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22 Settembre 2018Abbiamo già parlato della vecchia chiesetta di San Rocco, nella via omonima, una laterale di sinistra di viale Venezia, uscendo dal piazzale XXVI Luglio, che è diventata chiesa sussidiaria da quando è stata costruita proprio lì accanto, all’angolo di via san Rocco e via della Roggia, una nuova parrocchiale: un edificio della seconda metà del XX secolo, in stile ultramoderno, che contrasta in maniera stridente, sia dal punto di vista architettonico che da quello spirituale, con il precedente edificio, risalente a più di cinque secoli fa, per la precisione al 1510. Può darsi che si sia pensato e creduto di far vedere la continuità millenaria della Chiesa cattolica, ponendo la vecchia e la nuova parrocchiale l’una accanto all’altra, come in un ideale diorama storico e artistico, come a dire ai fedeli: Vedete? Siamo sempre gli stessi; forme nuove per esprimere la religione di sempre, quella fedelmente custodita dai nostri padri, nel corso di tante generazioni. Tuttavia, se davvero l’intenzione è stata questa, bisogna dire che l’effetto, ottico e psicologico, non conferma affatto una simile pretesa di continuità: tutto al contrario, evidenzia in maniera addirittura impietosa il fatto che qualcosa è bruscamente cambiato; che c’è stata una drammatica rottura, non solo liturgica e pastorale, ma proprio dottrinale e teologica; e che tale rottura ha un nome e una data precisi: il Concilio Vaticano II, dal 1962 al 1965. La nuova chiesa di san Rocco, infatti, non ha aspettato nemmeno la conclusione di quell’evento: è stata interamente realizzata nel 1964, quando il Concilio era ancora in corso e alcuni dei suoi documenti più rivoluzionari non erano stati ancora formulati e resi pubblici.
Questa bruttissima chiesa, la cui facciata farebbe pensare immediatamente a uno stadio o a un teatro, ma non certo a un edificio sacro, se non fosse per la croce che svetta, in maniera piuttosto incongrua, sul tetto, è stato ideato e realizzato su progetto dell’architetto Tiziano Dalla Marta di Tolmezzo. Si tratta di un grande corpo esagonale, sopraelevato rispetto alla strada e preceduto da un’ampia scalinata, con tre facciate d’ingresso; quella principale, che dà su via della Roggia, presenta un portale preceduto da un’ampia pensilina in cemento armato, che ricorda quella di una pompa di benzina, sopra il quale si aprono due alte e strettissime finestre e, più in alto ancora, un ampio finestrone ad arcata ribassata che somiglia, in tutto e per tutto, quello di un palazzetto dello sport, o forse di un cinema multisala, oppure di un auditorium comunale. Nonostante la cornice paesaggistica sia gradevole, vie tranquille con molto verde e case basse e dignitose (proprio di fronte, all’angolo di via Luigi Pio Tessitori, c’è una deliziosa casa rustica di tipo ottocentesco, con le finestre massicce, il tetto in cotti e un portone ad arco in pietra), la chiesa, in sé, è inutilmente anonima, come se volesse adeguarsi a chissà quale anonima periferia urbana, fatta di fabbriche e grattacieli, per marciare al suo stesso passo: inutile sfoggio di modernità nella peggiore versione possibile, quando ci sarebbero stati sia lo spazio che le condizioni stilistiche per esercitarsi in un genere di modernità più in armonia con la tradizione. Tiziano Dalla Marta, come ci informa un articolo di Ermes Dorigo del 06/02/17 sul blog di Aldo Rossi, non era friulano e non era solo archetto; era di origine veneta, trapiantato nel capoluogo della Carnia, e all’attività di architetto affiancava quella di pittore. Era nato a Povegliano Veronese il 9 novembre 1922e dopo le vicende dell’8 settembre 1943 si era stabilito in Friuli, ricoprendo importanti cariche pubbliche: sindaco di Prato Carnico per sei anni, dal 1949 al 1955, e poi sindaco di Tolmezzo per dieci, dal 1955 al 1965; a quest’ultimo periodo appartiene la sua progettazione della nuova chiesa udinese di San Rocco. Come pittore, le sue opere ricordano lo stile quattrocentesco, un po’ come quelle di Massimo Campigli, filtrate attraverso l’esperienza futurista e, in parte, cubista. È un peccato che, come architetto, non abbia saputo realizzare lo stesso equilibri fra la tradizione e il presente, o forse è un monito; benché la sua ispirazione di fondo sia cristiana, pare non essersi accorto che modernità e cristianesimo, modernità e tradizione presentano valori in sostanza inconciliabili.
Questa è la descrizione tecnica della chiesa sul sito www.chieseitaliane.chiesacattolica.it:
Edificio a pianta centrale di forma esagonale con presbiterio a triangolo smussato, orientato a ovest, con scalinata di sette gradini; locali di sacrestia parallelepipedi a due piani aggettanti ai lati del corpo del presbiterio; ingresso secondario sul lato destro tra l’aula e il presbiterio. L’architettura è in tricromia: rosse le pareti, grigio chiari i pilastri e verdastra la copertura. I tre prospetti, centrale e laterali, sono caratterizzati dal paramento in mattoni a vista, con cornice cementizia marcapiano e due asole vetrate verticali, incorniciati dai pilastri portanti in cemento raccordati ad arcata ribassata con finestrata termale; il portale centrale è affiancato in diagonale da una coppia di ingressi ai lati dei pilastri laterali a sprone che sostengono la profonda pensilina in cemento armato; manto di copertura a spioventi in lastre di rame con castello campanario entro guglia metallica sull’apice. All’interno le strutture a travi rilevate in cemento armato congiunte al centro a mo’ di volta ad ombrello sono lasciate a vista fino alla sommità della cupola e offrono all’ambiente ossatura di compattezza ed austerità. Tre ampie finestrate termali e oculo zenitale. I setti parietali sono intonacati chiari. Lungo ciascun lato del presbiterio al di sotto della cornice marcapiano aggettano due vani a sezione triangolare con nicchia a cappella e asole vetrate laterali. Il presbiterio dai lati convergenti verso la parete di fondo è raggiungibile con una gradinata di cinque gradini, alle cui estremità, prospettano due amboni a pergamo (in quello di destra è stato collocato il fonte battesimale); a destra la porte della sacrestia. Edificio a pianta centrale di forma esagonale con presbiterio a triangolo smussato, orientato a ovest, con scalinata di sette gradini; locali di sacrestia parallelepipedi a due piani aggettanti ai lati del corpo del presbiterio; ingresso secondario sul lato destro tra l’aula e il presbiterio. Pavimentazione omogenea in lastre ocra chiaro.
Quella di cercare una impossibile conciliazione fra la modernità e la fede cristiana, fra la modernità e i valori evangelici, è, in effetti, la questione centrale e decisiva per tutti coloro i quali, trovandosi ad essere, anche loro malgrado, cittadini della civiltà moderna, vogliono però essere, anzitutto e sopra tutto, dei veri cristiani e dei veri cattolici, con una visione del mondo pienamente cattolica, cioè universale. La modernità, in se stessa, non è universale: non lo è né in senso geografico — è lo stadio finale della civilizzazione dell’Occidente, nel senso che Spengler e altri davamo alla "civilizzazione", cioè la fase tarda e degenerativa di una civiltà — né, quel che più conta, in senso spirituale, perché esclude e rifiuta il legame con la tradizione, rompe i ponti col passato e quindi si rende impermeabile a un vero dialogo con i propri padri, a dispetto del suo proclamato ed esasperato storicismo. E qui, probabilmente, sta la sua contraddizione più grossa. Da un lato, la modernità si pone come la quintessenza del divenire storico, secondo lo schema delineato da Hegel e ripreso da Marx e da quasi tutti gli altri pensatori del XIX e del XX secolo, cioè secondo uno schema dialettico basato sul superamento della tesi mediante l’antitesi, che porta ad una sintesi più "progressiva"; dall’altro, proprio perché tende ad assolutizzare se stessa, e a divinizzare i propri fondamenti — il progresso, la velocità, la scienza e la tecnica – di fatto esce dall’ambito di ciò che è storico ed entra in un ambito propriamente metafisico: pretende di diventare una nuova religione. Ed è ovvio che due religioni non possono convivere, rivolgendosi alla totalità degli uomini, cioè presentandosi entrambe come universali, senza che una delle due finisca per prevalere sull’altra. Ma la modernità, universale non lo è, per la ragione che abbiamo detto: nella sua rigidità, non sa rivolgersi a tutti gli uomini e non sa o non vuole abbracciare anche il passato. La modernità è la quintessenza dell’ideologia del progresso; il cristianesimo è la quintessenza dell’idea della perennità del divino: non possiedono un terreno comune sul quale confrontarsi Di fatto, i cattolici che vogliono farsi seguaci del progresso cessano di essere cattolici, anche se non lo sanno, e diventano seguaci della modernità, con tutti i suoi riti e i suoi miti. Questa duplicità, o meglio, questa contraddizione, è emersa, o per meglio dire è esplosa, con l’evento del Concilio Vaticano II. I cattolici, in quanto tali, dovrebbero saper storicizzare ciò che appartiene al tempo, e tener fermo, al contrario, su ciò che appartiene all’assoluto; pertanto, dovrebbero vedere nel Concilio un evento storico, con le sue ombre e le sue luci, suscettibile di una lettura in chiave storica. Invece, i loro presupposti ideologici di tipo progressista li portano ad assolutizzare l’evento storico del Concilio e a trasformarlo in un evento mitico, o meglio metafisico: un qualcosa di assoluto, di imprescindibile, di definitivo; una seconda Pentecoste. Ciò li porta dritti verso l’eresia; ma, appunto, essi non se ne accorgono neppure. Tutto al contrario: sono più che mai persuasi di rappresentare il vero cristianesimo, dopo un lunghissimo periodo di inautenticità e di travisamento, e che lo strumento per fare ciò sia appunto l’evento del Concilio, così come lo leggono e lo "applicano", nella maniera che, per essi, è la più giusta, la più coerente e la più fedele al Vangelo: e non vedono che stanno invece tradendo il Vangelo, perché il Vangelo è l’elemento definitivo e trascendente, che supera la storia umana e che la conclude, ponendovi il sigillo di Dio, oltre il quale non c’è, né mai potrebbe esserci, una "nuova Pentecoste".
Non è possibile predire che cosa ci riservi il domani, ma una cosa è certa: la Chiesa non riuscirà a superare la crisi drammatica che l’attanaglia sempre di più, e la società tutta non riuscirà a rinnovarsi e a dotarsi di un nuovo slancio vitale, tornando a coltivare la speranza e a divenire prolifica anche dal punto di vista demografico, se non si farà strada una presa di coscienza che sveli l’impossibilità di conciliare la modernità con una sana concezione spirituale della vita e che restauri i valori assurdamente disprezzati e rifiutati, mettendo al bando, viceversa, i falsi valori — primo fra tutti, una falsa idea di libertà, intesa in senso puramente edonistico e distruttivo – che ci stanno portando letteralmente verso l’autodistruzione. Tornando al nostri discorso iniziale: che cosa prova il fedele, dopo aver varcato il portale della nuova chiesa di San Rocco, a Udine, entrando nell’aula? Prova l’impressione di essere entrato in una palestra o in un tempio massonico. Anche se un grande crocifisso fa bella mostra di sé, appeso sopra l’altare, e le formelle della Via Crucis si snodano lungo le pareti, non si percepisce alcun senso di spiritualità, e tanto meno si sente di essere entrati in una chiesa cattolica. I simboli del cattolicesimo sono veramente ridotti al minimo indispensabile; la decorazione non esiste; non c’è nulla che parli al cuore, nulla che sollevi l’anima per accompagnarla verso la contemplazione del divino. In effetti, se in fosse per la presenza dei banchi, ci si potrebbe trovare benissimo in un hangar o in un’autofficina: le sensazioni sono quasi le stesse, a parte la pulizia e la tranquillità dell’ambiente. Ci sono decine di metri quadrati di superficie, lungo i muri e sul soffitto, ma non si vede neppure l’ombra di un affresco. Si direbbe che chi ha progettato questa chiesa ritenesse, come gli islamici, che tentar di raffigurare Dio sia una cosa poco bella, e che, come i luterani, non si devono esporre troppe immagini degli Angeli, dei Santi e della Vergine Maria. Ma tutti questo non è un bene; è un male. È male che una chiesa non custodisca la fede e non incoraggi la spiritualità; è male che somiglia a un luogo profano. Una chiesa dovrebbe essere quel che le foreste sono per l’ecosistema terrestre: una sorgente di aria pura, ove l’anima degli uomini possa respirare e rigenerarsi. Ma se una chiesa cessa di svolgere questa funzione e preferisce assomigliare ai luoghi che non rigenerano l’anima, ma la prosciugano; che non alimentano la fede, la speranza e la carità, ma che trasmettono sentimenti puramente umani, in una prospettiva puramente umana, chi svolgerà allora quella funzione? E se la bellezza della liturgia, collocata nella cornice di un’arte sacra che le faccia adeguatamente da sfondo, non è presente per indirizzare l’anima verso l’uomo spirituale, questi non nascerà mai, e rimarrà sempre, greve, pesante, angosciato, il vecchio uomo carnale, incapace di levare lo sguardo verso il Cielo. Se vuole sopravvivere e conservare il Deposito della fede da lasciare alle future generazioni, la Chiesa cattolica deve ritornare sulla strada della Tradizione, che ha abbandonato a partire dal Concilio: smettere di imitare e corteggiare il mondo e tornare ad essere se stessa, con la sua proposta di conversione e di vita radicalmente alternativa alle logiche del mondo, per favorire la nascita dell’uomo spirituale, mentre l’attaccamento alle cose del mondo fa sì che l’anima resti prigioniera del vecchio uomo carnale. Il male è entrato nella Chiesa quando la fazione progressista ha lanciato il guanto della sfida agli altri cattolici, relegandoli nella posizione di "tradizionalisti", mentre essi volevano solo continuare ad essere cattolici. La sfida consiste nel trasformare la Chiesa cattolica in una grossa chiesa protestante che di cattolico conservi solo il nome, nonché in una agenzia filantropica, ispirata a un credo ambientalista, umanista e socialista, simile in molti punti essenziali al credo massonico e radicale. Ma l’esito non è scontato…