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28 Agosto 2018La chiesa delle Beata Maria Vergine del Rosario, a Laipacco, è una chiesa relativamente nuova: venne costruita infatti nel 1929, il che vuol dire che non ha neanche novant’anni di vita, ed è l’unica chiesa parrocchiale di tutta la fascia a est della città, salvo quella di San Gottardo, che però, trovandosi sulla via che porta a Cividale, è situata decisamente più a Nord. Questa è una zona che è sempre stata poco popolata, vi erano boschi fino a tempi abbastanza recenti, e in pratica nessun paese. Nel Medioevo, questi boschi, che erano assai vicini alle mura, offrivano riparo a un certo numero di malviventi, per cui non era prudente attardarsi nella zona dopo che le porte cittadine — porta Cividale, porta del Bon, porta Ronchi — erano state chiuse, al calar del sole; chi restava fuori, ci restava a proprio rischio e pericolo. Anche i turchi, nel corso delle loro scorrerie durante tutto il XVI secolo — secolo dell’umanesimo nel resto d’Italia, ma qui, terra di frontiera, secoli di terrore, devastazioni, massacri e rapimenti di massa, specialmente donne destinate agli harem islamici — hanno corso questi luoghi, saccheggiato le borgate esterne, cacciato in fuga avanti a sé le sventurate popolazioni.
Cominciamo innanzitutto col distinguere di quale Laipacco stiamo parlando; perché anche nel comune di Tricesimo c’è una frazione che si chiama Laipacco, lungo la statale che va a Tarvisio, poco oltre i Condomini Morena. Noi stiamo parlando invece del quartiere udinese di Laipacco; chiamiamolo così, perché tale è il linguaggio degli amministratori comunali, ma la verità è che si tratta di un villaggio a sé stante, che è sempre stato tale: così lo ricordiamo quand’eravamo bambini, e così è rimasto ancora oggi, a cinquant’anni di distanza. Ricordiamo una lunga camminata, dal centro cittadino, armati di una minuscola gabbietta, per catturare dei grilli, poiché qualcuno ci aveva detto che nei prati di Laipacco c’erano grilli in abbondanza, che si lasciavano prendere con relativa facilità. Ricordiamo la strada che facemmo quella volta, da sotto il colle del castello, il Giardino Grande, poi la via san’Agostino, e avanti, avanti, per la via Pracchiuso: evidentemente non conoscevamo bene la strada, perché non c’era bisogno di allungarla così tanto: bastava prendere via Treppo e poi traversare viale Triste, e imboccarla via Buttrio: dopo si tratta di andare sempre dritti, fino alla congiunzione con la strada di Laipacco. Ma il bello dell’infanzia è proprio questo: che in essa la linea più breve fra due punti non è una retta; perché il bambino sa poco o nulla di rappresentazione del territorio, di distanze da percorrere, di orari da rispettare, di previsioni razionali; lui va per intuizioni e per emozioni, si muove in un mondo favoloso, dove si va a caccia di grilli come si potrebbe andare a caccia di leoni, o quasi. E pazienza se poi si torna a casa senza grilli e con la gabbietta vuota, dopo vani appositamente in mezzo all’erba e dopo vani tentativi di cattura: voleva dire che non era destino, che non era la giornata giusta. Il bambino sano non fa una malattia di ogni più piccolo insuccesso, come tende a fare l’adulto; soprattutto non se ne sente sminuito, non ne subisce una crisi della fiducia in se stesso. Semplicemente, la sua attenzione è rivolta ad altre cose: per esempio, il piacere di un pomeriggio d’estate passato in maniera diversa, e un pochino avventurosa, rispetto al solito, specie se si tratta di un bambino di città. E non importa se non è una grande città; una città è sempre una città, e la natura, per un bambino che vi è nato e vissuto, si limita agli alberi dei giardini pubblici, al cinguettio dei passeri sul tetto della casa, e al muoversi dell’edera carezzata dal vento lungo i muri esterni. La meta, poi, Laipacco, non era neanche un vero paese, ma solo un gruppo di case, e soprattutto una chiesa: la chiesa di cui ora vogliamo parlare, quella della Beata Vergine Maria del Rosario. Ma che importa se la strada era più lunga, se non si arrivava mai? Tutto aveva un sapore nuovo e diverso, quel giorno; si andava all’avventura, e quindi anche le vie già note assumevano una dimensione nuova, sconosciuta: era come andare alla scoperta di un mondo incognito, mai visto prima. Tutto era stupore e meraviglia; le case, parevano quelle di un altro luogo; figuriamoci quando arrivammo fuori città, fra i campi, dove non eravamo mai stati per davvero. E la stessa mancanza di approccio razionale vale per i fenomeni che accadono nel tempo, oltre che nello spazi geografico: i turchi nel Friuli, per esempio. Quanto tempo fa le loro orde selvagge si riversavano dalle Alpi e tracciavano una scia di morte e distruzione lungo tutta la pianura, fino al Tagliamento, fino al Livenza, talvolta fino al Piave? Perché il bambino non si chiede quando è accaduta una cosa passata, ma quanto tempo fa. Il quando è un concetto astratto, che lui ancora non possiede, il quanto tempo fa è un qualcosa di concreto, che si può misurare sul metro della propria esperienza. Dieci anni, venti anni fa? E già questo pensiero risulta difficile: venti anni fa, quel bambino non era ancora nato; e dunque, come immaginare che cosa c’era prima di un tempo tanto antico, come quello anteriore alla propria nascita? Anche questo è un elemento che rende favoloso il mondo del bambino: favoloso, nel senso letterale del termine: simile a una favola. Perché nelle favole le cose accadono in illo tempore, non si sa bene quando: forse, come dice Guido Gozzano, nel bellissimo libro La fiaccola dei desideri, quando i polli ebbero i denti, e la neve cadde nera…
Più tardi, quando scoprimmo la bicicletta, e il nostro orizzonte si allargò di molto, Laipacco divenne una meta più frequente, anche se aveva perso quell’alone mitico della battuta di caccia ai grilli. Il gruppo di teatro messo su da nostro fratello si riuniva, per le prove, proprio nell’oratorio della chiesa del Rosario, ed era un piacere percorrere la lunga via Buttrio e la strada di Laipacco nei bei pomeriggi estivi, con la campagna tutta verde e il granoturco bello alto, sotto il cielo azzurro. La via Buttrio, in apparenza, è una delle tante laterali di viale Trieste, precisamente quella che segna la fine di viale XXIII marzo 1848 e l’inizio di viale Trieste. E, a proposito: quanti udinesi, specie fra i giovani, sanno cosa accadde il 23 marzo 1848? I più dotti risponderanno: la dichiarazione di guerra di Carlo Alberto all’Austria; sì: ma, per la nostra città, segna la partenza, quieta e senza spargimento di sangue, degli austriaci del generale Nugent, che però sarebbero rientrati qualche settimana dopo E vista la troppo breve difesa dell’indipendenza cittadina, che già all’epoca suscitò roventi polemiche, è inevitabile domandarsi se sia stato opportuno dedicare un viale alla partenza del "nemico", che sarebbe rientrato appena un mese dopo, peraltro senza infierire (si veda il libro di Gino di Caporiacco, Udine. Appunti per la storia, Udine, Arti grafiche Friulane, 1972, 1976, pp. 128-129). Un turista austriaco che capiti in città e si chieda cosa sia questo famoso 23 marzo, probabilmente stenterà a credere che ricordi la partenza dei soldati asburgici nel 1848, partenza che non avvenne in seguito a qualche glorioso fatto d’armi e che segnò una effimera libertà di appena un mese, conclusa da un rientro che non ebbe, neanche quello, carattere guerresco. Ma questa è solo una delle tante esagerazioni della nostra mitologia patriottica, perlomeno più contenuta di altre, e specialmente di quelle legata alla cosiddetta resistenza, la quale si è inventata addirittura fatti d’arme mai avvenuti, come le fantomatiche quattro giornate di Napoli (che di certo suscitano incredulità e stupore nel turista tedesco che conosca un poco i fatti del settembre 1944, magari perché suo padre, militare nella Wehrmacht e impegnato su quel fronte, glieli ha raccontati in prima persona), ma che, in compenso, ha rimosso fatti reali ed estremamente drammatici. Perché neanche una strada ricorda le foibe, ad esempio, o i fatti di Porzus, o i micidiali bombardamenti aerei dei sedicenti liberatori? Ma tant’è: ci sarebbe da scrivere un libro, anzi una intera enciclopedia, sulle sbavature ideologiche della toponomastica urbana, ovviamente non solo di questa città, anzi di questa meno che di altre; così come sulla censura da essa imposta su pagine e capitoli essenziali della nostra storia e della nostra tradizione… perciò lasciamo perdere, il discorso sarebbe troppo lungo e ci porterebbe troppo lontano.
Via Buttrio è una tipica strada di periferia, con le case che diradano rapidamente, specie dopo aver oltrepassato la ferrovia, una caserma, le casette col loro bravo giardino; la strada di Laipacco, invece, è già una tipica strada di campagna e, a partire da un punto ben preciso, è come se tagliasse i ponti con la città e proseguisse in mezzo ai campi di grano come una qualunque strada rurale, tale e quale era mezzo secolo fa. In effetti fa una certa impressione vedere, oggi, quanto è rimasta simile ad allora: non hanno costruito quasi nessun nuovo edificio; è una strada secondaria, senza capannoni industriali, con pochissimo traffico, che non conduce in alcun grosso centro, ma pare voglia perdersi, svagata, in mezzo alla campagna, come se il tempo si fosse fermato. Un po’ di tristezza l’abbiano provata scoprendo che il negozio di alimentari sull’angolo di via Buttrio con viale 23 marzo, che conoscevamo bene, non c’è più, e al suo posto vi è adesso un ristorante cinese. Ma anche questo è un tratto tipico della trasformazione urbana, economica e sociale che ha caratterizzato specialmente le città dell’Italia settentrionale nel corso degli ultimi tre, quattro decenni. A parte questo, ogni cosa si direbbe sia rimasta uguale, come per un incantesimo; i dati statistici lo confermano gli abitanti di Udine erano sui 100.000 nel 1971, e tanti sono rimasti; e la circoscrizione orientale, quella di Laipacco-San Gottardo, è, probabilmente, la più quieta e la meno dinamica di tutte. Se qualcuno vuol godere un po’ di pace, diciamo pure un po’ di isolamento dalla città, pur senza allontanarsene che di pochissimi chilometri (quattro, per l’esattezza) venga qui e prenda in affitto una delle casette che fiancheggiano la via Laipacco; se, in vece, ama il movimento e la modernità, se ne stia alla larga. Per amare questi luoghi, bisogna avere un animo non troppo incline alle cose moderne. Conservatore? Forse. Ma non si dovrebbe aver fretta di istituire un immediato parallelo fra conservatorismo politico e amore del passato: le due cose vanno insieme, di solito, questo è vero, tuttavia scaturiscono da fonti distinte. A meno di arruolarsi nella discutibile e sgradevole congrega degli psicanalisti, specie freudiani: e voler spiegare ogni cosa, compresi gli orientamenti politici, con le esperienze della prima infanzia, ma soprattutto, chissà perché, con dei supposti traumi di natura sessuale.
Come abbiamo detto, la chiesa di Laipacco, in via Monzambano, una laterale di via Laipacco (per essere precisi: dopo il tratto iniziale, si chiama Strada comunale dei Casali di Laipiacco) è stata costruita alla fine degli anni ’20 del Novecento, a tre navate, con una semplice facciata a capanna, due pinnacoli sul tetto e croce centrale, soffitto a cassettoni e abside semicircolare interamente decorato con dipinti; la torre campanaria inclusa nel corpo dell’edificio, alla congiunzione fra il presbiterio e l’abside. Se la facciata è graziosa, non lo sono le pareti laterali, specie quella sul lato destro, imbruttita oltre ogni dire da alcuni edifici malamente addossati. L’interno, scandito dalla fuga dei tre robusti pilastri con arcate a tutto sesto, e la navata centrale assai più alta di quelle laterali, è proporzionato, luminoso, sereno; il presbiterio rialzato e l’abside coloratissimo guidano l’occhio verso la zona più importante della chiesa, che riceve la luce da due bifore contrapposte. Le pitture sulla parete e sul catino dell’abside non saranno dei capolavori, però si lasciano guardare: raffigurano la Madonna del Rosario, col Bambino in braccio, che stende misericordiosa il suo mantello, sostenuto da due Angeli, come ad offrire riparo a tutta l’umanità sofferente; al di sopra, la mistica mandorla con il Padre celeste, che tiene una mano sul mondo, e lo Spirito Santo, che scende in forma di colomba; ai lati, due Santi adoranti, in ginocchio; al di sotto, i bianchi agnelli del gregge di Cristo, che si fanno avanti in cerca di pascoli erbosi e dell’acqua di vita eterna, e al centro, sotto i piedi di Maria Vergine, una fitta cascata di fiori bellissimi. L’iconografia e lo stile compositivo sono tradizionali; i colori sono smaglianti, un po’ metallici, con prevalenza dell’azzurro, il che crea un piacevole contrasto con la stoffa rossa di cui sono listate le lesene dei due pilastri che sostengono l’arco trionfale.
Questa chiesa fu edificata per offrire una nuova parrocchia agli abitanti della città in espansione sul lato orientale, in un zona ancora a forte vocazione rurale, così come, negli stessi anni, sorgevano le parrocchie del Cristo, in via Marsala, o del sacro Cuore di Gesù, in via Cividale. In effetti, gli anni ’20 e ’30 sono stati un periodo di fervore edilizio: si trattava di ricostruire gli edifici danneggiati o distrutti dalla prima guerra mondiale e venire incontro alle nuove necessità di una popolazione in forte crescita demografica. Tutto il contrario di oggi; senza contare le nuove, favorevoli prospettive che i Patti Lateranensi dischiudevano, anche a livello associazionistico, oltre che pastorale, dopo settanta anni di chiusura e di confronto a muso duro fra Chiesa e Stato. Sta di fatto che lo sviluppo, almeno su questo versante della città, poi non c’è stato: i confini del centro urbano praticamente non sono avanzati d’un metro nell’arco di quasi un secolo. E questa, dal nostro punto di vista, è stata la fortuna di questi luoghi. Qui si può ancora sentire, al levar del sole, il canto del gallo; lo squillo delle campane sui campi, che chiamano alla santa Messa; e si può respirare il profumo di terra bagnata, dopo la pioggia, portato dal vento di primavera, che scende dai monti vicini. Tanto vicini che par di toccarli: belli, bianchi di neve, circonfusi di luce: il Matajur, il Canin… ah, che meraviglia.