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30 Agosto 2018Limitandoci alla sfera della vita pratica, sia individuale che collettiva, e prescindendo dalle cause finanziarie, economiche e politiche di ordine generale, due sono gli ambiti nei quali è maggiormente evidente il disordine che ci sta portando verso l’auto-distruzione e al quale dobbiamo reagire, ricostruendo un tessuto ordinato: quello dei comportamenti sessuali e quello della cosiddetta accoglienza dei cosiddetti migranti. Quando, poi, le due problematiche s’intrecciano, il disordine ormai strutturale della nostra società e la tendenza distruttiva dei nostri comportamenti si sommano e si potenziano a vicenda, generando situazioni esplosive. Il tutto sotto il segno di una falsa libertà, di una falsa auto-determinazione, di una falsa emancipazione e, naturalmente, di una falsa idea del principio umanitario di accoglienza. Il tragico fatto accaduto nelle carceri di Udine, in via Spalato, alla fine di agosto 2018, ne è una illustrazione quasi perfetta. Ci riferiamo al secondo suicidio avvenuto in quella struttura, non al primo, che ha avuto per protagonista un transessuale che si è tolto la vita (ma alcuni giornali hanno scritto: tolta; a proposito del disordine di cui stiamo ragionando). Il secondo suicidio ha avuto come protagonista un ragazzo pachistano di diciotto anni, giunto in Italia tre anni fa, quando ne aveva appena quindici. Richiedente asilo. Ospitato in una struttura di accoglienza, pare vi abbia tenuto un comportamento esemplare: mite, collaborativo, educato, non ha mai dato un problema. Poi, avendo imparato un mestiere, è stato aiutato ad inserirsi nel mondo del lavoro. Nel frattempo, l’iter della sua domanda di accoglienza definitiva in qualità di profugo si è concluso favorevolmente e quindi avrebbe potuto restare in Italia, lavorando e inviando a casa, alla sua famiglia, il denaro in vista del quale egli era partito.
Qui, veramente, non si può fare a meno di fermarsi e porre una domanda: per quale ragione gli è stato riconosciuto lo status di profugo? In Pakistan non ci risulta che sia in corso una guerra, né una speciale emergenza umanitaria. In Pakistan ci sono le condizioni normali di quasi tutti i Paesi che una volta si chiamavano del Terzo Mondo; senza tralasciare il fatto che il Pakistan è, da decenni, niente di meno che una potenza atomica. E non è proprio normalissimo che i cittadini di Paese povero, che però spende fior di quattrini per dotarsi di un arsenale atomico, facciano i viaggi della speranza e si presentino alle frontiere o sulle coste italiane, stremati e in condizioni di pericolo, per chiedere di essere "salvati": ma salvati da cosa? Se passa il principio, e di fatto è già passato, che chiunque si trovi in uno stato di seria necessità, o sia minacciato da qualcuno, o perseguitato, per le ragioni più varie, in quanto appartenente a una minoranza politica, religiosa, o etnica, abbia il diritto di essere accolto, non a titolo provvisorio, ma a titolo pressoché definitivo, in un qualsiasi Paese, allora dobbiamo veramente prepararci a essere sommersi. Decine, centinaia di migliaia, e alla fine milioni di persone, si muoveranno verso l’Europa, specialmente verso l’Italia. Proiezioni statistiche molto verosimili parlano di 3 miliardi di abitanti, forse 3 e mezzo, che l’Africa avrà entro il 2050. Vista l’instabilità politica e l’arretratezza economica di tutti i Paesi africani, sia a nord sia, soprattutto, a sud del Sahara, è realistico prevedere che decine di milioni di persone avranno titolo per essere considerate profughi e quindi venire in Europa con fondate speranze di una sistemazione definitiva. Non risulta che i poveri dell’Africa o dell’Asia si dirigano verso i Paesi ricchi non occidentali, ad esempio verso gli Emirati Arabi, o l’Arabia Saudita, o il Qatar, o il Kuwait, Paesi che navigano sopra il petrolio e, grazie ad esso, possiedono standard di vita altissimi. Oltretutto, sono Paesi rigidamente islamici; eppure i poveri dell’Africa islamica e degli altri Paesi islamici dell’Asia vogliono venire in Europa. Neppure la Turchia va bene, per loro è solo una via di transito, pur essendo un Paese asiatico relativamente benestante, e che gode di un notevole livello di stabilità politico-sociale. È curioso: le popolazioni povere odiano l’Occidente, disprezzano la sua cultura e soprattutto la sua religione, festeggiano con danze e canti di gioia ogni volta che giunge loro la notizia di un attentato terroristico che ha insanguinato qualche città occidentale, però vogliono venire ed essere accolte in Europa, negli Stati Uniti e nel Canada. È strano che i nostri politici non sentano puzza di bruciato. Una volta arrivati, per prima cosa si organizzano attorno a una moschea: logico, siamo nel continente che ha inventato diritti civili; se hanno il diritto di vivere qui, hanno anche diritto di costruire le moschee. Forse qualcuno dovrebbe spiegare ai nostri progressisti che un luogo consacrato all’islam appartiene all’islam per sempre; nella cultura islamica non esiste l’idea che un luogo sacro possa essere sconsacrato e ritornare in mano allo Stato, o ai privati, ed essere adibito ad altro uso. Di più: non esiste l’idea della laicità in generale. Ne consegue che dove si insedia una comunità islamica e dove sorge una moschea, magari mascherata da centro culturale, come avviene moltissime volte, l’Occidente rinuncia, in nome dei diritti civili, a un pezzetto della sua sovranità, e incomincia a sottomettersi all’islam, senza nemmeno saperlo. Il resto lo farà il tasso di natalità degli immigrati islamici e non ci vorranno chissà quante generazioni, ne basteranno meno di due. Fra meno di due generazioni, fra una quarantina d’anni, ad essere minoranza saranno gli europei non islamici, diciamo gli europei indigeni, se ci è lecita questa espressione; e fra un poco non sarà lecito, perché l’acquisizione della cittadinanza rende un nigeriano, un senegalese o un marocchino, degli italiani senza se e senza ma, e quindi potrebbero fioccare denunce per discriminazione se qualcuno li chiamasse diversamente da "italiani", per esempio un giornalista che debba riferire un fatto di cronaca nera. Del resto, lo abbiamo già notato tutti quanti, forse il potere ci crede addormentati, ma abbiamo visto benissimo come si regolano i giornali quando devono riferire che un marocchino o un nigeriano si sono resi protagonisti di una rapina, uno stupro o qualche altro crimine: non li definiscono in base alla nazionalità di origine, ma, a scanso di rischi, dicono: un ventiquattrenne residente a Padova; oppure: un trentacinquenne, domiciliato a Pistoia; e così via: come se l’età e la residenza potessero bastare a render conto di chi si stia parlando. L’etnia di appartenenza salta fuori solo alla fine dell’articolo o del servizio televisivo, oppure non salta fuori affatto, a meno che si tratti di un caso particolarmente rilevante, del quale i mezzi d’informazione sono costretti ad occuparsi a lungo. Ma lo fanno sempre in base a una stranissima proporzione fra italiani e stranieri. Se la lanciatrice del disco Daisy Osakue riceve un uovo sull’occhio, e non per motivi razziali, la stampa e le televisioni ne parlano come di un gravissimo episodio di razzismo, e il direttore de L’Avvenir,e Marco Tarquinio, non si lascia scappar l’occasione per gridare a tutti gli italiani: Vergogniamoci; però dei settecento reati quotidiani commessi dagli stranieri in Italia, alcuni anche estremamente gravi, stupri, rapine violente, omicidi, si parla solo nelle cronache locali, e cercando di omettere la nazionalità del delinquente, per sfuggire all’eventuale accusa di razzismo. ma non si pensa che, in tal modo, attua una forma di razzismo all’incontrario. Ebbene, dicevamo: possibile che i nostri politici, i nostri politologi, i nostri intellettuali, non sentano puzza di bruciato? Gli sbarchi di clandestini sono stati un fenomeno quotidiano negli ultimi due decenni; e sempre, fin dall’inizio, quei signori ci hanno detto che si tratta di un fenomeno planetario, inarrestabile, e perciò da accettare; non solo, che è un bene, anzi, bisognerebbe intensificarlo, perché — parola di Tito Boeri, che da presidente dell’Inps si è improvvisato consigliere del ministero degli Esteri, solo facendo arrivare sempre più stranieri, lo Stato riuscirà a pagare la pensione ai suoi cittadini.
Tanto andava detto circa il fatto che quel giovane pachistano, forse, non doveva essere in Italia. Forse non era giusto che fosse nel nostro Paese, anche per rispetto verso i veri profughi; mentre lui era, secondo ogni evidenza, un migrante economico, anche se aveva ottenuto lo status di rifugiato. Ma un rifugiato dovrebbe essere ospitato provvisoriamente: cessate le circostanze eccezionali che lo hanno indotto a fuggire, dovrebbe tornare a casa sua. Se fosse un vero profugo. Se invece desidera solo rimanere, e teme come un incubo l’eventualità di essere rimandato indietro, allora vuol dire che il pericolo da cui fugge era un mero presto, per occultare il suo vero scopo: emigrare in Europa per ragioni di tipo economico, e rimanerci per sempre, magari facendosi raggiungere dai suoi parenti, o sposandosi e facendo dei figli (magari parenti malati e bisognosi di cure, che verranno erogate dalla sanità pubblica italiana: capito, signor Boeri?; il suo ragionamento non sta in piedi). In quel caso, nulla e nessuno lo potranno più espellere: lo dimostra la vicenda dell’africano che ha violentato una ragazzina quindicenne sulla spiaggia di Jesolo, ma benché clandestino e già condannato a essere espulso in quanto autore di svariati reati, ora ha il pieno diritto di restare in Italia, anche dopo quello che ha fatto, perché nel frattempo è divenuto padre di un bambino avuto da una donna italiana. Incredibile ma vero: tali sono le nostre leggi e tali i nostri magistrati, i quali, nove volte su dieci, quando una interpretazione è dubbia, scelgono quella più favorevole allo straniero, e, se si tratta di una vicenda che vede come vittime dei cittadini italiani, quella meno favorevole ad essi.
Tanto andava detto per puntualizzare il fatto che il ragazzo che si è tolto la vita nelle carceri di Udine forse si trovava nel posto sbagliato e per le ragioni sbagliate. Resta da dire qualcosa dell’altro aspetto, quello sessuale. Nella struttura di accoglienza, aveva conosciuto una donna, più grande di una decina d’anni, con la quale aveva intrecciato una breve ma intensa relazione sessuale. Quando costei, che aveva già un compagno (e, se abbiamo capito bene, un figlio) si è resa conto della gravità di quel che aveva fatto, violando il codice deontologico del personale dei centri di accoglienza, si è pentita e ha deciso d’interrompere la storia. Decisione che non era stata accettata dal ragazzo, il quale era diventato ossessionante. La riempiva di telefonate, cercava di vederla; finché, un giorno, l’ha raggiunta sul luogo di lavoro, l’ha minacciata con un coltello alla gola, l’ha insultata e picchiata, procurandole lesioni da pronto soccorso, anche se non gravi. A quel punto era stato denunciato e arrestato; e in carcere, qualche giorno dopo, si è tolto la vita. Questa, la storia. È una storia brutta (non giudichiamo le persone, ma i fatti) e per varie ragioni. Otre alla violazione del codice deontologico, quella signora ha violato anche un altro codice, peraltro non più di quanto facciano ormai con disinvoltura milioni di persone, specialmente donne: quello etico. Non si coinvolge in una relazione intima un altro essere umano, specialmente se giovanissimo e inesperto, per poi scaricarlo quando si cambia idea. Ciò nasce da una grande confusione nel sistema di valori, da una diffusa tendenza ad agire in maniera irresponsabile, cogliendo le opportunità di piacere quando si presentano, senza valutare le conseguenze e senza pensare alla sofferenza che si provocherà agli altri (un questo casi, anche al proprio compagno e, se ci sono, ai propri figli). Ripetiamo, sono comportamenti ormai estremamente diffusi, ma ciò non li rende accettabili: sono comunque indice di un bassissimo livello di maturità, di responsabilità e di rispetto per il prossimo. Le donne spiccano sugli uomini nella disinvoltura con cui si concedono e poi si ritraggono. Ma il richiamo sessuale, specie se accompagnato a un forte coinvolgimento affettivo è una forza podente, suscettibile di degenerare e diventare pericolosa. A nessuno piace essere illuso e poi piantato in asso; aggiungiamoci pure, in questo caso, la differenza culturale: la società europea pretende che l’uomo, se accettato e poi rifiutato, si rassegni e si ritiri in buon ordine; ma nelle cultura islamiche, fortemente maschiliste, le cose non stanno così (qualcuno lo spieghi alla signora Boldrini, per favore; sarà per questo, del resto, che le femministe di casa nostra hanno parlato così poco degli stupri di Capodanno a Colonia?). In quelle culture, dove peraltro non è la donna ad avere il diritto di prendere l’iniziativa, ella non può comportarsi in tal modo: non può concedersi e poi negarsi, rifiutando l’uomo con il quale è andata a letto. È un’offesa gravissima, da lavare a suon di botte se non addirittura nel sangue. Tutte le testimonianze dicono che quel diciottenne era un ragazzo quieto e dolcissimo; eppure, ecco che l’amore e il successivo rifiuto della donna lo hanno trasformato in un violento, incapace di controllare i propri impulsi. Alla fine, rinchiuso in prigione, e con l’ombra del disonore sulla sua stessa famiglia, ha rivolto la violenza contro se stesso. Senza voler infierire, crediamo che qualcuno ne porti una parte di responsabilità. È un luogo comune che al cuore non si comanda; non si può prevedere che certe situazioni sfuggano di mano; e ciascuno è libero di tornare sui suoi passi, se si rende conto di aver fatto un errore. Il problema è che gli esseri umani non sono macchine, non accettano un capovolgimento nelle relazioni affettive come si trattasse di cambiarsi d’abito. Le dinamiche del sesso e dell’affettività sono talmente potenti da trasformare le persone da così a così: bisogna saperlo, bisogna pensarci prima. E poi, è proprio vero che al cuore non si comanda? Noi lo neghiamo. Noi diciamo che, se si possiede un codice etico, si sa quel che si può fare e quel che non si può: bisogna imparare a esercitare il dominio sugli impulsi. Ma tutta la cultura moderna va nella direzione opposta: ci incita in ogni modo ad assecondare gli impulsi, anche quelli proibiti. Ha anche razionalizzato questo egoismo scatenato, chiamandolo diritto alla propria libertà. Ed ecco dove si va a finire, quando s’imbocca tale strada. È sgradevole, dirlo? No: è sbagliato farlo. Bisogna tornare a parlare di responsabilità. E ricostruire un sistema etico ordinato…
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