
Omaggio alle chiese natie: intermezzo in v. Prefettura
11 Ottobre 2018
Omaggio alle chiese natie: S. Francesco della Vigna
12 Ottobre 2018Se dovessimo sintetizzare in un solo concetto la caratteristica psicologica oggi dominante nella nostra società, diremmo, prima ancora dell’edonismo, del narcisismo, dell’utilitarismo, del materialismo, che sono tutti effetti derivati: la fuga dalle responsabilità, anzi, la fuga dall’idea stessa di responsabilità. Nessuno si sente più responsabile di nulla, neanche del proprio preciso dovere, neanche degli effetti evidenti del proprio agire; ciascuno è impegnato a riversare la responsabilità su qualcun altro o su qualcosa d’altro. è rarissimo vedere qualcuno che si assume la responsabilità dei suoi atti, o quella per le persone a lui vicine, ad esempio la propria famiglia. Se c’è una cosa che l’uomo contemporaneo detesta e aborrisce, qualcosa da cui vuol fuggire, a cui vuole sottrarsi in ogni modo, è il fatto di dover rendere conto di quel che ha fatto, o di quel che non ha fatto, affinché le cose andassero per il loro verso. Un genitore si trova un figlio minorenne delinquente, beccato a spacciar droga ai compagni di scuola: ma non è colpa sua. Il comandante di una nave porta il suo bastimento a naufragare sugli scogli, con mare calmo e visibilità perfetta: ma lui non ha colpa. Un terzo viene sorpreso a rubare, e al magistrato dice: Non avevo altro mezzo per vivere, e quello: Ah, be’, in tal caso, si può anche capire; e lo fa scarcerare. Non solo: dal momento che le conseguenze tragiche, prima o poi, ci sono, non solo si vuol scansare la propria responsabilità, ma si vuole addossarla a qualcun altro: ed è la caccia al colpevole. Il colpevole è, per definizione, qualcun altro. Un quindicenne si arrampica, di notte, sul tetto di un palazzo per scattare dei selfie da brivido, poi cade e muore: il genitore, intervistato, minaccia: Qualcuno dovrà pagare, perché quel tetto era pericoloso. Di notte? Sul tetto? Ma chi ha ordinato a quel ragazzino di salire sul tetto, di notte, a far fotografie? I minorenni non dovrebbero essere sotto la tutela dei loro genitori? La colpa di quella disgrazia è del proprietario del condominio?
Ciascuno di noi, nella sua sfera di vita e di lavoro, e forse più volte al giorno, farà la medesima esperienza. Il preside della scuola non vuole responsabilità, non vuole seccature: se i bidelli, o i professori, hanno un problema, non è responsabilità sua. Il responsabile di un certo ufficio non è responsabile se l’utente rimane deluso nella sua legittima richiesta: se il computer non funziona, se i documenti non sono stati registrati, ecc., non è mai affar suo. Perfino il prete dice che non è affar suo se i documenti per il matrimonio non sono arrivati regolarmente: non guarda nemmeno in faccia i due giovani fidanzati, non spreca neppure una parola per informarsi su chi sono, né per dir loro una parola gentile. No: la sola frase che gli esce di bocca è questa: A me servono tutte le carte, questo è l’essenziale. Allo stesso modo, lo studente non ha responsabilità se si fa bocciare; il ministro non ha responsabilità se si verificano gravi inefficienze nel suo ambito di competenza; il giudice non ha responsabilità se il detenuto, da lui fatto uscire in anticipo per buona condotta, ammazza qualcuno due giorni dopo aver lasciato la prigione; lo psichiatra non è responsabile se il paziente tal dei tali, dimesso perché giudicato guarito, scappa di casa e si getta da un ponte; la persona frivola e narcisista non ha colpa se usa e getta i suoi partner sessuali, e uno di essi va in depressione e si beve una bottiglia d varechina: nessuno ha colpa di nulla, sia che abbia agito in maniera coscienziosa, sia che abbia agito con superficialità e leggerezza, o con autentica incoscienza; sia che abbia fatto scrupolosamente il proprio dovere, sia che, infischiandosene di ogni cosa, abbia badato solamente al comodo suo. E se un papà o una mamma si "dimenticano" il bambino in auto, a cuocere sotto il sole, e poi lo trovano cadavere, nemmeno in quel caso è colpa loro: avevano tante cose a cui pensare, non ci si può mica ricordare di tutto, e poi teniamo presente che nessuno è perfetto e che non si deve mai giudicare. E avanti di questo passo. L’azienda pubblica va di male in peggio, si cambia la direzione, ma l’amministratore delegato se ne va con una generosissima buonuscita, pagata dai contribuenti: si vede che quel disastro gestionale è colpa dello Spirito Santo. E se la nazionale di calcio continua a collezionare sconfitte, se non arriva nemmeno ai campionati mondiali, l’allenatore non è responsabile: sarà forse una cattiva congiunzione astrale. Inutile dire che non è colpa della banca se i vostri risparmi sono andati in fumo, e non è nemmeno colpa dell’ospedale se il vostro congiunto è morto per l’errore di un medico o di un infermiere: non è mai colpa di nessuno, non c’è mai una responsabilità definita. Crolla un ponte autostradale, muoiono più di cinquanta persone, ma la colpa non si sa di chi è, forse del temporale e di un fulmine malauguratamente preciso, che ha colpito in pieno un pilone. Né il deragliamento del treno è colpa delle ferrovie, e neppure la perdita della fede è colpa del clero; sì, è vero che qualche prete e qualche vescovi di troppo hanno dato scandalo, hanno abusato dei seminaristi, hanno fatto la bella vita nei sacri palazzi vaticani: ma insomma, non vorremo mica addossar loro la colpa del distacco dei fedeli dalla Chiesa? No, certo. La secolarizzazione è un fenomeno complesso, che parte da lontano (vero), quindi nessuno ha colpa o responsabilità precise (falso).
Ecco: il nocciolo della questione è tutto qui: che la società liquida, come la definisce Zygmunt Bauman, sembra non offrire la presa ad alcun senso di responsabilità da parte di chicchessia. Qualunque cosa di male accada, la colpa è di tutto il "sistema", mai di una persona, di un ufficio, di una dirigenza. Soprattutto, non è mai colpa della "vittima". La vittima è sacra, la vittima è innocente, la vittima è al di sopra di qualunque insinuazione. Anche se è rimasta vittima della propria leggerezza, della propria stupidità e della propria incoscienza. Il ragazzino che, in gita scolastica, beve alcolici, si impasticca, fuma l’erba, poi cade dalla finestra e si ammazza, non è mica colpa sua. Neanche dei suoi compagni, poveri angioletti. che dormivano il sonno dei giusti e non hanno visto, né sentito nulla, non si sono accorti di nulla, non potevano certo sospettare… Se un giovane animatore porta una squadra di minorenni dentro una grotta nella stagione delle piogge, ignorando i divieti e dando prova di totale irresponsabilità, e poi rischiano di morire annegati tutti quanti, lui non è mica responsabile della sfiorata tragedia, quando mai; al contrario: è un eroe, perché li ha incoraggiati a resistere. E pazienza se uno dei soccorritori ci ha lasciato la pelle: che volete, sono gli incerti del mestiere. E la ragazzina che è stata stuprata sulla spiaggia, all’alba, dopo essersi appartata con uno sconosciuto molto più grande di lei: non è mica responsabile di nulla. Probabilmente pensava che quell’uomo volesse appartarsi a quell’ora, in riva al mare, per parlare con lei della luna, o magari per recitare il rosario. Inutile dire che non si vuole attenuare, con ciò, la colpa precisa dello stupratore: no, quella rimane, e non gliela leva nessuno. Si vuol solo suggerire che se un adolescente, o chiunque altro, va a cacciarsi in situazioni ambigue, obiettivamente rischiose, non può poi sostenere di essere stato sorpreso nella sua buona fede. Bisogna sapersi valutare e bisogna saper valutare gli altri: per esempio, mai fidarsi di uno sconosciuto, mai andare con lui in luoghi solitari, mai mettersi totalmente nelle sue mani. E mai fidarsi neppure di se stessi, se si è da soli e non si possiede sufficiente esperienza. Se si è ancora dei principianti dello sci, non si va a sciare fuori pista, magari da soli, rischiando l’osso del collo, sia il proprio che quello degli altri: se poi ci scappa la disgrazia, non si può dire che è stata veramente tale. Disgrazie sono quelle che capitano a chi non ha fatto nulla per tirarsele addosso. Quei poveri turisti che stavano vistando una città italiana e sono stati colpiti in pieno dal crollo di alcuni calcinacci, non avevano colpa di nulla: è stata una fatalità. Ma uno che si mette, alticcio o ubriaco, al volante di una macchina, magari potente, magari di notte, e investe un pedone o un ciclista che se ne andavano per i fatti loro, nel pieno rispetto delle regole stradali: non si può parlare di disgrazia, in quel caso, ma di omicidio stradale, che è una cosa ben diversa.
Non solo la società liquida tende a ripartire le responsabilità in percentuali sempre più piccole, per cui, facendo parte di un tutto impersonale, ciascuno si chiama fuori e ciascuno, se accade qualcosa di male, chiama in correo tutti gli altri, invoca ogni sorta di attenuanti, sostiene che lui, poveretto, individualmente, cosa avrebbe potuto fare per opporsi al meccanismo fatale delle circostanze che hanno condotto a quella tale disgrazia. C’è anche un altro fattore che favorisce una crescente deresponsabilizzazione individuale: l’idea che non vi sono situazioni di non ritorno, che non esistono danni irreversibili, che a tutto si può rimediare. A questa assurda mentalità conducono soprattutto i mass media, la televisione, la stampa, il cinema, i fumetti: in una società che tende a ridurre ogni cosa a spettacolo, anche gli incidenti più gravi, e perfino la morte, diventano spettacolo. Ovviamente, la caratteristica essenziale dello spettacolo è la finzione: non sono eventi reali quelli che vengono rappresentati, bensì immaginari. Pertanto, in qualche parte del cervello delle persone, sussiste l’idea che dal più grave incidente si può tornare indietro; che non è poi tanto grave investire con la macchina un anziano, o un bambino, perché, come accade nei telefilm, dopo un po’ di giorni quelli si riprendono, escono persino dal coma, tornano a star bene; oppure, se anche ciò non dovesse accadere, in fondo non sono mica eventi reali, in realtà è tutto uno spettacolo, cioè una finzione. Non è, si badi, non è un pensiero lucido e razionale, nel qual caso sarebbe un delirio; è, piuttosto, una attenuazione, una deformazione e una manipolazione della realtà: si prende un parte della realtà e si immagina che possa andare nel senso desiderato; l’altra parte, quella che non si può modificare, neppure con l’immaginazione, è quella che è, ma basta non farci caso e non pensarci su troppo. In Brasile, Paese che ha la più alta percentuale d’incidenti stradali urbani, gli autisti degli autobus pubblici giocano a fare le gare di velocità, passano col rosso, se ne infischiano di tutte le regole e delle norme di prudenza più elementari. Ogni tanto, anzi, spesso, ci scappa il morto. E come reagiscono, allora, gli investitori? Piangono e si disperano, sul momento; poi, il giorno dopo, non ci pensano più: voltano pagina, Come i bambini. Per loro non è successo nulla; passano ad altro, come si indossa un’altra camicia. Ebbene, così tendiamo a fare un po’ tutti, nel quadro della vita moderna: tendiamo a rimuovere le conseguenze negative delle nostre azioni. Il risultato di questa deformazione della psicologia e del senso etico è che nessuno impara mai nulla. Le disgrazie, gli incidenti, i pericoli, i fallimenti e gli infortuni servono, se non altro, ad insegnare certe norme di precauzione, certi stili di prudenza: se non altro, perché non possono riportare in vita i morti, né ridare la salute agli invalidi, concorrono a quella saggezza che la vita insegna a tutti quelli che sono disposti ad imparare qualcosa. Ma chi non si rammarica degli sbagli che ha fatto, delle imprudenze che ha commesso, delle leggerezze di cui si è reso responsabile, ripeterà sempre gli stessi comportamenti; tornerà a fare del male agli altri e a se stesso, senza che le tragedie ed i traumi servano a fargli entrare nella zucca un minimo di prudenza. Ecco, questo è il danno più grave che deriva dal rifiuto delle responsabilità: il fatto che nessuno è disposto a riflettere su ciò che lo ha condotto a sbagliare, e quindi nessuno è in condizione d’imparare dai propri errori. Basta dirsi che tutto ciò che è accaduto non è colpa nostra, che non è colpa di nessuno, o forse sì, ma di qualcun altro, sempre e solo di qualcun altro, perfino del proprietario di uno stabile sul cui tetto, la notte, si arrampicano per gioco dei ragazzi incoscienti, ed è fatta: non c’è nulla di cui si deve rispondere, quindi non c’è niente, nel proprio modo di fare, di pensare, di parlare, che sia opportuno modificare. Ciascuno è perfetto così com’è: e guai a insinuare che forse, se fosse stato un po’ più prudente, un po’ più giudizioso, non sarebbe accaduto niente di male. Vi ricordate cosa successe quando scoppiò l’epidemia di Aids e si cominciò a parlare dello stile di vita omosessuale, di quei maschi californiani che hanno decine, centinaia e migliaia di rapporti anali promiscui, e poi si ammalano e infettano, a loro volta, altri soggetti? Subito ci fu una levata di scudi: proibito puntare il dito verso chicchessia: i malati di Aids sono sempre e solo delle vittime; chi osa parlare di responsabilità è un cinico, un intollerante, un cattivo cittadino e un pessimo cristiano. No: quei poveretti erano solo vittime; di che cosa, non si sa; certo non del loro stesso modo di vivere. Se pure c’era un colpevole, andava cercato altrove. Magari fra quelli che osano deplorare lo stile di vita di chi passa il fine settimana subendo o infliggendo innumerevoli penetrazioni anali nei locali omofili, nei bagni pubblici, nelle saune fatte apposta per simili cose. Certo, fra i malati di Aids c’erano anche persone che non appartenevamo a quella categoria, perfino delle giovani mamme rimaste infettare per un errore delle strutture sanitarie: se errore si può chiamare quello di un sistema sanitario dove i "donatori" di sangue per le trasfusioni sono pagati secondo un preciso tariffario, e una bella percentuale di tali "donatori" è formata da drogati e invertiti, i quali diffondono sangue infetto tra i pazienti. Ma che ci fossero anche delle persone totalmente estranee a quel tipo di vita era la prova del fatto che quest’ultimo fosse il principale responsabile dell’epidemia, così come l’eccezione è la prova della giustezza della regola. Cosa fecero, invece, i media e gli intellettuali buonisti e il clero buonista? Ammonirono a non parlare, non già di colpa, ma anche solo di responsabilità. Evidentemente, le vittime vanno solo compatite: sono sempre innocenti. A dispetto del buon senso…
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