
Omaggio alle chiese natie: S. Anna, a Paparotti
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Omaggio alle chiese natie: San Domenico
13 Settembre 2018L’autentico progresso è un avanzamento del tutto mediante l’accrescimento delle parti e un perfezionamento del sostanziale mediante un potenziamento dell’accidentale; il falso progresso, dal quale derivano tutti i pestilenziali progressimi della modernità, è lo scavalcamento del tutto condotto dalle parti, e del sostanziale da parte dell’accidentale, ossia il perfezionamento delle parti fine a se stesso, ignorando o contraddicendo il bene del tutto. Per fare un esempio: falso progresso è aumentare la velocità di produzione delle merci o di spostamento delle merci e delle persone, in assenza di un progetto complessivo, economico e sociale, finalizzato al bene dell’uomo. Altro esempio: insegnare più cose a un bambino, fargli fare più attività, renderlo esperto di più abilità tecnologiche, in assenza di un progetto educativo complessivo e perfino in assenza di una idea coerente e rispettosa del vero su cosa sia il bambino, su cosa sia la natura umana, su quali siano i bisogni spirituali, oltre che materiali, ai quali l’educazione è preposta. Il falso progresso, che, nella cultura oggi imperante, è divenuto il progresso tout-court, mentre ne è l’esasperazione cieca e unilaterale, è la barbarie dei mezzi che sovrastano i fini, o, addirittura, dei mezzi che ignorano i fini, e dell’accidentale che ignora e disprezza il sostanziale. Ed è la perversione dell’idea di libertà. Quando il mezzo diventa fine e quando il fine viene ignorato e negato; quando l’accidentale prevale sul sostanziale e si sostituisce ad esso, la società impazzisce e corre verso l’autodistruzione. Niente e nessuno potranno scongiurare la catastrofe finale, tranne un soprassalto di consapevolezza e un ritorno al corretto rapporto che deve esistere tra mezzi e fini, accidente e sostanza: i mezzi devono essere subordinati al fine, perché essi, da soli, sono ciechi, non sanno dove andare, e trascinano l’insieme in una logica esiziale, dominata dalle parti e da ciò che è accidentale. Naturalmente, non si può tirare la corda all’infinito e sperare di poter tornare indietro, in qualsiasi momento, come se niente fosse: esiste un punto di rottura, e quindi un punto di non-ritorno. La nostra società ha già raggiunto e oltrepassato il proprio punto di rottura? È questa la grande domanda, verso la quale si protendono ansiosamente tutti gli spiriti pensosi e responsabili.
Umanamente parlando, forse, quel punto lo abbiamo già raggiunto e superato; umanamente parlando, perciò, la nostra civiltà è avviata sulla china di una decadenza inarrestabile e irreversibile. A Dio, però, nulla è impossibile: Lui può, nei tempi e nei modi che la Sua infinita provvidenza conosce, trarre gli uomini fuori da questa palude, risollevarli da questo processo degenerativo, aprire i loro occhi affinché essi vedano, mentre ora sono come ciechi o ubriachi i quali credono di vedere e di capire, mentre stanno semplicemente correndo verso l’abisso, inebriati da un falso sapere ed esaltati da un falso progresso. Il progresso della tecnica, della produzione, dell’efficienza, del profitto: non importa di chi; dei profitti di tanti o di pochi — di pochissimi, in effetti – perché nel falso progresso la domanda non è mai: per chi?, anzi, non ci sono domande, ma solo affermazioni, che si riducono in ultima analisi a questa: Di più, sempre di più! Il che è diabolico; non per caso abbiamo sostenuto, in numerose occasioni, che la cosiddetta civiltà moderna è, a tutti gli effetti, la civiltà del diavolo. Non per un acre gusto apocalittico, o per un compiacimento nel catastrofismo, ma per una valutazione precisa e una analisi serrata dei contenuti specifici della modernità: una anti-civiltà che nasce da un rifiuto del Principio e quindi da un rifiuto della subordinazione delle parti al tutto, e di una giusta relazione dialettica tra mezzi e fini, tra ciò che è accidentale e ciò che è sostanziale, fra le creature e il loro Creatore. Una civiltà nella quale le parti si rifiutano di servire il tutto, e in cui i mezzi pretendono di andare avanti per conto loro, incuranti o indifferenti ai fini, è la civiltà del diavolo, perché il diavolo gode del nichilismo e coltiva la confusione. E quale confusione più grande questa, quale nichilismo più disruttivo di questo: andare avanti, a tutta velocità, senza chiedersi dove e senza chiedersi perché; e potenziare e perfezionare incessantemente ciò che è accidentale, tecnologia compresa, ignorando in maniera sempre più radicale, e sempre più paradossale, ciò che è essenziale, cioè la vera natura dell’uomo, i suoi veri bisogni, le sue autentiche aspirazioni?
Scriveva il filosofo Pier Paolo Ottonello, discepolo di Michele Federico Sciacca, per molti anni ordinario di Filosofia presso l’Università di Genova, autore di oltre seicento pubblicazioni, nei Saggi rosminiani (Venezia, Marsilio, 2005, pp. 39-41):
Papini, nel suo "Giudizio universale", fa esprimere questo dubbio al "coro dei disperati" che immagina rinchiusi fra le due muraglie dell’inutile e dell’impossibile; in questa forma: "se le parti ad ogni istante finiscono, perché non dovrebbe finire, nell’ultimo degli atti, anche il tutto?". Nella stessa opera Paini individua i padri dei "disperati" in coloro che subirono passivamente — come fa dire all’immaginato ultimo papa, Paolo VII — "le promesse di felicità materiale, della pace dell’uguaglianza", e "l’appetito di cose nuove". Immagini forse eloquenti delle conseguenze di una sostanziale degenerazione e corruzione della stessa idea di progresso. La chiave di tale dinamica consiste, in breve, in una concezione riduttiva del progresso: il fine proprio del progresso personale e storico, ossia la perfezione sostanziale della persona singola e della società di cui è membro, e dunque dell’intero genere umano, viene ridotto, di volta in volta, ad alcuni mezzi per tale fine, se pure importanti per se stessi, i quali sostituiscono il fine stesso. Ne consegue, di necessità, che la perfezione sostanziale viene ridotta all’insieme di perfezioni accidentali, che la sostituiscono annullandola. (…)
Il radicale desiderio di progresso si attua come progresso nel negativo: ossia come regresso: tanto più pericoloso e sterile quanto più continua a cercare di nobilitarsi con etichette di volta in volta appetite o appetibili, secondo il lato deteriore delle dinamiche della moda. Entro tale dinamica, progressismi e passatismi si esasperano reciprocamente, reciprocamente dilaniandosi: fino a omogeneizzarsi in modo esiziale, denunciando la loro comunanza nell’errore, ossia nello scambio tra fini e mezzi. A tali limiti estremi perviene chiunque riduca o neghi il significato dei fini costituitivi della persona nella loro relazione con il suo assoluto Principio. Di fatto, la contemporaneità per lo più giudica antiprogressive o barbariche le civiltà premoderne, in quanto tutte incardinate, pur in forme anche profondamente diverse, nella relazione fondatrice fra il mondo tutto e l’assoluto suo Principio: generatore od ordinatore, e come tale Padre sostanzialmente provvidente della natura e dell’umanità e loro supremo motore e legislatore. Liberarsi dell’ordine dei principi e dei fini, in breve, di qualsiasi forma di ordine oggettivo, appare in questo senso l’impresa con la quale si identifica la modernità, sino alle sfrangiature odierne più scoperte: che sembrano aver slavato soltanto il dogma di un assoluto "post", dopo avere tendenzialmente dissolto anche ogni riferimento a tutto ciò rispetto a cui qualsiasi "post" può cominciare e continuare a essere tale. Sul piano teoretico, indubbiamente, la esaltata fine del millennio resta del tutto immersa — o sommersa — entro la ottocentesca identificazione dialettica hegeliana essere-divenire. La sua coerenza è infatti la negazione di ogni senso metafisico dell’ente in quanto tale, che diviene il perno del programma del "superamento" nietzschiano di ogni differenza: fra essere e divenire, fine e mezzi, positivo e negativo. La "libertà" da tali differenze metafisiche si smaschera subito, in Nietzsche stesso, e lungo tutto il nostro secolo, come il niente di libertà, come radicale necessità dell’essere-per-il-nulla: la libertà è sì "perfetta", ma come libertà da ogni forma possibile di libertà, come necessità infernalmente scelta e perseguita. L’odiato Platone, il cui Demiurgo è concepito come Padre e provvidente, naturale profeta della coniugazione cristiana di libertà umana e grazia divina, è finalmente lontanissimo, deformato od omesso. L’eliminazione di Platone, non a caso, storicamente è sempre stata, e lo è anche oggi, tutt’uno con la eliminazione del cristianesimo. Tutte le forme di "novus ordo", generate dalla modernità sulla base della dissoluzione progressiva della oggettività metafisica dell’ordine, in questo senso rivelano un fondamentale elemento comune: la liberazione dal Padre. Non certo nelle forme di positive liberazioni dalle varie paternità putative o spurie, comunque interessate e "sterili". A volerlo dire in forma icastica, difficilmente perdonabile, è proprio il nostro secolo, nipote dell’illuminismo, a sbandierarsi — non solo in Freud — come il TRIONFO DEL BASTARDO.
Ottonello è stato un notevole pensatore, e la sola ragione per cui è oggi così poco noto il suo nome, insieme al suo pensiero, risiede unicamente nel fatto che le sue idee non collimano con la cultura dominante, con la silenziosa ma ferrea dittatura del pensiero unico progressista di derivazione hegeliana e marxista; anzi, sono in perfetta antitesi alla visione materialistica e nichilistica che è sottesa alla cultura oggi dominante. Vi sono dei tesori di saggezza e di acutezza nelle opere di Pier Paolo Ottonello, che meriterebbero di essere riscoperti. Se esistesse un criterio di giustizia intellettuale, i libri di Ottonello dovrebbero essere letti e conosciuti molto più di quelli di Massimo Cacciari o di Umberto Galimberti, i quali, al confronto, appaiono straordinariamente sbiaditi, per non dire banali, sia nell’argomentazione razionale che negli esiti speculativi. Che cosa dicono, alla fine, Cacciari e Galimberti, per non parlare di Umberto Eco? Nulla: praticamente nulla. Che cosa aggiungono al pensiero contemporaneo, in che cosa hanno reso un servizio alle intelligenze? In nulla, assolutamente in nulla. Sfidiamo chiunque a spiegarci in che cosa questi filosofi alla moda hanno fatto progredire, sia pure d’un millimetro, il pensiero; quale sia il pur minimo spiraglio di originalità che hanno dischiuso, quale sia il pur minimo filo di aria fresca che hanno lasciato entrare nell’ambiente chiuso e stantio della cultura contemporanea. Che cosa viene in mente di nuovo, di vero, di grande, quando si citano i nomi di un Cacciari o di un Galimberti, o, a maggior ragione, di un Eco? Nulla, assolutamente nulla. Sono i filosofi del nulla, a dispetto del fatto, o proprio per il fatto, che li si vede sempre in televisione, o a tenere conferenze in giro per l’Italia, e a presentare i loro ultimi libri, a firmare le copie per il pubblico plaudente. Hanno grosse case editrici alle spalle, grossi agganci con il mondo universitario, grosse entrature con la politica, e tutto un sistema mediatico di pubblicità: la gente accorre per vederli, per ascoltarli e ammirarli, come fossero oracoli di scienza e di sapere. Ma la verità è che sono maestri del nulla; che non hanno nulla da dire; che lasciano dietro di sé il nulla, e non arricchiscono d’uno iota il campo del pensiero umano. Al contrario, il pensiero di Pier Paolo Ottonello si presenta come una magnifica costruzione speculativa, sulla scia dei grandi filosofi e teologi medievali; come una costruzione armoniosa, complessa, sapiente, come una fuga di Bach, ove tutte le parti concorrono al fine: il ritorno dell’uomo al suo Principio, la reintegrazione dell’uomo in Dio. È per questo che il suo pensiero dà fastidio, e la cultura materialista e nichilista dominante si vendica nella maniera che le è consueta: ignorandolo, disdegnandolo, seppellendolo sotto la coltre dell’oblio. Per capire la statura dell’uomo e la profondità e l’autonomia del suo pensiero, ci sia concesso citare altri due brani di Pier Paolo Ottonello. Questo: L’Europa, da almeno centocinquant’anni, moltiplica le prove della propria inesistenza. Infatti dagli abortiti imperi di Napoleone e di Hitler sono state partorite nuove generazioni di europeismi. Gli europeismi son le velleità di Europa, i fantasmi di Europa, che tanto più ne comprovano l’inesistenza quanto più si ergono ad alibi della sua distruzione o del suo tramonto. E questo: la grande scissione moderna è fatta risalire all’unica causa della riforma, che provoca l’assopimento mortale del cristianesimo sotto la pressione della vita economica. Sono tratti, entrambi, dal volume Il nichilismo europeo (Venezia, Marsilio, 2015).
Il punto centrale dell’analisi critica di Pier Paolo Ottonello alla modernità è il riconoscimento della falsificazione del concetto di libertà. Tutto il resto, anche la degenerazione dell’idea di progresso, discende da quello. Se la libertà si riduce alla libertà di fare qualsiasi cosa, quello che piace, quello che va a genio, insomma di assecondare ogni istinto, ogni impulso, ogni capriccio, ogni emozione (come oggi si usa dire, sempre più spesso, quasi che la massima aspirazione degli uomini fosse quella di andare a caccia di emozioni), allora tutto crolla, tutto si risolve nella nebbia del relativismo e dell’edonismo. Per questo la cultura moderna nega l’esistenza di un ordine metafisico costituito, nega perfino l’esistenza di una morale naturale: esso vorrebbe rifare l’uomo di sana pianta, solo per poter affermare il suo dirotto a decidere da sé la morale, e quindi di farsi il dio di se stesso. Anche per questo verso torniamo alla nostra affermazione precedente: che una simile civiltà è la civiltà del diavolo. Il serpente disse a Eva: Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male. E dunque: la civiltà moderna è la prima che, diabolicamente, vuole sostituire il culto dell’uomo a quello di Dio…
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