cioè della metafisica), il pragmatismo, il riduzionismo, il pensiero debole, il pensiero a termine, il pensare come tecnica senza un perché, la scelta dei mezzi slegata dai fini: tutto nasce da qui. In fondo, è un oblio della serietà del pensare; ed è nato dall’oblio della serietà della vita. Solo se si parte dal presupposto che il mondo ha un senso, e quindi anche il nostro esistere ha un senso, solo in questo caso il pensiero si pone sui binari giusti: cerca di capire come e perché. Ma se si sorvola su questo presupposto, il pensare si riduce a un voler spiegare, anche senza aver capito. La filosofia moderna si è specializzata in quest’arte pazzesca, aberrante: vuol spiegare ogni cosa, sul modello della scienza moderna, galileiana e sperimentale, al punto da sentenziare che, se pure vi è qualcosa che essa non può spiegare, quel qualcosa non ci riguarda minimamente (anzi è meglio gettare nel fuoco i libri che ne parlano, come esorta a fare David Hume); però non si preoccupa di comprendere, perché per comprendere bisogna porre la questione del senso: infatti non si può comprendere una cosa che non abbia senso. Ma dire che del noumeno nulla sappiamo, è la stessa cosa che dire che non sappiamo se il reale abbia un senso, oppure no. Intanto costruiamo le macchine, manipoliamo la materia, cloniamo gli esseri viventi: poi, forse, cominceremo a domandarci che senso abbia. Lo facciamo, perché è possibile, e più non dimandare. L’essere, che è la cosa in sé, si comporta allo stesso  modo: si nasconde, non si lascia vedere; e, così facendo permette che ciascuno se ne vada per la sua strada, indipendentemente dalla ricerca del fine comune. Forse il fine comune non esiste: tanto vale che ciascuno insegua il proprio fine particolare. Ebbene, questo è un pensiero aberrante, perché semina il caos nel quale oggi stiamo annaspando; un caos intellettuale prima ancora che sociale, politico, economico, morale, culturale.

I filosofi antecedenti alla modernità, e solo pochi filosofi che in essa si son trovati a vivere, ma senza subirne le pressioni e i ricatti, come Kierkegaard, bensì tenendo alta la bandiera della vera libertà del pensiero, si sarebbero vergognati di giungere a simili conclusioni. Essi infatti sapevano che la vera libertà non è la libertà assoluta: sia perché questa è impossibile, essendo un attributo divino, sia perché, se anche fosse possibile, poterebbe l’uomo a diventare nemico di se stesso. L’uomo, creatura finita, ma con l’ardente nostalgia dell’infinito, non può né appagare da solo tale nostalgia, né deve negarla, attribuendo a se stesso le prerogative divine, perché in entrambi i casi finisce per esorbitare dal proprio statuto ontologico, mettendosi in un vicolo cieco, il che gli frutterà solo delusione, amarezza e dolore. La filosofia moderna esalta la curiositas, ma nega o ignora la virtus: è, paradossalmente, sia una filosofia della hybris, della dismisura, perché rivendica all’uomo l’esercizio di possibilità che non gli appartengono, sia una filosofia della rinuncia e della sconfitta, perché si mortifica da se stessa in ciò che di più grande ha l’uomo: la profondità di un pensiero che non pensa in maniera slegata, difforme e perfino contraria al senso dell’essere, il quale ultimo comprende, spiega e supera il pensiero, conducendolo fin là dove esso, da solo, non potrebbe mai giungere, cioè fino alle soglie dell’Essere. D’altra parte, una filosofia che dichiara inconoscibile la cosa in sé, è una filosofia dimezzata, buona per esseri dimezzati, che si adattano a vivere una vita dimezzata. E non solo dimezzati: sdoppiati, scissi. Il dramma dell’uomo moderno è essenzialmente questo: avendo perduto il riferimento con la cosa in sé, ha perduto anche la coscienza della propria unità interiore. È divenuto uno, nessuno e centomila; e dubita di tutto, perfino se la vita sia sogno o realtà (Calderon de la Barca), perfino se sia cosa migliore essere o non essere, vivere o morire (Shakespeare), perfino se la vita non gli sia stata data da un dio malvagio e beffardo (Leopardi) e se la libertà non gli sia stata data, come un dono avvelenato, per la sua maledizione e la sua infelicità (Montale, Sartre).

Non si esce da questo vicolo cieco, se non tornando all’unità dell’essere, superando la divisione tra fenomeno e noumeno. E non si torna all’unità dell’essere se non si recupera l’unità della coscienza. E non si recupera l’unità della coscienza se non si torna alla consapevolezza dello statuto ontologico dell’uomo: al senso del suo limite, al senso della sua grandezza, al senso della sua vocazione. Fino a quando l’uomo moderno continuerà a considerare irraggiungibile e indefinibile la cosa in sé, non farà alcun passo avanti, non riuscirà a superare il punto morto. Certo, è evidente che le cose come appaiono a noi non sono, in tutto e per tutto, le cose in se stesse; ma di qui a dire che sono due cose diverse, ce ne corre. Non sono due cose diverse, bensì due aspetti di una stessa cosa. Il fenomeno non è una realtà separata dal noumeno, perché, se lo fosse, sarebbe anche staccata da esso, il che è assurdo: se fossero due realtà staccate, in che modo il noumeno si manifesterebbe a noi come fenomeno? Invece sono la stessa cosa, ma il fenomeno è ciò che noi riusciamo a percepire direttamente del noumeno, mentre quest’ultimo è la cosa nella sua intima verità. Una mela, direbbe san Tommaso d’Aquino, è sempre una mela: solo che se un osservatore è daltonico, non la vede dello stesso coloro che vedono gli altri; e se è estremamente miope, da una certa distanza non saprebbe nemmeno identificarla. Eppure è sempre lei: sia che resti posata sul tavolo, sia che la guardiamo da lontano; sia che ci sia molta luce, sia che ve ne sia poca. Anche noi siamo sempre noi, perché, se fossimo nessuno o centomila, non staremmo qui a tormentarci con questo dubbio: infatti è un dubbio che può sorgere solo da parte di una coscienza unitaria. Se la coscienza non fosse unitaria, non ci sarebbe alcun dubbio, ma solo la consapevolezza di essere degli io differenti; nel qual caso resterebbe da spiegare come sia nata la credenza nell’io. Allo stesso modo, solo colui che ha conservato almeno un barlume di ragione può dubitare di essere pazzo; ma il vero pazzo non sospetta la propria pazzia, al contrario, si ritiene il più savio degli uomini. È tipico dei pazzi credersi savi, ed è tipico dei savi temere d’impazzire. Ora, la rinuncia alla cosa in sé ha introdotto la pazzia nel mondo perché solo la cosa in sé, essendo ciò che è e venendo riconosciuta come tale, garantisce la verità di tutto il resto. Senza la cosa in sé, o meglio senza la fiducia di poter riconoscere — non diciamo di comprendere — la cosa in sé, viene meno qualsiasi criterio di verità, per cui tutto diventa fluido, relativo, evanescente. Il mondo allora è una foresta da incubo, disseminata di specchi che ci rimandano all’infinito l’immagine di uno sconosciuto inquietante, allucinato, che siamo noi stessi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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