
Fuga dalla responsabilità
12 Ottobre 2018
Se Dio è il Bene, come mai c’è il male?
13 Ottobre 2018Nel 1427 il nobile Tristano Savorgan fece dono a una comunità di frati francescani di un terreno, situato in posizione un po’ decentrata, per edificare un convento che operasse in maniera distinta, e più contemplativa, più "spirituale", se si vuole, rispetto ai loro confratelli che, dalla chiesa situata presso l’Ospedale Vecchio, erano impegnati nella cura dei malati. Sorse così il complesso, con annessa chiesa, di San Francesco della Vigna, che ricorda, fin dal nome, il carattere suburbano del luogo, per meglio distinguerlo dall’altra comunità francescana, presente da molto tempo in città(e il toponimo è rimasto nel nome della vicina via della Vigna, una laterale di borgo Grazzano). Una presenza, quella dei frati minori, che è venuta a mancare dopo cinque secoli (erano arrivati nel 1564), nel 2012, con il malinconico abbandono del convento di via Ronchi, dopo che già alla fine degli anni Settanta avevano dovuto lasciare, per il crollo repentino delle vocazioni, il nuovo, ambizioso convento di via Chiusaforte, appena costruito. Il convento di via Cussignacco, dotato di due chiostri, entrambi affrescati, è stato soppresso dopo aver conosciuto molte e fortunose vicende, e la chiesa, sconsacrata e semidistrutta da un incendio, è caduta in stato di abbandono. Un crudele bombardamento aereo, durante la Seconda guerra mondiale, ha dato il colpo di grazia a quel che restava dell’antico e glorioso complesso; mentre l’apertura di una nuova via, dedicata a don Pasquale Margreth, studioso, saggista, educatore e preside dell’Istituto Magistrale arcivescovile) ha letteralmente sventrato l’area del convento francescano (sulla figura di questo insigne sacerdote friulano, vedi il nostro articolo: Una pagina al giorno: Libertà e responsabilità dell’uomo, di P. Margreth, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 31/08/2009 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 16/02/2018).
Eppure, l’amore degli udinesi ha restaurato il chiostro e la chiesa, e oggi è possibile ammirare ancora quest’angolo poco conosciuto della città vecchia, con la sua atmosfera quieta e appartata, che sa d’altri tempi. Vi si accede da via Cussignacco, attraverso un portone, circa a metà della via: sul lato destro, per chi viene da Piazza Garibaldi; e sul lato sinistro, naturalmente, poco dopo l’angolo con via Pasquale Margreth, per chi arriva da Piazzale Cadorna. Oggi si possono ancora vedere i lacerti dei dipinti, il chiostro "serenissimo", la struttura della chiesa con gli affreschi parzialmente restaurati, nonché un pozzo, forse più antico del convento stesso; mente alcuni locali non sono tuttora accessibili al pubblico. Entrare nello spazio dell’ex convento, lasciandosi alle spalle il movimento della città odierna, è come passare, in un batter d’occhio, in un altro mondo, un mondo a sé: quello dei secoli passati, quando la modernità non aveva ancora investito la nostra civiltà cristiana e l’ideale monastico e contemplativo era fortemente sentito e ammirato da tutti, a cominciare dai laici. Non è un caso che molte famiglie nobili udinesi, dal XV secolo in poi, avessero scelto proprio questo angolo di terra, fra le case del vecchio borgo, come luogo della loro estrema dimora.
Fra le altre cose, ai frati francescani di questo convento era affidato un incarico delicatissimo e commovente, quello della cura delle anime dei condannati a morte: li assistevamo e li accompagnavano fino alla loro ultima destinazione terrena. E questo pio servizio aveva fatto sì che nel borgo sorgesse addirittura una apposita confraternita, la Confraternita della Buona Morte, destinata ad assistere quanti facevano il viaggio finale verso la "calle degli impiccati", e poi, dopo l’esecuzione, impegnata a dar loro cristiana sepoltura, il che ci ricorda come quei nostri progenitori non avessero affatto la paura quasi superstiziosa che noi moderni abbiamo nei confronti del pensiero della morte, e anzi, tenessero lo sguardo costantemente rivolto verso l’ultima meta, non perché incapaci di amare la vita e le sue cose belle, ma perché pienamente consapevoli che la vita terrena è solo un pellegrinaggio verso la vita vera, quella eterna.
La storia del convento di San Francesco della Vigna è consultabile nel sito dell’Archivio di Stato di Udine (http://archiviodistatoudine.beniculturali.it/), nella sezione Chiese, conventi e monasteri nei documenti antichi dell’Archivio di Stato di Udine, da cui traiamo i seguenti brani:
Tra i vari conventi che sono stati presenti per secoli nella realtà udinese, troviamo quello di San Francesco della Vigna, caratterizzato da una particolarità: era dotato sul retro di un piccolo cimitero per la sepoltura dei condannati a morte. Soppresso come tanti altri dall’amministrazione napoleonica, è stato quindi trasformato in caserma.
La struttura, collocata nella zona sud-occidentale della città, ha subito numerose trasformazioni nel corso del tempo; è stata colpita dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale e in seguito recuperata ed adibita ad alloggi militari. (…)
A Udine esisteva da tempo un convento francescano, quando due frati udinesi dell’ordine degli Osservanti sostengono la creazione in città di un proprio convento, distinto da quello già esistente, e nel 1428 ottengono l’autorizzazione a fondarlo sui terreni donati da Tristano Savorgnan, pare ad espiazione dei propri peccati, in quanto autore dell’omicidio di un Patriarca.
Grazie anche alle elargizioni raccolte tra i cittadini nasce così la struttura in Borgo Cussignacco, dotata del tradizionale chiostro, con accanto la chiesa, il campanile, gli orti e il cimitero.
La denominazione di Convento di San Francesco della Vigna non è riconducibile ad un toponimo locale, bensì al Convento di Osservanti già presente a Venezia, a cui la struttura udinese rimane legata. (…)
Le informazioni sulla chiesa e sulla struttura del convento sono frammentarie e poco esaustive, anche perché non è stata rintracciata una descrizione completa antecedente alla trasformazione a scopi militari, avvenuta all’inizio del XIX secolo.
Sappiamo solamente che la chiesa, a tre navate, era dotata di vari altari, con numerosi quadri ed alcuni affreschi. Un alto campanile si elevava sul lato sud, ma nel 1829 risulta gravemente danneggiato da un fulmine, pertanto se ne rende necessaria la demolizione.
Nella chiesa si trovavano le sepolture di numerosi personaggi componenti di nobili famiglie locali.
Il convento era dotato di due chiostri, con un refettorio in cui era presente un dipinto di Pomponio Amalteo, rappresentante l’ultima cena.
Al momento della soppressione nel convento si trovavano 19 camere per i frati ospitati. (…)
Pochi mesi dopo l’inizio della dominazione francese nei territori veneti, nel marzo del 1806, vengono estese anche al Friuli le norme emanate l’anno precedente (giugno 1805) nel Regno d’Italia napoleonico, per l’accorpamento e la soppressione di numerosi conventi e monasteri.
I beni vengono incamerati dal Demanio, che poi provvede a metterli all’asta, ad esclusione di quelli tenuti a disposizione degli organismi militari.
Il Convento di San Francesco della Vigna rientra tra questi, poiché viene requisito e adibito a magazzino di vettovaglie militari e panificio dell’esercito. I frati, che all’epoca dovevano essere circa una ventina, vengono spostati in un’altra struttura.
Invece i terreni retrostanti l’edificio, quelli che venivano utilizzati come orti dal convento, risultano messi in vendita e quindi ceduti ad un privato. (…)
Durante la seconda guerra mondiale la città di Udine venne colpita da vari bombardamenti, soprattutto tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945.
Il 28 e 29 dicembre 1944 i bombardamenti colpirono pesantemente anche il Convento di San Francesco adibito a panificio militare.
Un’interessante raccolta fotografica di proprietà della Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio del Friuli Venezia Giulia risalente agli anni ’50 del secolo scorso illustra in maniera dettagliata i danni sofferti dall’ex complesso monastico. (…)
Il complesso di edifici di proprietà del Ministero della Difesa è stato recuperato dopo la seconda guerra mondiale e adibito ad alloggi per famiglie di ufficiali. In seguito è stato sottoposto a consistenti lavori di ristrutturazione (intorno al 1988), che ne hanno modificato l’assetto, recuperando alcune parti della struttura originaria del convento. La chiesa è stata ristrutturata a cura della Soprintendenza ai Monumenti.
Di questo raccolto, appartato gioiello della storia e della spiritualità cittadine, parla anche la Guida di Udine. Arte e storia tra vie e piazze di Maurizio Buora, da noi altra volta citata (Trieste, Edizioni LINT, 1986, p. 283), alla quale facciamo nuovamente ricorso per completare il quadro relativo a questa gloriosa e ammirevole realtà del passato udinese:
Si prenda poi a metà di via Grazzano via della Vigna, che ha bella prospettiva di case antiche sul lato orientale (al n. 10 chiave di volta con stemma e data 1774).
Il nome, chiaramente agreste, passò al convento e alla chiesa di S. Francesco della Vigna (S. Francesco di fuori, per distinguerlo da quello di dentro, presso l’antico ospedale), che furono costruiti sul terreno donato ai Francescani nel 1427 da Tristano Savorgnan. Questa chiesa ebbe varie modifiche, ospitò alcune tele pregiate e servì come sepoltura ad alcuni membri di famiglie nobili. Qui "aveva sede una Confraternita, detta "della Buona Morte", con lo scopo di assistere i condannati al supplizio. I confratelli ne raccoglievano i cadaveri e li seppellivano ai piedi del campanile; da ciò aveva assunto quel macabro nome (=Calle degli Impiccati) quel vicolo che da via Cussignacco metteva in via della Vigna" (oggi via Pasquale Margreth) (Giovanni Battista Della Porta, "Toponomastica storica della città e del Comune di Udine", Udine, 1928). Nel 1808 chiesa e convento passarono in proprietà dello stato. La chiesa andò semidistrutta da un incendio nel 1855, mentre il convento fu trasformato in forno militare e servì anche come alloggio per famiglie di sottufficiali. Pur danneggiato da un bombardamento nel 1945, il chiostro esiste ancora ed è decorato da pitture secentesche. Per la visita entrare da via Cussignacco al n. 21.
Si pensi e si dica quel che si vuole del medioevo e, in generale, della società che ha preceduto l’avvento della modernizzazione: per noi quegli uomini, che sapevano guardare la morte in faccia, erano dei giganti in confronto a noi, che tremiamo di paura al suo solo pensiero e che, al paragone, siamo appena dei nani, pur con tutta la nostra presunzione scientifica e la nostra fiducia quasi idolatrica nel progresso. La verità è che non sappiamo prenderci cura nemmeno dei nostri morenti, che collochiamo in ospedale, con la scusa di assicurar loro delle terapie migliori, e poi, dopo il decesso, ci rivolgiamo alle agenzie di pompe funebri, affinché si occupino del cadavere e degli atti materiali della sepoltura (o della cremazione, visto che ultimamente è venuta assai di moda questa pratica dal sapore neopagano). Quei nostri antenati, invece, non solo permettevano ai loro vecchi di morire in casa propria, fra le cose e le persone amate; non solo, dopo il decesso, li lavavano e li vestivano per l’ultima destinazione terrena; ma sapevano prendersi cura anche dei cadaveri dei condannati a morte, cioè di persone che non conoscevano affatto e, oltretutto, persone dalla fama assai poco raccomandabile, le quali, come direbbe il Foscolo, avevano lasciato sul patibolo una vita di delitti. Noi moderni, invece, preferiamo lanciarci in appassionate campagne ideologiche contro la pena di morte; e il signore argentino che ora siede, peraltro indegnamente, sulla cattedra di san Pietro, non ha saputo far di meglio che cambiare d’imperio il catechismo, cioè cambiare il Magistero (cosa illecita e contraria al Diritto Canonico) per dichiarare, al § 2267, che in nessun caso la pena di morte è ammissibile, affermazione che contraddice millenovecento anni d’insegnamento della Chiesa. Ma, a parte queste battaglie "di civiltà", del resto opinabili, perché è tutto da dimostrare che la pena di morte non possa essere, in certi casi estremi, anche perfettamente giusta (certo, di quella giustizia imperfetta che è, sempre e comunque, la giustizia umana, ma tuttavia necessaria), resta il fatto che i nostri antenati sapevano che morire bisogna, cosa della quale molti di noi non sembrano più tanto persuasi, e dedicavano tempo ed energie a far sì che tutti, anche i peggiori criminali, godessero dei conforti spirituali prima dell’esecuzione, e dopo ricevessero le estreme onoranze in maniera degna. Erano assai più democratici di noi, in quella sola forma di democrazia che è universalmente condivisibile: il senso dell’uguaglianza degli uomini di fronte alla morte, che tutti ci livella e ci azzera, perché siamo tutti fatti di polvere, e destinati a tornare polvere.