
Omaggio alle chiese natie: la nuova di San Rocco
21 Settembre 2018
Gesù Maestro
22 Settembre 2018È possibile che molti udinesi, se non hanno avuto occasione di recarsi nel cimitero monumentale di San Vito, meglio noto ai più come il cimitero di Viale Firenze, la traversa di destra del viale Venezia che conduce all’ingresso principale, visto che altri cimiteri sono utilizzati dagli abitanti del capoluogo, a cominciare dal cimitero di Paderno, semplicemente non sappia che, al suo interno, vi è una chiesa di notevole imponenza architettonica e di dimensioni non indifferenti, costruita in stile neoclassico nei primi anni del XIX secolo. La sua costruzione ebbe inizio nel 1817, sotto l’impulso della presenza napoleonica che, dieci anni prima, in seguito alla pace di Presburgo del 1805, aveva individuato questa vasta area di ben dieci ettari per la realizzazione di un cimitero urbano, secondo le direttive dell’editto di Saint-Cloud e, più in generale, secondo le linee allora prevalenti nella legislazione in materia di sepolture, dei maggiori Stati europei, Austria compresa, nel quadro delle politiche giuseppine e giurisdizionaliste. La facciata della chiesa di San Giovanni Battista prospetta sul centro del colonnato a semicerchio e si volge in direzione dell’ingresso di viale Firenze, al termine del lungo viale interno. La visita al cimitero è, di per se stessa, molto interessante: la cittadinanza, nel complesso, ignora quali tesori di bellezza e di arte si celino in questo luogo che, anche a causa del mutamento dei costumi sociali e religiosi, ora è frequentato assai meno di una volta e, purtroppo, giace in stato di trascuratezza, se non proprio di abbandono. Per due secoli, dal 1817 a oggi, le famiglie maggiorenti non solo udinesi, ma di tutto il Friuli, hanno affittato delle concessioni cimiteriali e hanno chiamato artisti di notevole bravura, architetti e scultori soprattutto, a realizzare e decorare le proprie tombe e i propri monumenti funebri. Il risultato è una ricchissima galleria di stili e di opere, che vanno dal neoclassico del primo Ottocento alle tendenze più recenti dell’arte contemporanea; nel complesso, però, sia per il numero che per la qualità, si può dire che lo stile più significativo risulta essere quello legato all’art noveau, ovvero lo stile cosiddetto floreale, che furoreggiava nei primi anni del 1900.
Ma ora parliamo della chiesa. Il sevizio religioso di San Giovanni Battista era affidato, nel XIX secolo, a un sacerdote diocesano, incaricato dall’arcivescovo; poi tale servizio ricadde sulle spalle dei cappuccini, la cui presenza in città era antica di secoli, e che avevano un convento in via Ronchi (cui si sarebbe aggiunto, ma per un brevissimo periodo, un altro grande convento in via Chiusaforte, del quale abbiamo già parlato). Però nel 2011 questa presenza, che risaliva al XVI secolo, si è interrotta: i frati, rimasti troppo pochi e per giunta anziani, hanno dovuto chiudere il loro convento, per cui il servizio della chiesa cimiteriale era rimasto "scoperto". A quel punto la celebrazione delle Messe e degli altri servizi pastorali è ritornata di pertinenza dell’arcidiocesi. Nel 2012 questa è giunta ad un accordo formale con il comune di Udine, in base al quale vi è stata una ripartizione delle competenze e delle spese per la manutenzione dell’edificio, e l’orario di apertura di quest’ultimo è stato prolungato, venendo incontro alle richieste delle famiglie i cui cari sono sepolti nel cimitero e che, dopo la partenza dei frati, avevano lamentato qualche scomodità nel servizio religioso. Dal punto di vista architettonico, come abbiamo accennato, la chiesa è più imponente che bella: lo stile neoclassico a cui s’ispira è monumentale, ma alquanto freddo; l’imponenza della facciata, la grandiosità delle colonne, i marmi che decorano l’interno, impressionano, ma non commuovono. Questo, d’altronde, è il limite di gran parte dell’arte neoclassica: anche quando raggiunge risultati di autentica perfezione, come in Antonio Canova — e parliamo sia dell’architetto, sia dello scultore – non si può fare a meno di ammirarne il virtuosismo, tuttavia è indubbio che una parte di noi non riesce ad abbandonarsi, a lasciarsi trasportare da un vero e profondo sentimento, perché un vero e profondo sentimento, probabilmente, non era presente nell’ispirazione dell’artista. Ora, se questo è vero in linea generale, la chiesa di San Giovanni Battista nel cimitero di Udine, per quanto ammirevole sia lo sforzo costruttivo che ne è all’origine, non fa eccezione alla regola.
La nostra rassegna delle chiese natie, sul filo dei ricordi, ci ha portati a svolgere delle riflessioni di carattere generale, prendendo spunto, di volta in volta, da alcune caratteristiche delle chiese considerate. Per la chiesa del cimitero di San Vito, ove pure abbiamo dei ricordi personali e anche qualche persona cara che riposa nell’attesa del Signore — anche se i nonni riposano nel cimitero di Paderno — è inevitabile fare una riflessione su un tema oggi abbastanza dibattuto, anche dalle persone comuni, ma al quale la Chiesa, a nostro avviso, non attribuisce la dovuta importanza; o, se pure lo fa, non colloca la sua pastorale nella prospettiva giusta. Parlare della chiesa di un cimitero equivale a parlare delle esequie funebri e ciò, per un cattolico, non è cosa da nulla: significa confrontarsi con il momento decisivo della nostra esistenza terrena, quello i cui si chiudono le porte su ciò che è legato al tempo, e si spalancano quelle dell’eternità. Fino a una o due generazioni fa, pertanto, vi era una piena consapevolezza del significato simbolico e cerimoniale delle esequie funebri, e specialmente della Messa per il funerale; ma oggi dobbiamo prendere atto che le cose sono profondamente cambiate e la Chiesa non sembra essere capace, o aver la volontà, di dare delle indicazioni chiare e precise. Oggi, a differenza di due secoli fa, non si discute sull’ubicazione e sul ruolo dei cimiteri, come al tempo in cui questo cimitero e questa chiesa vennero eretti, che erano i tempi in cui Ugo Foscolo scriveva i Sepolcri; eppure, a ben guardare, quel che accade oggi è la naturale conseguenza e il culmine della parabola iniziata allora. E come ai primi dell’Ottocento vi fu chi seppe vedere acutamente, come Ippolito Pindemonte, che la nuova legislazione cimiteriale d’importazione francese e rivoluzionaria aveva lo scopo preciso di togliere sacralità al funerale e di indebolire la fede nella vita dopo la morte, così ora si vedono e si toccano con mano i frutti velenosi di due secoli di cultura irreligiosa, atea e materialista, alla fine dei quali si è giunti a proclamare che l’uomo è un animale, in tutto e per tutto un animale, e sia pure dotato d’intelligenza, e che non esiste per lui alcun destino eterno, come non esiste per i conigli o per i polli. Sicché si assiste a questo duplice fenomeno, che tende ad incrociarsi: da un lato i cattolici danno sempre meno importanza alla tradizione delle esequie cattoliche, ad esempio con l’uso, ormai piuttosto diffuso, della cremazione al posto della inumazione; dall’altro, l’abitudine di chi cattolico non lo è di servirsi comunque delle chiese cattoliche per chiedere e ottenere dai parroci delle cerimonie laiche, non cattoliche, e neppure religiose, dove, sull’onda delle note di Bob Dylan o di qualche altro cantante jazz, blues o rock, il sacerdote, chi lo sa perché, accompagna nell’ultimo viaggio la salma di un non battezzato, i cui parenti non credono nella vita eterna, come non ci credeva lui, e tuttavia si aspettano che un prete si presti a officiare una specie di cerimonia civile che è la negazione di tutto ciò che da sempre la Chiesa cattolica professa, insegna e ritiene come cosa certa e sacra riguardo al fatto della morte e del destino dell’anima.
Ora, se è vero che la dottrina cristiana non prescrive la sepoltura, questa però fa parte della sua specifica tradizione, e per una ragione precisa: secondo la filosofia del memento, homo, quia pulvis es et in polverem reverteris, l’uomo, per la sua parte materiale, così come viene dalla terra, alla terra deve ritornare; senza contare che la cremazione implica la conservazione delle ceneri del defunto, e ciò ha un sapore pagano, perché era appunto quel che facevano i greci e i romani, trasformando le loro case in templi domestici per gli spiriti dei defunti. È quindi evidente che c’è una implicazione paganeggiante, legata a una cultualità della parte materiale dell’uomo, a scapito della riflessione sul suo destino immortale; e che vi è l’ombra lunga di un principio laicista di autodeterminazione, lo stesso principio che, in vita, spinge tante persone, anche sedicenti cattoliche, a praticare il divorzio, l’aborto e l’eutanasia, considerandoli un legittimo esercizio di libertà della persona. Il substrato di questa mentalità, profondamente impregnata di laicismo, è che la vita è dell’uomo, e l’uomo la vive secondo il proprio giudizio morale; e che lo stesso principio deve valere per le esequie. La Chiesa, secondo noi, ha avuto troppa fretta di dire di sì alla cremazione per quei cattolici che la vogliono: preoccupata, come sempre dopo il Concilio, di tenere il passo del mondo, di non apparire retrograda e, soprattutto, di non apparire autoritaria, ha ceduto su tutta la linea su una questione che, se non è di dottrina, né di fede, è però attinente alla Tradizione: Gesù per primo è stato sepolto, non è stato cremato; e Lui dovrebbe essere il modello infallibile, sempre e comunque. È in gioco la virtù cristiana dell’umiltà: scegliere un altro modo di rendere alla terra le proprie spoglie mortali sa di superbia, come se fosse possibile, per un cristiano, credersi in diritto di scegliere qualcosa che Gesù non ha scelto. È già molto che la Chiesa abbia adottato la linea pietosa nei confronti dei suicidi, ossia di non negare le esequie cattoliche a chi si è tolto la vita volontariamente: fino a tempi non lontani, essa, in tali casi, le rifiutava. Ma, come abbiamo altra volta osservato, oggi nella neochiesa non fanno testo i quattro Vangeli canonici, bensì il quinto vangelo extra-canonico, quella di Fabrizio De André: il quale ha stabilito, nella sua Preghiera in gennaio — che non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio. Un principio che piace tanto al Signore argentino, il quale lo ha ribadito nel corso di una delle sue scandalose chiacchierate-interviste con Eugenio Scalfari: niente inferno, dato che l’anima dei cattivi, semplicemente, cessa di esistere; salvo poi affidare una goffa e insincera smentita alla sala stampa vaticana. La sua solita tecnica: tirare il sasso contro la dottrina cattolica e poi nasconder la mano. Ormai conosciamo bene questa sua strategia gesuitica.
Allo stesso modo, ci sembra che la Chiesa abbia imboccato la strada sbagliata nel prestarsi ad accogliere qualsiasi richiesta da parte di famiglie non cattoliche riguardo alle esequie di un loro congiunto. Accettando di imprestare le chiese per la celebrazione di una sorta di cerimonia laica, nella quale si suona la chitarra e si recita qualche verso di questo o quel poeta, o di questo o quel cantante, e non si nomina neppure Dio, per non parlare di Gesù Cristo, insomma dove l’estremo addio al defunto viene dato in forma puramente e deliberatamente laicista e irreligiosa, la Chiesa si è assunta una grave responsabilità. Si è trasformata in una succursale delle agenzie di pompe funebri, prestandosi a ciò che non appartiene alla sua Tradizione, né, soprattutto, alla sua funzione. La morte, per il cristiano, è una cosa seria: ed è una cosa seria perché pone l’anima di fronte al giudizio, quindi alla realtà dell’inferno o del paradiso. Sono i Novissimi: tutti i cattolici li conoscevano, perché li avevano studiati al catechismo; oggi, forse, vi sono moltissimi giovani che non ne hanno mai neppure sentito parlare. Ora, se le chiese diventano delle camere ardenti per ospitare riti di commiato dal sapore apertamente pagano e irreligioso, non si vede proprio perché ai cattolici viene invece insegnato che il funerale celebrato dalla Chiesa è l’estremo commiato della comunità dei credenti all’anima di un altro credente, la quale si appresta a subire il giudizio di Dio. Non è credibile una neochiesa che accetta di prestarsi sia all’uso proprio delle chiese, per i funerali cattolici, sia all’uso improprio, per i funerali atei, di solito con tanto di applauso finale. Se uno è ateo e non vuol sentir parlare di Dio, né di Gesù Cristo, né della sua Chiesa, non si capisce perché poi si presenti a un sacerdote per chiedere che il suo caro defunto riceva l’estremo saluto dei parenti e degli amici dentro una chiesa, e perché mai il sacerdote dovrebbe prestarsi a presiedere una cerimonia in cui non si parla né di peccato, né di grazia, né di eternità, né di Gesù Cristo, e neppure di benedizioni. Una cerimonia in cui l’uomo, che ha vissuto rifiutando Dio, scende nella tomba continuando a rifiutare Dio e a sbandierare, per bocca dei suoi amici e parenti, la sua incredulità rispetto al destino eterno dell’anima. Per quale ragione la Chiesa dovrebbe prestarsi a tutto questo? Per non dispiacere ad alcuno? Per una forma malintesa di misericordia e di rispetto? Ma la misericordia degli uomini non può abbracciare quanti rifiutano la misericordia di Dio, e soprattutto non può sostituirsi ad essa. L’uomo non deve fare quel che Dio non vuol fare: e Dio non può accogliere chi a Lui non si rivolge, chi lo rifiuta, chi ha sempre vissuto disprezzando la sua legge: per la contraddizion che nol consente. Se invece la Chiesa si presta a fare questo, allora vuol dire che ha deciso di abdicare al suo ruolo e di trasformarsi in un’altra cosa: in una società filantropica, dove non si nega niente a nessun e non si dice mai di no, ma sempre e solo di sì, facendo finta che dire sempre di sì sia la forma più alta di amore verso il prossimo, mentre è vero il contrario: che chi ama per davvero, sa dire anche dei no che risultano di beneficio per le anime. Ed ecco svelato il grande inganno: oggi si fa finta, sia tra il clero neomodernista e i cattolici progressisti, sia fra i non cattolici, i radicali, i massoni e tutti i nemici del cristianesimo, che sono però, guarda caso, ammiratori sfregatati del signore argentino e della sua neochiesa, che amare molto voglia dire assecondare sempre i desideri altrui. Solo chi ha amato davvero sa che questa è una grandissima menzogna, e che il vero amore di un padre per suo figlio, ad esempio, consiste nel saper dire di no, quando ciò sia giusto e necessario per il suo bene. Il padre che dice sempre di sì è un demagogo che ha deciso di sottrarsi del tutto alle sue precise responsabilità di genitore; è uno che non sa amare…