
Arrivare a Dio è spogliarsi di ciò che non è Dio
6 Settembre 2018
Per Bergoglio l’aborto non è un problema religioso
7 Settembre 2018La società è forte quando si basa sulla stabilità degli affetti, e perciò, in ultima analisi, quando si basa sulla famiglia, vista come una unità organica, essenziale, irrinunciabile, che non deve essere messa a repentaglio alle leggera, anzi, che non deve mai essere messa in discussione, se non in casi rarissimi e assolutamente eccezionali, di comprovata e urgente necessità, ma che, in via ordinaria, deve essere considerata come una realtà definitiva e indissolubile, come lo era per i nostri nonni e tutti i nostri antenati. Certo, allora non c’era il divorzio: e quindi, come amano ripetere i progressisti di ogni tinta e gradazione, compresi molti cattolici e perfino qualche sacerdote, come padre David Maria Turoldo, le nostre sventuratissime nonne dovevano sopportare Dio sa quali terribili angherie e maltrattamenti dai loro insensibili e tirannici mariti, e trascorrere una intera vita nell’umiliazione, nella sofferenza e nell’amarezza. Noi, per la verità, non abbiamo alcun ricordo di tale martirio familiare a spese della donna, e siamo certi che ben pochi di quelli della nostra età, frugando nei loro ricordi e interrogando i loro genitori, ne avranno cognizione. Senza con ciò voler escludere che dei casi di maltrattamenti ci siano stati (e non sempre a spese della donna, comunque; anche se in forme diverse, il malcapitato poteva anche essere l’uomo), quella dell’inferno familiare e del carcere a vita per la moglie è una leggenda creata dalle signore femministe negli anni ’60 e ’70 del Novecento, allo scopo di predisporre il terreno per il raggiungimento del loro agognato obiettivo, la legalizzazione del divorzio e poi, naturalmente, dell’aborto, caposaldo ancor più necessario sul percorso della "liberazione" femminile.
Ma se allora ci fosse stato il divorzio, dicono le signore femministe, credete forse che le nostre nonne avrebbero sopportato quella vita grama? Che avrebbero continuato a sacrificarsi fra le mura di casa, a consumarsi per amore dei figli o dei nipoti? La domanda, in effetti, è mal posta, perché capovolge le cause e gli effetti. È un errore pensare che la legge sul divorzio – come quella sull’aborto, del resto — sia stata varata per venire incontro a una impellente, inderogabile esigenza della società; tanto più che, quando si usa la parola "esigenza" è segno che si sta barando al gioco. Al mondo non esistono le "esigenze", ma i bisogni e i capricci: i bisogni sono qualcosa di necessario, i capricci evidentemente no. Le esigenze sono capricci che si tenta di far passare per necessità. La questione, dicevamo, è mal posta, perché quando la società, modernizzandosi e americanizzandosi, ha introiettato una sufficiente quantità di elementi egoistici, edonistici e distruttivi, ha cominciato a pretendere il divorzio (e l’aborto), perché il vincolo coniugale definitivo e irrevocabile si era tinto di colori minacciosi, era diventato uno spauracchio. I radicali, è ovvio, come del resto hanno sempre fatto in tutte le loro esiziali "battaglie", hanno presentato il divorzio come il male minore, cioè come uno strumento col quale la parte debole poteva difendersi dalla parte forte e prepotente: perché una povera donna doveva lasciarsi martirizzare da un marito alcolista, infedele, violento (e dalli con la moda femminista di presentare sempre il maschio come il cattivo, e la donna come il candido giglio che subisce terribili oltraggi). E perché i bambini, povere creature, devono essere esposti essi stessi alle violenze del padre manesco, senza contare i traumi psicologici derivanti dal dover assistere ai continui litigi dei genitori? Oh, quanta delicatezza d’animo, quanta premura, quanta sollecitudine verso le donne indifese e i bambini innocenti! Ci sarebbe quasi da commuoversi, se la banda di Pannella & Bonino non avesse avuto i suoi fini ben precisi da realizzare, sfruttando la minchioneria dell’italiano medio di buon cuore: la distruzione silenziosa, graduale e sistematica, della famiglia naturale, formata da un uomo e una donna, per sostituirla con le oscene famiglie "arcobaleno". E infatti: ci sono volute un paio di generazioni, ma ci stiamo arrivando: nello spazio di soli cinquant’anni, la società italiana è stata cucinata a fuoco lento e ora è pronta per compiere il salto definitivo: legittimare le unioni sodomitiche e lesbiche come altrettanto naturali di quelle fra l’uomo e la donna, e l’acquisizione della prole come un fatto da riservare alla diabolica tecnologia della fecondazione eterologa o al portafogli ben fornito per rendere possibile l’acquisto di un bimbo con la pratica infame dell’utero in affitto. Il bello, anzi, il tragico, è che anche una parte dei cattolici e dello stesso clero ci è cascata in pieno, quanto in buona fede non sapremmo dire: valga per tutti il già ricordato padre Turoldo, il quale sia in occasione della "battaglia" radicale a favore del divorzio, sia in quella, di poco successiva, per la legalizzazione dell’aborto di massa, ebbe a dire — ineffabile gesuitismo, anche se lui personalmente non era un gesuita, ma un servita: veniva però, teologicamente, dalla scuola della "svolta antropologica" e quindi dalla teologia capovolta del gesuita Karl Rahner — che erano entrambi dei mali, ma dei mali ancor maggiori erano, rispettivamente, il matrimonio ridotto a una gabbia e la procreazione subita come uno stupro, ragion per cui concludeva brillantemente che non poteva esimersi dallo stare dalla parte del più "debole". Guarda caso, il più debole, per lui, non era il nascituro, e neppure il bambino sballottato fra gli avvocati dei genitori in fase di separazione e di divorzio: no, per lui il più debole era sempre la donna, la quale, poverina, non doveva subire né il giogo di un marito oppressivo, né quello di una gravidanza non voluta. Quale impressionante somiglianza con i gesuiti e con i neopreti e i neocattolici odierni, per i quali la parte debole è sempre e comunque "il povero", cioè, secondo loro, l’immigrato: e non la pensionata costretta a vivere con quattrocento euro di pensione, e costretta a chiedere l’elemosina o a rubare il formaggio nei supermercati, ed esposta, per soprammercato, agli scippi, ai furti e alle rapine dei "poveri" immigrati, i quali, per arrotondare gli introiti nel periodo dell’iter giudiziario che dovrà decidere se hanno diritto all’accoglienza, non trovano di meglio da fare che delinquere a man bassa, specialmente contro i soggetti per davvero più deboli davvero, come i vecchi o i ragazzini.
Quel che ci ha sempre colpito, nei racconti dei nonni e delle persone di una certa età (ipocritamente chiamate "anziani", come se "vecchi" fosse una parolaccia, da quelli stessi che non vedono l’ora di sbatterli in casa di riposo, non appena creano qualche problemino alla tranquillità dei figli e dei nipoti) sono i racconti relativi alla loro lunga vita in comune con il rispettivo coniuge. E non solo i racconti, ma anche i personali ricordi del loro affetto, della loro dedizione reciproca. Il nonno e la nonna hanno vissuto insieme una vita intera in perfetta armonia, rispetto e comprensione: questo è ciò che abbiamo visto, e questo è ciò che abbiamo sentito anche sui loro fratelli e sui loro stessi genitori, i bisnonni che non abbiamo conosciuto: checché ne dicano le favole della cultura femminista, secondo le quali il matrimonio, specialmente nella società patriarcale e pre-moderna, era più o meno l’anticamera dell’inferno, specialmente, si capisce, per la povera donna indifesa e sfruttata. Ricordiamo quei lunghi abbracci, sia fra marito e moglie, sia fra i nonni e i loro genitori, così come ci sono stati descritti dai nostri genitori: lunghi abbracci di persone che si volevano bene per davvero, e che non si sarebbero sognate di andare dall’avvocato, anche se le pratiche per il divorzio fossero state "normali" e a portata di mano. Il fatto è che il divorzio è stato introdotto al preciso scopo di distruggere la famiglia, di scardinarla dall’interno, facendo leva sulle passioni disordinate degli uomini e delle donne, suggestionati dai miti e dalle chimere della modernità, specialmente attraverso il cinema, la televisione, la pubblicità, la musica leggera, la letteratura. Quanto fango è stato gettato sulla famiglia e sul matrimonio, negli anni ’60 e ’70, al preciso scopo di creare il clima adatto affinché qualcuno ponesse sul tappeto la questione, improrogabile e indispensabile, del divorzio, come via di salvezza per tante creature innocenti e quotidianamente in pericolo! Ma la verità è che dopo l’introduzione del divorzio, le famiglie si sono enormemente indebolite; prima, erano nel complesso salde e resistenti. Quando le persone sanno che esiste la scorciatoia per sottrarsi alle difficoltà, sono tentate di approfittarne, anche se non si trovano davvero in situazioni estreme: e la legge sul divorzio, come quella sull’aborto, introdotta, fraudolentemente, per porre rimedio alle situazioni disperate, è divenuta uno strumento normale di ricomposizione delle famiglie e di pianificazione delle nascite. Questa è la verità: dovevano essere rimedi eccezionali e sono diventati la norma. E la psicologia degli uomini e delle donne è stata profondamente influenzata e modificata appunto dal sapere che tale scappatoia esiste, che c’è un modo, perfettamente legale, per rimangiarsi le promesse, per fuggire davanti ai sacrifici, per sottrarsi alle responsabilità. Il marito cade in depressione, diventa un peso, un fastidio? Nessun problema: si può divorziare. La moglie invecchia, le sue rughe disturbano il senso estetico, c’è una giovane amante pronta a sostituirla? Nessun problema: col divorzio si risolve tutto. E i bambini? Niente paura, nessun problema neppure per loro: ci sono fior di psicologi pronti a giurare e spergiurare che anche per i bambini è meglio così, è meglio una separazione "pulita" che una coabitazione forzata, e del resto i bambini dimenticano in fretta, si sa, quindi si adatteranno alla nuova situazione prima di quel che non si pensi. Bugie, naturalmente, e della peggiore specie, cioè bugie pronunciate in assoluta malafede; ma che importa? Ripetete, tutti insieme una bugia, dieci volte, cento volte, mille volte, e alla fine essa diverrà la più pura, la più cristallina, la più sacrosanta verità, e fior di galantuomini saranno pronti a giurare e spergiurare su di essa.
Il segreto della forza della società, dunque, risiede nella stabilità affettiva. C’è una bellissima opera pittorica che esprime questo concetto: l’affresco di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni a Padova, raffigurante L’incontro di Gioacchino e Anna presso la Porta Aurea di Gerusalemme. Vi è una intensità, nell’abbraccio fra quell’uomo e quella donna, e negli sguardi che si scambiano, e nelle labbra che si cercano (notevole audacia di un pittore medioevale che raffigura un soggetto sacro: sono i genitori della Vergine Maria), che s’imprimono nell’animo di chi guarda più a fondo, e con maggiore efficacia, di quanto potrebbero fare mille parole. In quel’abbraccio, in quegli occhi, in quei volti, vi sono una tale densità d’affetti, una tale promessa di amore indefettibile, tu sarai la mia donna e io sarò il tuo uomo, per sempre, finché la morte non ci separi, quali poche altre volte è dato di vedere. Il segreto è lì, in quella intensità, in quella profondità, in quella costanza, in quella serietà. Quell’uomo e quella donna provano sentimenti veri e profondi l’uno per l’altra, e il legame che hanno deciso di stringere è una cosa seria, che nessuna forza umana riuscirà mai a separare. Oggi, nell’era del divorzio facile, quando vi sono persone che si separano e si risposano tre, quattro, cinque volte; o quando, come oggi è ornai quasi la norma, le persone convivono senza sposarsi, né davanti agli uomini, né davanti a Dio, col sottinteso che non vogliono rinunciare alla loro libertà, e che sono pronte a riprendersela se qualcosa dovesse andare in maniera difforme dai loro desideri, facciamo fatica a capire quello sguardo, quel gesto. Ci sembrano favole, o, tutt’al più, cose di un passato lontanissimo. Noi viviamo in un mondo complesso, in una società fluida, così pensiamo; e con questo siamo pronti a scommettere che noi non potremmo sobbarcarci un impegno di quella intensità, di quella serietà, con un altro essere umano, perché non si può mai sapere cosa capiterà domani, e poi perché non è giusto rinunciare alla propria libertà per legarsi indissolubilmente a qualcuno che, un domani, potrebbe deluderci, o dal quale potremmo noi desiderare di separarci, per passare ad un altro legame. Questa instabilità affettiva, questo passare da un legame all’altro, e, diciamolo pure, da un letto all’altro, perché oggi le cose vanno in questo modo, e gli uomini e le donne si ritrovano a letto insieme prima ancora di essersi conosciuti, prima ancora di aver capito cosa realmente provano l’uno per l’altra, o anche solo per capriccio, per divertimento, per gioco, salvo poi fare le vittime e alzare altissimi lamenti, invocando l’intervento del giudice e della forza pubblica, se l’altro, che ha preso la cosa sul serio, non ne vuol sapere di farsi da parte, non vuol capire che il giuoco è terminato e che noi vogliamo riprenderci tutta la nostra libertà, tanto più che non avevamo promesso nulla: questa instabilità affettiva, dicevamo, per non dire questa promiscuità sessuale, sono all’origine della debolezza fondamentale della nostra società. (Inutile precisare che non vogliamo, con questo, giustificare i molestatori sessuali, ma soltanto cercar di capire il fenomeno). Perché il fatto di non essere fedeli, fa di noi delle persone poco affidabili; e le persone poco affidabili godono di poca stima presso gli altri, ma, nell’inconscio, finiscono per avere anche poca stima di se stesse. E questo è un ulteriore problema, perché, dietro le apparenze del narcisismo, l’individualismo moderno è venato di auto-disprezzo: molte persone non si vogliono realmente bene perché sentono di essere superficiali, leggere, inaffidabili ed egoiste; d’altra parte, non vogliono rinunciare a essere così, perché non sono disposte a rinunciare alla loro libertà. E non hanno capito, poverette, che la libertà, così intesa, cioè come rifiuto di assumersi qualunque impegno e qualunque responsabilità, non è uno strumento di emancipazione, ma di schiavitù, la peggiore di tutte: la schiavitù inflitta a se stessi. In fondo, il segreto della stabilità affettiva è tutto qui: nel capire che i sentimenti sono una cosa seria, e che l’affettività non va mai confusa con il principio del piacere…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels