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La verità appare solo nella luce del Sommo Vero

Dal punto di vista gnoseologico, il problema fondamentale del pensiero moderno è la negazione o la dichiarata irraggiungibilità del vero. A tale clamoroso fallimento il pensiero moderno è giunto per aver gettato nel cestino dei rifiuto tutta la tradizione del pensiero classico e medioevale, tutta la metafisica e tutta la teologia. È tipico, però, della cultura moderna, non voler ammettere i propri fallimenti, ma pretendere di contrabbandarli per successi strepitosi: in questo caso, i filosofi moderni si sono premurati di rassicurare tutti quanto circa il fatto che la rinuncia alla verità non equivale a una sconfitta, ma a una vittoria: prima di tutto, perché consente di sbarazzarsi di false certezze ereditate dal passato, e in secondo luogo perché l’abbandono della verità apre la strada al pluralismo delle conoscenze, quindi a un avanzamento e a un progresso, non a un arretramento e a un regresso del pensiero. Niente di più facile (si fa per dire): in una cultura, anzi in una ideologia ufficiale, quella del politicamente corretto, che si fonda, programmaticamente, sull’esaltazione della varietà, della individualità, della differenza e della diversità (anche se in realtà persegue l’obiettivo diametralmente opposto, cioè la globalizzazione del pensiero, dell’economia, della politica, dell’arte, dello sport e dei modi di vivere), presentare la scomparsa della verità come una conquista è facile, perché la verità, in un simile contesto, appare come una forma di egemonia autoritaria, se non proprio di tirannia o addirittura di totalitarismo del pensiero. E poco importa che il vero totalitarismo, con il quale si deve fare i conti tutti i giorno, sia, al contrario, quella della cultura dominante e del politicamente corretto: perché non lo si può dire, bisogna fare finta che sia tutto il contrario, e i servitori zelanti di quest’ultimo sono proprio quelli che starnazzano più forte contro l’intollerabile pretesa dei filosofi del passato di stabilire, in maniera certa e definitiva, cosa sia la verità. Ora, la verità di una cosa è la sua conformità al giudizio: il che implica che, per dire di una certa cosa che essa è vera, è necessario averla vita e riconosciuta, non empiricamente, non accidentalmente, ma radicalmente e nella sua essenza. Ebbene: dove si danno simili condizioni, se non in Dio? Chi, se non Dio, essendo la Somma Verità, ha in sé il criterio di verità di ogni cosa, perché le cose sono vere quando a Lui si conformano, mentre sono false quando da Lui si allontanano?

E allora, mettiamo bene in chiaro una cosa: i filosofi moderni non vedono la verità, non la riconoscono, non la accettano, non la vogliono, e se pure la vedessero, la respingerebbero, per la semplice ragione che, per scorgere e riconoscere la verità, bisogna essere nella giusta prospet6tiva: bisogna, cioè, che la ragione sia illuminata dalla luce della Somma Verità, la quale comprende in se stessa ogni altra verità. Le cose sono vere, in altri termini, nella misura in cui si adeguano, e rispecchiano, il progetto originario della Verità; e noi le riconosciamo per vere nella misyra in cui noi stessi ci muoviamo nella luce della Somma Verità, e non altrimenti. Se siamo al buio, non vediamo la verità, se le cose si discostano dal progetto originario, non sono vere, ma false, perché falsificano quel progetto. Ma è chiaro che la cultura moderna, nata da una ribellione contro Dio e da un rifiuto di Dio, non accetta che Dio, la Somma Verità, sia garante della verità delle cose e della verità del conoscere; e, non accettandolo, si rinchiude in un circolo vizioso. Come potrà trovar ela verità l’uomo, una volta che abbia respinto la garanzia del vero? Le cose sono vere, e noi le conosciamo come vere, se partecipano della verità, e noi con esse; ma se ce ne teniamo fuori, se facciamo di tutto per starne fuori, né le cose saranno vere, né le riconosceremo per vere. Sarà tutta una grande finzione, una grande falsificazione: in sostanza, un grande inganno. La cultura moderna è un colossale inganno: dà a intendere di aver progredito nel cammino della conoscenza, ma, negando la verità assoluta, la verità come tale, e accontentandosi delle piccole verità parziali, di fatto contraddice se stessa e si condanna a quella che Hegel chiamava la coscienza infelice. È infelice, infatti, la condizione di un pensiero che vorrebbe pensare il vero, ma se ne inibisce da se stessa la possibilità, per superbia, per orgoglio e per invidia verso la Somma Verità. È il peccato di Adamo ed Eva: un peccati si superbia, orgoglio e invidia; un peccato che nasce dalla non accettazione , da parte dell’uomo, del proprio statuto ontologico. L’uomo vorrebbe essere Dio, ma non lo può; allora si vendica negando la Verità, cioè negando Dio. In altre parole, come un bambino capirci coso e viziato, l’uomo moderno pensa: Se non posso arrivare io alla verità, da solo, con le mie forze, allora non ci deve arrivare nessun altro, ma Dio è la Verità: e allora neghiamo l’esistenza di Dio. Intanto, però, la sete della verità esiste, e rimane: e provoca sofferenza. Tale atteggiamento dell’uomo moderno è veramente maligno e tradisce la natura diabolica della civiltà moderna: lui non può bere, ma non vuole che neppure gli altri si dissetino. Meglio crepare tutti di sete nel deserto infuocato della superbia, che scendere al fiume e spegnere la sete riconoscendo la propria finitezza e la propria dipendenza da un Principio che è superiore all’uomo stesso. Tutto ciò è di uno squallore intellettuale e morale veramente allucinante.

Per rinfrescare l’anima e la mente rattristate dalla lettura di questi teorici della hybris, della sconfitta e del caos, questi Bacone e questi Cartesio, questi Kant e questi Hegel, questi Comte e questi Heidegger — pensatori come si vede, diversissimi fra loro ma accomunati dallo stesso atteggiamento di fondo, intimamente e profondamente maligno — fa bene immergersi, oltre che nella preghiera, nell’adorazione e nella contemplazione, anche nella lettura dei vecchi, buoni filosofi medievali, Roberto Grossatesta (1175-1253), per esempio, del quale ci piace riportare questo brano, dal suo trattato De veritate, il quale illustra a meraviglia i concetti che abbiamo fin qui esposto (da: R. Grossatesta, Metafisica della luce, Milano, Rusconi, 1986, pp. 221-223):

Poiché, come si è detto, la verità di qualunque cosa è la sua conformità alla sua causa nella Parola eterna, è chiaro che ogni verità creata si vede solamente nella luce della somma verità. In quale modo si potrebbe vedere la conformità di una cosa ad un’altra se non dopo aver visto anche ciò a cui è conforme? Oppure, come si conosce che la rettitudine di una cosa è tale, dal momento che non è rettitudine per se stessa, se non nella sua norma, che è retta per se stessa, e secondo la quale essa è retta? E questa norma non è altro che l’idea eterna della cosa nella mente divina. O in quale modo si conoscerà che una cosa è come deve essere, se non si vede l’idea secondo la quale così deve essere? E se si dicesse che questa è l’idea retta per la quale la cosa deve essere in questo modo, si potrebbe ancora domandare: dove si vede che questa idea è la causa retta di questa cosa e tale quale deve essere, se non di nuovo nella sua causa? E così si procederà fino a che si vedrà che la cosa è come deve essere nella sua causa prima, che è retta per se stessa. Perciò la cosa è come deve essere, perché è conforme a questa. Ogni verità creata dunque in tanto si manifesta, in quanto a colui che guarda è presente la luce della sua causa eterna, come afferma Agostino. (De Trin., XII, 14). Né una cosa può essere vista vera solamente nella sua verità creata, come un corpo non può essere visto colorato soltanto nel suo colore, se non è inondato da una luce esterna.

La verità creata, dunque, mostra ciò che è, non però nella sua luce, ma nella luce della somma verità, come il colore manifesta il corpo, ma solamente quando è inondato dalla luce. E non è per inadeguatezza della luce che essa manifesta il corpo mediante il colore, dal momento che il colore stesso non è luce splendente che si aggiunge alla luce che è ricevuta; ma la potenza della luce sta nel fatto che essa non offusca il colore, che senza di essa brilla, mentre illumina quello che non brilla di luce propria. Similmente è la potenza della luce della somma verità che illumina la verità creata così che essa rafforzata nel suo splendore mostri la cosa vera. La luce della somma verità, dunque, non è rispetto alle altre verità come è il sole rispetto agli altri astri luminosi, che sono offuscati dal suo splendore, ma piuttosto come il sole rispetto ai colori che illumina. La luce della somma verità quindi in primo luogo e per se stessa manifesta ciò che è, come la sola luce manifesta i corpi. Ma per mezzo di questa luce anche la verità della cosa manifesta ciò che è, come il colore manifesta i corpi per mezzo della luce del sole. È vero, quindi, come afferma Agostino, che non si vede verità alcuna se non nella luce della somma verità. Ma come gli occhi malati del corpo non vedono i corpi colorati se non sono investiti dalla luce del sole, e non possono guardare in se stessa la luce del sole, bensì solo quella che si riversa sui corpi colorati, così gli occhi malati della mente non vedono le cose vere se non nella luce della somma verità; non possono tuttavia guardare la somma verità in se stessa, ma soltanto in quanto è unita in un certo qual modo e si riversa sulle cose vere.

Il ragionamento è chiaro, semplice, persuasivo, purché si abbia la mente sgombra da pregiudizi antimedievali e si sia disposti a imparare da chi ne sa di più di tanti moderni, perché ha riflettuto su questi problemi con maggiore consequenzialità, e, allo stesso tempo, con maggiore umiltà. Le cose hanno una causa? Sì: non esistono da se stesse, dunque sono state prodotte, e produrre le cose è la stessa cosa che esserne la causa. Ne deriva che le cose sono quel che dovrebbero essere, nella misura in cui rispondono al fine cui mira la loro causa. Per esempio, un tavolo è come dovrebbe essere se risponde ai requisiti che deve possedere per essere un buon tavolo; e lo stesso vale per un quadro, una casa, un aereo, una macchina. Ora, l’essere quel che devono essere corrisponde al grado di verità delle cose: sono tanto più vere, quanto più si avvicinano al loro dover essere; sono tanto più false, quanto più se ne allontanano. Un orologio è falso se non funziona per niente; una affermazione è falsa se non risponde per nulla a ciò che pretende di descrivere. Se diciamo che una certa casa è alta quattro piani, mentre è alta tre piani, diciamo una cosa non vera, cioè falsa; e così pure se affermiamo che nel giardino è piantato un ciliegio, mentre è un melo. Comunque, fra una casa di tre piani e una di quattro non vi è una differenza abissale; e fra un melo e un ciliegio neppure, sono pur sempre alberi da frutto. Questo significa che esistono diversi gradi di falsità e anche di verità, diversi livelli di approssimazione alla verità, perché noi ci muoviamo pur sempre nell’ambito di ciò che è relativo, e se nel nostro mondo tutto è relativo, anche la verità tende ad esserlo. Tende, però non è detto che lo sia: perché vi è una parte dell’uomo, quella spirituale, che è suscettibile di giungere alla verità tutta intera, e sia pure nel contesto delle cose finite, che è un contesto finito. Però, in quel contesto, gli uomini possono giungere alla verità perfetta, come accade, per esempio, nella formulazione di un teorema di geometria, beninteso mediante la sua dimostrazione. Diciamo allora che la verità di una cosa esprime la sua corrispondenza con l’idea di essa, che scaturisce dalla sua causa. La causa di un’opera umana è l’idea di rispondere a un certo fine: se quell’opera vi risponde, allora essa è vera. Lo stesso vale per i sentimenti: sono veri i sentimenti che rispondono al fine dell’uomo, determinato dalla sua causa. La causa dell’uomo è Dio, e Dio, oltre che il Sommo Vero, è anche il Sommo Bene. Ne consegue che tutto ciò che è veramente bene per l’uomo, è vero; tutto ciò che è male, è falso. Ma l’uomo, lo abbiamo detto, è un essere anfibio: per un lato è immerso nel finito, per l’altro lato si protende verso l’infinto, cui anela. Se un uomo si sprofonda totalmente nel finito, smarrisce ogni luce di verità e si allontana sempre più da ciò che deve essere, cioè dal Vero, che è Dio; se l’uomo alza gli occhi verso l’alto e cerca la luce, allora vede le cose per ciò che devono essere, vede se stesso per ciò che deve essere, e partecipa della verità della creazione. L’uomo, dotato di libero arbitrio, è quindi responsabile del proprio grado di verità o falsità: possiamo anche dire che un uomo che rifiuta interamente di essere ciò che deve essere, un corpo unito ad un’anima razionale, il cui fine è realizzare il bene, è un uomo falso, nel senso di uomo mancato, un uomo fasullo. Molti uomini se ne vanno in giro, magari a petto gonfio, ma non sono che dei simulacri di ciò che un uomo dovrebbe essere. Un uomo che vive immerso nella lussuria, nella superbia e nell’avarizia, in effetti, è un semi-uomo: ha realizzato la sua parte animale, ma non quella propriamente umana. L’uomo è realmente uomo, dunque realmente vero, se realizza ciò che è specifico dell’essere uomo, cioè se risponde al fine per cui è stato chiamato ad esistere. Per la stessa ragione, l’uomo è nel vero, cioè capace di riconoscere la verità, se, ponendosi nella luce della Verità, vede le cose per quel che devono essere e non per come sono quando non realizzano il proprio fine. Per fare esempio: un uomo vede realmente un altro essere umano, poniamo una donna, quando vede in lei ciò che deve essere e non semplicemente ciò che essa attualmente è. Una prostituta è una donna mortificata nella verità del proprio essere, una donna non vera, ma artificiosamente deformata; se un uomo si compiace di vederla come prostituta, non vede in maniera veritiera, ma falsa, perché non vede l’essenziale, che è la verità. Un essere umano senza verità è una creatura deforme, che stravolge in se stesso la bellezza che gli era stata destinata…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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